"Primer retrato de cromo-holograma cilíndrico del cerebro de Alice Cooper" "First Cylindric Chromo-Hologram Portrait of Alice Cooper's Brain"

Pagina creata da Alessio Volpe
 
CONTINUA A LEGGERE
"Primer retrato de cromo-holograma cilíndrico del cerebro de Alice Cooper" "First Cylindric Chromo-Hologram Portrait of Alice Cooper's Brain"
“Primer retrato de cromo-
holograma   cilíndrico  del
cerebro de Alice Cooper”
“First   Cylindric  Chromo-
Hologram Portrait of Alice
Cooper’s Brain”*
… per sempre a squassare gli immaginari pigri e le etichette
appiccicose

* Il titolo è volutamente nelle due lingue madre dei
protagonisti, in riferimento anche all’uso di più lingue
mescolate da parte di Dalì
"Primer retrato de cromo-holograma cilíndrico del cerebro de Alice Cooper" "First Cylindric Chromo-Hologram Portrait of Alice Cooper's Brain"
Il musicista Valerio Michetti, per accompagnare e definire la
lettura, ha creato una esclusiva playlist dedicata a Dalì &
Cooper:

Dalì’s Hell
Dalì Hologram of Alice Cooper
“La tagliente performance di Alice Cooper del 1972 “School’s
Out” in Top of the Pops” ha segnato la fine dell’obbrobrio

Mary Whitehous 1 e un camion che trasportava un cartellone
pubblicitario di Alice che indossava solo un serpente
misteriosamente si ruppe ad Oxford Circus, causando il caos”
attirarono la vivace attenzione di Salvador Dalì.

Cooper: “I collaboratori di Dalí chiamarono il mio manager e
spiegarono che aveva visto uno dei miei show” spiega Cooper.
“Disse che gli sembrava di aver visto uno dei suoi quadri
prendere vita, e che quindi voleva che lavorassimo insieme.“

Il Maestro invita Alice Cooper ad una cena e gli propone di
posare per un servizio fotografico, vuole realizzare uno dei
primi ologrammi al mondo, facendolo posare con “un cervello di
gesso ricoperto di formiche sormontato da un éclair di
cioccolato” posto su un cuscino di velluto dietro la testa di
Cooper, che “sedeva su un giradischi rotante con addosso oltre
un milione di dollari di diamanti dai famosi gioiellieri di
Harry Winston sulla Fifth Avenue” e brandisce una statuetta
con il “shish-kebabbed” della Venere di Milo come microfono.

Dalí fin dall’inizio compie un’azione artistica, interpreta il
suo surreale vissuto emotivo e la sua concezione del mondo,
che supera il ruolo del pittore. È il Dalì che afferma: “Ogni
mattina mi sveglio e, guardandomi allo specchio provo sempre
lo stesso ed immenso piacere: quello di essere Salvador Dalì”
a presentare il “Primo cromo-ologramma cilindrico del cervello
di Alice Cooper“ in una lingua puramente inventata.

Cooper stesso racconta: “Una parola era in italiano, una in
francese, una in spagnolo e una in portoghese. Non aveva senso
"Primer retrato de cromo-holograma cilíndrico del cerebro de Alice Cooper" "First Cylindric Chromo-Hologram Portrait of Alice Cooper's Brain"
in alcun modo. Riuscivi a capire un quinto di quello che
diceva!“, ma Cooper era l’ascoltatore perfetto, da anni
condivideva con Dennis Dunaway, bassista della sua band, una
vera ossessione per il Maestro: “Dalí era il nostro eroe”.
Dunaway: “Prima che arrivassero i The Beatles, lui era tutto
ciò che avevamo. Guardavamo i suoi dipinti e ne discutevamo
per ore. Al loro interno era contenuta anche una buona dose di
ironia. Quindi, quando formammo la nostra band, venne
piuttosto naturale prendere alcune delle sue immagini – come
la stampella – e usarle nelle nostre performance.“

Si compie così l’inevitabile destino di uno dei più surreali e
stupefacenti sodalizi artistici del XX secolo tra una 25enne
rockstar destabilizzante, che concludeva i suoi macabri
concerti con la sua decapitazione sulla ghigliottina, e il già
grandissimo e celebrato Salvador Dalì, che vuole rendere
entrambi i “sovrani dell’assurdo del pianeta Terra”.

L’incontro si svolse all’Hotel St. Regis di Manhattan, un
"Primer retrato de cromo-holograma cilíndrico del cerebro de Alice Cooper" "First Cylindric Chromo-Hologram Portrait of Alice Cooper's Brain"
edificio del 1904 frequentato da grandi nomi come Marlene
Dietrich ed Ernest Hemingway, dove Dalí passava tutti gli
inverni sempre nella stanza 1610, e dove nel 1971 aveva
incontrato l’artista Selwyn Lissack , da cui apprese le nuove
tecniche olografiche e la possibilità per l’arte di superare
lo spazio lineare, ottenendo figure volumetriche. Dalì aveva
già lavorato con la lente di Fresnel per ottenere immagini
stereoscopiche, ma è il Premio Nobel del 1971 a Dennis
Gabor per la sua ricerca sui laser, lo spinge definitivamente
verso l’olografia.
Con gli ologrammi riesce a dare il movimento all’opera in tre
dimensioni, il dipinto esce dalla sua sede naturale e si pone
sullo stesso piano dimensionale dello spettatore, creando un
nuovo stato di aggregazione tra l’artista, l’opera e il
pubblico.

Lissak scrive: “Sapevamo che per introdurre l’olografia nel
mondo come mezzo artistico, avremmo avuto bisogno di un
artista noto che potesse comprendere gli aspetti tecnici
dell’olografia. Sono stato affascinato da Salvador Dalì sin da
quando ero bambino. La sua ossessione per la ricerca e la
creazione in altre dimensioni e la sua grande comprensione
della simmetria tridimensionale e della prospettiva su un
piano piatto lo hanno reso la scelta perfetta.”. ( Testo
completo, english version )

Per Cooper è l’epifania di se stesso come alter ego di quel
Vincent Damon Furnier che scende dal palco per tornare a casa
dopo un concerto, e della propria visione artistica, benedetta
dalla geniale follia del Maestro del surrealismo integrale.
“Alice Cooper”, con quel “nome che in qualche modo mi si era
appiccicato addosso, evocava l’immagine di una ragazzina con
un lecca lecca in una mano e un coltello da macellaio
nell’altra”, materia dell’assurdo perfetta nelle mani di un
visionario “che sa dipingere pazientemente una pera in mezzo
ai tumulti della storia”.

4   Aprile   1973,   Dalí   si   presenta   nella   sua   personale
"Primer retrato de cromo-holograma cilíndrico del cerebro de Alice Cooper" "First Cylindric Chromo-Hologram Portrait of Alice Cooper's Brain"
singolarità surrealista e celebra definitivamente il
premeditato addio alla psicoanalisi freudiana e al “Metodo
paranoico-critico”. L’intera realizzazione fa da palcoscenico
all’ego smisurato di un artista poliedrico, che accoglie i
mutamenti del tempo e muta se stesso in nuove forme d’arte,
dove i confini tra cultura elitaria e cultura popolare si
rimescolano, l’artista è primo attore e l’arte diventa
spettacolo.

Arrivò al King Cole Bar dell’Hotel St. Regis su una limousine
bianca, che doveva abbinarsi alla sua candida veste ricamata
in oro. Cooper, che arrivò con un ampio rifornimento di birra
Michelob, racconta: “All’improvviso queste cinque ninfe
androgine vestite di chiffon rosa fecero il loro
ingresso. Erano seguite da Gala, la moglie di Dalí, che
indossava un tuxedo da uomo con coda, un cappello a cilindro e
portava un bastone d’argento. Poi arrivò Dalí. Lui indossava
un gilet animalier (tipo pelle di giraffa), scarpe da Aladino
dorate, una giacca blu di velluto, e calzini viola
scintillanti che gli furono regalati da Elvis Presley.”

Sempre totalmente liberato dalle regole del senso, Dalì entrò
per ultimo pronunciando distintamente le sillabe “Da-lí… è
qui!“. Ordinò per gli ospiti uno Scorpion servito in una
conchiglia. Per sé chiese un bicchiere di acqua calda, lo
"Primer retrato de cromo-holograma cilíndrico del cerebro de Alice Cooper" "First Cylindric Chromo-Hologram Portrait of Alice Cooper's Brain"
appoggiò su un piedistallo e cominciò a versarvi del miele, da
una tasca estrasse un paio di forbici con cui ne tagliò il
filo. Cooper: “Io e il mio manager ci guardammo
esterrefatti. Realizzai a quel punto come tutto riguardasse
Dalí! Il mondo girava intorno a lui. Io non lo stavo
semplicemente incontrando. Stavo entrando nella sua orbita.“

Un uomo con cappello a bombetta arrivò con la una valigetta
nera contenente la preziosa tiara e la collana di diamanti. I
gioielli furono presentati da una modella protetta da una
guardia del corpo armata di pistola. Dalí disse poi a Cooper
di togliere la maglietta, indossare i gioielli, sedersi a
gambe incrociate sulla pedana rotante e cantare usando il
microfono-kebab-Venere di Milo.

Dalí regala a Cooper l’opera “Il cervello di Alice”, la
scultura di ceramica raffigurante un cervello umano con un
pasticcino di cioccolata sul retro, su cui erano disegnate le
formiche che componevano le parole “Dalí e Alice”.
“The Alice Brain” è scomparso: “Cerco da sempre questo
cervello” dice Cooper. “È il mio Santo Graal. Si può credere
che qualcuno lo stia usando come fermacarte per quanto ne so.
Pagherei qualsiasi cosa per averlo.”

21 aprile 1973, l’opera fu presentata alla Knoedler
Gallery (una delle più antiche concessionarie d’arte di New
York, fondata nel 1846, venne chiusa nel 2011, dopo 165 anni
di attività). Excerpt of The Dali & The Cooper
"Primer retrato de cromo-holograma cilíndrico del cerebro de Alice Cooper" "First Cylindric Chromo-Hologram Portrait of Alice Cooper's Brain"
Annie Leibovitz – “Dalì et
                    Alice Cooper”, 1973

Oggi, “First Cylindric Chromo-Hologram Portrait of Alice
Cooper’s Brain” si trova esposta al Dalí Museum a Figueres, in
Spagna. Il Marchese Salvador Domingo Felipe Jacinto Dalí i
Domènech ci ha lasciato il 23 gennaio 1989 ad 84 anni. Alice
Cooper, che oggi è diventato “un cristiano che gioca a golf”,
lo ricorda così: “Era il personaggio più bizzarro che io abbia
mai incontrato, e ancora oggi dopo tanti anni ti senti vicino
a lui. Lavorare con lui fu uno dei più importanti momenti
della mia vita.”.

Video indispensabili:

Questo articolo esce in simultanea su La Bottega del Barbieri

1- Mary Whitehouse – all’anagrafe Constance Mary Hutcheson –
fu una celebre attivista inglese che si impegnò per imporre
moralità e decenza, secondo la sua idea (bigotta al massimo)
di “cristianesimo”.
"Primer retrato de cromo-holograma cilíndrico del cerebro de Alice Cooper" "First Cylindric Chromo-Hologram Portrait of Alice Cooper's Brain"
S1:E8   “Kowloon,  l’Oceano
parallelo di Roger Dean”
Per accompagnare la lettura del sesto episodio della serie sui
grandi designer di cover art, come di consueto Valerio
Michetti ha preparato la sua esclusiva playlist:
Mondi lontanissimi. La copertina di Aoxomoxoa (1969), creata da Rick Griffin per i Grateful Dead fu il “primo
grande shock visivo” di Roger Dean, comprò l’album prima di possedere un giradischi. –

William Roger Dean è nato il 31 agosto 1944 ad Ashford, Kent.
Insieme al fratello Martyn e alle sorelle Penny e Philippa, è
cresciuto tra Grecia, Cipro e Hong Kong al seguito del ruolo
del padre, ingegnere dell’esercito. La storia naturale lo ha
affascinato fin da piccolo e ad Hong Kong ha conosciuto il
Shan Shui, l’antica arte della pittura paesaggistica cinese,
che influenzerà in modo determinante il suo futuro d’artista e
a cui dedico una breve parentesi:

Shan Shui, ‘montagna e acqua’, le montagne sono vicine al
cielo e sono le dimore degli immortali. Secondo la filosofia
taoista, cielo e terra coesistono in perfetta armonia
generando l’immenso flusso cosmico della natura, rispetto al
quale gli esseri umani sono insignificanti. L’antica pittura
paesaggistica cinese esprime questa filosofia ritraendo la
relazione tra il creato e il cosmo, con estrema venerazione
per le forze della natura e rispetto per equilibrio tra yin e
yang: le montagne sono alte e forti e rappresentano lo yang,
mentre l’acqua, morbida e fluente, rappresenta lo yin.
Nello Shan Sui l’artista deve rappresentare sia la forma sia
lo spirito del soggetto, ne deve catturare il significato
interiore; il fenomeno naturale deve essere dipinto creando
armonia tra il suo animo e la sua energia.

Le tracce          lasciate dal Shan Shui saranno evidenti nel lavoro
di Roger           Dean, che ha affermato come il paesaggio “e i
percorsi           che lo attraversano”, sono la sua più grande
influenza           e fonte di ispirazione:
"Primer retrato de cromo-holograma cilíndrico del cerebro de Alice Cooper" "First Cylindric Chromo-Hologram Portrait of Alice Cooper's Brain"
“Un giovane ragazzo scala una ripida collina di notte. Con
cautela, si fa strada tra i grovigli di macchia sparsa che si
aggrappano al lato di Lion Rock; dal suo punto di vista può
vedere Kowloon diffondersi davanti a lui, il cui nome deriva
dai “nove draghi” rappresentati dai picchi montuosi che
circondano la zona. Subito sotto, l’ultima casa dell’alloggio
riservato al personale dell’esercito britannico a Hong Kong,
dove vive con i suoi genitori, si rannicchia nella criniera di
Lion Rock. Sotto i suoi piedi il tempo si ferma, lo scorrere
di milioni di anni si solidifica nel granito. Sopra di lui,
una miriade di stelle lontane ammiccano attraverso il bagliore
perlescente di una gloriosa notte di luna.            È stato
semplicemente magico”. Così racconta Roger Dean di una notte
che simboleggia il suo desiderio di connettersi con l’ambiente
costruito e con l’ambiente naturale insieme.

“I just loved pathways and landscapes. It was burned into my
soul, if you like,”

Nel 1959 torna in Inghilterra con la famiglia, frequenta la
Ashford Grammar School e nel 1961 il Canterbury College of
Art, dove si diploma in Design. Prosegue gli studi al Royal
College of Art, dove si laurea nel 1965.
Ancora studente, Dean crea il design della “Sea Urchin Chair”,
progetto studiato e completato nel 1967 al Royal College in
collaborazione con Cherrill Scheer e di cui ha depositato il
brevetto nell’anno successivo, una sedia che si comprime che
si adatta completamente alla forma di chi la utilizza. Oggi
la sedia fa parte della collezione permanente del Victoria and
Albert Museum.

Il primo lavoro dopo il college gli viene commissionato nel
1968 dalla Ronnie’s Scott Jazz Club di Londra, per cui disegna
le poltroncine panoramiche del secondo piano rialzato. Questa
è l’occasione che lo introduce nel fantastico mondo delle
copertine dei vinili, Dean stesso racconta che: “Vedendo il
mio sketchbook, Ronnie Scott mi chiese se volessi disegnare la
copertina per una band di cui era produttore:The Gun, e io
"Primer retrato de cromo-holograma cilíndrico del cerebro de Alice Cooper" "First Cylindric Chromo-Hologram Portrait of Alice Cooper's Brain"
l’ho fatto.”.

Subito dopo crea la copertina e il logo per Osibisa, una band
formata da musicisti provenienti da Ghana, Nigeria e Caraibi
che produce musica afrobeat.
Dean illustra la copertina del loro primo vinile con surreali
animali ibridi elefanti-insetti in una tundra dalle sfumature
arancio infuocato. Un quadro apparentemente in contrasto con
il nome della band e titolo omonimo del progetto musicale,
“Osibisa” è traducibile con “ritmi incrociati che esplodono di
felicità”, la cui visione invece ci porta a respirare
l’armonia cosmica di uno scenario in cui un personaggio
surreale agisce e si muove in un quadro realistico, componendo
un intreccio narrativo perfetto con il contenuto musicale,
incredibilmente senza alterare la percezione spazio-temporale
dello spettatore.

Osibisa
Nel 1970 Dean disegnò il logo per l’etichetta indipendente Fly
Records e creò per il loro musicista Marc Bolan la copertina
di un singolo; le circostanze lo costrinsero a scrivere a mano
le note di copertina e i testi. Un caso che diventò un
successo e una tecnica che continuò ad utilizzare anche in
seguito, non apprezzerà più la progettazione grafica classica:
“Non sembra pulito e moderno. Sembra grigio, noioso e
aziendale. Ovunque guardassi c’era un mondo grigio e sterile,
ma i vestiti molto colorati, la musica fantastica, l’intera
cosa di Age Of Aquarius che era nell’aria in quel momento,
portava colore e speranza. Dal punto di vista tecnologico, le
cose erano ugualmente eccitanti. 2001: Odissea nello spazio di
Kubrick è stato girato quando ero uno studente e il Concorde
stava per volare. Come studenti, siamo andati a Bristol per
vedere che era in costruzione e, naturalmente, subito dopo
aver lasciato il college, gli uomini stavano camminando sulla
luna”.

Ormai sedotto dal mondo della musica, si propose a Phil Carson
di Atlantic Records, che lo scelse per la copertina del quarto
album degli Yes: “Fragile”, primo album con Rick Wakeman.
Nacque così la storica avventura tra Dean e gli Yes, che ci ha
regalato una collaborazione artistica senza precedenti, un
sodalizio in cui il lavoro visuale è la magnifica estensione
della produzione musicale, il chitarrista del gruppo Steve
Howe disse: “C’è un legame piuttosto stretto tra il nostro
suono e l’arte di Roger”.   Dean: “Volevo che i dischi fossero
rivestiti da immagini che riflettessero gli ambiziosi mondi
sonori che stavano tentando di creare.”
Fragile – Yes

Dean non disegna semplicemente un’immagine per la copertina,
ci catapulta in un nuovo orizzonte tematico trasformando il
titolo in una storia di fragilità, che conduce in un mondo
fantastico, lega il modulo musicale ad una storia visionaria
“su un bambino che sognava di vivere su un pianeta che si
stava disgregando, ha dovuto costruire un’arca spaziale per
trovarne un altro su cui vivere, e ha portato con sé tutti i
pezzettini del pianeta “.
Un mondo utopico costituito da magia, natura e una forte
componente tecnologica retro-futuristica, punto di arrivo di
un lungo percorso di ostilità verso i rigori della conformità
e del design moderno, che considera “Un sistema di credenze
con manie di razionalità” e che risale al periodo di studio di
design industriale al Canterbury College Of Art;
negativamente    impressionato dal dominio della scuola di
architettura brutalista, affermò: “Perché diavolo progettiamo
case per le persone che sono scatole? Mi è stato detto che
avrei dovuto leggere The Modulor di Le Corbusier. L’ho letto e
ho pensato: “Che stupefacente carico di stronzate!”.

Da questo momento in poi Dean ha curato quasi tutte le
copertine degli Yes, insieme al fratello Martyn ha progettato
anche le scenografie di moltissimi loro concerti. Dopo le
copertine di Fragile e Close to The Edge, nel 1972, durante un
viaggio in treno,     per gli Yes ha creato l’iconico logo
“bolla”.
Nel 1973 disegna la copertina simbolo di “Tales from
Topographic Oceans“, che resta una delle più conosciute e
riconoscibili, un’opera che trasfigura l’unione perfetta tra
musica ed arte visuale.
Dean stesso ce ne descrive la base concettuale e sottolinea
ancora una volta la natura del suo lavoro: “Beh, i paesaggi
sono sempre stati la mia ispirazione e continuo a pensare a me
stesso principalmente come un paesaggista. Tales from
Topographic Oceans… ero davvero io che cercavo di trasmettere
il mio entusiasmo per i paesaggi.”
Tales from Topographic Oceans

Il suo lavoro con gli Yes e le sue visioni ultraterrene
costituiscono una pietra miliare che segna la storia del
design delle confezioni dei vinili e sono ancora oggi fonte di
ispirazione in numerosi ambiti; tra gli altri il suo libro
“Views” (1975), pubblicato con Dragon Dream, casa editrice
fondata dallo stesso Dean in società con gli olandesi
Chevalier, fu a lungo al primo posto nella lista dei best
seller del New York Times e venne utilizzato per ispirare il
design delle scenografie di Star Wars, Episode IV – A New Hope
(1977).
Disegna copertine per Gentle Giant, Asia, Atomic Rooster,
Uriah Heep, Greenslade e moltissimi altri. Ma la sua è una
carriera prolifica e poliedrica: nel 1981 sviluppa con il
fratello Martyn il progetto “Tectonic House” esposto
all’International Ideal Home Exhibition di Birmingham. Una
soluzione abitativa futuristica nata dalla famosa “Retreat
Pod“, presente anche nel film di Stanley Kubrick “A Clockwork
Orange.”
Nel 2004 lavora alla sua idea architettonica “Homes for Life“,
case futuristiche dal design a base curva, totalmente prive di
angoli retti, da produrre in serie a prezzi competitivi.

Retreat pod – arancia meccanica

Negli anni ’80 collabora allo sviluppo del videogioco “The
Black Onyx” di Henk Rogers, realizzando circa 4000 tavole
insieme al fumettista Michael Kaluta. In seguito lavora alle
copertine per Shadow of the Beast e Obliterator di
Psygnosis, crea la copertina di Tetris Worlds e riprogetta il
logo di Tetris. Disegna il logo della Virgin Records e molti
altri, la sua “Logo Collection” è degna di un pellegrinaggio
virtuale.

Nel 2002 riceve il dottorato honoris causa dalla Academy of
Art University di San Francisco, nel 2009 una borsa di studio
onoraria dalla Arts University Bournemouth, nel 2013 il Gold
Badge of Merit dalla British Academy of Songwriters, Composers
and Authors.
Nel carnet di Roger Dean sono presenti molte pubblicazioni,
tra cui libri: “Magnetic Storm”, nel 1984, dove sono raccolte
le opere realizzate in collaborazione con il fratello Martyn;
“Album Cover Album”, che ripercorre la storia delle cover
album, realizzato in collaborazione con il design team di
Hipgnosis, Dominy Hamilton, David Howells e Storm Thorgerson.

Dean vanta una galleria permanente nel Regno Unito, la Trading
Boundaries, interamente dedicata al suo lavoro con opere
originali e stampe, schizzi e disegni in edizione limitata.
Negli Stati Uniti è rappresentato dalla San Francisco Art
Exchange.

…

Chiudo questo articolo con dei poetici puntini di sospensione,
con il proposito di tornare a viaggiare nel mondo fantastico
di Roger Dean.

Roger Dean

Final Roger Promo
Sito ufficiale
Canale youtube
Roger Dean in conversation

Kim Ki-duk
11 dicembre 2020, pochi giorni prima del suo 60esimo
compleanno, la tensione vitale di Kim Ki-duk si è spenta.
Kim Ki-duk è uno dei registi asiatici più conosciuti nel
panorama cinematografico contemporaneo. Artista di rara
complessità, dotato di sensibilità profonda e radicale, è un
poeta che respira in modo estremo, sebbene persista in lui
un’elegante raffinatezza percettiva.
Il suo è un cinema fondato dalla tensione tra delicate
emozioni ed esplosioni di violenza, elementi separati che si
attraggono reciprocamente, generando un flusso di energie
instabili, ma che inspiegabilmente tendono a una situazione di
equilibrio.
Nato nel 1960 a Bonghwa, una piccolo villaggio della Corea del
Sud che dista 170 km dalla capitale, a nove anni si
trasferisce con la famiglia a Seoul, dove in seguito frequenta
un istituto professionale per l’agricoltura. A diciassette
anni, per le condizioni di povertà in cui versa la sua
famiglia, è costretto a lavorare in una fabbrica, che lascerà
a vent’anni per
arruolarsi in marina, dove resta per i successive cinque.

È il periodo in cui si avvicina alla religione con
l’intenzione di diventare predicatore, ma nel 1990 abbandona
tutto e si trasferisce a Parigi per approfondire la passione
per la pittura e riesce a mantenersi vendendo i suoi quadri.
“Arrivai in Europa perché volevo fuggire dalla società
coreana, e da casa”, dice oggi. “Mio padre è un veterano della
Guerra di Corea. Subì torture psicologiche e fisiche da parte
della Corea del Nord. Riuscì a tornare a casa, con quattro
pallottole in corpo, solo dopo uno scambio di prigionieri. Ma
non fu più la stessa persona: era pervaso da un senso di
sconfitta
e da una rabbia inaudita che scaricava quotidianamente su di
me. Ero terrorizzato da mio padre, ma crescendo compresi che
anche lui era soltanto un’altra vittima della società. I
postumi di quella guerra si patiscono ancora oggi in Corea del
Sud, nessuno però ne vuole
parlare. Per questo ho deciso di fare film che avessero al
centro questi temi: la violenza, l’odio, i traumi, la
solitudine, l’incapacità di comunicare. Situazioni che ho
vissuto sulla mia pelle, ma che parlano di tutta la mia
patria”.
Nel 1993 inizia ad avvicinarsi al cinema, scrive sceneggiature
e vince il premio dell’Educational Institute of Screenwriting
con la stesura di “A Painter and a Criminal Condemmed to
Death”.
Cede del tutto al potente richiamo del cinema, nel 1996
esordisce con il film Crocodile, ambientato in Sud Corea, che
già rivela in modo esplicito quali sono e saranno i temi
centrali del suo lavoro: violenza, sesso e dolore.
Sono elementi chiave della sua narrazione, li ritroviamo
intatti in Wild Animals, girato a Parigi (1997), e in Birdcage
Inn (1998).
La componente distruttiva presente nella psiche umana, in
contrapposizione alla vitalità sensuale dell’eros genera un
brutale processo di tensione e di violenza, che spesso trova
soluzione solo nella morte.

“Mi pongo sempre una domanda: cosa è umano? Cosa significa
essere umano? Forse la gente considererà di nuovo brutali i
miei nuovi film. Ma questa violenza è solo un riflesso di ciò
che sono realmente, di ciò che è in ognuno di noi in una certa
misura “.
Nel 2000 è presente al Festival di Venezia e al Sundance Film
Festival con “L’isola”, che gli apre le porte della fama
internazionale. Nello stesso anno Kim Ki-duk celebra la
strenua ricerca di innovazione percettiva e di realizzazione
con “Real Fiction”, girato 200 minuti con dieci cineprese e
due videocamere digitali.
Il rapporto tra i personaggi e lo spazio vitale non consente
loro di fuggire dai propri stati d’animo, così ne possiamo
conoscere “desideri, ossessioni, paure che lì diventano quasi
tangibili”.
L’indagine su questi contrasti di forze devastanti è presente
anche ne: “Indirizzo sconosciuto” (2001), “Bad Guy” (2001) e
“The Coast Guard” (2002).
“Spesso hanno criticato il fatto che nei miei film non si
parla molto. Questo è perché racconto persone ferite, che
hanno perso fiducia nell’altro. Così la violenza che è
un’altra accusa che fanno ai miei film, non è un semplice
gioco estetico. Per me è necessaria, è l’unica forma che
esprime la crudeltà della vita, la sua tristezza e
disperazione.”
Nel 2003 esce “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora
primavera”, un film fortemente simbolico, che sorprende per
l’inquietante senso di pace evocato dalla splendida
fotografia, davanti alle immagini perfettamente poetiche,
sfuma lievemente l’intensità della violenza.
Nel 2004 gli vengono assegnati l’Orso d’Argento alla regia al
Festival di Berlino per “La samaritana” (2004), e il Leone
d’Argento al Festival di Venezia per “Ferro 3 – La casa
vuota”.

È presente nel 2005 al Festival di Cannes con “L’arco”, segue
“Time” (2006), “Soffio” (2007).
L’anno successivo vede la luce “Dream”; durante le riprese
l’attrice protagonista Lee Na-yeong è stata vittima di un
incidente sul set, durante la scena nella quale simula il
suicidio per impiccagione.
Kim Ki-duk resta traumatizzato da questo evento, si ritira in
solitudine e vive un periodo di profonda depressione. Riuscirà
a vincere il grave tormento soltanto tre anni dopo con una
lunga confessione-documentario: “Arirang”, dove espone
un’intensa riflessione sull’arte e sulla vita, che
approfondirà con il successivo “Amen”.
Nel 2012 realizza “Pietà”, per il quale viene insignito del
Leone d’Oro al Festival di Venezia, dove negli anni successivi
presenta fuori concorso “Moebius” (2013) e “One on One” (2014)
con cui apre la selezione delle Giornate degli Autori;
seguiranno “Stop” (2015) e “Il prigioniero coreano” (2016),
che apre sezione denominata Cinema nel Giardino.
Muore in Lettonia, per le complicazioni dovute al maledetto
Covid-19.

S1:E7 “Peter Blake, Mr. Sgt.
Pepper”
Valerio Michetti ha preparato l’esclusiva playlist che
accompagnerà la lettura del quinto episodio della serie sui
grandi designers delle copertine per dischi:
Ufo Club Experience

Ci occupiamo di una pietra miliare: Sgt. Pepper’s Lonely
Hearts Club Band /Beatles, una delle copertine più conosciute
e popolari del secolo scorso. L’album dei Beatles è ancora
oggi uno dei dischi più celebrati, anche e soprattutto per
l’impatto visivo della sua copertina.

Il suo autore è Sir Peter Blake, pittore e precursore della
Pop Art inglese, influenzato da Jasper Johns e Robert
Rauschenberg; insieme a David Hockney, Patrick Caulfield e
Richard Hamilton, mostra un chiaro interesse per le immagini
della cultura popolare, il suo lavoro non rifiuta nuovi mezzi
d’arte per ottenere opere di grande valenza grafica.

Nato nel 1932 a Dartford, nel Kent, studia alla Gravesend Art
School tra il 1948 e il 1951, cui segue un periodo di tre anni
di servizio militare nella Royal Air Force, da cui si congeda
nel 1953 per continuare gli studi al Royal College of Art.
Nel 1956 vince la borsa di studio “Leverhulme Research Award”,
che gli permette di studiare arte popolare per un anno,
viaggiando tra Olanda, Belgio, Francia, Italia e Spagna.

Partecipa a diverse esposizioni presso la Royal Academy of Art
di Londra: nel 1955      “Young Artists Exhibition ‘Daily
Express’, nel 1958 “Five Painters at the Institute of
Contemporary Arts”, nel 1961 “John Moores Liverpool
Exhibition”, dove viene premiato come miglior artista Junior.
La sua prima mostra personale fu nel 1962, alla Portal Gallery
di Londra.

Le due importanti opere che lo inseriscono inequivocabilmente
nella corrente della Pop Art sono On The Balcony (1955) e Self
Portrait with Badges (1962) e fanno di Blake una figura
fondamentale della scena artistica britannica degli anni
sessanta.

La     sua       impronta   grafica   è   neoavanguardista,   respira
l’evoluzione tecnologica, è un artista contemporaneo e vuole
rischiare, con la ferma volontà di creare il nuovo attingendo
e coinvolgendo ogni sfumatura percettiva. Sceglie la tecnica
mista, fonde fotografia e pittura per ottenere la celebre
figurazione che ruota intorno agli idoli dell’immaginario
collettivo. Crea “metapicture”, immagini dipinte dentro altre
immagini, stratificate, al contempo indistinte e fortemente
caratterizzate, che diventano il suo tratto distintivo.

Copertina del disco Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band

Peter Blake approda in modo inaspettato al mondo della musica,
con la copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band.
Inizialmente l’incarico venne affidato a un’agenzia
pubblicitaria londinese, la Geer-DuBois, che propose la novità
della confezione apribile e la stampa dei testi delle
canzoni. Per la grafica, in prima istanza vennero coinvolte
due giovanissime illustratrici olandesi, Josje Leeger e
Marijike Koger: The Fool, conosciute per l’uso spregiudicato
del colore nei murales psichedelici e surreali, autrici delle
facciate dell’edificio della Apple Boutique in Baker Street.
Il bozzetto che presentano viene descritto dallo stesso Blake
“un collage psichedelico con un turbinio di arancione, verde e
viola, una cosa abbastanza in linea con altre del periodo”,
poco convincente e dalle proporzioni inadatte, bocciato dal
parere finale di Robert Fraser, gallerista nel West End, noto
mercante d’arte che, secondo lo stesso Paul McCartney: “A
parte John, è la persona che ha avuto su di me la più grande
influenza formativa”, aveva venduto a Paul alcuni dei suoi
Magritte, fra i quali Au revoir, che avrebbe poi ispirato il
logo della Apple.

Fraser propose due artisti del suo giro, Blake e sua moglie
Jann Haworth, scultrice americana.

Blake e Haworth coinvolgono il fotografo Michael Cooper,
ritrattista di Marcel Duchamp, Renè Magritte, Claes Oldenburg,
Robert Rauschenberg, e conosciuto nel mondo rock i servizi
fotografici sui Rolling Stones [sua la copertina di Their
Satanic Majesties Request. Cooper morirà suicida nel 1973,
lasciando un archivio di oltre 17.000 scatti.

I tre studiano il concept dell’album e lo traducono nella
celeberrima opera british-pop: un condensato di creatività
composto da 73 personaggi storici e 16 oggetti totalmente
eterogenei disposti su più livelli. Sulla base di un terreno
con peperomia, giacinti, capelvenere, kenzie e azalee, piante
fiorifere rosse formano la scritta “Beatles”, su cui si posa
la grancassa che fa da nucleo alle figurine dei Fab Four,
baffuti e vestiti di coloratissime livree militaresche create
dal leggendario costumista Monty M. Berman.
“Abbiamo ordinato le cose più pazze ispirate a casacche
militari. Era da Berman che ti mandavano se stavi girando un
film e cercavi qualche abito particolare. Volevamo una divisa
Edoardiana o ispirata alla guerra di Crimea. Abbiamo scelto le
cose più eccentriche e le abbiamo messe insieme.”
Paul McCartney

Intorno alcune statue di cera del Madame Tussauds, tra cui
notiamo a sinistra ancora i Beatles, ma nella versione
primordiale in nero e capelli a caschetto. Le altre figure a
riempire la profondità dell’opera, sono in masonite a
grandezza naturale, su cui sono state applicate immagini di
repertorio ingrandite, lasciate in parte in bianco e nero, in
parte dipinte a mano come vecchie cartoline dalla stessa Jann
Haworth.

Blake racconta: “Ho discusso con i Beatles fin nei minimi
dettagli per capire come doveva essere quella copertina. Ho
capito che doveva rappresentare il momento della fine di un
concerto, sul palco di un parco. Il mio contributo sarebbero
state le sagome a grandezza naturale: quella folla magica”. E
ancora: “Tutte le figure che si vedono dietro ai Beatles
occupano in profondità uno spazio di circa mezzo metro;
davanti a loro una fila di manichini di cera. I Beatles in
carne e ossa stavano su una piattaforma lunga circa un metro e
mezzo con di fronte una batteria, più avanti un tappeto erboso
con una composizione floreale inclinata in un certo modo.
Tutta l’installazione era profonda solo quattro metri e mezzo.
Chiedemmo ai Beatles di metterci i loro oggetti preferiti. La
cosa non funzionò molto, forse non mi ero spiegato bene; per
esempio Paul decise che i suoi oggetti preferiti erano degli
strumenti musicali e ne affittò un gran numero, arrivando con
una camionata di corni francesi e trombe e altre cose
meravigliose – ma erano veramente troppe, così ne usammo solo
uno o due.”

Ma non finisce qui, ai posteri un’opera d’arte più complessa e
innovativa, un fold out a quattro facciate mai visto fino a
quel momento, è un manifesto pop, dal lettering iconico e
premonitore della futura egemonia della comunicazione
pubblicitaria.

Le due facciate interne sono interamente occupate dal ritratto
su fondo giallo dei quattro Beatles.

All’interno le rarità, la busta di carta disegnata da The Fool
nella prima edizione, e due tasche, una per il vinile, una per
il cartoncino con il Sgt. Pepper cuts out:         i baffi, i
distintivi, i galloni, due badges e le figurine dei Fab Four.

Infine la quarta di copertina presenta il testo dei tredici
brani su fondo arancione, corredati da un’altra immagine dei
Fab Four. Neil Aspinall racconta: “Il retro della copertina
richiese molto tempo perché c’era l’idea di mettere i testi in
una certa sequenza. Camminavo con Paul nel West End, e ci
scervellavamo per trovare parole o una frase compiuta usando
la lettera iniziale del titolo di ogni canzone. La prima era
la S di Sgt. Pepper, e a quel punto ci serviva una vocale; ma
non venne fuori nulla, così i testi vennero riportati nello
stesso ordine del “sequencing” delle canzoni.”
A sinistra: Sweet Child, Pentangle; a destra: Peter Blake – Face Dances, Who

La copertina rese famoso Peter Blake, ma per il lavoro
l’artista e sua moglie ricevettero solo 200 sterline, per anni
la questione ebbe solo esiti negativi e oggi Blake non ne
discute più.    In seguito Blake ha lavorato ancora con i
Beatles: The Beatles, (63-68), acrilico su foto di giornale
con lo spazio bianco per gli autografi.

Ha lavorato anche con altri artisti del mondo del rock: sue le
copertine di Sweet Child (Pentangle, 1968), dei singoli dei
Band Aid, Do They Know It’s Christmas? (1984), di Face Dances
(Who, 1981), di Stanley Road (Paul Weller, 1995), di Brand New
Boots And Panties (2001, Ian Dury, che in gioventù era stato
allievo di Blake al Royal College Of Arts), della antologia
Stop the Clocks (Oasis, 2006).

Nel 2008 eseguì una nuova versione aggiornata di Sgt. Pepper,
con le figure più famose dalla storia di Liverpool, per
sostenere la candidatura della città come capitale della
cultura europea.
In alto a sinistra: Stanley Road, Paul Weller; in alto a destra: New Boots and Panties! Ian Dury; in basso: 5 Stop
the Clocks, Oasis

Nel 1969, lasciò Londra, tornò a lavorare alle figure della
tradizione popolare inglese e Shakespeariana.      Illustrò il
romanzo di Lewis Carrol: “Through the looking-glass”,

Nel 1975 fondò il Collettivo Brotherhood of Ruralist, gruppo
di artisti votati al preraffaelismo, di cui suggeriamo
eventuale approfondimento a questo link.

Dieci anni dopo Blake tornò a Londra per ritrovare la
direzione pop degli albori e nel 2005      ha aperto la Blake
Music Art Gallery presso la School of Music dell’Università di
Leeds, dove nel 2011 verrà insignito del titolo onorario di
Doctor of Music e del grado onorario di Dottore d’arte presso
la Nottingham Trent University.

Nel 2014 ricevette il titolo di Accademico Onorario dalla
Royal West of England Academy di Bristol.

Approfondimenti:

Sir Peter Blake, official page

Blake at the Tate Gallery

Intervista a Blake su Nerve, magazine di Liverpool, autunno
2006

Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club – dettaglio dei personaggi e
degli oggetti in copertina

S1:E6 “Peter Saville – JOY –
Nothing but a Fool”
vai alla prima parte
vai alla seconda parte

Playlist per JOY|Saville parte terza:

Alea iacta est:     il dado ormai è tratto e non si torna
indietro, la new wave e il post punk dal 1977 (riconosciuto
universalmente come anno di svolta) hanno dato alle fiamme
tutto e hanno fatto proseliti… (Valerio Michetti)

Il percorso attraverso la carriera di Peter Saville, porta
inevitabilmente al suo lavoro con i Joy Division, subendo una
volta in più l’ondata di emozioni che ci travolge ogni volta
che guardiamo quelle copertine e ascoltiamo la loro musica.

Il 1979 è l’anno di Unknown pleasure.

Pausa, respiro lungo, lento e profondo.

Unknown pleasure
Peter Saville attinge alla Cambridge Encyclopedia Of Astronomy
e prende l’immagine dei cento impulsi consecutivi della prima
stella “pulsar” mai scoperta, la CP1919, composta di neutroni,
derivanti dal collasso gravitazionale di una stella massiccia
durante un’esplosione stellare supernova.      Il 28 novembre
1967, Jocelyn Bell Burnell e Antony Hewish osservarono degli
impulsi di onde radio dal cielo provenienti dalla
costellazione di Vulpecola, intuirono che non poteva essere
un’origine artificiale a causare questa        “interferenza”
magnetica. Hewish e Burnell dubitarono di aver colto le prove
di una civiltà aliena, ma in virtù dell’origine misteriosa
del segnale, lo battezzarono LGM-1, “Little Green Men”.

Saville riflette l’immagine in negativo, ne riduce le
dimensioni per sovrapporla allo sfondo nero e la stampa su
carta testurizzata, ottiene un effetto di movimento fluttuante
dolce e malinconico, davanti al quale siamo disarmati. La
lega così alla bellezza e alla solitudine della musica dei Joy
Division, che ci arriva da lontane profondità insondabili, la
radiazione poetica ci rende totalmente succubi dell’impatto
emotivo cosmico.     L’immagine è ipnotica, ci porta alle
pulsazioni del basso di Peter Hook, il richiamo ad un grafico
sismico rievoca suoni la chitarra di Bernard Sumner, lo sfondo
nero è la voce di Ian Curtis in cui tutto si fonde: ecco a noi
FACT 10, Joy Division, Unknown Pleasures.

“È un’immagine sia tecnica che sensuale. È tesa come la
batteria di Stephen Morris ma è anche fluida: molti sono
convinti che rappresenti il battito del cuore” (P. Saville)

Lo stesso Saville ne spiega il processo creativo    in questo
video (english language):

Data Visualization, Reinterpreted: The Story of Joy Division’s
“Unknown Pleasures” Album Cover
Nel Giugno del 1980, esce il singolo “Love Will Tear Us
Apart”, anticipa il rilascio del secondo album del gruppo
“Closer”, che uscirà il 18 luglio, registrato tra il 18-30
marzo alla Britannia Row Studios di Islington di Londra.

This is the way, step inside.
Closer
Nel caso di Closer, all’immagine, alla tecnica di Saville si
aggiunge la storia: è proprio questo ultimo fattore che rende
l’artwork di oggi non soltanto bello, adatto, ma tragicamente
solenne.

Saville sceglie un’immagine della tomba monumentale della
famiglia Appiani presso il cimitero di Staglieno, ne è autore
lo scultore genovese Demetrio Paernio, che la realizzò nel
1910.    Le figure sono prostrate dal dolore, avvolte da
delicati tessuti, le cui pieghe danno forma al lutto,
magistralmente rilevate dai chiaroscuri della fotografia che
il francese Bernard-Pierre Wolff eseguì 1978.      Un’immagine
elegantissima, dotata di leggerezza devastante, attraverso cui
entriamo in una dimensione di calma disperazione, la silente
quiete dopo le assurde tempeste della vita.

La copertina assume un valore promonitore, è stata realizzata
poco prima del tragico suicidio di Ian Curtis, avvenuto a soli
23 anni, due mesi prima dell’uscita del singolo. Fu difficile
per Saville sopportare il peso premonitore del suo lavoro.

Saville raccontò in seguito: “Credo che a Ian andassero bene.
Forse, se mi avessero mandato le bozze dei testi e se avessi
avuto una certa sensibilità, avrei pensato di non insistere su
quell’argomento. E magari avrei proposto degli alberi…”

“Just for one moment, thought I’d found my way

Destiny unfolded, I watched it slip away”

In questa terza ed ultima parte, il cuore mi ha portato a
soffermarmi su questi due capolavori di Peter Saville, sono
due pietre miliari del rock design, due perle dell’
impressionante quantità di opere che Saville ha generato.

Ha lavorato a lungo con Orchestral Maneuvers in the Dark, non
meno longeva è stata la collaborazione con Ultravox.

Nel 1984 realizzò la copertina del celebre singolo degli Wham!
“Wake Me Up Before You Go-Go”.    Nel 1986 ricevette una delle
somme più alte mai pagate per la realizzazione della copertina
dell’album So di Peter Gabriel.

Dopo Factory Records ha lavorato per DinDisc e Virgin, nel
1990 è partner owned di Pentagram, nel 1993 va Los Angeles per
lavorare con la Frankfurt Balkind.

Torna a Londra lavora per tre anni con Howard Wakefield presso
“The Apartment” in collaborazione con la tedesca Meiré &
Meiré. Il suo appartamento modernista a Mayfair diventa il
doppio studio     e viene rappresentato nella copertina
dell’album This Is Hardcore dei Pulp.

Infine ha fondato con Brett Wickens la propria agenzia di
design: Peter Saville Associates.

Gli sono stati assegnti tre premi D&AD, il Royal Designer for
Industry e la London Design Medal.

Nel luglio 2019 Saville è stato protagonista del programma
della BBC Radio 4 Only Artists.

Nel 2020 Saville è stato nominato Comandante dell’Ordine
dell’Impero britannico (CBE), per il contributo reso al
design.
Peter Saville

S1:E5 “Peter Saville – OUTPUT
– Gutta cavat lapidem”
                                          vai alla prima parte

Playlist per OUTPUT|Saville – parte seconda:

Gutta cavat lapidem
La necessità di cambiare le carte in tavola nel mondo del
rock, da parte di artisti che volevano imporre un nuovo
linguaggio creativo, lo hanno fatto con costanza e
determinazione, come una goccia che scava la “roccia”.(Valerio
Michetti)

La Factory di Wilson e Saville risponde all’urgenza di trovare
“spiriti affini che potessero capire e reagire”
[Post Punk: 1978-1984, Simon Reynolds]

Le scelte grafiche permetteranno alla Factory e ai gruppi che
rappresentano di fare da confine con l’era post punk, figli di
un’eleganza austera, spezzano la prospettiva romantico pre
punk e lo stereotipo new wave.       Costruiscono il profilo
visuale della loro vocazione neo modernista, hanno un catalogo
irragionevole e sballato, pieno di idee fasulle e di progetti
mai realizzati benedetti da dio Duchamp: Fac 8 era una
clessidra mestruale ideata e mai prodotta da Linder Sterling;
Fac 99 era il conto del dentista di Robert Gretton,
codirettore della Factory.

“Per Wilson, questo genere di trovate rientrava nello spirito
del situazionismo, lo spirito francese anarco-dadaista degli
anni sessanta, le cui idee ammirava particolarmente”
[Post Punk: 1978-1984, Simon Reynolds]

È una visione dell’arte che butta giù i muri che la separano
dallo scenario quotidiano che circonda l’artista, oggetti
decontestualizzati prendono vita e sono protagonisti altrove,
come il segnale di pericolo rubato dalla residenza
universitaria, cui si ispirò per la realizzazione del
manifesto della Factory, disegnato nel maggio del 1978: Fac 1,
opera classico-modernista che possiamo far rientrare nella
corrente dello “sleeve design”. Stampa giallo su nero per i
concerti di maggio/giugno ’78, le bands in primo piano erano:
Joy Division, Durutti Column, The Tiller Boys, Cabaret
Voltaire, Jilted John, Big In Japan e Manicured Noise.

fac 1 – poster factory
La prima produzione fu Fac 2: “A Factory Sample”, doppio ep
Factory ?– Gatefold Sleeve (Various artists: Joy Division, The
Durutti Column, John Dowie, Cabaret Voltaire) con la copertina
argentata e pieghevole, che Paul Morley descrisse così: “Era
così speciale, il fatto che fosse così bello dimostrava quante
possibilità esistessero.”
A Factory sample
Anti intellettuali di grande cultura, scettici verso l’arte
istituzionale, Saville e i suoi si ornano di un velo di
situazionismo rifiutando il concetto del profitto, i gruppi
non firmavano contratti e rimanevano proprietari della loro
musica, al fine di raggiungere una specie di perfezione
estetica spesso disastrosa, le copertine erano a volte così
costose da uccidere ogni possibilità di profitto, come il
celebre caso della copertina del singolo Blue Monday, dei New
Order.

Questa copertina ebbe un grandissimo impatto comunicativo,
nacque da un floppy disc poggiato su un piano dello studio di
registrazione della band. Saville è attratto dalla semplicità
dell’oggetto e dalla sua simbologia evocativa, al tempo
diffusissima novità tecnologica dai molti utilizzi, la
copertina è piena della sola immagine stilizzata di un
floppy,     nessuna riferimento alla band, al titolo,
all’etichetta.   Le informazioni sono sul retro in un’unica
scritta: “FAC SEVENTY THREE”, unita a una serie di blocchi
colorati, all’interno troviamo una seconda copertina argentata
fustellata. La realizzazione costò alla Factory records la
perdita di 5 pens a cover.

Le ristampe successive subirono un’ottimizzazione finalizzata
alla riduzione dei costi, nelle riedizioni del 1988 e 1995, la
fustellatura venne sostituita da una stampa color argento.

Blue monday, New Order
Blue Monday è tratto da Power Corruption And Lies, dei New
Order, trova ispirazione in una semplice cartolina della
National Gallery, raffigura “A Basket of Roses” una natura
morta dipinta ad olio nel 1890 dal pittore francese
impressionista Fantin Latour: «Il titolo del disco sembrava
machiavellico. Così sono andato alla National Gallery a
cercare un ritratto rinascimentale di un principe oscuro.
Alla fine però mi sembrava troppo banale, così ci ho
rinunciato e ho comprato delle cartoline al negozio di
souvenir. Era un’idea meravigliosa. I fiori suggerivano come
potere, corruzione e menzogne si infiltrano nelle nostre vite.
Sono seducenti»

Sul retro Saville cita la mercificazione dell’arte, inserisce
un codice da decifrare attraverso la ruota cromatica che
riempie la seconda di copertina. Il codice cromatico risolto
risponde alla scritta “FACT 75”, 75esima release di Factory
Records.

Power Corruption and Lies, New Order, un’unica immagine con
fronte retro
Più di ogni altra copertina che ha realizzato, Technique
testimonia la decontestualizzazione postmoderna dell’idea di
Saville. Nel 1989 vide la scultura di pietra di un cherubino
in un mercatino dell’antiquariato di Pimlico Road, un’immagine
perfetta per rappresentare il sentimento materialista e
libertino che si stava affermando in quel periodo, in cui
musica e arte si coprono di un manto di edonismo, nell’abuso
di droghe bramano piacere e pace dei sensi.

La   scultura   venne   fotografata   da   Trevor   Key,   stretto
collaboratore di Saville, e divenne il soggetto perfetto
dell’opera FAC 289, New Order, Technique campaign, febbraio
1989.

Technique, New Order
segue…
S1:E4 “Peter Saville – INPUT
– Utilitas Firmitas Venustas”
“C’è una citazione di Claes Oldenburg: “Sono a favore di
un’arte che nasce senza nemmeno sapere di essere tale”. La
conoscenza può diventare un limite, la consapevolezza
bloccarti.” (Peter Saville)

Non ho potuto essere sintetica su Peter Saville, per lui nutro
un amore incondizionato, sia per motivi personali, sia perché
Saville è tuttora uno dei graphic designer più produttivi
degli ultimi decenni e le sue copertine restano oggi tra le
più riconoscibili di tutti i tempi.

Perciò ho diviso gli articoli sulla sua straordinaria carriera
in tre parti:   Input, Output, Joy.

Ho chiesto all’amico Valerio Michetti, anche lui adoratore di
Saville, di fare tre playlist a corredo della lettura, grazie
al suo entusiasmo possiamo augurarvi non solo buona lettura,
ma anche buon ascolto:

Playlist per INPUT|Saville – parte prima:

Utilitas Firmitas Venustas
“La bellezza è l’inizio di ogni viaggio e il fine ultimo di
ogni ricerca, la musica la tiene saldamente stretta a sé
perché è nel suo DNA.      Tutti i brani scelti sono legati
all’immaginario di Peter Saville”. (Valerio Michetti)

Peter Saville è nato a Manchester nel 1955, ha frequentato St
Ambrose College e in seguito ha studiato graphic design presso
il Manchester Polytechnic, dove assume l’ispirazione
costruttivista tipica del periodo post-punk di cui è figlio,
virando verso una grafica di ideale venustà, in risposta al
rumore visuale della grafica punk. Attinge a De Stijl, John
Heartfield, Bauhaus e Die Neue Typographie, che avranno un
impatto importante su tutta la sua produzione, e studia la
tipografia moderna attraverso i lavori di Herbert Bayer e Jan
Tschichold.

Nel 1979 Tony Wilson fonda la Factory Records insieme ad Alan
Erasmus, Martin Hannett, Rob Gretton e Peter Saville, che ne
diventa direttore creativo. Sarà una delle più significative
etichette discografiche indipendenti del panorama musicale,
cui Wilson e Saville hanno dato in più una connotazione
estetica nuova, il cover design assunse un’importanza ancora
più rilevante di quanto già non fosse.

Peter Saville by Tony Barratt
Gli albori della carriera professionale di Peter Saville sono
clamorosi, le sue opere sono oggetto di culto, indimenticabili
espressioni del suo genio visionario.

Non si è più fermato, ha continuato in crescita indefessa
attraverso un viaggio di progettualità trasversale, ha
esplorato senza sosta le potenzialità del design e della
propria capacità visionaria, che si sono incrociate con i
fenomeni culturali e artistici contemporanei: musica, moda,
sport e packaging.     Mai oppresso, anzi stimolato dai
cambiamenti che la contemporaneità avrebbe potuto avere sul
suo lavoro, nel corso degli anni ha collaborato con i Joy
Division e successivamente i New Order, Roxy Music, Peter
Gabriel, EMI, OMD, Givenchy, Yohji Yamamoto, Dior, John
Galliano, Alexander McQueen, Selfridges, Adidas e Stella
McCartney, per citare solo alcuni dei suoi numerosissimi
clienti.

Peter Saville
Ma per comprendere il lavoro di Peter Saville e della Factory,
occorre conoscere meglio il contesto in cui nacque e si formò,
lo facciamo nel modo più autentico, attraverso le parole dello
stesso Saville, con una conversazione avuta con Francesco
Tenaglia (Mousse Magazine & Publishing, Rolling Stone, Rivista
Letteraria), di cui riportiamo uno stralcio significativo
(Testo completo: Peter Saville racconta )

“Manchester è cresciuta con l’industrializzazione e, nel
Diciannovesimo secolo, è stato uno dei luoghi più importanti
del mondo. Lì sono state accese le prime macchine da lavoro e,
da ogni angolo del pianeta, si accorreva ad ammirarle. Karl
Marx studiò queste prodigiose novità per le sue ricerche su
capitalismo ed economia sociale: come noto, Marx era legato da
un rapporto di profonda amicizia e solidarietà con Friedrich
Engels che visse a Manchester per un po’. […]

Nacquero a Manchester i movimenti sindacali, le idee a favore
dei diritti dei lavoratori, una nuova cultura morale-
politica. […] Facendo un fast-forward alla fine della seconda
guerra mondiale, l’industria, motore del benessere cittadino,
subì un declino repentino. La città in cui sono cresciuto era
già post-industriale. Sopravviveva qualche tratto che puntava
al passato glorioso, ma era sempre più debole. In un certo
senso, venne a mancare un’idea di futuro. […]

C’erano musicisti pop di Manchester, ma nella maggior parte
dei casi andavano via. Come i Beatles con Liverpool. […]
Oltre al calcio c’era davvero poco, l’arte contemporanea nel
Regno Unito era accessibile solo a un’élite privilegiata di
Londra e anche lì, fino alla metà dei Novanta, era una scena
concentrata sostanzialmente in un’unica via, Cork Street. […]

Il progressive, il glam e il pop avevano delineato una cultura
musicale incentrata sull’immagine. Penso ai T.Rex, ma
soprattutto a David Bowie e al peso simbolico del suo
disallineamento così radicale con il mainstream. L’idea che
si potesse progettare da zero la propria identità era
meravigliosa, decisiva per un adolescente britannico nei primi
anni Settanta. […]

Il fenomeno dei super-gruppi a metà anni Settanta era stato
spezzato dal colpo di stato del punk: era un momento in cui
gli ambasciatori della tua cultura non ti parlavano più. Erano
a zonzo per l’America a bordo di quarantotto camion, suonavano
di fronte a migliaia di persone assiepate in uno stadio, persi
nella mistica delle star milionarie. La loro esperienza di
vita non era più legata alla tua.

Il punk arrivò e disse: “Grazie molte, da qui in poi ci
pensiamo noi”. […]

Manchester, tra il 1976 e il 1977, divenne luogo di
meravigliose venue per il punk e per quello in cui si stava
trasformando, ovvero la new wave. Purtroppo la canzone dei
Sex Pistols God Save the Queen infastidì parecchie persone e i
comuni, in giro per il Regno Unito, s’impegnarono ad arginare
quella rogna sovversiva. Manchester, dall’essere patria di
sale da concerto, si svuotò nell’arco di pochissimi mesi per
colpa di politiche rivolte a contenere il fenomeno punk.

Per   questo   motivo   un   giovane   imprenditore   nel   settore
televisivo, Tony Wilson, si prese carico della situazione
trasformandosi nel guardiano della nuova cultura giovanile.
Cercò un locale e inizialmente – devo essere onesto – non era
qualcosa di diverso da quello che oggi si definirebbe “una
serata” in un club. Il primo Factory durò un paio di mesi e
si teneva ogni venerdì sera. Volli assolutamente essere
coinvolto e chiesi a Tony in che modo potessi aiutarlo. “Fa’
un poster” mi rispose. All’epoca c’erano solo Tony, il suo
migliore amico Alan Erasmus e io. Stavo per diplomarmi e
l’unica cosa che m’interessava veramente era realizzare
copertine. […]
Puoi anche leggere