"Preludio al Cielo" Recensione e interpretazione filosofica di Davide Dal Pozzolo

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“Preludio al Cielo”
                  Recensione e interpretazione filosofica
                                    di
                          Davide Dal Pozzolo

Un’ascensione, un salire verso il cielo.
Un librarsi nello spazio libero, maestoso e accogliente della volta celeste.
Una percezione di calma, serenità e infinita libertà.
Sono queste alcune delle sensazioni che si possono provare nel fruire “Preludio al
Cielo”, la prima e stupenda opera della raccolta “Forme della musica” della pittrice
Silvana Abram.
Un’opera che nasce dall’ascolto.
Ed è questa, a mio avviso, la chiave di lettura dell’intera opera: l’ascolto.
“Preludio al Cielo”, infatti, è la personale rielaborazione pittorica da parte di Silvana,
di uno dei capolavori della musica classica, la Suite n.1 per violoncello in Sol
Maggiore di Johan Sebastian Bach, nella versione musicata dal maestro violoncellista
Yo-Yo Ma.
Ciò che colpisce subito il fruitore dell’opera è il colore dominante di tutta la tela,
frutto di una ricerca certosina da parte dell’artista nel mescolare pigmenti puri fino ad
ottenerne il risultato voluto: un blu serafico dai riflessi purpurei che traduce in colore
il suono celestiale del violoncello nella composizione bachiana. Una tintura unica,
impossibile da riprodurre, e che si mostra all’osservatore come “profonda” e
“sfuggente” allo stesso tempo. In effetti, come ben esemplifica Vasilij Kandinskij ne
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“Lo Spirituale nell’Arte” , le frequenze cromatiche del blu e del viola si prestano
perfettamente a trasmettere quelle sensazioni di profondità e maestosa sacralità che il
grande compositore tedesco riesce ad infondere in tutta la sua produzione musicale.
Tuttavia, il brano Suite n.1 per violoncello in Sol Maggiore è indubbiamente una
composizione molto complessa e varia. Ad un ascolto attento infatti, si possono
percepire dei guizzi, degli slanci musicali di crescente intensità che traggono sì
origine dallo sfondo armonioso ma che presto lo abbandonano per prendere vita
propria e che la pittrice riesce a tradurre con pennellate energiche e veloci. I colori di
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questi slanci sono puri come il bianco o caldi e carichi di intensa vitalità come il
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rosso e l’arancione ; guizzi cromatici che giocano, si inseguono, si intrecciano tra di
loro rincorrendosi verso il centro della tela, il fulcro della rappresentazione.
All’osservatore non può infatti sfuggire le due immagini che traspaiono al centro
della tela, a formare i due simboli che, a mio avviso, sono la chiave interpretativa
dell’opera: il Cuore e l’Orecchio.
Entrambi questi simboli rappresentano, a mio modo di vedere, due modalità di
ascolto, strutturalmente diverse tra loro eppure con delle forti affinità che le
accomuna: l’Orecchio lo si può pensare come simbolo di una modalità di ascolto che
va verso l’esterno, verso l’altro, verso il mondo esteriore; il Cuore come modalità di
ascolto che va verso l’interno, verso sé stessi, verso il proprio mondo interiore.
L’uomo moderno e post-moderno ha perso dimestichezza con entrambe queste
modalità, sedotto prima e fuorviato poi da un linguaggio diverso, nato in Grecia più
di duemila anni fa e che ha progressivamente dominato la nostra cultura
caratterizzandola come “Occidentale”: questo linguaggio è il linguaggio del Logos.
Un pensiero e un linguaggio diverso da quello del Mythos, dal linguaggio cioè
parlato in precedenza dall’uomo pre-filosofico, in quanto si fonda su un diverso
paradigma: quello della Vista e del Vedere (qui intesi in una accezione più ampia di
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quella puramente fisica) anziché quello sull’Ascolto.
Si rende dunque necessario non un ritorno anacronistico al linguaggio dei simboli
(anche perché impossibile) ma bensì una progressiva rieducazione, da parte
dell’uomo contemporaneo, all’ascolto di sé stesso come modalità privilegiata di una
comprensione esistenziale vissuta e che il linguaggio razionale e oggettivante non è
in grado di soddisfare.
Ed è questo, a mio parere, uno dei più importanti messaggi celati nella stupenda tela
di “Preludio al cielo” e fruibile allo spettatore che ha la fortuna di goderne la visione:
la chiave per comprendere meglio sé stessi ed elevare la propria esistenza sta in un
maggiore ascolto: un ascolto dell’Altro e di Sé stessi.
Rieducarsi all’ascolto.
E’ questo quello che può fare oggi l’uomo post-moderno mentre rimane in attesa:
mentre aspetta di essere parlato da un nuovo linguaggio che riuscirà ad ordinare il
Mondo attraverso un paradigma diverso da quello della Vista, riuscendo in questo
modo a conferire nuovamente un significato globale e intero ad una Realtà che oggi
ci appare ancora troppo frammentaria e confusa.
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  “La profondità la troviamo nel blu, sia in teoria (nei suoi movimenti 1. e di allontanamento dallo
spettatore, 2. di avvicinamento al centro), sia in pratica, se lo lasciamo agire, in qualsiasi forma
geometrica, su di noi. La vocazione del blu alla profondità è così forte, che proprio nelle gradazioni
più profonde diviene più intensa e intima. Più il blu è profondo e più richiama l’idea di infinito,
suscitando la nostalgia della purezza e del soprannaturale. E’ il colore del cielo, come appunto ce lo
immaginiamo quando sentiamo la parola “cielo”.
Il blu è il colore tipico del cielo. Se è molto scuro dà un’idea di quiete. […] Da un punto di vista
musicale l’azzurro assomiglia a un flauto, il blu a un violoncello […].”

Vasilij Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, SE Edizioni, Milano 1996, p. 63.

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   “In particolare il bianco, che spesso è considerato un non-colore (soprattutto grazie agli
Impressionisti che non vedono “nessun bianco in natura”), è quasi il simbolo di un mondo in cui
tutti i colori, come principi e sostanze fisiche, sono scomparsi. E’ un mondo così alto rispetto a noi,
che non ne avvertiamo il suono. Sentiamo solo un immenso silenzio che tradotto in immagine
fisica, ci appare come un muro freddo, invalicabile, indistruttibile, infinito. Per questo il bianco ci
colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto. […] Non a caso il bianco è il colore degli
abiti che esprimono gioia pure e purezza immacolata.”

Vasilij Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, SE Edizioni, Milano 1996, p. 66,67.

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  “Il rosso caldo, rafforzato dal giallo che gli è affine forma l’arancione. Con questa mescolanza il
movimento interiore del rosso si tramuta in un movimento che si irradia e si disperde all’esterno. Il
rosso è molto importante nell’arancione e gli infonde un senso di serietà. L’arancione è come un
uomo sicuro della sua forza, che dà un’idea di salute. Il suono sembra quello di una campana che
invita all’Angelus, o di un robusto contralto, o di una viola che esegue un largo.”

Vasilij Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, SE Edizioni, Milano 1996, p. 69,71.

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  Per chiarire questo decisivo passaggio mi è doverosa e necessaria una premessa filosofica che,
seppur veloce e sommaria, cerchi di giustificare la progressiva perdita di dimestichezza, da parte
dell’uomo contemporaneo, con un linguaggio centrato sull’ascolto.
Semplificando, possiamo dire che da sempre l’uomo ha cercato di conferire un ordine e un
significato ad una Realtà che altrimenti gli risulterebbe caotica, insensata e per questo minacciosa.
Da sempre l’uomo, per bisogno o per necessità, ha cercato di conoscere il Mondo e di significarlo:
cioè di trasformare il mondo da Kaos (realtà disordinata e insensata) ad un Cosmos (realtà ordinata
e significante).
L’uomo antico e pre-filosofico ha significato la realtà raccontandola e cioè trovando l’Ordine (il
Cosmos) attraverso la narrazione degli eventi. L’uomo pre-filosofico conferiva dunque significato
alla realtà inserendo i fenomeni, cioè tutti gli accadimenti del Reale, all’interno di una struttura
narrativa: in un Racconto, in un Mythos.
Il linguaggio di cui l’uomo pre-filosofico è parlato, è dunque il linguaggio che non descrive, né
spiega il Reale ma lo racconta, attraverso analogie, simboli e metafore. I depositari del sapere
mitologico sono i poeti, uomini sapienti e saggi che hanno il dono dell’Ascolto: l’uomo parlato dal
Mythos, infatti, non ricerca, né osserva ma “ascolta”. Ascolta la volontà delle divinità, e riceve da
esse la conoscenza rivelata, ascolta una verità che è Aletheya, cioè una manifestazione, un bagliore
di luce luminoso. L’uomo del Mythos dunque si interroga sulla natura e sul senso del Mondo ma
non prova a darsi una risposta, bensì cerca di ascoltarla, di riceverla da un’autorità superiore a lui,
sia esso un sacerdote, un poeta o il dio stesso. Di fronte alla conoscenza del Mondo, l’atteggiamento
dell’uomo pre-filosofico, parlato dal linguaggio del Mythos è per così dire di “attesa”. Il paradigma
su cui si fonda tutto il linguaggio narrante del Mythos è il paradigma dell’Ascolto, perché il
patrimonio di conoscenze e di rivelazioni viene inserito in una struttura narrativa coerente (Miti,
Leggende, Poemi) e in una serie di racconti che si trasmettono oralmente, attraverso la voce di chi
narra e l’ascolto di chi riceve tale sapere.
Ad un certo punto però, nella storia dell’uomo accade qualcosa di straordinariamente nuovo:
nell’interrogarsi sul Mondo, l’uomo decide di darsi delle risposte. Smette di interrogare un’autorità
riconosciuta e inizia ad interrogar-si. E in questo interrogarsi prova a darsi delle risposte. Il
pensiero si piega così su sé stesso, l’uomo comincia a ri-flettere e lo fà ricorrendo all’uso del suo
solo intelletto. Ed è allora che prende vita una nuova modalità di ordinare il Reale, di conferire
significato e ordine al Mondo irrazionale e caotico: un nuovo modo di trasformare il Kaos in
Cosmos.
In questa nuova modalità, il pensiero dell’uomo comincia ad isolare i vari fenomeni, per
distinguerli, classificarli e ordinarli secondo criteri che non appartengono più alle strutture
narrative: il pensiero dell’uomo comincia a vedere nei vari fenomeni del Mondo, delle relazioni e
dei collegamenti che prima non c’erano, perché non erano stati cercati e resi in questo modo visibili
(all’intelletto umano).
Il pensiero dell’uomo da “Racconto” diventa logico e razionale: da Mythos diventa Logos.
L’uomo incomincia a ordinare il Mondo inserendo i vari fenomeni del Reale all’interno di una
Visione che vuole essere ordinata e logica e conoscendo la Verità non più come Aletheya
(manifestazione) ma come Theoresys (Visione coerente e ordinata del Mondo). Il paradigma sul
quale si fonda questo nuovo linguaggio non è più quello dell’Ascolto ma bensì quello della Vista.
L’uomo conosce osservando, mostrando, di-mostrando, rendendo visibile (agli occhi del pensiero)
la nuova conoscenza acquisita tramite la sua riflessione e che diventa in questo modo maggiormente
oggettiva e comunicabile. Il sapere fondato sul paradigma della vista è un sapere maggiormente
democratico, perché chiunque può accedervi mediante il proprio intelletto.
Questa nuova modalità del conoscere si mostra subito un linguaggio potente e che ben presto
diventa dominante, caratterizzando la nostra cultura come la cultura della Scienza oggettivante, del
conoscere analitico e calcolante, in breve: come la “Cultura Occidentale”. E mentre nel corso della
nostra storia il Paradigma della Vista si afferma e diventa dominante con la Scienza Sperimentale,
quello dell’Ascolto viene relegato alle attività umane più istintive, corporali e irrazionali dell’animo
umano, quelle attività che non hanno a che vedere con il “conoscere oggettivo” e che sono
espressione delle varie forme artistiche (musica, pittura, poesia).
Oggi l’uomo post-moderno è parlato ancora dal linguaggio del Logos. Ha rinunciato certamente
all’ambizioso progetto originario di significare l’intera Realtà, preferendo ordinare singole porzioni
visibili e osservabili della stessa (Scienza Sperimentale) e tuttavia è ancora addestrato fin dalla sua
infanzia a familiarizzare con il pensiero fondato sul Paradigma della Vista. Per questo motivo,
l’uomo oggi non ha più la dimestichezza sufficiente a decodificare il linguaggio dei simboli,
fondato invece sul Paradigma dell’Ascolto. Per questa ragione, l’uomo post-moderno non è più
abituato ad ascoltare e ad ascoltarsi.
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