Prolusione del Prof. Marco Cantamessa

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Prolusione del Prof. Marco Cantamessa
Prolusione del Prof. Marco Cantamessa
Politecnico di Torino - Dipartimento di Ingegneria Gestionale e della Produzione
I3P – Incubatore Imprese Innovative del Politecnico di Torino

        Verso la Entrepreneurial University del XXI secolo

Introduzione

     Per la prima volta nella storia del nostro Ateneo, la lectio di apertura dell’anno
accademico affronta un tema legato alla cosiddetta “terza missione” dell’università. Per un
Ateneo, è naturale che si tratti questo argomento non solo considerandolo un oggetto di
speculazione e ricerca, ma anche assumendo il ruolo di soggetto attivo, che riflette sulla
propria missione. Per questo mi permetterò, ogni tanto, di provare a “fare il punto” sulla
situazione attuale, così da fornire stimoli di riflessione a chi ha responsabilità di governo.

     Perché occuparsi dell’“università imprenditoriale”? Perché è un fatto storico ed
empiricamente osservabile che, nel tempo, l’università si sia evoluta, passando
progressivamente dalla iniziale focalizzazione sulla didattica (la “prima missione”)
all’università humboldtiana del XIX e XX secolo, che si occupa anche di ricerca (la
“seconda missione”), per giungere oggi, a cavallo tra il XX e il XXI secolo, all’università
che assume un ruolo diretto nell’innovazione e nello sviluppo economico (la “terza
missione”). Un’università che, nell’allargare il presidio delle proprie competenze e attività,
si scopre sempre più “imprenditoriale”.

     Entrepreneurial University è un “termine-ombrello” che nasce dall’osservazione
empirica di un cambiamento assai frastagliato. Esso si presta a diverse definizioni, tanto è
vero che l’OCSE (2012) ci dice: “There are several attempts to define the Entrepreneurial
University in the literature and they reach no consensus.”. Date le molteplici interpretazioni
possibili, mi sento libero di proporne una mia, operando su tre prospettive: l’“università che
forma imprenditori”, l’“università che crea imprese”, per giungere infine all’“università che
imprende”.

Prolusione del Prof. Marco Cantamessa – Inaugurazione Anno Accademico 2014/2015
L’università che forma imprenditori

      Parto dalla figura dell’imprenditore perché, trattando un fenomeno sociale ed
economico, ritengo buona norma cercarne in primis l’attore umano, prima di toccare
aspetti organizzativi e istituzionali. L’imprenditorialità implica l’esistenza di imprenditori.
Senza imprenditori, non c’è intrapresa.

      La centralità dell’imprenditore è ben presente a chi si occupa di economia e, in
particolare, di economia dell’innovazione. É infatti l’imprenditore schumpeteriano il
principale attore della “distruzione creatrice” che, come in una burrasca, traghetta la
società da un paradigma tecnologico all’altro (“[...] individuals who exploit market
opportunity through technical and/or organizational innovation”, Schumpeter, 1965). Sono i
Thomas Edison di fine XIX secolo, i Bill Gates degli anni ’80 del secolo scorso, gli Elon
Musk di oggi.

      L’imprenditore non è solo quello che al contempo genera e cavalca l’innovazione di
tipo radicale e disruptive 1 . Pur tenendo presente la distinzione, proposta da Baumol
(2010), tra imprenditori innovativi (coloro i quali creano imprese diverse da quelle esistenti)
e imprenditori replicativi (i quali invece creano imprese uguali a quelle esistenti), il legame
tra cambiamento e imprenditorialità è costantemente presente, anche se in modo più lieve
e feriale. Peter Drucker (2007), tra i maggiori studiosi nel campo del management, ci
ricorda infatti: “This defines entrepreneur and entrepreneurship - the entrepreneur always
searches for change, responds to it, and exploits it as an opportunity”.

      L’imprenditore, nella società, può essere anche visto sotto un registro diverso, etico.
Nelle note parole di Luigi Einaudi (1960), egli è colui che affronta le difficoltà del “fare
impresa” mosso non solo dalla sete di guadagno monetario, ma anche dall’ambizione di
veder crescere la propria creatura (“... lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto
quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione
naturale che li spinge; non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l'orgoglio di vedere la
propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più

1Negli studi sull’innovazione, si parla di “innovazione radicale” quando si hanno discontinuità nel prodotto e
nella tecnologia sottostante. Sono invece “disruptive” le innovazioni che conducono a discontinuità negli
equilibri competitivi che caratterizzano i settori produttivi.

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vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il
guadagno”). Questa osservazione è confermata da recenti studi, i quali ci indicano come
la decisione di avviarsi a un percorso imprenditoriale, e soprattutto di persistere in esso,
non derivi tanto dal ritorno monetario atteso, che è mediamente basso, quanto
dall’esistenza di altre determinanti di natura personale 2.

      Pur tenendo presente che l’imprenditorialità possa anche essere improduttiva e
distruttiva (Baumol, 1990), vi è un’“imprenditorialità produttiva” che ha un ruolo
fondamentale per una società che desideri crescere, che voglia migliorare le condizioni di
vita di chi la compone oggi, e di coloro i quali verranno in seguito. Ora, se l’università vuol
avere un ruolo nel formare questi imprenditori, che cos’è l’imprenditorialità? La si può
imparare? E, se sì, la si può insegnare?

      Per rispondere, propongo di partire dal significato del termine “imprenditore”. Il
dizionario etimologico ci dice che esso derivi da “in” (muoversi verso) e “prendere”. E che
“prendere” derivi da “pre” (prima) e “hendere” (afferrare). L’imprenditore è quindi colui che
“si muove per afferrare per primo”. Una bella immagine: l’imprenditore è uno che osserva,
che si muove, e che afferra. È un cacciatore ... un cacciatore di opportunità. Proviamo
quindi ad analizzare insieme questo “moderno cacciatore” sotto alcuni punti di vista, che ci
vengono suggeriti dalla ricerca più recente.

      Gli studiosi di management parlano di una “Entrepreneurial Orientation” che
predisporrebbe individui e organizzazioni all’”atto imprenditoriale”, cioè all’ingresso nel
mercato (o “new entry”, Miller, 1983; Lumpkin e Dess, 1996). Negli studi empirici, la
Entrepreneurial Orientation risulta composta da tre componenti assai fortemente correlate
tra di loro, con un r2 compreso tra 0.39 e 0.75 (Rauch et al., 2009): l’innovatività, la
propensione al rischio 3 e la proattività. Innovare, rischiare ed essere proattivi, proprio
come osservare, muoversi e afferare.

2 Il tema è stato studiato analizzando sia la distribuzione dei redditi attesi (Hamilton, 2000) che il rendimento
degli investimenti illiquidi che gli imprenditori hanno nelle proprie aziende (Moskowitz e Vissing-Jørgensen,
2002).
3 A questo riguardo, si può notare una sostanziale differenza tra imprenditori replicativi e imprenditori

innovativi: i primi sono propensi ad accettare rischi intesi come “incertezza conoscibile e valutabile”. I secondi
sono invece essere pronti ad affrontare incertezze di tipo knightiano (Knight, 1921), ovvero non misurabili a
priori.

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Volendo andare più a fondo su questo tema, lo studioso di management può iniziare
a lavorare insieme allo psicologo. A livello individuale, ci si potrebbe innanzitutto chiedere
se gli imprenditori abbiano una personalità distintiva. Se così fosse, “imprenditori si
nascerebbe”, e non li si potrebbe quindi formare. Sin dagli anni ’90, si è provato a
identificare questi tratti distintivi, ma con scarso successo (Brandstatter, 2011; Mitchell et
al., 2002). Nella ricerca più recente, si tende ad ampliare lo sguardo, ricercando
l’imprenditorialità come risultato di un atto collettivo e legato al contesto. Per esempio,
Zachary e Mishra (2011) parlano dell’imprenditorialità come frutto di un “nexus between
individuals, opportunities and resources”) 4.

      È invece a livello cognitivo che si possono cogliere le maggiori differenze tra
imprenditori e non imprenditori (Mitchell et al., 2007). Se esiste una “Entrepreneurial
Cognition”, è probabile che la si possa apprendere, e che si possa anche insegnare a
“pensare come un imprenditore”. Proviamo allora a tracciare l’identikit cognitivo
dell’imprenditore: gli imprenditori tendono a distinguersi nel ragionare sulle opportunità,
prima che sulle soluzioni tecniche (Krueger, 2003); laddove non abbiano competenze
proprie, usano competenze relazionali per mobilitare persone esperte (Baron, 2000);
hanno una maggiore tendenza a cadere vittime di bias cognitivi (in particolare, alla
overconfidence), una minore tendenza a operare ragionamenti controfattuali (ovvero, a
ragionare sui diversi esiti che sarebbero emersi, o potrebbero emergere, da scenari
alternativi) e fanno ampio uso di processi decisionali basati su metodi euristici (Simon et
al., 2000); sono a proprio agio nel ragionare sia in modo “causale” (dato un obiettivo,
determinare le risorse necessarie) che “effettuale” (date le risorse disponibili, quali effetti
sono ottenibili, Sarasvathy, 2001). Risultati simili emergono da recenti studi nel campo
dell’economia comportamentale (Åstebro et al., 2014).

      Riassumendo, l’imprenditore riesce a percepire cose che i non-imprenditori non
sanno cogliere: le opportunità, e sanno poi muoversi creativamente tra uno “spazio delle
opportunità” e uno “spazio delle soluzioni”. Quando poi l’imprenditore si muove per

4Seguendo questo filone, in una recente ricerca che abbiamo svolto insieme a colleghi psicologi dell’Università di
Torino , abbiamo operato sull’intero team imprenditoriale e allargato l’insieme di “fattori disposizionali” che
sottenderebbero all’attività imprenditoriale. Oltre ad elementi “classici”, abbiamo osservato e definito due nuovi
costrutti: il “bisogno di realizzazione”, e la “passione imprenditoriale”. Concetti assai “einaudiani”, che è stato
possibile verificare empiricamente (Mercuri et al., 2014)

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“afferrare l’opportunità”, tende a considerarla così significativa da rendere accettabili rischi
che altri considererebbero eccessivi. È un approccio cognitivo che mostra alcuni punti di
contatto, ma anche qualche divergenza, con quello della “cultura politecnica del progetto”
che accomuna e caratterizza la formazione di ingegneri, architetti e designer: muoversi tra
uno “spazio dei problemi” e uno “spazio delle soluzioni tecniche”, per poi scegliere un
concept e svilupparlo nel dettaglio.

     Infine, l’imprenditore ha anche cognizioni di economia aziendale, sapendo ragionare
su concetti come l’elasticità della domanda rispetto al prezzo, la struttura dei costi, i
margini di contribuzione, il breakeven, la differenza tra cassa e competenza. Sono
competenze che possono derivare da studi di economia aziendale, con la caratteristica di
essere orientati più alla comprensione manageriale dei modelli di business, che alla
comprensione “ragionieristica” delle regole di contabilità. Anche qui, un modo di pensare
assai vicino a ingegneri e architetti i quali, prima di addentrarsi nei particolari, tendono a
chiedersi “come funziona”?

     Per l’università nasce dunque una sfida. Abituati a formare una “classe dirigente”
composta da professionisti e amministratori, iniziare invece a formare una classe dirigente
nuova, capace di “pensare come imprenditori”: giovani che sappiano applicare questa
forma mentis sia che decidano di fare dell’imprenditoria la propria professione, sia che si
orientino verso altre carriere, affrontandole però con uno spirito nuovo.

     Se guardo alle nostre università, e in particolare al nostro Ateneo, è stato fatto
     molto, ma è sicuramente possibile incrementare l’attenzione a questo tema.
     Nell’Alta Scuola Politecnica, programma rivolto a piccolissimi numeri di studenti
     di particolare talento (60 per il nostro Ateneo, e 90 per il Politecnico di Milano) si
     opera di fatto una formazione alla entrepreneurial cognition lavorando, in
     particolare nei progetti, su una innovazione di tipo problem driven, sulla
     multidisciplinarietà e sul lavoro di gruppo. In alcune lauree magistrali sono stati
     introdotti, con grande apprezzamento degli studenti, corsi di business planning,
     che coinvolgono circa 150 studenti all’anno. Un corso di questo tipo viene
     offerto anche agli studenti di dottorato, ed è frequentato da circa 30 studenti
     all’anno. Ampliare questi numeri potrebbe essere un primo passo.

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Ma il vero cambiamento potrebbe venire considerando la entrepreneurial
      cognition come un vero e proprio obiettivo formativo per tutti. Così facendo,
      anche il Politecnico di Torino e le altre università tecniche italiane potrebbero
      ambire ai noti risultati dell’MIT (Roberts e Eeseley, 2009), ateneo che,
      limitandosi alle imprese fondate da ex-allievi viventi, ne ha censite 25600, con
      un impatto occupazionale di 3.3 milioni di addetti. Si tratta per la stragrande
      maggioranza di imprese non legate alla ricerca del MIT, e che sono nate perché
      agli studenti era stato insegnato non solo a “ragionare come un ingegnere”, ma
      anche a “pensare come un imprenditore”.

L’università che crea imprese

      Passo quindi alla seconda prospettiva: l’università che, oltre a formare imprenditori,
crea imprese. Si tratta di un tema importante, perché le nuove imprese sono quelle che
creano posti di lavoro “netti” e che, con la loro crescita, sostituiscono le imprese spiazzate
dal cambiamento tecnologico.

      La ricerca economica ci dice infatti che la creazione netta di posti di lavoro è operata
dalle PMI, ma non da tutte: quelle “piccole perché nane”, che né crescono, né muoiono,
non forniscono un contributo. A creare posti di lavoro sono invece le startup, cioè le
piccole imprese di recente costituzione. Una nota ricerca promossa dalla Kauffmann
Foundation su dati dell’US Census Bureau ci dice che, tra il 1977 e il 2005, le imprese
non-startup avevano portato in media a una perdita occupazionale annua di circa 1
milione di posti di lavoro, mentre le startup con meno di 5 anni di vita ne creavano 3 milioni
all’anno (Kane, 2010)5. Risultati simili sono osservabili a livello globale: anche nel nostro

5Per startup non si intendono qui necessariamente nuove imprese “tecnologiche”. Usando la precedente
definizione di Drucker, si può ritenere che la nuova impresa porti comunque un “qualche” elemento di
cambiamento e innovazione. Alle startup, alcuni autori suggeriscono di aggiungere le cosiddette imprese “high-
impact”, ovvero le PMI nelle quali scatta un fenomeno di crescita, per esempio a seguito di un profondo
cambiamento strategico o un passaggio generazionale (Audretsch, 2012).

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Paese, tra il 2001 e il 2011, le PMI con meno di 5 anni di vita creavano 2 posti di lavoro
per ogni posto di lavoro che perdevano (Criscuolo et al., 2014)6.

      L’effetto occupazionale delle nuove imprese potrebbe però non esaurire il loro
impatto sull’economia. Vi è probabilmente un effetto meno visibile, che curiosamente non
è ancora stato oggetto di studi rigorosi, legato ai processi di open innovation: anche se le
startup non crescessero, potrebbero essere determinanti per accelerare processi di
innovazione presso le imprese incumbent, incrementandone la competitività. Questo
potrebbe essere particolarmente significativo in un Paese come il nostro, nel quale i
processi di crescita aziendale sono più difficili.

      Data l’importanza delle nuove imprese, come può l’università favorirne lo sviluppo?
In primo luogo, facilitando la nascita di “spinoff della ricerca”, ovvero imprese che nascono
per portare sul mercato risultati nati nel contesto accademico, e ciò in alternativa ad altri
canali di trasferimento tecnologico, quali la concessione di licenze su brevetti ad imprese
esistenti. Se nelle spinoff universitarie è la ricerca a “imboccare la strada dell’impresa”, è
importante evidenziare anche il percorso inverso, con startup che nascono da idee
imprenditoriali autonome che “prendono la strada della ricerca”, e si insediano accanto
all’università. Ad esempio, nel nostro incubatore, metà delle imprese clienti proviene
dall’Ateneo. L’altra metà invece nasce da idee imprenditoriali esterne, talora come spinoff
aziendali, che permettono di valorizzare progetti non core, che rischiavano altrimenti di
“morire nei cassetti”, insieme alle relative competenze.

      Nonostante i pregiudizi, la capacità dell’università italiana di operare in questo
      ambito è assai significativa. Se guardiamo alle “startup innovative” definite dalla
      recente legislazione (L. 221/2012), si stima che ben un quarto di esse sia nato
      grazie all’azione dell’università, come sue spinoff o come aziende “incubate” da
      strutture legate all’accademia (Bax et al., 2013). Inoltre, un terzo degli
      “incubatori certificati di start up innovative” definiti dalla medesima legge è
      associato all’università.

6A margine, non si può non annotare come l’impatto positivo delle giovani imprese in crescita possa verificarsi
soprattutto in economie aperte e dinamiche, nelle quali si accetti che le imprese giunte al termine del proprio
ciclo di vita chiudano, aprendo così spazi di mercato a quelle giovani e innovative. Il nostro Paese non rispecchia
esattamente questa situazione.

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Il Politecnico di Torino è stato pioniere in questo campo. Negli anni, è stato
     l’Ateneo italiano che ha generato il maggior numero di spinoff della ricerca. Nel
     1999 è stato fondato qui il primo incubatore universitario italiano, che ancora
     oggi ha una posizione di leadership, riconosciuta dal ranking internazionale UBI
     Index, che lo piazza al primo posto in Italia, al 5° in Europa e al 15° nel mondo.
     Ogni anno, I3P riceve 300 domande di ammissione, sulla base di queste
     sviluppa insieme agli aspiranti imprenditori circa 80 progetti, e lancia 15 nuove
     imprese, stimolando investimenti privati in capitale di rischio a livello seed per
     2.5 milioni di Euro. Nel loro insieme, le imprese di I3P hanno creato più di 1200
     posti di lavoro diretti, ciascuno dei quali è costato al contribuente meno di 6000
     € una tantum, sfruttando per lo più risorse provenienti dal Fondo Sociale
     Europeo.

     Il quadro è incoraggiante, ma resta ancora molto da fare per migliorare la
     capacità dell’università di “creare imprese”. È necessario aumentare quantità e
     maturità delle proposte imprenditoriali, e qui molto potrà fare un Ateneo più
     attento a “formare imprenditori”, così come si può auspicare un sistema di
     incentivi che premi anche a livello di carriera i docenti che provano non serietà
     a “fare impresa”. Inoltre, si può lavorare sulla capacità di attrazione della
     “Cittadella Politecnica”, una “Tech-City” inserita in un territorio unicamente
     fertile di competenze tecniche e industriali. Così facendo, sarà possibile
     aumentare il numero di imprenditori attratti da altre regioni italiane e anche
     dall’estero (ad oggi, I3P ospita già quattro startup nate negli Stati Uniti). La
     recente disciplina sull’Italia startup visa, che ultimamente consente anche di
     convertire i visti per motivi di studio in visti per la creazione d’impresa, è da
     considerarsi un’opportunità particolarmente interessante.

     Allo stesso tempo, bisogna lavorare sulla crescita delle nuove imprese perché,
     nel nostro Paese, “fare startup” è ancora un’operazione “eroica”. In Italia, a una
     buona offerta di innovazione, si sposa una bassissima domanda. Finché
     imprese esistenti e pubbliche amministrazioni saranno recalcitranti ad adottare
     innovazioni, le startup non saranno apprezzate come fornitrici di beni e servizi

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e/o come target di acquisizione, e non potranno crescere in modo significativo.
      Ed è pertanto razionale che facciano fatica ad attirare finanziatori, i quali non
      fanno altro che anticipare le somme che prevedono di poter un giorno prelevare
      dalle tasche dei futuri clienti. Il finanziamento delle startup sta migliorando nella
      primissima fase del “seed financing”, ad opera soprattutto di angel investing e di
      un corporate venturing informale, grazie anche agli incentivi fiscali previsti dalla
      legislazione. La situazione è però ancora drammatica nel cosiddetto “early
      stage”, fase nella quale vengono investite somme irrisorie in assoluto e in
      rapporto al PIL (meno di 100 milioni di euro all’anno in media negli ultimi anni,
      OECD 2014), e non è nemmeno presente un numero di operatori di fondi di
      Venture Capital tale da creare un vero mercato, dato che ha incuriosito più di un
      ricercatore (Gregoriou 2011) 7.

      Questa non è una sterile lamentela: se il contesto appare insufficientemente
      propenso all’innovazione, bisogna migliorarlo, e l’università è un attore-chiave in
      questo processo, costruendo una vera e propria cultura dell’innovazione,
      interagendo costantemente con imprese e pubbliche amministrazioni, per
      stimolarle a guardare verso traguardi più alti dal punto di vista sociale e della
      competitività, facendo proposte concrete, e diventando loro partner per attuarle.
      È la cosiddetta “tripla elica dell’innovazione” (Etzkowitz e Leydesdorff, 2000),
      che è alla base dei moderni “sistemi territoriali di innovazione”. E questo ci porta
      alla terza prospettiva: l’università che imprende.

L’università che imprende

      ”Università che imprende” è un titolo molto delicato, che potrebbe apparire in
antagonismo con due valori per molti di noi intoccabili: quello dell’”università pubblica” e

7 Stanti i vincoli alla crescita citati, il problema non può risolversi semplicemente destinando risorse pubbliche a
un “fondo di fondi”, nella speranza di smuovere investimenti privati, cosa che potrebbe al limite agire su fattori
culturali o congiunturali. Vi è un vivace dibattito sulle scarse performance registrate dai fondi di Venture Capital
che includono investitori pubblici, e del conseguente rischio di ottenere l’effetto opposto, allontanando gli
investitori privati anziché attrarli (Lerner, 2009). In conclusione, concordo con l’Economist quando scrive:
“Better to make entrepreneurialism pay than to subsidise it.” (The Economist, 17 maggio 2014).

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quello della “sacralità del sapere”, e che portano a vedere con sospetto ogni
accostamento con l’idea stessa di impresa. Si tratta talora di posizioni fortemente
ideologiche, altre volte dovute al sincero timore che l’università possa smarrire il proprio
ruolo critico nei confronti della società (Krimsky, 1991). Il dibattito sull’”università che
imprende” è d’altra parte assai vivo, si riscontra in ogni parte del mondo, e fa parte delle
normali dinamiche innovative. Etzkowitz et al. (2000) ci ricordano: “The contemporary
university is an amalgam of teaching and research, applied and basic, entrepreneurial and
scholastic interests. These elements exist in a creative tension that periodically come into
conflict. Conflict typically results in compromise and normative change in which different
and even seemingly opposed ideological elements such as entrepreneurship and the
extension of knowledge are reconciled.”

     L’”università che imprende” ha però radici antiche. Nell’XI secolo, a Bologna,
l’università nasceva come associazione di studenti, che formarono una specie di
“cooperativa di consumo” per reclutare i propri maestri. Nella Parigi del XII secolo, la
Sorbona nasceva, al contrario, come universitas magistrorum. Qui i docenti formarono una
“cooperativa di produzione”, per vendere i propri servizi agli allievi: una vera e propria
”impresa della conoscenza”.

     Più recentemente, l’atteggiamento imprenditoriale nell’università emerge negli Stati
Uniti alla fine del XIX secolo quando, complice il costo crescente della ricerca tecnico-
scientifica e l’iniziale assenza di una politica federale per la scienza, i ricercatori
abbandonano l’“isolamento dalle distrazioni esterne” raccomandato da von Humboldt, e
diventano sempre di più “cacciatori di fondi” presso imprese e presso fondazioni private.
Questo processo è andato in crescendo fino ai giorni nostri, e ritengo che molti di noi si
possano ben riconoscere nella figura del “cacciatore di fondi”: oggigiorno, solo grazie alle
risorse ottenute per via competitiva è possibile investire adeguatamente nei nostri
laboratori e remunerare i nostri collaboratori, compresi gli studenti di dottorato. La tensione
verso la ricerca di fondi va a creare, là dove prima non esisteva, un mercato e un “modello
di business” nel quale i fondi portano a risultati; questi permettono di pubblicare, e il
conseguente impatto bibliografico permette all’individuo di fare carriera, e al gruppo di
ricerca di attrarre nuovi fondi. Il gruppo di ricerca diventa quindi una quasi-azienda

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(Etzkowitz, 2003), con un comportamento e un ethos simile a quello di un’impresa, anche
rimanendo nell’alveo del proprio Ateneo, e senza generare spinoff o attività commerciali in
senso stretto. Il gruppo di ricerca è dunque la “cellula” dell’università imprenditoriale.

     Questo processo ha avuto un punto di svolta nel 1951, quando Fred Terman, che
aveva conosciuto il sistema regionale dell’innovazione che gravitava intorno al MIT,
diventa preside della Facoltà di Ingegneria della Stanford University e trasforma l’ateneo in
un’organizzazione fortemente orientata alla ricerca di fondi pubblici e industriali. Per fare
ciò, modifica gli incentivi individuali dati ai docenti e promuove lo Stanford Industrial Park,
così da creare un legame più stretto tra università e imprese: un modello simile a quello
adottato nella nostra Cittadella Politecnica.

     La Entrepreneurial University dunque esiste già: Stanford e MIT sono università
private, ma il modello si è diffuso in ogni Paese e presso Atenei sia privati che pubblici.
L’università è quindi già oggi imprenditrice, cioè “cacciatrice di opportunità”. Sarebbe però
un errore avallare il modello di un’università che diventa “imprenditrice per fame”, e che si
limita ad operare al traino di meccanismi di definizione delle priorità e di allocazione delle
risorse decisi da altri attori. L’università è realmente imprenditrice se percepisce e propone
l’agenda delle opportunità. Viviamo oggi in un mondo in trasformazione, caratterizzato da
straordinarie societal challenges. Più vicino a noi, viviamo in un Paese che ha un
disperato bisogno di invertire il proprio declino. Se riteniamo di avere soluzioni da proporre
per risolvere i problemi e i bisogni della società e dei settori industriali a noi contigui,
possiamo contribuire a quest’opera vedendo in questo progetto una “missione pubblica”,
ma anche una formidabile opportunità imprenditoriale.

     Nel breve termine, l’università che voglia imprendere, deve realizzare alcune attività
tipiche e ben note della “terza missione”, come il trasferimento tecnologico (es. brevettare
e cedere in licenza i brevetti, e generare spinoff). Deve inoltre avviare un percorso di
avvicinamento e di knowledge sharing, o condivisione della conoscenza, con l’industria,
rendendo più permeabili i confini tra i due settori. Con questo dialogo con l’industria, e con
il parallelo dialogo con il settore pubblico, l’università può diventare co-attuatrice di una
vitale “tripla elica dell’innovazione”.

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Se però alziamo lo sguardo, l’università imprenditoriale deve anche ragionare su
innovazioni disruptive che si affacciano all’orizzonte, e che potrebbero travolgere il “settore
della conoscenza” nel quale opera. Sarebbe assai ironico se l’istituzione che ritiene di
avere un ruolo centrale nel processo innovativo, si facesse cogliere impreparata
dall’innovazione stessa e, bloccata dalla propria inerzia organizzativa, finisse travolta da
un cambiamento di tipo paradigmatico. Vi sono infatti diversi trend che potrebbero portare
a significative discontinuità, e che richiedono una visione di tipo imprenditoriale.

     Nel campo della ricerca, vi sono recenti segnali che indicano una progressiva
crescita del BERD (Business Expenditure in Research and Development), soprattutto da
parte delle grandi imprese. Nei Paesi OCSE, tra il 2000 e il 2012, il BERD è cresciuto
dall’1.5% del PIL all’1.63%, raggiungendo un ammontare annuo maggiore di 600 miliardi
di dollari. Un recente rapporto redatto sulle 1000 imprese globali con maggiore spesa di
R&S (Jaruzelski et al., 2014), mostra una riduzione del budget allocato alle innovazioni
incrementali dal 60% al 40%, e una crescita di quello destinato alle innovazioni radicali dal
14% al 21%, di cui un 5% si può stimare destinato alla ricerca di base. Si può pertanto
stimare un budget globale che le imprese destinano alla “ricerca avanzata” pari a 150
miliardi di dollari, cioè 10 volte lo stanziamento annuale di “Horizon 2020”. È pertanto
possibile che, soprattutto in alcuni settori, le imprese si “mettano in concorrenza” con le
università nell’attività di ricerca. Allo stesso tempo, le strategie di Open Innovation
potrebbero dirottare parti significative di questa spesa verso l’accademia: un’importante
opportunità, per un Ateneo “imprenditoriale”.

     Le più significative tra le potenziali discontinuità sono però legate alla didattica. Tra
quelle maggiormente rilevanti possiamo citare:

•      La progressiva globalizzazione della conoscenza, dinanzi alla quale il
       radicamento nella lingua nazionale e non nella lingua franca della disciplina risulta
       essere un vero e proprio anacronismo.
•      La commoditization della conoscenza di base, che viene progressivamente
       indotta dallo sviluppo delle tecnologie dell’informazione. Molte occupazioni che
       presupponevano competenze professionali di livello universitario sono state, o
       saranno presto, spiazzate dai sistemi informativi (es. l’impatto dei sistemi ERP sulle

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attività aziendali di tipo transazionale; dei sistemi di prototipazione virtuale sulla
        progettazione tecnica di dettaglio; dei sistemi di analisi semantica sulla ricerca
        legale; dei sistemi di intelligenza artificiale sull’eziologia medica, ecc. - Brynjolfsson
        e McAfee, 2012). Nasce quindi il problema di definire curricula che non siano
        obsoleti in partenza, e di formare i giovani per occupazioni che ancora non
        esistono.
•       La commoditization della trasmissione della conoscenza. In particolare nelle
        materie di base, la disponibilità online di materiale didattico di altissimo livello
        determina una forte concorrenza alla tradizionale lezione frontale e apre a formati
        didattici innovativi, quali le flipped classroom 8. I cosiddetti MOOC (Massive Open
        Online Courses) sono probabilmente stati soggetti a un entusiasmo eccessivo (il
        cosiddetto hype che normalmente accompagna la prima fase di un cambiamento
        paradigmatico), ma è innegabile che sia opportuno avviare una riflessione sui
        formati didattici e sul “modello di business” dell’insegnamento universitario
        (Kolowich, 2013)9.
•       L’individualità degli studenti. È infine possibile che venga messa in crisi
        l’impostazione “fordista” che permea il nostro paradigma formativo, in cui gli
        studenti entrano in curricula predefiniti organizzati in scaglioni, e transitano da un
        anno all’altro così come un lotto di materie prime avanza in una linea di produzione
        secondo un processo standardizzato (Florida, 2014). Come la mass customization
        e la produzione flessibile hanno superato il fordismo, è facile che l’università del
        futuro debba adottare modelli formativi fortemente individualizzati, centrati sul
        processo di apprendimento del singolo studente, più che sul processo di
        insegnamento.

8 In una flipped classroom, la lezione viene seguita online, e l’attività svolta in aula è finalizzata all’applicazione
“laboratoriale” di quanto appreso (Strayer, 2007)
9 Per esempio, anziché “vendere lezioni”, è possibile che ci si debba preparare a “vendere programmi formativi”,

nei quali si riuniscano contributi autoprodotti e altri acquistati. Inoltre, è possibile che si debba potenziare
l’attività pratica di tutorato e di guida, operando non tanto sulla trasmissione e certificazione delle conoscenze,
ma soprattutto sullo sviluppo e la certificazione delle competenze.

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Davanti alla sfida dell’“università che imprende”, molto è stato fatto. Il nostro
     Ateneo è sempre stato all’avanguardia nel trasferimento tecnologico, ed ha
     recentemente avviato la costituzione di un laboratorio destinato a supportare
     queste attività. Per quanto concerne il knowledge sharing risulta vincente, e
     molto ammirato da tutti coloro i quali vengono a trovarci, il modello della nostra
     Cittadella Politecnica: in questo chilometro quadrato ubicato con lungimiranza
     nel cuore della città di Torino, le imprese sono invitate a collaborare con
     l’Ateneo su progetti strategici, pluriennali e multidisciplinari e a radicarsi nel
     campus, distaccando propri ricercatori affinché lavorino accanto a colleghi
     accademici. Qualche passo in più andrà probabilmente fatto per favorire lo
     sviluppo di ricerche multidisciplinari, impostazione che è non solo alla base del
     moderno paradigma di produzione della conoscenza (Nowotny et al., 2001), ma
     anche del successo di molti Atenei “imprenditoriali”, quali il MIT negli Stati Uniti
     e il Technion in Israele. È invece più difficile immaginare di poter sperimentare
     una didattica nuova, a causa dell’erosione dell’autonomia universitaria. I vincoli
     ministeriali legano minutamente l’offerta didattica alle risorse disponibili,
     creando un contesto ben poco imprenditoriale, in cui l’offerta non si adegua alla
     domanda, ma chiede burocraticamente alla seconda di adeguarsi ad essa. Più
     in generale, per un Ateneo pubblico è molto difficile imprendere, dovendo
     soggiacere alle mille e conflittuali regole della pubblica amministrazione, che
     determinano un clima avverso al rischio, nel quale “tutelarsi” diventa prioritario
     rispetto al perseguimento di obiettivi strategici. Ora, se questo Paese vuole
     università imprenditoriali, deve accettare e auspicare che, almeno nell’ambito di
     un dato plafond,     le università possano correre un “rischio d’impresa”. In
     economia non esiste ricompensa senza rischio, e chi non rischia non è
     imprenditore.

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Conclusione

     Concludo tornando a una domanda aperta. C’è il rischio che un’università
imprenditoriale possa tradire la propria missione pubblica e mettere in pericolo la libertà
della ricerca? Questo rischio esiste, e non è per caso che ho voluto parlare di ”università
che imprende”, e non di “università che si trasforma in impresa”.

     In altre parole, ritengo che possa essere pericolosa una entrepreneurial university
nella quale siano imprenditoriali la classe dirigente e la tecnostruttura, se ciò dovesse
ridurre docenti e ricercatori a “operatori della ricerca”, impegnati a produrre contratti,
timesheet, pubblicazioni, citazioni, brevetti e spinoff, preoccupandosi più della quantità che
della qualità e della rilevanza di quanto si produce.

     Diverso è, se a essere imprenditoriale non è l’università, intesa come istituzione,
quanto la collegialità della comunità accademica. È per questo che le tre dimensioni che
ho toccato in questa lectio (“formare imprenditori”, “creare imprese” e “imprendere”), sono
inscindibili tra loro. Senza imprenditori, non c’è intrapresa.

     Viviamo in una società e un’economia della conoscenza nella quale, a causa del
progresso tecnologico e della globalizzazione, gli standard richiesti a una società prospera
e competitiva sono sempre più alti. In questo contesto, una nuova scuola e una nuova
università animate da docenti, ricercatori e “imprenditori della conoscenza” sono le miniere
e le raffinerie che consentono a un Paese di competere e prosperare. Questo può
avvenire se sapremo assumere questo ruolo, accettando la sfida con serietà e coraggio.

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