Quattro libri da non leggere sul corpo, uno (quasi) da leggere

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IL CORPO - II, 4/5, dicembre 1995

Quattro libri da non leggere sul corpo,
       uno (quasi) da leggere
JEAN-LUC NANCY, Corpus, Cronopio, Napoli, 1995, con una Postfazione di
Antonella Moscati

          Il mal franzese è una perversione dello spirito e dell’intelletto particolar-
mente attiva tra gli intellettuali francesi degli ultimi trentanni. I suoi sintomi sono
a) la riduzione della realtà ad un sistema di segni, con preferenza per il segno ver-
bale, b) la convinzione che manipolando il linguaggio si stia agendo sulla realtà, c)
la convizione secondaria che l’azione sulla realtà è più efficace se il proprio discor-
so è carino. Nel migliore dei casi, questo male porta a studiare ossessivamente il lin-
guaggio e il discorso. Nel peggiore, porta a leggersi a voce alta per masturbarsi al
suono delle proprie parole. Nancy, di cui per fortuna non sappiamo nulla, è un caso
grave di mal franzese. Per motivi misteriosi per il lettore, qualcuno ha deciso di affa-
ticarsi a tradurre un suo inutile libretto sul corpo. Ma già il nostro gongorista-filo-
sofo si ribella: questo non è un libro sul corpo, ma il corpo stesso sotto forma scrit-
ta: « scrivere non del corpo, ma il corpo stesso. Non la corporeità, ma il corpo. Non
i segni, le immagini, le cifre del corpo, ma ancora il corpo. Questo è stato, e proba-
bilmente già non è più, il programma della modernità », programma che ovviamen-
te Nancy ha intuito e contemporaneamente superato appunto in quanto e per come
sta scrivendo. Il resto è sulla falsariga di questa prosopopea, sotto il segno dell’ar-
roganza intellettuale e del calembour, in un gioco continuo di colte citazioni e
rimandi nascosti ma non troppo, tanto per far sentire al lettore che fa parte del
club. Ci si perde nella ricchezza concettuale dei neologismi, come ad es. « expeau-
sition » e « escritto », o nella densità della pesée/pensée. Si vive con intenso mate-
ma il quasi-chiasmo « segno di sé e esser-sé del segno » e il successivo illuminante
commento: « questa è la duplice formula del corpo in tutti gli stati e in tutte le pos-
sibilità che gli riconosciamo » (p. 61). Si rimane « stupefatti e attoniti » (vedi il libro
successivo) di fronte a « forse corpo è la parola che per definizione non ha uso. La
parola di troppo in ogni linguaggio » (p. 20). Si medita a lungo sulla rilettura rinno-
vatrice di Freud che suggerisce l’osservazione seguente: « l’espressione più afffasci-
nante e forse (lo dico senza esagerare) più importante di Freud è in questa nota
postuma: “Psyche ist ausgedehnt, weiss nichts davon”. “La psiche è estesa, non ne sa
niente” » (p. 21). Ci si commuove per la dolente eleganza di frasi come « Dalla
piaga il senso scorre goccia a goccia, orribilmente, ma anche in maniera insignifi-
cante, - e perché non serenamente, se non addirittura con gioia? Questa è la
domanda posta dall’alba esangue che si leva sul mondo dei corpi » (p. 67). Si è col-
piti dalla tranquilla sicurezza dei giudizi letterari, come ad es. « Detesto il racconto
di Kafka Nella colonia penale, finto, facile e magniloquente dall’inizio alla fine » (p
13). Finto, facile e magniloquente dall’inizio alla fine... Incapaci di elaborare tanta
densità di stimoli, ci troviamo ad avere nostalgia di Merleau Ponty e dei suoi sva-
rioni di psicologia sperimentale, di Sartre, e magari pure di Dagognet. Da buttare.

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Quattro libri da non leggere sul corpo...

GIORGIO AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino,
1995.

         Anche Agamben soffre abbondantemente di mal franzese - se non è già
amico di Nancy, che cita, merita di esserlo. Ma è più dandy, perciò al mal franzese
aggiunge il male greco, ovvero una strana forma di nativismo filosofico caratteriz-
zata da a) il culto misterico dell’Inizio: per cui l’origine del pensiero occidentale
contiene in nuce l’intuizione primigenia, dunque pura, dell’Essere dell’Occidente e
delle sue categorie costitutive; b) l’uso talmudico dei Testi dell’Inizio; e c) lo stile
oracolare basato sui tropi misterici, l’ossimoro e il chiasmo in particolare.
         Appena aperto il libro, viene voglia di chiuderlo. Già a p. 7 (?) Agamben ci
comunica di aver scoperto finalmente « l’evento decisivo della modernità » che «
segna una trasformazione radicale delle categorie politico-filosofiche del pensiero
classico ». A scanso di dubbi, si ripete qualche riga dopo: si, è proprio vero, ha
identificato, sempre che il lettore abbia la pazienza di andare avanti, « l’evento fon-
dativo della modernità » col quale la politica ha « omesso di misurarsi », il che spie-
ga « la [della politica ] durevole eclisse » « che sembra oggi attraversare ».
         Ormai di eventi decisivi o fondativi e di trasformazioni radicali si legge tre
volte alla settimana su Repubblica, e almeno 40 o 50 volte l’anno nei volumi di filo-
sofia tabloid. Ma di solito l’autore se lo scrive in modo anonimo (un po’ si vergo-
gna... ) nella manchette che poi attribuisce all’editore. Qui l’autore ha il coraggio
della sfacciataggine. E poi, diciamocelo, da anni si discute della molteplicità di fat-
tori che intervengono nella crisi odierna della politica in alcuni gruppi sociali di
alcune società industriali avanzate ( sospettiamo che questo sia per Agamben il
mondo intero, o forse l’Essere ). E’ riposante l’idea che dietro tante analisi compli-
cate stia in realtà un unico «evento», naturalmente fondativo. La riduzione della
complessità è molto meglio di un orgasmo, stupido chi se la lascia sfuggire, e così
si va avanti (nel libro).
         Questa volta l’origine è Aristotele - e noi che speravamo nel consueto fram-
mento oscuro di un presocratico ai più colti ignoto... Per nostra fortuna, Agamben
il misterico non si lascia bloccare da questo ostacolo. Prende una frase di Aristotele,
la decontestualizza, la trasforma in frammento, e dalla inesauribile profondità del
frammento estrae il nucleo del già citato « evento decisivo dela modernità ». Nel
caso specifico, si tratta della distinzione tra zoé e bios, cioè tra una presunta « nuda
vita » e, forse, la « vita politica ». Ora « l’ingresso della zoé nella sfera della polis
costituisce l’evento decisivo » ecc ecc. Basta una frase per liberarsi (male) dell’im-
barazzante politikon zoon, ed ecco Foucault e poi Benjamin. A questo punto
Agamben scopre le carte: vuole indagare « il nascosto punto d’incrocio tra il model-
lo giuridico istituzionale e il modello biopolitico del potere ». Generosamente ci
vengono anticipate le conclusioni: « l’implicazione della nuda vita nella sfera poli-
tica costituisce il nucleo originario - anche se occulto - [figuriamoci se ad Agamben
sfugge l’originario, che è ovviamente occulto] del potere sovrano ». Ci risiamo: ecco
un altro a cui è venuta la fissa di individuare l’essenza del potere, la tipica malattia
infantile della filosofia politica e della filosofia in genere. Tant’è. « Si può dire, anzi,
che la produzione di un corpo biopolitico sia la prestazione originale del potere sovra-
no [corsivo n.t.] ». Quando lo Stato moderno, vedi Foucault, mette « la vita biolo-
gica al centro dei suoi calcoli, [...] non fa che riportare alla luce il vincolo segreto

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che unisce il potere alla nuda vita, riannodando così (secondo una tenace corri-
spondenza fra moderno e arcaico che è dato riscontrare negli ambiti più diversi) col
più immemoriale degli arcana imperii » (p. 9).
          Tralasciamo il linguaggio (il « vincolo segreto » che va riportato alla luce,
gli arcana imperii che sono ovviamente « immemoriali »). Tralasciamo anche le
misteriche « corrispondenze » (oh Baudelaire oh oh Benjamin) « tra moderno e
arcaico », variante sacer/sacher[tarte] del bottegaio « plus ça change plus c’est la
même chose, chère Madame ». Rimane qualcosa che possiamo provare a prendere
sul serio: a) è stata scoperta l’essenza del potere e dello Stato, b) questa essenza ha
a che fare con il corpo, e in particolare con la « nuda vita ».
          Che sarà mai, questa « nuda vita ». La solita storia di natura/cultura? Il
luogo asintotico del corpo prima di ogni socialità? Un costrutto-limite? Una confi-
gurazione concreta della corporeità resa finalmente visibile dal concetto? Ad
Agamben la categoria deve apparire autoevidente, oppure riservata iniziaticamente
agli « happy few », perché non la spiega. Solo qualche incisa, qualche parentetica
allusiva, e poco più: la « vita naturale dell’uomo » [p. 131], la « vita sacra » [p. 132],
« la vita biologica con i suoi bisogni [...] diventata il fatto politicamente decisivo »
[p. 134], « la nuda vita priva di ogni valore politico » [p. 147], « la distinzione clas-
sica tra zoé e bios, fra vita privata ed esistenza politica, tra l’uomo come semplice
vivente, che ha il suo luogo nella casa, e l’uomo come soggetto politico, che ha il
suo luogo nella città » [pp. 209-210], ecc. Del resto Agamben teorizza a p. 203 il
carattere misterico del concetto: « la nuda vita è altrettanto indeterminata e impe-
netrabile dell’essere haplos [per gli incolti, l’essere puro] e, come di quest’ultimo,
così si potrebbe dire di essa che la ragione non può pensarla se non nello stupore e
nell’attonimento ».
          Siamo ovviamente stupefatti e attoniti anche noi. Abbiamo appena capito
che la nuda vita sta alla politica come l’essere sta alla filosofia. Dunque avvicinan-
doci in qualche modo alla nuda vita, stiamo avvicinandoci all’essere. Ammirevole
economia teoretica e pragmatica: con una botta sola, le 219 pagine di Homo sacer,
avremo in pugno « le chiavi del destino storico-politico dell’occidente », capiremo
« la nostra soggezione al potere politico » e « potremo sciogliere l’enigma dell’an-
tologia » ( per la citazione completa, assolutamente impagabile, vedi a p. 203 in
basso).
          In questo modo Agamben ha rintanato zoé al cuore del noumeno, forse per
salvarla dalle manacce (teoretiche) dei fenomenici. Rimane però la domanda: che
vuol dire « nuda vita »? La risposta è semplice: niente. Niente che serva a qualco-
sa per capire il potere, la politica, il corpo, lo Stato, l’essere puro e meno puro, il
destino dell’occidente ecc ecc. Non esiste una vita che sia nuda, un corpo ha sem-
pre una qualche pelle sociale, la corporeità non è pensabile a monte della sua
costruzione sociale, tutto ciò che in qualche modo vive è costituito e reso dicibile
dal campo storico-sociale che vi si iscrive e lo scrive nel linguaggio come (almeno)
significante. Di una presunta nuda vita nulla può esser detto, dunque essa non ha
attinenza analizzabile con il potere, che in tutte le sue forme storiche non può non
dirsi, e non collocarsi anche nel campo del discorso. Affermazioni come « la presta-
zione fondamentale del potere sovrano è la produzione della nuda vita come ele-
mento politico originale » sono semplicemente indecidibili. Niente può confermar-
le, articolarle, o invalidarle. Non sono applicabili a nessun evento o fenomeno, non

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fanno capire, non consentono indagini, non alimentano atti. Peggio: la nuda vita
consente di non fare proprio quello che bene o male, tra innumerevoli povertà teo-
riche e storiche, il Foucault che Agamben crede di aver capito aveva invece fatto
talvolta. Ovvero indagini delimitate ed empiriche (orribile parola, no?) su alcune
modalità specifiche con cui alcuni sistemi politici definiti hanno, in determinati
periodi, tentato di socializzare politicamente i corpi dei loro sudditi.
          In realtà ci prova anche Agamben. Metafisico timido, tenta di agganciarsi
alla storia e al fenomeno attraverso la Parte Terza del libro, « Il campo come para-
digma biopolitico del mondo moderno ». Pagine imbarazzanti. Quando ci si acco-
sta al lager e ai suoi contorni, la rinuncia al dandysmo intellettuale diventa un dove-
re etico. Non si può essere superficiali, banali, disinformati e approssimativi. Se la
corporeità del lager è in qualche modo una corporeità paradigmatica, e lo è, biso-
gna darsi la pena e la lenta fatica di ricostruirne in modo innovativo e attento le
forme, le modalità, le contraddizioni, le ambiguità, i segni, i discorsi, le strategie, le
procedure. Se questa corporeità è uno stato-limite di socializzazione politica inte-
grale del corpo, bisogna darsi la pena e la fatica di vederne passo passo le tecnolo-
gie, le intersezioni con il campo del potere, le tattiche reciproche, le intermediazio-
ni, le parole, gli adattamenti, il ruolo dell’economia, ecc. Malgrado le centinaia di
migliaia di pagine scritte sul lager, questo lavoro rimane per gran parte ancora da
fare, sul piano empirico e ancora di più sul piano teorico. Il problema non è che
Agamben non lo abbia fatto, è che crede di averlo fatto. Perfino la metafisica poli-
tica nasconde però male in questo caso la frettolosità della scrittura, l’uso ‘saggisti-
co’ di fonti di seconda mano, le poche letture, e la conseguente tentazione di abban-
donare subito il livello empirico per rifugiarsi nelle affermazioni altisonanti e astrat-
te. Solo chi non abbia prestato attenzione vera al lager può scrivere che « i suoi abi-
tanti sono stati spogliati di ogni statuto politico e ridotti integralmente a nuda vita
», oppure che nei campi « il potere non ha di fronte a sé che la pura vita senza alcu-
na mediazione » [p. 191]: ogni descrizione o racconto dei campi di sterminio come
dei gulag mostra quanto essi fossero ricchi di una politicità intensa, di una organiz-
zazione sociale a maglie fitte che realizzava complessi adattamenti secondari tra
l’organizzazione voluta dal potere e la microsocietà degli internati, di un pullulare
di discorsi, di innumerevoli figure e pratiche di mediazione di cui persino il potere
assoluto del lager aveva bisogno per mantenere l’ordine ecc: tutto il contrario della
nuda vita, a meno che non la si confonda con la vita nuda, dominata in apparenza
dai bisogni primari. Peggio: come Agamben stesso mostra, la presunta nuda vita
non è uno stato primigenio e prepolitico della vita e della corporeità, ma il risulta-
to di un progetto politico razionale reso possibile da condizioni-limite della polis e
del sociale; dunque un possibile fine e culmine di una politica specifica e consape-
vole, non un indicibile sostrato della Politica.
          Poche pagine frettolose culminano in affermazioni epocali: « il campo [...]
è ora il nuovo nomos biopolitico del pianeta » [p. 198]. Anche se non c’entra con
il corpo, è giusto sottolineare che questo esito è stato preparato da un apparato teo-
rico alla sua altezza. La riflessione sull’eccezione è una variazione sul tema « l’ecce-
zione conferma la regola » e chi in qualche modo è legittimato da quella regola. La
nota proposizione di Schmitt sullo stato d’eccezione viene iperinterpretata e tra-
sformata in un fuoco fatuo di ossimori (perché non ricostruire ed analizzare un
evento di stato d’eccezione? gran parte di quella fantasmagoria di ossimori si sare-

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be ridotta al niente. In Adorno e Horkheimer l’ossimoro come procedura della
mente era ancora spesso un modo per esprimere la percezione dialettica della real-
tà, la sua ironia. In Benjamin questo accade ogni tanto. In Agamben, gli ossimori in
cascata non emanano da un rapporto sofferto con una realtà di cui si desiderano
capire le contraddizioni dinamiche; paghi di se stessi, essi mimano il pensiero dia-
lettico, lo riducono a jonglerie linguistica e a brivido narcisistico). L’analisi del rap-
porto tra sacro e potere sarebbe stata un poco più profonda se Agamben si fosse
dato veramente la pena di capire almeno alcuni degli autori che pure cita, ad es.
Freud e Durkheim. Su Kantorowicz Agamben non ha letto granché, così accumu-
la osservazioni superficiali, ‘scopre ‘ cose scritte da anni, oppure si dà a quelle pro-
cedure argomentative per slittamenti associativi che troppi hanno preso sul serio
nel Ginzburg di Storia notturna. Le annotazioni sul corpo del « sovrano » - termi-
ne decisamente più misterico di leader o simili, e dunque da preferire - non vengo-
no contestualizzate o storicizzate, sono molto più banali di quanto il registro ‘inten-
so’ della scrittura non voglia far credere, e soprattutto non tengono alcun conto dei
molti tipi diversi di corpo del sovrano che girano nella realtà politica. Agamben col-
tiva le essenze pure e originarie, non dubita mai che il suo ‘sovrano’ sia il nucleo
primo e irriducibile comune ad ogni potere possibile, e che la nota affermazione di
Schmitt sia, come dire, un tantino tendenziosa. Alcune sue analisi si applicano forse
alla leadership carismatica, ma è questa la forma unica o prevalente della leaders-
hip nell’occidente, ora come nel passato? E ancora: la prima delle tre tesi conclusi-
ve di Agamben è che « la realizzazione politica originaria è il bando »; tesi diverten-
te, ma basta tentar di formalizzarla in qualche modo, ad es. con la teoria dei giochi
o degli insiemi semplici, per accorgersi che essa è diadica, mentre la relazione poli-
tica elementare non può non essere triadica (vedi per tutti Simmel). E a proposito
di dialettica della inclusione/esclusione, si rimpiangono le pagine appunto di
Simmel sullo « straniero interno », ben altrimenti complesse e feconde per una teo-
ria del Grundkorper politico.
          Citiamo ancora (citare da questo libro è un piacere al quale non si resiste).
Sulla filosofia di questo secolo: « questa unità immediata di politica e vita permet-
te di gettar luce sullo scandalo della filosofia del novecento [sott. nostra]: la relazio-
ne fra Heidegger e il nazismo » [p. 167]. Sul sadomasochismo: « l’importanza cre-
scente del sadomasochismo nella modernità ha in questo scambio la sua radice; poi-
ché il sadomasochismo è appunto quella tecnica della sessualità, che consiste nel far
emergere nel partner la nuda vita » [p. 149]. Sull’occidente: « Sono i corpi assolu-
tamente uccidibili dei sudditi a formare il nuovo corpo politico dell’occidente » [p.
138]. Che c’entra questo dandysmo del pensiero con il potere reale di cui va a toc-
care alcune manifestazioni tragiche? La copertina con piaza Tien an’ men, i lager,
gli stermini iugoslavi, le cavie umane ecc, tutto ciò irrita quando è messo al servizio
di un piccolo episodio di miseria della filosofia.

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Quattro libri da non leggere sul corpo...

Perché il corpo. Utopia, sofferenza, desiderio, a cura di MARIELLA PANDOLFI,
Meltemi, Roma, 1996.

A dire il vero, basterebbe il sottotitolo. Ma perché privare il lettore di ulteriori godi-
menti? Citiamo nell’ordine, senza nulla omettere, autori, parole-chiave e una mode-
sta scelta di frasi esemplari presenti nella Introduzione della Pandolfi (16 pagine).
Spazi critici, Virilio, strategie transtraduttrici, locality, antropologia sovversiva,
Callari Galli, profili culturali sovversivi, la vertigine della località, le deterritorialità
urbane Nord Americane, non luoghi, Augé, ontologiche paralisi, corpo nomade,
longue durée, garze derridiane, muthos aristotelico, deterritorialità utopica, tran-
snazionalità genetica, ibridità, decostruzione, nomadismo corporeo, spazio-corpo,
secolare querelle della separazione cartesiana, somatofobia, disseminare il corpo,
Die Brucke, Derrida, imenologia, Foucault, biopotere, Turner, oltre », dissonanza,
petits recits, Lyotard, non lieux [questa volta in francese], Ricoeur, autismo onnipo-
tente del cogito cartesiano, vertigine dell’utopia di simulacri senza memoria, deter-
ritorialità utopiche e territorialità incarnate, spazialità normative e quindi repressi-
ve, de Certeau, cultura del frammento, cultura della totalità, Deleuze, i ‘discorsi’, le
‘fratture’, Braidotti, Baudrillard, Bourdieu, nomadismo, le ermeneutiche più tra-
sgressive, piega dell’esistere che si fa memoria, gender, memoria nomade, « memo-
ria nomade significa vivere non il passato, ma errare tra i satelliti del passato, attra-
versare gli altri non come un trickster, ma come una sonda che rileva e amplifica i
sussurri, le grida, i palpiti trasformandoli poi in frammenti di materialità », « trac-
ce fatte di organi, liquidi, nomadismo del corpo capace di rilevare ogni orma di
temporalità passata », « la memoria è il Minosse dell’ottimismo virtuale, scelta
fucoltiana, piccoli recits, grande recit, il corpo nomade transurbano e transnaziona-
le, Boyarin, Benjamin, microfisica dei poteri, Leviatano, « recinti, spazi stretti,
camere piccole, in cui i corpi vivono ogni istante la riduzione dello spazio come
temporalità inizziatica verso la propria morte », la radura del bosco heideggeriano,
i percorsi spezzzati della decostruzziione, le molteplici aporie del pensiero occiden-
tale dall’illuminismo ad oggi, Crapanzano, disarticolare l’ortodossia dei testi e risco-
prire la brutalitàà seducente dell’immaginario, Galimberti, Gil, « il recente saggio
di Matilde Callari Galli (1996) percorre con straordinaria intuizione i nuovi percor-
si identitari », i recenti e corrosivi studi della Judith Butler », ecc ecc. Insomma
tutto l’insopportabile birignao accademico à la mode, come si dice dell’apple pie col
gelato. Peccato per Aristotele, Turner, de Certeau e qualche altra anima innocente
citata senza sua colpa. Peccato anche per alcuni degli autori che hanno incautamen-
te messo i loro scritti sotto l’ombrello di tanta Introduzione (ma potevano pensar-
ci prima). Per finire, due informazioni importanti dell’autrice su se stessa. Primo, la
Pandolfi è « professore ordinario di Antropologia, Letteratura comparata e Teoria
della cultura nel Dipartimento di Letteratura comparata dell’Università di
Montreal »: impressionante, quel poveretto di Crapanzano insegna solo
Antropologia e Letteratura comparata. Secondo: « prepara un volume per Laterza
sull’antropologia delle emozioni e The Body Speaks per Cambridge University Press
». Li aspettiamo con terrore.

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LUCIEN SFEZ, La santé parfaite. Critique d’une nouvelle utopie, Seuil, Paris, 1995.

          Cosa fa un accademico potente quando non ha più idee, sue o di altri, per
un libro? Se è italiano, diventa senatore della Repubblica, a destra o a sinistra. Se è
francese, si rivolge alla Direzione Affari culturali del Ministero degli Affari esteri, e
si fa finanziare un lungo giro, per esempio in Giappone e negli Stati Uniti. Fa un
po’ di interviste a qualche locale, torna, fa sbobinare, commenta, prende allegra-
mente informazioni da un altro paio di libri, aggiunge un mucchio di sciatte pagi-
ne (ci auguriamo che almeno non sia stato lui a scriverle ), e pubblica il tutto - 400
pagine — presso una prestigiosa casa editrice, per es. Seuil. Esce così La santé par-
faite. Il tema è il Progetto Genoma e il Progetto Biosfera II come nuove utopie
scientifiche della corporeità, portatrici di modelli di perfezionamento del corpo. In
teoria sarebbe interessante, ma a) le prime 120 pagine ci ammaniscono una rilettu-
ra di Eva futura di Villiers de L’Isle-Adam e un interminabile exercise in platitudes
intorno ai destini attuali dell’utopia: terreno scivoloso, sul quale bisogna darsi la
pena di leggere e riflettere molto prima di scrivere alcunché; un capitolo dal titolo
grandioso - « Voyages dans les idées du corps et de la nature: Etats-Unis, Japon,
France » e dal contenuto ovviamente insulso; nonché altre inutili considerazioni
sull’immaginario corporeo; b) una ricostruzione dei due progetti citati, largamente
derivata da volumi già esistenti e spesso più attenta al particolare di colore che non
alla visione del mondo e della corporeità che li ispira; ma almeno questa parte con-
tiene qualche elemento informativo utile, se si saltano in blocco i tentativi di anali-
si; c) i capitoli finali, dedicati alle fantasmagorie della Artificial Life, nei quali Sfez
recupera lo stile leggero-ma-profondo dei capitoli iniziali, e dunque non dice pra-
ticamente nulla; d) alcune pagine conclusive sul mito di Adamo, con incursioni
alchemico-mistiche da sturbo. Si chiude il libro e lo si presta, tanto i libri prestati
non vengono mai restituiti.

ROSI BRAIDOTTI, Madri, mostri e macchine, a cura di Anna Maria Crispino, mani-
festolibri, Roma, 1996.

          Il problema con questo libro è sopravvivere alle prime pagine. Primo osta-
colo: il birignao politically correct in versione intellettuale femminista, con un pizzi-
co di à la mode (vedi Pandolfi, supra). Di tutto di più: Derrida e la scoperta che «
il pensiero occcidentale ha una logica di opposizioni binarie ecc ecc », il pensiero
fallologocentrico, « lineare » come equivalente del peccato originale, la « corporei-
tà scardinata e disordinata » apparsa in occidente e che sarebbe « il segno più
netto del trionfo del femminismo » ( e pensare che a chi scrive mai la corporeità è
sembrata più disciplinata ), « l’aberrante e discutibilissimo dualismo corpo-mente
» di Cartesio, le colpe originarie di Aristotele (variante del mal greco, vedi
Agamben, supra), la « marcia ... allegra » dei « nuovi soggetti mostruosi » (davve-
ro? allegra? la Braidotti legge troppo) », la « bellezza del corpo mostruoso » (dav-
vero? è mai stata vicina sul serio a un corpo veramente mostruoso? mi ricorda la
retorica letterario-psicotica della bellezza creatività sovversività della psicosi nei
cascami del Laing (penultimo)/Deleuze/Guattari-pensiero: credevano di amare gli
psicotici, e li estetizzavano per terrore ). E poi ancora: la « legge dell’Uno » e la con-

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Quattro libri da non leggere sul corpo...

seguente « denigrazione del femminile e dunque delle donne », « la differenza come
segno di negatività » che caratterizzerebbe la cultura occidentale ( solo la cultura
occidentale? e che tipo di categoria è mai « cultura occidentale », che vuol dire? ),
« l’immaginario putrefatto del vecchio patriarcato », « il tabù dell’incesto, legge
fondamentale del nostro sistema sociale » (solo del nostro?), una definizione vita-
listico-leninista del « rigore » scientifico (p. 48), l’immancabile appello, la « relazio-
ne ‘rizomatica’, vale a dire non solo cerebrale ma collegata all’esperienza » « il che
implica una rafforzata connessione tra pensiero e vita » (ma esiste stato della mente,
e dunque pensiero, che non sia un tutt’uno con l’esperienza di chi pensa? il più for-
malizzato dei pensieri non è forse sempre « prossimo » alla « realtà esistenziale »?
ed è necessario che lo sappia per essere un pensiero formulabile ?), ecc.
                  Il secondo ostacolo è lo stile. Un esempio tra tanti: « l’assunzione
di uno stile discorsivo nomadico implica la dislocazione del mio luogo di enuncia-
zione ecc ecc....»: frase epica, per un pensiero semplice. Il terzo ostacolo è il con-
tinuo appello ad una condivisione di valori tra l’autrice e, come lei scrive, « i miei
interlocutrici/interlocutori ». Alla Braidotti non bastano gli « intellettuali e accade-
mici tradizionali » (per i quali palesemente scrive, con tutti i birignao del caso), cul-
tori di una « verità » che è ovviamente « fredda » (chissà mai perché). I suoi letto-
ri devono anche essere « partecipanti attivi, coinvolti e impegnati in un progetto e
in una sperimentazione di nuove modalità del pensiero sulla soggettività umana in
generale e la soggettività femminile in particolare » (p. 17); essi devono condivide-
re « l’impegno appassionato al riconoscimento delle implicazioni teoretiche e
discorsive della differenza sessuale ». Come dire che per capire e valutare la
Braidotti non basta una lettura razionale/critica di quello che scrive, occorre anche
avere i suoi valori e condividere gli stessi obiettivi generali. Ovvero: si deve già esse-
re un bel po’ d’accordo con lei in partenza, e la critica è intellettualmente lecita solo
come critica interna. Vecchia storia.
          Sopravvissuti a tutto questo, rimangono le pagine sui mostri. Qui finalmen-
te il corpo appare sulla scena come in nessuno dei libri da non leggere sopra.
Soprattutto nel secondo saggio, si affacciano corpi concreti, affrontati attraverso
ipotesi degne di attenzione e almeno in apparenza dopo letture vere. Il mostro
come ibrido esterno-interno portatore di « significazioni simultanee e contradditto-
rie » si avvicina spesso al problema delle classificazioni, dunque alla sua funzione
cognitiva e talvolta epistemologica. Un essere che unisca in sé il « Medesimo » e l’
«Altro» è un indicatore categoriale, esso segnala l’esistenza e i confini dei sistemi di
classificazione, e ancora le classificazioni stesse a linee di demarcazione particolar-
mente pregne. Di fatto il mostro agisce come un garante dell’ordine socialmente
costruito della realtà. Prospettiva utile, anche se a volte fatica ad emergere dal tema
della differenza. Certo che Simmel, con il suo « straniero interno », era andato ben
oltre, e con ben altra complessità sia di modello teorico che di generalizzazione (i
facenti funzioni di mostri sono nel sociale molti di più dei mostri ‘facili’ della
Braidotti). Ma contentiamoci... Ad una teorica della differenza sessuale è forse
eccessivo chiedere di capire tutta la portata epistemologica e pragmatica di una
frase che lei stessa scrive, ovvero che « la differenza non si toglierà di mezzo ».
          Subito dopo però riesplode la mancanza di tenuta concettuale del libro. La
Braidotti trova un indicatore empirico della congruità tra teoria della differenza e
le nuove tendenze di fondo delle nostre società contemporanee, nelle quali (ripetia-

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IL CORPO - II, 4/5, dicembre 1995

mo alcune citazioni già fatte) pullula la produzione massiccia e invasiva di mostri,
la « marcia allegra » dei « nuovi soggetti mostruosi ». Dal rock al fantasy, dal fumet-
to alla fantascienza e allo horror, dovunque nella cultura di massa una abbondanza
di mostri segnala una « corporeità scardinata e disordinata », ovviamente il « segno
più netto del trionfo del femminismo ». E’ vero, il sistema dei mostri nelle nostre
culture contemporanee va decodificato, e costituisce un importante tema di indagi-
ne sul corpo e sulla sua costruzione sociale. Ma la Braidotti è proprio così sicura
che si tratti di un fenomeno solo del presente, dagli anni 60 in poi? La produzione
culturale di massa dà corpo tangibile e rilevabile ai contenuti dell’immaginario col-
lettivo. Ma il suo attuale sistema di mostri è veramente diverso sul piano qualitati-
vo e quantitativo dal sistema dei mostri dell’immaginario collettivo di altre epoche
? Spetta alla teorica della differenza dimostrare questa differenza fondamentale per
la sua tesi. A giudicare da queste pagine, non le è neanche passato per la mente.
Ovvero: non basta declamare la differenza come valore per saper pensare e sentire
cognitivamente la logica delle differenze. E’ facile scrivere la bellezza del Mostro,
l’alterità dell’Altro, ecc. Più difficile perdere sul serio il proprio centro e la coazio-
ne a ridurre al Sé/se stessi, al qui e all’ora la complessità della realtà.

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