Italia e New Economy: "questo matrimonio..s'ha da fare?"
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Brunello Fabio Corso di Economia e gestione della conoscenza I Italia e New Economy: “questo matrimonio..s’ha da fare?” Viaggio nella new economy: che cos’è, situazione in Italia e sviluppo degli incubatori 1. Uno sguardo sulla new economy New economy, due termini che ricordano brutte esperienze a qualche incauto investitore che ha puntato molti suoi risparmi in titoli “new” al Nasdaq o al Nuovo Mercato: ma questo mutamento epocale tanto conclamato è già finito? Innanzi tutto si deve affermare che ciò che è successo in Borsa è un riflesso parziale della vera “new economy”: il boom finanziario è stato solo una bolla speculativa, che, iniziata ormai da un decennio, ha avuto il suo apice nel primo trimestre 2000 e che ha visto i titoli tecnologici, dato anche il loro alto grado di rischio, favoriti da questo impressionante aumento del valore azionario (non di quello economico). Dopo la rivoluzione economica degli anni Venti e quella dei più vicini anni Sessanta, si è presentata inaspettata e dirompente questa degli anni Novanta. Un boom dell'economia reale che vede, quindi, la sua punta d'iceberg nella bolla speculativa del mercato finanziario. Un fenomeno di fine millennio che coincide con i clamorosi successi del mercato informatico e delle tecnologie digitali dell'informazione: ed ovviamente c'è un nesso. L'alfabetizzazione informatica, la diffusione dei pc sulle scrivanie di casa, l'informatizzazione diffusa nei luoghi di lavoro, l'avvento di Internet e del commercio elettronico hanno migliorato profondamente le economie industrializzate mondiali, in particolar modo quella americana. L'ultimo decennio vede gli Stati Uniti protagonisti di una lunga ripresa economica, una crescita costante iniziata nei primi anni Novanta e continuata dall’amministrazione Clinton, che ha svolto una consapevole politica industriale – fatta di interventi diretti o di agevolazioni fiscali – al prestabilito fine di aiutare la fase di decollo di questa rivoluzione economica; uno sviluppo che ha visto concentrare tutti gli sforzi verso la modernizzazione dell'industria e dei 1
servizi, incrementando notevolmente la produttività degli addetti. Ma questi anni, se posti sotto una lente d'ingrandimento, fanno emergere elementi interessanti che possono farci meglio comprendere il fenomeno della new economy, il grande "mare" socio-economico dove andranno a navigare migliaia e migliaia le aziende e i professionisti del nuovo millennio. Fra i fattori di spinta della "rivoluzione economica" uno è sicuramente legato allo stravolgimento di una vecchia regola di mercato: "quando il mercato del lavoro è in piena occupazione, la mancanza di manodopera fa aumentare i salari e il rincaro si ripercuote inevitabilmente sui prezzi". Ma questa volta, non è così e, al contrario, la crescita non è accompagnata da nessuna tendenza inflazionistica. Il motivo in realtà non è poi così complesso: l'inflazione è contenuta e attenuata dalla stessa rivoluzione tecnologica che, migliorata la produttività dei lavoratori, aumenta il Pil nazionale. Dalla situazione appena descritta è nato di conseguenza un nuovo modello di mercato, basato su nuove regole: la new economy, che è qualcosa di più di un modello di mercato che si basa su nuove regole. Il nuovo mercato nasce da una old economy in ripresa e in mutamento, grazie agli investimenti delle imprese in nuove tecnologie, e da un parallelo ed esplosivo rialzo della Borsa e dalle sempre più numerose e consistenti quotazioni di titoli azionari appartenenti a società operanti nel settore hi-tech. E se la Borsa è in rialzo, il Nasdaq, il listino azionario di Wall Street delle aziende ad alta tecnologia, esplode. Dagli anni Ottanta ad oggi si sono diffuse a macchia d'olio dapprima i produttori di hardware (da Apple e IBM ai nuovi colossi del mondo computing di oggi quali Dell e Compaq) e le società software (prima fra tutte Microsoft); a completare l'ondata di innovazione tecnologica, infine, ecco l'arrivo di Internet e delle applicazioni ad esso correlate (i servizi sul Web e il commercio elettronico), con le sue migliaia di net-company. A favorire il fenomeno finanziario e a dargli una connotazione così importante è stato proprio l'arrivo di Internet, mezzo attraverso cui tante società hanno fatto (e alcune continuano) fortuna. Ma i profitti reali di un'azienda "Internet" arrivano solitamente dopo la decisione di quotarsi in Borsa, dove molte di queste hanno visto decuplicarsi il valore del titolo nel giro di pochi mesi. Scoppia proprio in questo modo il "delirio" dei listini, con le sue valutazioni da capogiro e con le sue quotazioni spesso sopravvalutate (è da considerare il particolare che quasi tutte le dot company si sono presentate in Borsa con conti in passivo). In aggiunta, Internet ha introdotto soluzioni e servizi per effettuare transazioni finanziarie on-line, in maniera facile e veloce, contribuendo a far lievitare il numero di adepti della "Borsa", per quanto poco esperti e privi delle competenze necessarie all'analisi dei bilanci e delle tendenze di mercato, e presentarlo (in prospettiva) alla stregua di nuovo fenomeno di massa. Ma con il 2000 arriva anche la disillusione del mercato, che dopo una serie di flop anche clamorosi, dà il via ad un ridimensionamento e ad una presa di coscienza che iniziano a dare il giusto valore ai listini tecnologici. Non tutte le dot company sono dunque più necessariamente aziende ricche e vincenti sulle quali potere speculare ed arricchirsi, e questa verità ha generato ingiuste correnti di scetticismo nei 2
confronti della new economy. Ma è fisiologico che le fasi di crescita siano seguite da recessione. 2. Che cos’è veramente la new economy? In senso lato, la new economy consiste nell’utilizzo ed adozione delle nuove tecnologie all’interno delle aziende e dei sistemi produttivi per ottenere significativi vantaggi economici (Bettiol, 2001). Non si tratta, in ogni modo, soltanto di una rivoluzione tecnologica: è una vera e propria rivoluzione culturale.La new economy non è solo Internet e nuove tecnologie, è l'economia della connessione, un nuovo modo di produrre, scegliere, comprare, comunicare.Cambiano i fattori di competitività per le imprese, con la crescente importanza della conoscenza, soprattutto informale e tacita. Queste “nuove tecnologie” sono, però, il key factor, il fattore determinante che porta la nostra (passata) economia, fordista o capitalista di massa, verso un nuovo paradigma economico, per via di litote postfordismo, o più adeguatamente “capitalismo delle reti", che si sviluppa in tre stadi distinti, ma da considerare sinotticamente: la new economy, una rivoluzione settoriale; la net economy, legata alle relazioni; la knowledge economy, rivoluzione cognitiva.Il postfordismo impone un immediato ripensamento del modello organizzativo dell'impresa: il mercato e la capacità di rapportarsi ad esso attraverso logiche di rete diventano l'unico vero patrimonio dell'azienda, che deve essere interamente focalizzata su questi asset. La struttura interna dell'azienda sarà polverizzata dalle spinte di mercati che richiederanno una sempre più rapida capacità di adattamento, conseguita attraverso la costituzione di catene del valore articolate e dinamiche, e quindi capaci di reagire al cambiamento. Per gestire le nuove catene del valore l'azienda stessa diviene rete e la capacità del management di governare questo processo sarà sempre di più elemento distintivo del valore di un'azienda. E' in questo contesto che nuovi soggetti economici entreranno sulla scena: quelli che costituiranno il tessuto connettivo di questa nuova ragnatela e che permetteranno alle imprese di competere nel mercato globale. Le nuove tecnologie di cui ho genericamente parlato sono quelle comprese nell’acronimo ICT (information and communication technologies) e riguardano lo sviluppo di mezzi di comunicazione, di calcolo e di elaborazione delle informazioni.Il termine ICT riunisce, però, realtà non ancora omogenee; solo in ambito aziendale, sono almeno tre le realtà comprese con questa dizione, che presentano tra loro varie differenze: sistemi informativi e tecnologici che hanno caratterizzato l’informatizzazione dei processi gestionali e produttivi (come ERP, DSS, MRP); tecnologie del lavoro cooperativo supportato dal computer - groupware -; il mondo di Internet legato ai processi di comunicazione 3
con il consumatore finale (one-to-one marketing) e alle forme innovative di commercio (Micelli, 2000). 3. New economy come rivoluzione settoriale La new economy in senso stretto è quindi una “rivoluzione settoriale” che riguarda il settore che produce mezzi di calcolo, mezzi di comunicazione, e le più immediate applicazioni (produzioni virtuali e dot.com) (Rullani, 2001). In questo senso, il termine è comparso per la prima volta nel 1997 sul mensile americano Wired e in sintesi rappresenta un sistema economico dove aumentano la produttività e la domanda di tecnologie informatiche e della comunicazione (ICT) mentre scendono i costi di transazione.Questo incremento settoriale è stato reso possibile, quindi da una massiccia riduzione dei prezzi, avvenuta grazie ad alcune innovazioni fondamentali. Nel calcolo, il momento fondamentale è il passaggio dal transistor al chip di silicio miniaturizzato, migliorato ancora per mezzo di tecniche di incisione fotografica dei circuiti sempre più complesse.Questa evoluzione permette di produrre chip più potenti dei precedenti a, circa, lo stesso costo: questo relazione è esplicitata dalla legge di Moore, che afferma che i microchip, ogni 18 mesi, raddoppiano le loro prestazioni (ed il prezzo dei precedenti dimezza); essa risulta, quindi, un moltiplicatore di valore, perché, diversamente dal solito, permette di prevedere il progresso futuro probabile e di acquisire vantaggi informativi ed economici. Nella comunicazione, oltre a risentire delle benefiche conseguenze della legge di Moore, si presenta un’altra importante relazione, la legge di Gilder, che formalizza il fatto che la larghezza della banda disponibile per le telecomunicazioni, a parità di costo, triplica ogni 12 mesi, potendo così le TLC disporre di una potenza maggiore.Il valore di una connessione dipende, però, dal numero dei contatti presenti, risultando così importante l’adozione di standard comuni: su questi argomenti interviene una terza legge, quella di Metcalfe, che collega il valore di una rete al quadrato del numero dei suoi utenti (ciascun utente può collegarsi con tutti gli altri, quindi il numero di connessioni è Nx (N-1) ~N^2). Queste tre leggi empiriche evidenziano quindi che la new economy, questo concentrato di innovazioni, riduzione dei costi, di esplosione delle vendite in uno specifico settore porta questo a differenziarsi da tutti gli altri per dati quantitativi e per logica operativa, favorendo un afflusso di capitali in questa “nicchia dorata” che permette una maggiore redditività: il passaggio ad un nuovo paradigma avverrà quando i benefici, per ora, di un solo settore si allargheranno a tutto il mercato, dando vita a nuove logiche produttive e di mercato. Si assiste, inoltre, ad un progressivo uso combinato degli strumenti di calcolo e quelli di comunicazione: l'attenzione si è spostata dalla potenza del calcolo dei grandi sistemi centrali, all'informatica distribuita ed oggi alle reti. La 4
convergenza tra informatica e telecomunicazioni sta assottigliando le differenze tra i media (telefono, televisore e computer), favorendone l'integrazione nella prospettiva di disporre di un unico strumento per trasmettere e ricevere testi, immagini e voce. I Paesi della New Economy secondo Merrill Lynch 1. Stati Uniti 10. Belgio 2. Regno Unito 11. Germania 3. Svezia 12. Giappone 4. Svizzera 13. Austria 5. Finlandia 14. Francia 6. Irlanda 15. Grecia 7. Olanda 16. Spagna 8. Danimarca 17. Portogallo 9. Europa 18. Italia 4. L’Italia e la new economy Nonostante il gran dire che si fa adesso sui benefici (fittizi?) della “young economy”, l’Italia si presenta con una situazione deficitaria: non solo verso gli Stati Uniti, patria del nuovo corso, ma anche verso altri Paesi: in una classifica sui Paesi maggiormente tecnologici, l’Italia risulta solo al diciottesimo posto.Anche sul fronte dell’uso la situazione non è molto più rosea, in quanto sono poche le imprese che fanno un uso efficace degli strumenti tecnologici disponibili, conseguenza di vari fattori, molto dei quali hanno un’origine esclusivamente emotiva e non economica: il mantenimento dell’autonomia aziendale, la condivisione di informazione con i concorrenti, la difficoltà di reperimento di figure qualificate, e, da ultimo, i costi per gli investimenti tecnologici e la formazione (Capitani, 2001).Inoltre le ICT che si usano sono solamente “di facciata”, come la creazione di un sito a seguito della moda, il quale non è funzionale al business dell’azienda, ancora legato ai tradizionali metodi di produzione, comunicazione e vendita.Caso particolare è invece l’utilizzo della telefonia mobile, di cui l’italiano è il terzo fruitore (rispetto alla popolazione) dopo la Svezia e la Finlandia. Questo trend negativo si sta però invertendo: nel 2000 (e in previsione nel 2001), il comparto ICT europeo ha registrato una crescita del 13% rispetto l’anno precedente, superando gli incrementi registrati nelle altre aree mondiali.La crescita dell’Italia è risultata addirittura superiore alla media europea (+14% contro 13% di media UE). 5
Figura 1 Il rapporto dell’European Information Technology Observatory (fig.1) ha, però, registrato anche il notevole skill shortage presente in Europa e specie in Italia: la carenza di figure specializzate è un grave problema, che si cerca di risolvere nel breve importando dall’estero, come dall’India, personale già qualificato.Proprio questa necessità di professionalità è uno dei principali problemi da risolvere per portare ad un livello più competitivo l’Italia; lo sviluppo della new economy è partito senza l’Italia: per cercare di ridurre questo gap e non uscire dall’interessantissimo mercato che si sta sviluppando è imperativo dotare già l’istruzione scolastica medio-alta di un’adeguata preparazione in materia e cercare di sviluppare un’efficiente classe di personale specializzato e di ricercatori. Il mondo della formazione tradizionale e di base (scuole medie inferiori e superiori, centri di formazione professionale, università) non ha oggi percorsi didattici e formativi adeguati alle esigenze del mercato. Ciò si traduce in un forte scollamento tra domanda e offerta di risorse, con conseguente difficoltà a reperire figure competenti da inserire nel mondo del lavoro. La formazione rivolta alle imprese, inoltre, è in ritardo, perché molte aziende non colgono l'importanza delle nuove tecnologie e il loro impatto positivo sul business e quindi non dedicano investimenti in quest'area. E’ importante capire che è necessario un certo sviluppo nella produzione di ICT per favorire il consolidamento della net economy, dove, sfruttando il patrimonio culturale e imprenditoriale già presente, l’Italia può giocare un ruolo di primo piano a livello mondiale. Fra qualche anno, quella che noi chiamiamo new economy sarà detta “economy” e basta, ed è quindi importante salire il primo possibile sul tram dello sviluppo. E’ un nuovo modo di fare economia, che partendo da alcuni leggi economiche fondamentali (Shapiro, Varian, 1999), si sviluppa con suoi caratteri particolari: la civiltà della comunicazione è fatta di rapporti in rete, di multimedialità, di virtualità, di nuove forme di lavoro.Specie per il Sud, si prospetta un’opportunità straordinaria di sviluppo, non avendo 6
barriere all’ingresso, avendo, invece, inferiori costi burocratici e minore penalizzazione per il controllo del territorio ed essendo meno esposta all’illegalità perché non basata su beni materiali (Fazio, 2001).Debolezze strumentali e carenze di imprenditorialità diffusa precedente possono trasformarsi in fattori di miglioramento della competitività, come è avvenuto nell’area di Catania - l’Etna Valley -, dove l’insediarsi di un colosso internazionale dell’IT, come STMicroelettronics, ha permesso, insieme con altri fattori (politica favorevole delle istituzioni, appoggio dell’università catanese, fornitori già presenti) di sviluppare un polo hi-tech con l’ausilio dell’imprenditoria locale, tanto da sviluppare in un contesto “difficile” fenomeni di spin-off e start- up. 5. Alcuni ingredienti per la crescita Per poter seguire la scia di sviluppo, l’Italia necessita di alcuni importanti fattori: principalmente serve una riforma del sistema di istruzione, per insegnare il valore della tecnologia e per favorire un contatto biunivoco di crescita con il mondo del lavoro. E’ importante anche una nuova regolamentazione del lavoro e dello stato sociale, per adeguarsi ad un mondo che sta cambiando, e la riforma della Pubblica Amministrazione, per consentire un riavvicinamento tra pubblico e privato.Certamente sono mete difficili da raggiungere, perché molto spesso certi comportamenti sono insiti nel tessuto sociale, ma servono per portare l’Italia sui binari dello sviluppo, cercando, d’altra canto, che questo sia compatibile con i valori di fondo della comunità. Ma forse la chiave di volta del problema sta proprio in una maggiore collaborazione tra pubblico e privato.Occorre una maggiore cooperazione sia nel senso della relazione tra il mondo aziendale e quello della formazione, sia nel senso dell'affiancamento della formazione privata alla formazione tradizionale, sviluppando talvolta progetti congiunti. E’ ancora importante investire in un’attività di ricerca: sono concorde con uno studio della Regione Campania che afferma il valore indiscutibile ed essenziale della ricerca&sviluppo per portare il settore ICT italiano su livelli almeno europei. Dall'analisi condotta, risulta evidente che per "domare" la turbolenza di un mercato così innovativo in modo da non farsene travolgere, bisogna introdurre in prima persona elementi di innovazione, così da andare ad incidere in termini di soggetti attivi sulla qualità e sulla modalità dei cambiamenti. Ma per essere portatori di novità bisogna incrementare studi e ricerche nel settore. Invece, se andiamo a guardare i dati circa l'investimento effettuato in R&S ci troviamo di fronte ad una realtà sconfortante: la spesa sfiora appena soglie minime! Dunque, un elemento negativo che caratterizza il sistema innovativo italiano è il ritardo registrato nel basso investimento in R&S, anche se 7
è vero che esso si presenta come dato strutturale dell'impresa italica, più orientata verso i settori tradizionali e comunque con un basso livello di R&S formalizzata. La capacità di proporre innovazione, che può venire unicamente dall'impegno per lo studio e per la ricerca, si trova così a subire uno stallo perché priva di quei fermenti vitali che nascono con la riflessione su determinati temi. Possono, ancora, risultare utili progetti di sviluppo congiunto con altri Paesi, per sfruttare le sinergie che si possono creare e per porsi con numeri più consistenti in un settore che richiede notevoli investimenti di capitali, personale e, principalmente, conoscenze. In questi casi, si possono anche sfruttare fenomeni di “outsourcing tra Paesi”, consentendo ai singoli membri di concentrare i loro sforzi e le considerevoli risorse su un problema limitato e poi riunificare le varie soluzioni trovate, cercando di unirle in un sistema superiore alla somma olistica delle singole parti. Da un punto di vista più tecnico, è da rilevare in Italia la carenza di infrastrutture di trasmissioni efficiente e di mercati liberalizzati e sviluppo: altri due fattori difficili da implementare nel sistema Italia, ma che sono richiesti e di cui bisognerà attrezzarsi, partendo da un aiuto dalle istituzioni, ma senza affidarsi passivamente ed esclusivamente ad esse. 6. Prospettive di crescita...nulle? L’importanza degli incubatori per lo sviluppo Come prima affermato, l’Italia, nonostante una certa crescita registrata negli ultimi venti mesi, si presenta nella produzione di ICT con una situazione ancora minoritaria verso altri Paesi. Emerge, per fortuna, da questa situazione non molto positiva il fenomeno degli incubatori, che, dal mio punto di vista, rappresentano il “motore” per lo sviluppo della produzione dell’ICT (e non solo) coerentemente alla situazione contingente italiana, ai suoi limiti e particolarità, ai suoi vantaggi. Usando la definizione della National Business Incubator Association (NBIA), “l’attività di incubazione rappresenta un processo dinamico di creazione e sviluppo d’impresa; gli incubatori forniscono risorse a giovani aziende, aiutandole a sopravvivere e crescere durante il periodo di start-up, in cui sono maggiormente vulnerabili”.Gli incubatori si possono quindi definire come strutture di sostegno alla nascita e allo svezzamento delle imprese, finanziando l’idea imprenditoriale e sostenendone, per un periodo variabile, la crescita.Agiscono come degli intermediari che cercano di far fronte al fallimento del mercato quali gli alti costi di formazione, le restrizioni dei flussi di capitale, il limitato trasferimento di tecnologie, fornendo un’ampia gamma di servizi (Carraro, 2001): offrono spazi per svolgere l’attività di business, forniscono 8
risorse e servizi finanziari, offrono un sistema integrato di servizi su misura. Gli incubator operano da consulenti e da finanziatori allo stesso tempo, avvalendosi in alcuni casi di società di venture capital e, talvolta, guidando le nuove aziende fino al collocamento in Borsa (in particolare gli acceleratori guidano imprese già formate alla collocazione nel listino). Lavorano con le neo imprese nei loro primi due/tre mesi (o anche anni) di attività definendo, come primo passo con le società di recente costituzione, il business-plan; il passo successivo è l'avviamento dello start up aziendale che comprende, oltre alla ricerca di capitali, anche quella di personale qualificato. Fondamentali, infine, sono i contatti e gli eventuali accordi con partner strategici e finanziari e le valutazioni da fare considerando quella in cui si va ad operare un'economia sempre meno legata al prodotto e sempre più volta all'offerta di servizi e al trasferimento di informazioni, dove cioè le caratteristiche fisiche del prodotto hanno meno valore rispetto alle idee e alle modalità di offerta dello stesso, che deve tenere presente del dinamico e turbolento ambiente Internet. I primi incubator sono nati negli anni ’50 negli USA e si sono evoluti in diversi Paesi e modi, differenziandosi in particolare se la loro attività è non-profit oppure orientata al profitto.Solitamente si distinguono quattro tipi di “business angels”: • Privati, con strutture di proprietà, che offrono il loro servizio ricevendo una partecipazione al capitale d’impresa o in cambio di una parcella; • Pubblici, non-profit, collegati ad istituzioni politiche e commerciali del territorio; • Universitari, pubblici o privati, che sviluppandosi all’interno delle università sono caratterizzati dalla sinergia con la ricerca dei promotori e dalla vocazione scientifica; • Corporate incubators, creati all’interno di grandi aziende o gruppi industriali, specializzati in settori utili alla capogruppo. In Italia sono presenti, in percentuali differenti, le quattro tipologie, ma è da notare un mutamento positivo rispetto gli anni passati; mentre in precedenza gli acceleratori/incubatori erano realtà slegate dallo specifico contesto in cui si insediavano ed erano interessate principalmente al lato finanziario, adesso si sta assistendo ad un’inversione di tendenza: gli acceleratori sfruttano le conoscenze e competenze locali e si presta maggiore attenzione alla componente industriale, alla riduzione del rischio ed il focus è sulla domanda (Di Maria, 2001).Un altro elemento rilevante è il crescente interesse di operatori istituzionali, quali università ed enti locali, che, capita la potenzialità di sviluppo sostenibile per il territorio di questi modelli, ne hanno favorito il sorgere e la crescita.Questi incubatori solitamente sono incentrati su imprese che investono in ICT e in business “new” e proprio tale caratteristica li rende adatti allo sviluppo della “produzione” di new economy in Italia: offrendo una certa copertura del rischio, valutando i progetti maggiormente realizzabili e legandosi al mondo della ricerca scientifica danno la possibilità di limitare i fattori negativi della situazione italiana, contribuendo allo sviluppo e sperando che questo inneschi una spirale 9
di crescita per l’intera economia ad alto contenuto tecnologico.Questa possibilità di crescita non è solo un’ipotesi, ma in certe zone limitate è già una realtà valida ed efficiente. In Italia gli incubatori hanno avuto un capostipite d’eccezione, quello guidato da Elserino Piol, che ha contribuito alla nascita di Tiscali.Ma al seguito si sono avuti altri importanti attori, specialmente in Lombardia, l’area italiana in cui la produzione di ICT ha il suo maggior sviluppo, anche per merito di incubatori pubblici non-profit come ASNM (Agenzia di Sviluppo Nord Milano) e la collegata Officina Multimediale Concordia, il Business innovation centre (BIC) del Lumetel in Val Trompia e l’Acceleratore d’impresa del Politecnico di Milano.Anche altre regioni sono state interessate da questo fenomeno propositivo, tra cui Toscana (Arno Valley), Liguria (Dixet), Piemonte (Consorzio canavese, Politecnico di Torino), Friuli-Venezia Giulia (Area Science Park). 7. Un matrimonio che “s’ha da fare” Cercare di produrre in Italia ICT e new economy in genere non deve significare un’imitazione servile delle strategie adottate con successo dai Paesi leader in questo settore, ma si deve tener sempre conto della situazione italiana.Questa è caratterizzata da una forte arretratezza, anche culturale, nel campo della tecnologia: una campagna di ricerca e di alfabetizzazione informatica è necessaria, oltre che auspicabile. La mia idea, che comunque si deve cercare di produrre, è legata al fatto che un Paese che si vuole inserire nel paradigma postfordista deve possedere solide fondamenta, che provengono da un substrato culturale e imprenditoriale che si origina dalla new economy. Per l’Italia la grande occasione che si prospetta è legata alla net e alla knowledge economy, in quanto solo lì si possono sfruttare le competenze già acquisite: ma per entrare “alla grande” in queste nuove situazioni bisogna possedere un valida base di esperienze nelle tecnologie che verranno utilizzate. Il passaggio immediato alla network economy può risultare molto insidioso se non si può contare su una valida retroguardia di new economy; la globalizzazione tende a porre in evidenza i fenomeni estremi: accanto all’importanza del mercato globale e del “global village” si assiste ad un rinnovato interesse per il locale e tutto ciò che caratterizza le singole realtà di piccola dimensione territoriale, ma di grande valore socio-culturale ed economico. Per questo sono da favorire quei progetti, come gli incubatori e gli acceleratori, che, partendo dal patrimonio locale e valorizzandolo, cercano di proporre prodotti all’avanguardia mondiale nell’hi- tech. Con metafora sportiva, la partita si giocherà sul capitalismo delle reti, ma occorre l’allenamento della new economy per poter competere almeno con la stessa forma fisica e tattica. 10
Bassano del Grappa, 09/11/2001 Fabio Brunello Bibliografia: Capitani G., Il ruolo delle nuove tecnologie nello sviluppo dei sistemi locali; Carraro S., Incubatori d’impresa: un modello in continua evoluzione; Carraro S., L’attività di incubazione: il modello e le sue manifestazioni; Consolati L., L’attività e le strategie dei distretti industriali; Da un discorso di Fazio A.; Dalla Ricerca sullo produzione ICT in Campania e in Italia della Regione Campania; Di Guardo C., Etna Valley: presentazione di un polo hi-tech nell’area catanese; Di Maria E., Struttura dei modelli emergenti a sostegno dell’imprenditorialità sul territorio; Giovani Imprenditori di Confindustria, Dalla new economy alla new society (Convegno di Santa Margherita Ligure); Lonati A., New economy: la parola ai suoi protagonisti; Micelli S., Imprese, reti e comunità virtuali; National Business Incubator Association (NBIA), definizione; Panarelli M., L’eccellenza italiana dell’ICT: l’area milanese; Panarelli M., New economy: Italia fanalino di coda, analisti e Borsa d’accordo; Rapporto annuale Assinform 2000; Rapporto Assinform 2001 (anticipazioni); Rapporto EITO 2001 su ICT e new economy; Rullani E., New/net/knowledge economy: le molte facce del postfordismo; Ruscandri G., New economy: cosa succede in Italia; Schiavetti V., La Borsa fra boom e crack; Shapiro C. e Varian H.R., Information rules; Terragni F., ASNM: un’esperienza di sviluppo locale; 11
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