"Primer retrato de cromo-holograma cilíndrico del cerebro de Alice Cooper" "First Cylindric Chromo-Hologram Portrait of Alice Cooper's Brain"
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“Primer retrato de cromo- holograma cilíndrico del cerebro de Alice Cooper” “First Cylindric Chromo- Hologram Portrait of Alice Cooper’s Brain”* … per sempre a squassare gli immaginari pigri e le etichette appiccicose * Il titolo è volutamente nelle due lingue madre dei protagonisti, in riferimento anche all’uso di più lingue mescolate da parte di Dalì
Il musicista Valerio Michetti, per accompagnare e definire la lettura, ha creato una esclusiva playlist dedicata a Dalì & Cooper: Dalì’s Hell Dalì Hologram of Alice Cooper “La tagliente performance di Alice Cooper del 1972 “School’s Out” in Top of the Pops” ha segnato la fine dell’obbrobrio Mary Whitehous 1 e un camion che trasportava un cartellone pubblicitario di Alice che indossava solo un serpente misteriosamente si ruppe ad Oxford Circus, causando il caos” attirarono la vivace attenzione di Salvador Dalì. Cooper: “I collaboratori di Dalí chiamarono il mio manager e spiegarono che aveva visto uno dei miei show” spiega Cooper. “Disse che gli sembrava di aver visto uno dei suoi quadri prendere vita, e che quindi voleva che lavorassimo insieme.“ Il Maestro invita Alice Cooper ad una cena e gli propone di posare per un servizio fotografico, vuole realizzare uno dei primi ologrammi al mondo, facendolo posare con “un cervello di gesso ricoperto di formiche sormontato da un éclair di cioccolato” posto su un cuscino di velluto dietro la testa di Cooper, che “sedeva su un giradischi rotante con addosso oltre un milione di dollari di diamanti dai famosi gioiellieri di Harry Winston sulla Fifth Avenue” e brandisce una statuetta con il “shish-kebabbed” della Venere di Milo come microfono. Dalí fin dall’inizio compie un’azione artistica, interpreta il suo surreale vissuto emotivo e la sua concezione del mondo, che supera il ruolo del pittore. È il Dalì che afferma: “Ogni mattina mi sveglio e, guardandomi allo specchio provo sempre lo stesso ed immenso piacere: quello di essere Salvador Dalì” a presentare il “Primo cromo-ologramma cilindrico del cervello di Alice Cooper“ in una lingua puramente inventata. Cooper stesso racconta: “Una parola era in italiano, una in francese, una in spagnolo e una in portoghese. Non aveva senso
in alcun modo. Riuscivi a capire un quinto di quello che diceva!“, ma Cooper era l’ascoltatore perfetto, da anni condivideva con Dennis Dunaway, bassista della sua band, una vera ossessione per il Maestro: “Dalí era il nostro eroe”. Dunaway: “Prima che arrivassero i The Beatles, lui era tutto ciò che avevamo. Guardavamo i suoi dipinti e ne discutevamo per ore. Al loro interno era contenuta anche una buona dose di ironia. Quindi, quando formammo la nostra band, venne piuttosto naturale prendere alcune delle sue immagini – come la stampella – e usarle nelle nostre performance.“ Si compie così l’inevitabile destino di uno dei più surreali e stupefacenti sodalizi artistici del XX secolo tra una 25enne rockstar destabilizzante, che concludeva i suoi macabri concerti con la sua decapitazione sulla ghigliottina, e il già grandissimo e celebrato Salvador Dalì, che vuole rendere entrambi i “sovrani dell’assurdo del pianeta Terra”. L’incontro si svolse all’Hotel St. Regis di Manhattan, un
edificio del 1904 frequentato da grandi nomi come Marlene Dietrich ed Ernest Hemingway, dove Dalí passava tutti gli inverni sempre nella stanza 1610, e dove nel 1971 aveva incontrato l’artista Selwyn Lissack , da cui apprese le nuove tecniche olografiche e la possibilità per l’arte di superare lo spazio lineare, ottenendo figure volumetriche. Dalì aveva già lavorato con la lente di Fresnel per ottenere immagini stereoscopiche, ma è il Premio Nobel del 1971 a Dennis Gabor per la sua ricerca sui laser, lo spinge definitivamente verso l’olografia. Con gli ologrammi riesce a dare il movimento all’opera in tre dimensioni, il dipinto esce dalla sua sede naturale e si pone sullo stesso piano dimensionale dello spettatore, creando un nuovo stato di aggregazione tra l’artista, l’opera e il pubblico. Lissak scrive: “Sapevamo che per introdurre l’olografia nel mondo come mezzo artistico, avremmo avuto bisogno di un artista noto che potesse comprendere gli aspetti tecnici dell’olografia. Sono stato affascinato da Salvador Dalì sin da quando ero bambino. La sua ossessione per la ricerca e la creazione in altre dimensioni e la sua grande comprensione della simmetria tridimensionale e della prospettiva su un piano piatto lo hanno reso la scelta perfetta.”. ( Testo completo, english version ) Per Cooper è l’epifania di se stesso come alter ego di quel Vincent Damon Furnier che scende dal palco per tornare a casa dopo un concerto, e della propria visione artistica, benedetta dalla geniale follia del Maestro del surrealismo integrale. “Alice Cooper”, con quel “nome che in qualche modo mi si era appiccicato addosso, evocava l’immagine di una ragazzina con un lecca lecca in una mano e un coltello da macellaio nell’altra”, materia dell’assurdo perfetta nelle mani di un visionario “che sa dipingere pazientemente una pera in mezzo ai tumulti della storia”. 4 Aprile 1973, Dalí si presenta nella sua personale
singolarità surrealista e celebra definitivamente il premeditato addio alla psicoanalisi freudiana e al “Metodo paranoico-critico”. L’intera realizzazione fa da palcoscenico all’ego smisurato di un artista poliedrico, che accoglie i mutamenti del tempo e muta se stesso in nuove forme d’arte, dove i confini tra cultura elitaria e cultura popolare si rimescolano, l’artista è primo attore e l’arte diventa spettacolo. Arrivò al King Cole Bar dell’Hotel St. Regis su una limousine bianca, che doveva abbinarsi alla sua candida veste ricamata in oro. Cooper, che arrivò con un ampio rifornimento di birra Michelob, racconta: “All’improvviso queste cinque ninfe androgine vestite di chiffon rosa fecero il loro ingresso. Erano seguite da Gala, la moglie di Dalí, che indossava un tuxedo da uomo con coda, un cappello a cilindro e portava un bastone d’argento. Poi arrivò Dalí. Lui indossava un gilet animalier (tipo pelle di giraffa), scarpe da Aladino dorate, una giacca blu di velluto, e calzini viola scintillanti che gli furono regalati da Elvis Presley.” Sempre totalmente liberato dalle regole del senso, Dalì entrò per ultimo pronunciando distintamente le sillabe “Da-lí… è qui!“. Ordinò per gli ospiti uno Scorpion servito in una conchiglia. Per sé chiese un bicchiere di acqua calda, lo
appoggiò su un piedistallo e cominciò a versarvi del miele, da una tasca estrasse un paio di forbici con cui ne tagliò il filo. Cooper: “Io e il mio manager ci guardammo esterrefatti. Realizzai a quel punto come tutto riguardasse Dalí! Il mondo girava intorno a lui. Io non lo stavo semplicemente incontrando. Stavo entrando nella sua orbita.“ Un uomo con cappello a bombetta arrivò con la una valigetta nera contenente la preziosa tiara e la collana di diamanti. I gioielli furono presentati da una modella protetta da una guardia del corpo armata di pistola. Dalí disse poi a Cooper di togliere la maglietta, indossare i gioielli, sedersi a gambe incrociate sulla pedana rotante e cantare usando il microfono-kebab-Venere di Milo. Dalí regala a Cooper l’opera “Il cervello di Alice”, la scultura di ceramica raffigurante un cervello umano con un pasticcino di cioccolata sul retro, su cui erano disegnate le formiche che componevano le parole “Dalí e Alice”. “The Alice Brain” è scomparso: “Cerco da sempre questo cervello” dice Cooper. “È il mio Santo Graal. Si può credere che qualcuno lo stia usando come fermacarte per quanto ne so. Pagherei qualsiasi cosa per averlo.” 21 aprile 1973, l’opera fu presentata alla Knoedler Gallery (una delle più antiche concessionarie d’arte di New York, fondata nel 1846, venne chiusa nel 2011, dopo 165 anni di attività). Excerpt of The Dali & The Cooper
Annie Leibovitz – “Dalì et Alice Cooper”, 1973 Oggi, “First Cylindric Chromo-Hologram Portrait of Alice Cooper’s Brain” si trova esposta al Dalí Museum a Figueres, in Spagna. Il Marchese Salvador Domingo Felipe Jacinto Dalí i Domènech ci ha lasciato il 23 gennaio 1989 ad 84 anni. Alice Cooper, che oggi è diventato “un cristiano che gioca a golf”, lo ricorda così: “Era il personaggio più bizzarro che io abbia mai incontrato, e ancora oggi dopo tanti anni ti senti vicino a lui. Lavorare con lui fu uno dei più importanti momenti della mia vita.”. Video indispensabili: Questo articolo esce in simultanea su La Bottega del Barbieri 1- Mary Whitehouse – all’anagrafe Constance Mary Hutcheson – fu una celebre attivista inglese che si impegnò per imporre moralità e decenza, secondo la sua idea (bigotta al massimo) di “cristianesimo”.
S1:E8 “Kowloon, l’Oceano parallelo di Roger Dean” Per accompagnare la lettura del sesto episodio della serie sui grandi designer di cover art, come di consueto Valerio Michetti ha preparato la sua esclusiva playlist: Mondi lontanissimi. La copertina di Aoxomoxoa (1969), creata da Rick Griffin per i Grateful Dead fu il “primo grande shock visivo” di Roger Dean, comprò l’album prima di possedere un giradischi. – William Roger Dean è nato il 31 agosto 1944 ad Ashford, Kent. Insieme al fratello Martyn e alle sorelle Penny e Philippa, è cresciuto tra Grecia, Cipro e Hong Kong al seguito del ruolo del padre, ingegnere dell’esercito. La storia naturale lo ha affascinato fin da piccolo e ad Hong Kong ha conosciuto il Shan Shui, l’antica arte della pittura paesaggistica cinese, che influenzerà in modo determinante il suo futuro d’artista e a cui dedico una breve parentesi: Shan Shui, ‘montagna e acqua’, le montagne sono vicine al cielo e sono le dimore degli immortali. Secondo la filosofia taoista, cielo e terra coesistono in perfetta armonia generando l’immenso flusso cosmico della natura, rispetto al quale gli esseri umani sono insignificanti. L’antica pittura paesaggistica cinese esprime questa filosofia ritraendo la relazione tra il creato e il cosmo, con estrema venerazione per le forze della natura e rispetto per equilibrio tra yin e yang: le montagne sono alte e forti e rappresentano lo yang, mentre l’acqua, morbida e fluente, rappresenta lo yin. Nello Shan Sui l’artista deve rappresentare sia la forma sia lo spirito del soggetto, ne deve catturare il significato interiore; il fenomeno naturale deve essere dipinto creando armonia tra il suo animo e la sua energia. Le tracce lasciate dal Shan Shui saranno evidenti nel lavoro di Roger Dean, che ha affermato come il paesaggio “e i percorsi che lo attraversano”, sono la sua più grande influenza e fonte di ispirazione:
“Un giovane ragazzo scala una ripida collina di notte. Con cautela, si fa strada tra i grovigli di macchia sparsa che si aggrappano al lato di Lion Rock; dal suo punto di vista può vedere Kowloon diffondersi davanti a lui, il cui nome deriva dai “nove draghi” rappresentati dai picchi montuosi che circondano la zona. Subito sotto, l’ultima casa dell’alloggio riservato al personale dell’esercito britannico a Hong Kong, dove vive con i suoi genitori, si rannicchia nella criniera di Lion Rock. Sotto i suoi piedi il tempo si ferma, lo scorrere di milioni di anni si solidifica nel granito. Sopra di lui, una miriade di stelle lontane ammiccano attraverso il bagliore perlescente di una gloriosa notte di luna. È stato semplicemente magico”. Così racconta Roger Dean di una notte che simboleggia il suo desiderio di connettersi con l’ambiente costruito e con l’ambiente naturale insieme. “I just loved pathways and landscapes. It was burned into my soul, if you like,” Nel 1959 torna in Inghilterra con la famiglia, frequenta la Ashford Grammar School e nel 1961 il Canterbury College of Art, dove si diploma in Design. Prosegue gli studi al Royal College of Art, dove si laurea nel 1965. Ancora studente, Dean crea il design della “Sea Urchin Chair”, progetto studiato e completato nel 1967 al Royal College in collaborazione con Cherrill Scheer e di cui ha depositato il brevetto nell’anno successivo, una sedia che si comprime che si adatta completamente alla forma di chi la utilizza. Oggi la sedia fa parte della collezione permanente del Victoria and Albert Museum. Il primo lavoro dopo il college gli viene commissionato nel 1968 dalla Ronnie’s Scott Jazz Club di Londra, per cui disegna le poltroncine panoramiche del secondo piano rialzato. Questa è l’occasione che lo introduce nel fantastico mondo delle copertine dei vinili, Dean stesso racconta che: “Vedendo il mio sketchbook, Ronnie Scott mi chiese se volessi disegnare la copertina per una band di cui era produttore:The Gun, e io
l’ho fatto.”. Subito dopo crea la copertina e il logo per Osibisa, una band formata da musicisti provenienti da Ghana, Nigeria e Caraibi che produce musica afrobeat. Dean illustra la copertina del loro primo vinile con surreali animali ibridi elefanti-insetti in una tundra dalle sfumature arancio infuocato. Un quadro apparentemente in contrasto con il nome della band e titolo omonimo del progetto musicale, “Osibisa” è traducibile con “ritmi incrociati che esplodono di felicità”, la cui visione invece ci porta a respirare l’armonia cosmica di uno scenario in cui un personaggio surreale agisce e si muove in un quadro realistico, componendo un intreccio narrativo perfetto con il contenuto musicale, incredibilmente senza alterare la percezione spazio-temporale dello spettatore. Osibisa
Nel 1970 Dean disegnò il logo per l’etichetta indipendente Fly Records e creò per il loro musicista Marc Bolan la copertina di un singolo; le circostanze lo costrinsero a scrivere a mano le note di copertina e i testi. Un caso che diventò un successo e una tecnica che continuò ad utilizzare anche in seguito, non apprezzerà più la progettazione grafica classica: “Non sembra pulito e moderno. Sembra grigio, noioso e aziendale. Ovunque guardassi c’era un mondo grigio e sterile, ma i vestiti molto colorati, la musica fantastica, l’intera cosa di Age Of Aquarius che era nell’aria in quel momento, portava colore e speranza. Dal punto di vista tecnologico, le cose erano ugualmente eccitanti. 2001: Odissea nello spazio di Kubrick è stato girato quando ero uno studente e il Concorde stava per volare. Come studenti, siamo andati a Bristol per vedere che era in costruzione e, naturalmente, subito dopo aver lasciato il college, gli uomini stavano camminando sulla luna”. Ormai sedotto dal mondo della musica, si propose a Phil Carson di Atlantic Records, che lo scelse per la copertina del quarto album degli Yes: “Fragile”, primo album con Rick Wakeman. Nacque così la storica avventura tra Dean e gli Yes, che ci ha regalato una collaborazione artistica senza precedenti, un sodalizio in cui il lavoro visuale è la magnifica estensione della produzione musicale, il chitarrista del gruppo Steve Howe disse: “C’è un legame piuttosto stretto tra il nostro suono e l’arte di Roger”. Dean: “Volevo che i dischi fossero rivestiti da immagini che riflettessero gli ambiziosi mondi sonori che stavano tentando di creare.”
Fragile – Yes Dean non disegna semplicemente un’immagine per la copertina, ci catapulta in un nuovo orizzonte tematico trasformando il titolo in una storia di fragilità, che conduce in un mondo fantastico, lega il modulo musicale ad una storia visionaria “su un bambino che sognava di vivere su un pianeta che si stava disgregando, ha dovuto costruire un’arca spaziale per trovarne un altro su cui vivere, e ha portato con sé tutti i pezzettini del pianeta “. Un mondo utopico costituito da magia, natura e una forte componente tecnologica retro-futuristica, punto di arrivo di un lungo percorso di ostilità verso i rigori della conformità e del design moderno, che considera “Un sistema di credenze con manie di razionalità” e che risale al periodo di studio di design industriale al Canterbury College Of Art; negativamente impressionato dal dominio della scuola di architettura brutalista, affermò: “Perché diavolo progettiamo case per le persone che sono scatole? Mi è stato detto che avrei dovuto leggere The Modulor di Le Corbusier. L’ho letto e ho pensato: “Che stupefacente carico di stronzate!”. Da questo momento in poi Dean ha curato quasi tutte le copertine degli Yes, insieme al fratello Martyn ha progettato anche le scenografie di moltissimi loro concerti. Dopo le copertine di Fragile e Close to The Edge, nel 1972, durante un
viaggio in treno, per gli Yes ha creato l’iconico logo “bolla”. Nel 1973 disegna la copertina simbolo di “Tales from Topographic Oceans“, che resta una delle più conosciute e riconoscibili, un’opera che trasfigura l’unione perfetta tra musica ed arte visuale. Dean stesso ce ne descrive la base concettuale e sottolinea ancora una volta la natura del suo lavoro: “Beh, i paesaggi sono sempre stati la mia ispirazione e continuo a pensare a me stesso principalmente come un paesaggista. Tales from Topographic Oceans… ero davvero io che cercavo di trasmettere il mio entusiasmo per i paesaggi.”
Tales from Topographic Oceans Il suo lavoro con gli Yes e le sue visioni ultraterrene costituiscono una pietra miliare che segna la storia del design delle confezioni dei vinili e sono ancora oggi fonte di ispirazione in numerosi ambiti; tra gli altri il suo libro “Views” (1975), pubblicato con Dragon Dream, casa editrice fondata dallo stesso Dean in società con gli olandesi Chevalier, fu a lungo al primo posto nella lista dei best seller del New York Times e venne utilizzato per ispirare il design delle scenografie di Star Wars, Episode IV – A New Hope (1977).
Disegna copertine per Gentle Giant, Asia, Atomic Rooster, Uriah Heep, Greenslade e moltissimi altri. Ma la sua è una carriera prolifica e poliedrica: nel 1981 sviluppa con il fratello Martyn il progetto “Tectonic House” esposto all’International Ideal Home Exhibition di Birmingham. Una soluzione abitativa futuristica nata dalla famosa “Retreat Pod“, presente anche nel film di Stanley Kubrick “A Clockwork Orange.” Nel 2004 lavora alla sua idea architettonica “Homes for Life“, case futuristiche dal design a base curva, totalmente prive di angoli retti, da produrre in serie a prezzi competitivi. Retreat pod – arancia meccanica Negli anni ’80 collabora allo sviluppo del videogioco “The Black Onyx” di Henk Rogers, realizzando circa 4000 tavole insieme al fumettista Michael Kaluta. In seguito lavora alle copertine per Shadow of the Beast e Obliterator di Psygnosis, crea la copertina di Tetris Worlds e riprogetta il logo di Tetris. Disegna il logo della Virgin Records e molti altri, la sua “Logo Collection” è degna di un pellegrinaggio virtuale. Nel 2002 riceve il dottorato honoris causa dalla Academy of Art University di San Francisco, nel 2009 una borsa di studio onoraria dalla Arts University Bournemouth, nel 2013 il Gold
Badge of Merit dalla British Academy of Songwriters, Composers and Authors. Nel carnet di Roger Dean sono presenti molte pubblicazioni, tra cui libri: “Magnetic Storm”, nel 1984, dove sono raccolte le opere realizzate in collaborazione con il fratello Martyn; “Album Cover Album”, che ripercorre la storia delle cover album, realizzato in collaborazione con il design team di Hipgnosis, Dominy Hamilton, David Howells e Storm Thorgerson. Dean vanta una galleria permanente nel Regno Unito, la Trading Boundaries, interamente dedicata al suo lavoro con opere originali e stampe, schizzi e disegni in edizione limitata. Negli Stati Uniti è rappresentato dalla San Francisco Art Exchange. … Chiudo questo articolo con dei poetici puntini di sospensione, con il proposito di tornare a viaggiare nel mondo fantastico di Roger Dean. Roger Dean Final Roger Promo Sito ufficiale
Canale youtube Roger Dean in conversation Kim Ki-duk 11 dicembre 2020, pochi giorni prima del suo 60esimo compleanno, la tensione vitale di Kim Ki-duk si è spenta. Kim Ki-duk è uno dei registi asiatici più conosciuti nel panorama cinematografico contemporaneo. Artista di rara complessità, dotato di sensibilità profonda e radicale, è un poeta che respira in modo estremo, sebbene persista in lui un’elegante raffinatezza percettiva. Il suo è un cinema fondato dalla tensione tra delicate emozioni ed esplosioni di violenza, elementi separati che si attraggono reciprocamente, generando un flusso di energie instabili, ma che inspiegabilmente tendono a una situazione di equilibrio. Nato nel 1960 a Bonghwa, una piccolo villaggio della Corea del Sud che dista 170 km dalla capitale, a nove anni si trasferisce con la famiglia a Seoul, dove in seguito frequenta un istituto professionale per l’agricoltura. A diciassette anni, per le condizioni di povertà in cui versa la sua famiglia, è costretto a lavorare in una fabbrica, che lascerà a vent’anni per arruolarsi in marina, dove resta per i successive cinque. È il periodo in cui si avvicina alla religione con l’intenzione di diventare predicatore, ma nel 1990 abbandona tutto e si trasferisce a Parigi per approfondire la passione per la pittura e riesce a mantenersi vendendo i suoi quadri. “Arrivai in Europa perché volevo fuggire dalla società
coreana, e da casa”, dice oggi. “Mio padre è un veterano della Guerra di Corea. Subì torture psicologiche e fisiche da parte della Corea del Nord. Riuscì a tornare a casa, con quattro pallottole in corpo, solo dopo uno scambio di prigionieri. Ma non fu più la stessa persona: era pervaso da un senso di sconfitta e da una rabbia inaudita che scaricava quotidianamente su di me. Ero terrorizzato da mio padre, ma crescendo compresi che anche lui era soltanto un’altra vittima della società. I postumi di quella guerra si patiscono ancora oggi in Corea del Sud, nessuno però ne vuole parlare. Per questo ho deciso di fare film che avessero al centro questi temi: la violenza, l’odio, i traumi, la solitudine, l’incapacità di comunicare. Situazioni che ho vissuto sulla mia pelle, ma che parlano di tutta la mia patria”.
Nel 1993 inizia ad avvicinarsi al cinema, scrive sceneggiature e vince il premio dell’Educational Institute of Screenwriting con la stesura di “A Painter and a Criminal Condemmed to Death”. Cede del tutto al potente richiamo del cinema, nel 1996 esordisce con il film Crocodile, ambientato in Sud Corea, che già rivela in modo esplicito quali sono e saranno i temi centrali del suo lavoro: violenza, sesso e dolore. Sono elementi chiave della sua narrazione, li ritroviamo intatti in Wild Animals, girato a Parigi (1997), e in Birdcage Inn (1998).
La componente distruttiva presente nella psiche umana, in contrapposizione alla vitalità sensuale dell’eros genera un brutale processo di tensione e di violenza, che spesso trova soluzione solo nella morte. “Mi pongo sempre una domanda: cosa è umano? Cosa significa essere umano? Forse la gente considererà di nuovo brutali i miei nuovi film. Ma questa violenza è solo un riflesso di ciò che sono realmente, di ciò che è in ognuno di noi in una certa misura “. Nel 2000 è presente al Festival di Venezia e al Sundance Film Festival con “L’isola”, che gli apre le porte della fama internazionale. Nello stesso anno Kim Ki-duk celebra la strenua ricerca di innovazione percettiva e di realizzazione con “Real Fiction”, girato 200 minuti con dieci cineprese e due videocamere digitali. Il rapporto tra i personaggi e lo spazio vitale non consente loro di fuggire dai propri stati d’animo, così ne possiamo conoscere “desideri, ossessioni, paure che lì diventano quasi tangibili”. L’indagine su questi contrasti di forze devastanti è presente anche ne: “Indirizzo sconosciuto” (2001), “Bad Guy” (2001) e “The Coast Guard” (2002). “Spesso hanno criticato il fatto che nei miei film non si parla molto. Questo è perché racconto persone ferite, che hanno perso fiducia nell’altro. Così la violenza che è un’altra accusa che fanno ai miei film, non è un semplice gioco estetico. Per me è necessaria, è l’unica forma che esprime la crudeltà della vita, la sua tristezza e disperazione.” Nel 2003 esce “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera”, un film fortemente simbolico, che sorprende per l’inquietante senso di pace evocato dalla splendida fotografia, davanti alle immagini perfettamente poetiche, sfuma lievemente l’intensità della violenza. Nel 2004 gli vengono assegnati l’Orso d’Argento alla regia al Festival di Berlino per “La samaritana” (2004), e il Leone
d’Argento al Festival di Venezia per “Ferro 3 – La casa vuota”. È presente nel 2005 al Festival di Cannes con “L’arco”, segue “Time” (2006), “Soffio” (2007). L’anno successivo vede la luce “Dream”; durante le riprese l’attrice protagonista Lee Na-yeong è stata vittima di un incidente sul set, durante la scena nella quale simula il suicidio per impiccagione. Kim Ki-duk resta traumatizzato da questo evento, si ritira in solitudine e vive un periodo di profonda depressione. Riuscirà a vincere il grave tormento soltanto tre anni dopo con una lunga confessione-documentario: “Arirang”, dove espone un’intensa riflessione sull’arte e sulla vita, che approfondirà con il successivo “Amen”. Nel 2012 realizza “Pietà”, per il quale viene insignito del Leone d’Oro al Festival di Venezia, dove negli anni successivi presenta fuori concorso “Moebius” (2013) e “One on One” (2014) con cui apre la selezione delle Giornate degli Autori; seguiranno “Stop” (2015) e “Il prigioniero coreano” (2016), che apre sezione denominata Cinema nel Giardino. Muore in Lettonia, per le complicazioni dovute al maledetto Covid-19. S1:E7 “Peter Blake, Mr. Sgt. Pepper” Valerio Michetti ha preparato l’esclusiva playlist che accompagnerà la lettura del quinto episodio della serie sui
grandi designers delle copertine per dischi: Ufo Club Experience Ci occupiamo di una pietra miliare: Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band /Beatles, una delle copertine più conosciute e popolari del secolo scorso. L’album dei Beatles è ancora oggi uno dei dischi più celebrati, anche e soprattutto per l’impatto visivo della sua copertina. Il suo autore è Sir Peter Blake, pittore e precursore della Pop Art inglese, influenzato da Jasper Johns e Robert Rauschenberg; insieme a David Hockney, Patrick Caulfield e Richard Hamilton, mostra un chiaro interesse per le immagini della cultura popolare, il suo lavoro non rifiuta nuovi mezzi d’arte per ottenere opere di grande valenza grafica. Nato nel 1932 a Dartford, nel Kent, studia alla Gravesend Art School tra il 1948 e il 1951, cui segue un periodo di tre anni di servizio militare nella Royal Air Force, da cui si congeda nel 1953 per continuare gli studi al Royal College of Art. Nel 1956 vince la borsa di studio “Leverhulme Research Award”, che gli permette di studiare arte popolare per un anno, viaggiando tra Olanda, Belgio, Francia, Italia e Spagna. Partecipa a diverse esposizioni presso la Royal Academy of Art di Londra: nel 1955 “Young Artists Exhibition ‘Daily Express’, nel 1958 “Five Painters at the Institute of Contemporary Arts”, nel 1961 “John Moores Liverpool Exhibition”, dove viene premiato come miglior artista Junior. La sua prima mostra personale fu nel 1962, alla Portal Gallery di Londra. Le due importanti opere che lo inseriscono inequivocabilmente nella corrente della Pop Art sono On The Balcony (1955) e Self Portrait with Badges (1962) e fanno di Blake una figura fondamentale della scena artistica britannica degli anni sessanta. La sua impronta grafica è neoavanguardista, respira
l’evoluzione tecnologica, è un artista contemporaneo e vuole rischiare, con la ferma volontà di creare il nuovo attingendo e coinvolgendo ogni sfumatura percettiva. Sceglie la tecnica mista, fonde fotografia e pittura per ottenere la celebre figurazione che ruota intorno agli idoli dell’immaginario collettivo. Crea “metapicture”, immagini dipinte dentro altre immagini, stratificate, al contempo indistinte e fortemente caratterizzate, che diventano il suo tratto distintivo. Copertina del disco Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band Peter Blake approda in modo inaspettato al mondo della musica, con la copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.
Inizialmente l’incarico venne affidato a un’agenzia pubblicitaria londinese, la Geer-DuBois, che propose la novità della confezione apribile e la stampa dei testi delle canzoni. Per la grafica, in prima istanza vennero coinvolte due giovanissime illustratrici olandesi, Josje Leeger e Marijike Koger: The Fool, conosciute per l’uso spregiudicato del colore nei murales psichedelici e surreali, autrici delle facciate dell’edificio della Apple Boutique in Baker Street. Il bozzetto che presentano viene descritto dallo stesso Blake “un collage psichedelico con un turbinio di arancione, verde e viola, una cosa abbastanza in linea con altre del periodo”, poco convincente e dalle proporzioni inadatte, bocciato dal parere finale di Robert Fraser, gallerista nel West End, noto mercante d’arte che, secondo lo stesso Paul McCartney: “A parte John, è la persona che ha avuto su di me la più grande influenza formativa”, aveva venduto a Paul alcuni dei suoi Magritte, fra i quali Au revoir, che avrebbe poi ispirato il logo della Apple. Fraser propose due artisti del suo giro, Blake e sua moglie Jann Haworth, scultrice americana. Blake e Haworth coinvolgono il fotografo Michael Cooper, ritrattista di Marcel Duchamp, Renè Magritte, Claes Oldenburg, Robert Rauschenberg, e conosciuto nel mondo rock i servizi fotografici sui Rolling Stones [sua la copertina di Their Satanic Majesties Request. Cooper morirà suicida nel 1973, lasciando un archivio di oltre 17.000 scatti. I tre studiano il concept dell’album e lo traducono nella celeberrima opera british-pop: un condensato di creatività composto da 73 personaggi storici e 16 oggetti totalmente eterogenei disposti su più livelli. Sulla base di un terreno con peperomia, giacinti, capelvenere, kenzie e azalee, piante fiorifere rosse formano la scritta “Beatles”, su cui si posa la grancassa che fa da nucleo alle figurine dei Fab Four, baffuti e vestiti di coloratissime livree militaresche create dal leggendario costumista Monty M. Berman.
“Abbiamo ordinato le cose più pazze ispirate a casacche militari. Era da Berman che ti mandavano se stavi girando un film e cercavi qualche abito particolare. Volevamo una divisa Edoardiana o ispirata alla guerra di Crimea. Abbiamo scelto le cose più eccentriche e le abbiamo messe insieme.” Paul McCartney Intorno alcune statue di cera del Madame Tussauds, tra cui notiamo a sinistra ancora i Beatles, ma nella versione primordiale in nero e capelli a caschetto. Le altre figure a riempire la profondità dell’opera, sono in masonite a grandezza naturale, su cui sono state applicate immagini di repertorio ingrandite, lasciate in parte in bianco e nero, in parte dipinte a mano come vecchie cartoline dalla stessa Jann Haworth. Blake racconta: “Ho discusso con i Beatles fin nei minimi dettagli per capire come doveva essere quella copertina. Ho capito che doveva rappresentare il momento della fine di un concerto, sul palco di un parco. Il mio contributo sarebbero state le sagome a grandezza naturale: quella folla magica”. E ancora: “Tutte le figure che si vedono dietro ai Beatles occupano in profondità uno spazio di circa mezzo metro; davanti a loro una fila di manichini di cera. I Beatles in carne e ossa stavano su una piattaforma lunga circa un metro e mezzo con di fronte una batteria, più avanti un tappeto erboso con una composizione floreale inclinata in un certo modo. Tutta l’installazione era profonda solo quattro metri e mezzo. Chiedemmo ai Beatles di metterci i loro oggetti preferiti. La cosa non funzionò molto, forse non mi ero spiegato bene; per esempio Paul decise che i suoi oggetti preferiti erano degli strumenti musicali e ne affittò un gran numero, arrivando con una camionata di corni francesi e trombe e altre cose meravigliose – ma erano veramente troppe, così ne usammo solo uno o due.” Ma non finisce qui, ai posteri un’opera d’arte più complessa e innovativa, un fold out a quattro facciate mai visto fino a
quel momento, è un manifesto pop, dal lettering iconico e premonitore della futura egemonia della comunicazione pubblicitaria. Le due facciate interne sono interamente occupate dal ritratto su fondo giallo dei quattro Beatles. All’interno le rarità, la busta di carta disegnata da The Fool nella prima edizione, e due tasche, una per il vinile, una per il cartoncino con il Sgt. Pepper cuts out: i baffi, i distintivi, i galloni, due badges e le figurine dei Fab Four. Infine la quarta di copertina presenta il testo dei tredici brani su fondo arancione, corredati da un’altra immagine dei Fab Four. Neil Aspinall racconta: “Il retro della copertina richiese molto tempo perché c’era l’idea di mettere i testi in una certa sequenza. Camminavo con Paul nel West End, e ci scervellavamo per trovare parole o una frase compiuta usando la lettera iniziale del titolo di ogni canzone. La prima era la S di Sgt. Pepper, e a quel punto ci serviva una vocale; ma non venne fuori nulla, così i testi vennero riportati nello stesso ordine del “sequencing” delle canzoni.”
A sinistra: Sweet Child, Pentangle; a destra: Peter Blake – Face Dances, Who La copertina rese famoso Peter Blake, ma per il lavoro l’artista e sua moglie ricevettero solo 200 sterline, per anni la questione ebbe solo esiti negativi e oggi Blake non ne discute più. In seguito Blake ha lavorato ancora con i Beatles: The Beatles, (63-68), acrilico su foto di giornale con lo spazio bianco per gli autografi. Ha lavorato anche con altri artisti del mondo del rock: sue le copertine di Sweet Child (Pentangle, 1968), dei singoli dei Band Aid, Do They Know It’s Christmas? (1984), di Face Dances (Who, 1981), di Stanley Road (Paul Weller, 1995), di Brand New Boots And Panties (2001, Ian Dury, che in gioventù era stato allievo di Blake al Royal College Of Arts), della antologia Stop the Clocks (Oasis, 2006). Nel 2008 eseguì una nuova versione aggiornata di Sgt. Pepper, con le figure più famose dalla storia di Liverpool, per sostenere la candidatura della città come capitale della
cultura europea.
In alto a sinistra: Stanley Road, Paul Weller; in alto a destra: New Boots and Panties! Ian Dury; in basso: 5 Stop the Clocks, Oasis Nel 1969, lasciò Londra, tornò a lavorare alle figure della tradizione popolare inglese e Shakespeariana. Illustrò il romanzo di Lewis Carrol: “Through the looking-glass”, Nel 1975 fondò il Collettivo Brotherhood of Ruralist, gruppo di artisti votati al preraffaelismo, di cui suggeriamo eventuale approfondimento a questo link. Dieci anni dopo Blake tornò a Londra per ritrovare la direzione pop degli albori e nel 2005 ha aperto la Blake Music Art Gallery presso la School of Music dell’Università di Leeds, dove nel 2011 verrà insignito del titolo onorario di Doctor of Music e del grado onorario di Dottore d’arte presso
la Nottingham Trent University. Nel 2014 ricevette il titolo di Accademico Onorario dalla Royal West of England Academy di Bristol. Approfondimenti: Sir Peter Blake, official page Blake at the Tate Gallery Intervista a Blake su Nerve, magazine di Liverpool, autunno 2006 Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club – dettaglio dei personaggi e degli oggetti in copertina S1:E6 “Peter Saville – JOY – Nothing but a Fool” vai alla prima parte vai alla seconda parte Playlist per JOY|Saville parte terza: Alea iacta est: il dado ormai è tratto e non si torna indietro, la new wave e il post punk dal 1977 (riconosciuto universalmente come anno di svolta) hanno dato alle fiamme tutto e hanno fatto proseliti… (Valerio Michetti) Il percorso attraverso la carriera di Peter Saville, porta
inevitabilmente al suo lavoro con i Joy Division, subendo una volta in più l’ondata di emozioni che ci travolge ogni volta che guardiamo quelle copertine e ascoltiamo la loro musica. Il 1979 è l’anno di Unknown pleasure. Pausa, respiro lungo, lento e profondo. Unknown pleasure Peter Saville attinge alla Cambridge Encyclopedia Of Astronomy e prende l’immagine dei cento impulsi consecutivi della prima stella “pulsar” mai scoperta, la CP1919, composta di neutroni, derivanti dal collasso gravitazionale di una stella massiccia durante un’esplosione stellare supernova. Il 28 novembre 1967, Jocelyn Bell Burnell e Antony Hewish osservarono degli impulsi di onde radio dal cielo provenienti dalla costellazione di Vulpecola, intuirono che non poteva essere un’origine artificiale a causare questa “interferenza” magnetica. Hewish e Burnell dubitarono di aver colto le prove
di una civiltà aliena, ma in virtù dell’origine misteriosa del segnale, lo battezzarono LGM-1, “Little Green Men”. Saville riflette l’immagine in negativo, ne riduce le dimensioni per sovrapporla allo sfondo nero e la stampa su carta testurizzata, ottiene un effetto di movimento fluttuante dolce e malinconico, davanti al quale siamo disarmati. La lega così alla bellezza e alla solitudine della musica dei Joy Division, che ci arriva da lontane profondità insondabili, la radiazione poetica ci rende totalmente succubi dell’impatto emotivo cosmico. L’immagine è ipnotica, ci porta alle pulsazioni del basso di Peter Hook, il richiamo ad un grafico sismico rievoca suoni la chitarra di Bernard Sumner, lo sfondo nero è la voce di Ian Curtis in cui tutto si fonde: ecco a noi FACT 10, Joy Division, Unknown Pleasures. “È un’immagine sia tecnica che sensuale. È tesa come la batteria di Stephen Morris ma è anche fluida: molti sono convinti che rappresenti il battito del cuore” (P. Saville) Lo stesso Saville ne spiega il processo creativo in questo video (english language): Data Visualization, Reinterpreted: The Story of Joy Division’s “Unknown Pleasures” Album Cover Nel Giugno del 1980, esce il singolo “Love Will Tear Us Apart”, anticipa il rilascio del secondo album del gruppo “Closer”, che uscirà il 18 luglio, registrato tra il 18-30 marzo alla Britannia Row Studios di Islington di Londra. This is the way, step inside.
Closer Nel caso di Closer, all’immagine, alla tecnica di Saville si aggiunge la storia: è proprio questo ultimo fattore che rende l’artwork di oggi non soltanto bello, adatto, ma tragicamente solenne. Saville sceglie un’immagine della tomba monumentale della famiglia Appiani presso il cimitero di Staglieno, ne è autore lo scultore genovese Demetrio Paernio, che la realizzò nel 1910. Le figure sono prostrate dal dolore, avvolte da delicati tessuti, le cui pieghe danno forma al lutto, magistralmente rilevate dai chiaroscuri della fotografia che
il francese Bernard-Pierre Wolff eseguì 1978. Un’immagine elegantissima, dotata di leggerezza devastante, attraverso cui entriamo in una dimensione di calma disperazione, la silente quiete dopo le assurde tempeste della vita. La copertina assume un valore promonitore, è stata realizzata poco prima del tragico suicidio di Ian Curtis, avvenuto a soli 23 anni, due mesi prima dell’uscita del singolo. Fu difficile per Saville sopportare il peso premonitore del suo lavoro. Saville raccontò in seguito: “Credo che a Ian andassero bene. Forse, se mi avessero mandato le bozze dei testi e se avessi avuto una certa sensibilità, avrei pensato di non insistere su quell’argomento. E magari avrei proposto degli alberi…” “Just for one moment, thought I’d found my way Destiny unfolded, I watched it slip away” In questa terza ed ultima parte, il cuore mi ha portato a soffermarmi su questi due capolavori di Peter Saville, sono due pietre miliari del rock design, due perle dell’ impressionante quantità di opere che Saville ha generato. Ha lavorato a lungo con Orchestral Maneuvers in the Dark, non meno longeva è stata la collaborazione con Ultravox. Nel 1984 realizzò la copertina del celebre singolo degli Wham! “Wake Me Up Before You Go-Go”. Nel 1986 ricevette una delle somme più alte mai pagate per la realizzazione della copertina dell’album So di Peter Gabriel. Dopo Factory Records ha lavorato per DinDisc e Virgin, nel 1990 è partner owned di Pentagram, nel 1993 va Los Angeles per lavorare con la Frankfurt Balkind. Torna a Londra lavora per tre anni con Howard Wakefield presso “The Apartment” in collaborazione con la tedesca Meiré & Meiré. Il suo appartamento modernista a Mayfair diventa il doppio studio e viene rappresentato nella copertina
dell’album This Is Hardcore dei Pulp. Infine ha fondato con Brett Wickens la propria agenzia di design: Peter Saville Associates. Gli sono stati assegnti tre premi D&AD, il Royal Designer for Industry e la London Design Medal. Nel luglio 2019 Saville è stato protagonista del programma della BBC Radio 4 Only Artists. Nel 2020 Saville è stato nominato Comandante dell’Ordine dell’Impero britannico (CBE), per il contributo reso al design.
Peter Saville S1:E5 “Peter Saville – OUTPUT
– Gutta cavat lapidem” vai alla prima parte Playlist per OUTPUT|Saville – parte seconda: Gutta cavat lapidem La necessità di cambiare le carte in tavola nel mondo del rock, da parte di artisti che volevano imporre un nuovo linguaggio creativo, lo hanno fatto con costanza e determinazione, come una goccia che scava la “roccia”.(Valerio Michetti) La Factory di Wilson e Saville risponde all’urgenza di trovare “spiriti affini che potessero capire e reagire” [Post Punk: 1978-1984, Simon Reynolds] Le scelte grafiche permetteranno alla Factory e ai gruppi che rappresentano di fare da confine con l’era post punk, figli di un’eleganza austera, spezzano la prospettiva romantico pre punk e lo stereotipo new wave. Costruiscono il profilo visuale della loro vocazione neo modernista, hanno un catalogo irragionevole e sballato, pieno di idee fasulle e di progetti mai realizzati benedetti da dio Duchamp: Fac 8 era una clessidra mestruale ideata e mai prodotta da Linder Sterling; Fac 99 era il conto del dentista di Robert Gretton, codirettore della Factory. “Per Wilson, questo genere di trovate rientrava nello spirito del situazionismo, lo spirito francese anarco-dadaista degli anni sessanta, le cui idee ammirava particolarmente” [Post Punk: 1978-1984, Simon Reynolds] È una visione dell’arte che butta giù i muri che la separano dallo scenario quotidiano che circonda l’artista, oggetti decontestualizzati prendono vita e sono protagonisti altrove, come il segnale di pericolo rubato dalla residenza universitaria, cui si ispirò per la realizzazione del
manifesto della Factory, disegnato nel maggio del 1978: Fac 1, opera classico-modernista che possiamo far rientrare nella corrente dello “sleeve design”. Stampa giallo su nero per i concerti di maggio/giugno ’78, le bands in primo piano erano: Joy Division, Durutti Column, The Tiller Boys, Cabaret Voltaire, Jilted John, Big In Japan e Manicured Noise. fac 1 – poster factory La prima produzione fu Fac 2: “A Factory Sample”, doppio ep Factory ?– Gatefold Sleeve (Various artists: Joy Division, The Durutti Column, John Dowie, Cabaret Voltaire) con la copertina argentata e pieghevole, che Paul Morley descrisse così: “Era
così speciale, il fatto che fosse così bello dimostrava quante possibilità esistessero.”
A Factory sample Anti intellettuali di grande cultura, scettici verso l’arte istituzionale, Saville e i suoi si ornano di un velo di situazionismo rifiutando il concetto del profitto, i gruppi non firmavano contratti e rimanevano proprietari della loro musica, al fine di raggiungere una specie di perfezione estetica spesso disastrosa, le copertine erano a volte così costose da uccidere ogni possibilità di profitto, come il celebre caso della copertina del singolo Blue Monday, dei New Order. Questa copertina ebbe un grandissimo impatto comunicativo, nacque da un floppy disc poggiato su un piano dello studio di registrazione della band. Saville è attratto dalla semplicità dell’oggetto e dalla sua simbologia evocativa, al tempo diffusissima novità tecnologica dai molti utilizzi, la
copertina è piena della sola immagine stilizzata di un floppy, nessuna riferimento alla band, al titolo, all’etichetta. Le informazioni sono sul retro in un’unica scritta: “FAC SEVENTY THREE”, unita a una serie di blocchi colorati, all’interno troviamo una seconda copertina argentata fustellata. La realizzazione costò alla Factory records la perdita di 5 pens a cover. Le ristampe successive subirono un’ottimizzazione finalizzata alla riduzione dei costi, nelle riedizioni del 1988 e 1995, la fustellatura venne sostituita da una stampa color argento. Blue monday, New Order Blue Monday è tratto da Power Corruption And Lies, dei New Order, trova ispirazione in una semplice cartolina della National Gallery, raffigura “A Basket of Roses” una natura morta dipinta ad olio nel 1890 dal pittore francese impressionista Fantin Latour: «Il titolo del disco sembrava
machiavellico. Così sono andato alla National Gallery a cercare un ritratto rinascimentale di un principe oscuro. Alla fine però mi sembrava troppo banale, così ci ho rinunciato e ho comprato delle cartoline al negozio di souvenir. Era un’idea meravigliosa. I fiori suggerivano come potere, corruzione e menzogne si infiltrano nelle nostre vite. Sono seducenti» Sul retro Saville cita la mercificazione dell’arte, inserisce un codice da decifrare attraverso la ruota cromatica che riempie la seconda di copertina. Il codice cromatico risolto risponde alla scritta “FACT 75”, 75esima release di Factory Records. Power Corruption and Lies, New Order, un’unica immagine con
fronte retro Più di ogni altra copertina che ha realizzato, Technique testimonia la decontestualizzazione postmoderna dell’idea di Saville. Nel 1989 vide la scultura di pietra di un cherubino in un mercatino dell’antiquariato di Pimlico Road, un’immagine perfetta per rappresentare il sentimento materialista e libertino che si stava affermando in quel periodo, in cui musica e arte si coprono di un manto di edonismo, nell’abuso di droghe bramano piacere e pace dei sensi. La scultura venne fotografata da Trevor Key, stretto collaboratore di Saville, e divenne il soggetto perfetto dell’opera FAC 289, New Order, Technique campaign, febbraio 1989. Technique, New Order segue…
S1:E4 “Peter Saville – INPUT – Utilitas Firmitas Venustas” “C’è una citazione di Claes Oldenburg: “Sono a favore di un’arte che nasce senza nemmeno sapere di essere tale”. La conoscenza può diventare un limite, la consapevolezza bloccarti.” (Peter Saville) Non ho potuto essere sintetica su Peter Saville, per lui nutro un amore incondizionato, sia per motivi personali, sia perché Saville è tuttora uno dei graphic designer più produttivi degli ultimi decenni e le sue copertine restano oggi tra le più riconoscibili di tutti i tempi. Perciò ho diviso gli articoli sulla sua straordinaria carriera in tre parti: Input, Output, Joy. Ho chiesto all’amico Valerio Michetti, anche lui adoratore di Saville, di fare tre playlist a corredo della lettura, grazie al suo entusiasmo possiamo augurarvi non solo buona lettura, ma anche buon ascolto: Playlist per INPUT|Saville – parte prima: Utilitas Firmitas Venustas “La bellezza è l’inizio di ogni viaggio e il fine ultimo di ogni ricerca, la musica la tiene saldamente stretta a sé perché è nel suo DNA. Tutti i brani scelti sono legati all’immaginario di Peter Saville”. (Valerio Michetti) Peter Saville è nato a Manchester nel 1955, ha frequentato St Ambrose College e in seguito ha studiato graphic design presso
il Manchester Polytechnic, dove assume l’ispirazione costruttivista tipica del periodo post-punk di cui è figlio, virando verso una grafica di ideale venustà, in risposta al rumore visuale della grafica punk. Attinge a De Stijl, John Heartfield, Bauhaus e Die Neue Typographie, che avranno un impatto importante su tutta la sua produzione, e studia la tipografia moderna attraverso i lavori di Herbert Bayer e Jan Tschichold. Nel 1979 Tony Wilson fonda la Factory Records insieme ad Alan Erasmus, Martin Hannett, Rob Gretton e Peter Saville, che ne diventa direttore creativo. Sarà una delle più significative etichette discografiche indipendenti del panorama musicale, cui Wilson e Saville hanno dato in più una connotazione estetica nuova, il cover design assunse un’importanza ancora più rilevante di quanto già non fosse. Peter Saville by Tony Barratt Gli albori della carriera professionale di Peter Saville sono
clamorosi, le sue opere sono oggetto di culto, indimenticabili espressioni del suo genio visionario. Non si è più fermato, ha continuato in crescita indefessa attraverso un viaggio di progettualità trasversale, ha esplorato senza sosta le potenzialità del design e della propria capacità visionaria, che si sono incrociate con i fenomeni culturali e artistici contemporanei: musica, moda, sport e packaging. Mai oppresso, anzi stimolato dai cambiamenti che la contemporaneità avrebbe potuto avere sul suo lavoro, nel corso degli anni ha collaborato con i Joy Division e successivamente i New Order, Roxy Music, Peter Gabriel, EMI, OMD, Givenchy, Yohji Yamamoto, Dior, John Galliano, Alexander McQueen, Selfridges, Adidas e Stella McCartney, per citare solo alcuni dei suoi numerosissimi clienti. Peter Saville Ma per comprendere il lavoro di Peter Saville e della Factory, occorre conoscere meglio il contesto in cui nacque e si formò, lo facciamo nel modo più autentico, attraverso le parole dello stesso Saville, con una conversazione avuta con Francesco
Tenaglia (Mousse Magazine & Publishing, Rolling Stone, Rivista Letteraria), di cui riportiamo uno stralcio significativo (Testo completo: Peter Saville racconta ) “Manchester è cresciuta con l’industrializzazione e, nel Diciannovesimo secolo, è stato uno dei luoghi più importanti del mondo. Lì sono state accese le prime macchine da lavoro e, da ogni angolo del pianeta, si accorreva ad ammirarle. Karl Marx studiò queste prodigiose novità per le sue ricerche su capitalismo ed economia sociale: come noto, Marx era legato da un rapporto di profonda amicizia e solidarietà con Friedrich Engels che visse a Manchester per un po’. […] Nacquero a Manchester i movimenti sindacali, le idee a favore dei diritti dei lavoratori, una nuova cultura morale- politica. […] Facendo un fast-forward alla fine della seconda guerra mondiale, l’industria, motore del benessere cittadino, subì un declino repentino. La città in cui sono cresciuto era già post-industriale. Sopravviveva qualche tratto che puntava al passato glorioso, ma era sempre più debole. In un certo senso, venne a mancare un’idea di futuro. […] C’erano musicisti pop di Manchester, ma nella maggior parte dei casi andavano via. Come i Beatles con Liverpool. […] Oltre al calcio c’era davvero poco, l’arte contemporanea nel Regno Unito era accessibile solo a un’élite privilegiata di Londra e anche lì, fino alla metà dei Novanta, era una scena concentrata sostanzialmente in un’unica via, Cork Street. […] Il progressive, il glam e il pop avevano delineato una cultura musicale incentrata sull’immagine. Penso ai T.Rex, ma soprattutto a David Bowie e al peso simbolico del suo disallineamento così radicale con il mainstream. L’idea che si potesse progettare da zero la propria identità era meravigliosa, decisiva per un adolescente britannico nei primi anni Settanta. […] Il fenomeno dei super-gruppi a metà anni Settanta era stato
spezzato dal colpo di stato del punk: era un momento in cui gli ambasciatori della tua cultura non ti parlavano più. Erano a zonzo per l’America a bordo di quarantotto camion, suonavano di fronte a migliaia di persone assiepate in uno stadio, persi nella mistica delle star milionarie. La loro esperienza di vita non era più legata alla tua. Il punk arrivò e disse: “Grazie molte, da qui in poi ci pensiamo noi”. […] Manchester, tra il 1976 e il 1977, divenne luogo di meravigliose venue per il punk e per quello in cui si stava trasformando, ovvero la new wave. Purtroppo la canzone dei Sex Pistols God Save the Queen infastidì parecchie persone e i comuni, in giro per il Regno Unito, s’impegnarono ad arginare quella rogna sovversiva. Manchester, dall’essere patria di sale da concerto, si svuotò nell’arco di pochissimi mesi per colpa di politiche rivolte a contenere il fenomeno punk. Per questo motivo un giovane imprenditore nel settore televisivo, Tony Wilson, si prese carico della situazione trasformandosi nel guardiano della nuova cultura giovanile. Cercò un locale e inizialmente – devo essere onesto – non era qualcosa di diverso da quello che oggi si definirebbe “una serata” in un club. Il primo Factory durò un paio di mesi e si teneva ogni venerdì sera. Volli assolutamente essere coinvolto e chiesi a Tony in che modo potessi aiutarlo. “Fa’ un poster” mi rispose. All’epoca c’erano solo Tony, il suo migliore amico Alan Erasmus e io. Stavo per diplomarmi e l’unica cosa che m’interessava veramente era realizzare copertine. […]
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