Peperoncino: una cura piccante - Giamboni Nicholas

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Peperoncino: una cura piccante - Giamboni Nicholas
Liceo Cantonale di Lugano 1
                Lavoro di maturità in biologia:
        “Le cinquanta sfumature dell’…alimentazione”

           Peperoncino: una cura piccante
Viaggio attraverso la microbiologia partendo dall’orto di casa

               Docente responsabile: Paltrinieri Luca

                  Autore: Giamboni Nicholas, 4M

                     Anno scolastico 2017/2018
Peperoncino: una cura piccante - Giamboni Nicholas
Abstract
Questo lavoro di maturità ha come scopo quello di scoprire se la capsaicina, la sostanza che causa la
tipica piccantezza dei peperoncini, ha un potere battericida o batteriostatico.
Affinché questa ricerca potesse aver luogo, è stato necessario intraprendere uno stage al laboratorio
cantonale di microbiologia a Bellinzona.
Il lavoro si è svolto testando, tramite il test Kirby-Bauer, differenti ceppi di batteri e di lieviti venuti
a contatto con le sostanze presenti nei frutti di diverse specie appartenenti al genere Capsicum della
famiglia delle Solanacee.
Secondo il protocollo utilizzato, i dati ottenuti sono frutto della misura dell’alone d’inibizione
dovuto ai capsaicinoidi testati. L’utilizzo di differenti concentrazioni delle sostanze utilizzate è
servito ad identificare delle concentrazioni critiche alle quali i batteri non risultavano più sensibili
all’effetto antibatterico della capsaicina, i cosiddetti break-points.
Le variabili controllate durante i test sono state quelle del differente spessore della parete cellulare
dei batteri, il differente comportamento tra lieviti e batteri e come l’esposizione alle sostanze
durante un periodo che va dalle 0 alle 48 ore possa modificare la sensibilità al peperoncino da parte
dei batteri e lieviti testati.
I risultati ottenuti, testimoniati da aloni di inibizione di diametro da un minimo di 0.5 cm (valore
minimo sotto al quale le sostanze testate non hanno nessun effetto) ed un massimo di 1.28 cm ,
lasciano presupporre che il peperoncino possa avere delle caratteristiche antibatteriche.
La ricerca effettuata presenta dei limiti in quanto, per affermare con rigore scientifico che il
peperoncino sia un antibatterico, bisognerebbe indagare più approfonditamente su questo
argomento, svolgendo ricerche che metterebbero a confronto altri ceppi batterici ed altre tecniche di
coltura.

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Peperoncino: una cura piccante - Giamboni Nicholas
Indice                                                                      pagina
1. Introduzione

      1.1 Contestualizzazione e obiettivo                                       4

      1.2 Il peperoncino                                                        5
             I. Capsaicina                                                      8

      1.3 Brevi cenni di microbiologia
            I. Cos’è la microbiologia?                                          11
            II. Come funziona un antibiotico                                    12

      1.4 I batteri
             I. Forma e raggruppamento                                          14
             II. Colorazione di Gram                                            15
             III. Stafilococchi                                                 18
             IV. Escherichia coli                                               19
             V. Aeromonas                                                       20
             VI. Saccharomyces cerevisiae                                       20
             VII. Candida albicans                                              21

2. Materiali e metodi

      I. Laboratorio scolastico- parte di chimica                               22
      II. Laboratorio scolastico- parte di biologia                             24
      III. Laboratorio di microbiologia applicata – LMA Bellinzona              25
      IV. Metodi- estrazione in corrente di vapore                              25
      V. Metodi- soxhlet                                                        27
      VI. Metodi- microbiologia                                                 31
      VII. Metodi- laboratorio di microbiologia applicata, parte prima          32
      VIII. Metodi- laboratorio di microbiologia applicata, parte seconda       36

3. Risultati

      I. Diluizioni                                                             38
      II. Antibiogrammi 24H- Etanolo                                            38
      III. Antibiogrammi 48H- Etanolo                                           39
      IV. Antibiogrammi 24H- DMSO                                               40
      V. Antibiogrammi 48H- DMSO                                                41
      VI. Antibiogrammi 24H, secondo esperimento- DMSO                          42
      VII. Antibiogrammi 48H, secondo esperimento- DMSO                         43

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4. Discussione

     I. Lettura capsule dopo 24H- Etanolo                      44
     II. Lettura capsule dopo 48H- Etanolo                     46
     III. Lettura capsule dopo 24H- DMSO                       48
     IV. Lettura capsule dopo 48H- DMSO                        50
     V. Lettura capsule dopo 24H- DMSO- parte seconda          53
     VI. Lettura capsule dopo 48H- DMSO- parte seconda         56
     VII. Lettura capsule esperimento laboratorio scolastico   60

5. Conclusioni                                                 61

6. Glossario                                                   63

7. Bibliografia                                                66

8. Sitografia                                                  68

9. Ringraziamenti                                              70

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1. Introduzione

1.1 Contestualizzazione e obiettivo

La scelta del tema per il mio lavoro di maturità scaturisce da una mia passione: la coltivazione e,
più precisamente, la coltivazione del peperoncino piccante.
Fin da piccolo ho avuto la possibilità di approcciarmi a questa pianta grazie a frequenti viaggi in
medio ed estremo oriente, luoghi in cui la presenza di questo frutto all’interno della cultura culinaria
è assai marcata.
Da subito ne è nato un apprezzamento, ma solo di carattere gustativo.
La svolta è avvenuta quando, in terza media, il mio allora docente di scienze arrivò a scuola con un
frutto di un colore rosso acceso e dalla straordinaria piccantezza: fu in quel momento che si mise in
moto la mia voglia di provare a coltivare la pianta di peperoncino.
La scelta di intraprendere un lavoro di maturità in biologia è anche legata alla possibilità di scoprire
un ramo completamente nuovo della disciplina che, per motivi comprensibilmente logistici, è quasi
impossibile trattare durante uno studio liceale.
In questo lavoro di maturità mi si è presentata la possibilità di verificare le proprietà e le
caratteristiche di questa sostanza in campo microbiologico.
Parallelamente, questo esperimento mi ha dato la possibilità di approfondire maggiormente diversi
temi legati alla microbiologia.
Ho sempre nutrito grande fascino per i batteri poiché trovo stupefacente come degli esseri
unicellulari piccolissimi possano infettare e far insorgere gravi malattie ad esseri infinitamente più
grandi di loro.
Il lavoro di maturità mi ha dato dunque l’opportunità di lavorare in questo interessantissimo ambito.
Nell’impostazione del lavoro ho cercato di dare una certa rilevanza alla parte sperimentale: sono
fermamente convinto che, essendo la biologia e la chimica due scienze che poggiano fermamente
sull’osservazione e sulla sperimentazione, un lavoro scientifico debba anche includere una parte
sperimentale per avere la possibilità di osservare quello che accade all’interno di un laboratorio, e di
sperimentare in prima persona cosa vuol dire intraprendere una ricerca in ambito scientifico.
L’obiettivo prepostomi è quello di testare alcune sostanze contenute nel frutto del peperoncino in
ambito microbiologico in modo da poter avere dei dati che confermino o screditino un eventuale
effetto antibatterico di questo frutto.

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1.2 Il peperoncino

Fin da quando questa pianta ha varcato i confini dell’occidente, una folta schiera di botanici ha
provato a cercare la vera origine di questo frutto.
Ad oggi il mondo della tassonomia del peperoncino rimane ancora avvolto da molti misteri, in
quanto nessuno ancora è riuscito ad identificare il peperoncino primordiale.
Secondo il professor Hardy Eshbaugh, botanico all’università di Oxford, il primo peperoncino va
collocato nelle Ande boliviane. Eshbaugh ipotizza che dalla Bolivia questa pianta si sia spostata
verso il Paraguay e il Perù grazie alla dispersione dei semi dovuta dall’ingestione dei frutti ad opera
di uccelli e mammiferi (questi ultimi hanno contribuito meno alla dispersione in quanto la presenza
della sostanza P nei mammiferi, rendeva i peperoncino non troppo appetibili a causa del bruciore
causato dalla capsaicina). Questo processo ovviamente ha richiesto moltissimi anni.
Lo studio condotto dal botanico prende come campione il peperoncino conosciuto come Ulupica il
quale, secondo lo stesso professore, è il parente geneticamente più stretto al peperoncino
Chacoense, il genere considerato come generatore di tutte le specie di peperoncini oggi conosciuti.
Il Chacoense viene considerato dai botanici il peperoncino più arcaico in quanto alcuni suoi enzimi,
se paragonati con quelli di altri peperoncini, risulterebbero avere una complessità minore (Andrews
J., 1984).
Un’altra teoria, sostenuta dal professor Fernando Cabieses, è che il peperoncino possa aver visto la
luce nel territorio che oggi chiamiamo Messico. Questa ipotesi si basa su referti archeologici dello
scavo di Tehuacàn, risalenti circa al 7000 a.C., che portano alla luce pezzi carbonizzati di
peperoncini.
Un altro scavo nel nord del Messico ha portato alla scoperta di altri resti di quello che si ipotizza
essere del peperoncino, databili tra il 6544 a.C. e il 6244 a.C.
Un fatto particolare nella storia del peperoncino è la scoperta, in Perù, di una stele appartenente
all’antica cultura Chavin (900 a. C. – 200 a. C.) (Wikipedia, 22.11.2017). Questa stele, alta 8 piedi e
3 pollici (circa 2,7 metri) è conosciuta anche con il nome di “Obelisco di Tello”, in onore
dell’archeologo che la scoprì nel 1919. La stele raffigura uno scenario religioso in cui, nell’angolo
in basso a destra, si notano tre distinti frutti del peperoncino. Il referto è oggi esposto al Museo
Nacional de Antropologia y Arqueologia a Pueblo Libre, città peruviana (Monaco, 2014).

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Fig 1.
A sinistra: Immagine dell’Obelisco di Tello al Museo Nacional de Antropologia y Arqueologia
A destra: Loco della stele in cui appare l’immagine del peperoncino
Fonte: Historia del periodismo peruano, 31.10.2017
Fonte: Giorgio Samorini network, 31.10.2017

Sotto un aspetto puramente botanico, va detto che questa pianta non risulta essere estremamente
complessa da coltivare, tanto che Colombo, quando la portò dalle Americhe, non riuscì a ricavare i
profitti da lui desiderati proprio perché chiunque riusciva facilmente a coltivarla. Trattandosi pur
sempre di un essere vivente, questa Solanacea ha comunque bisogno di una certa cura e attenzione.
Mi misi in gioco e, volenteroso di approcciarmi alla coltivazione del peperoncino, riuscii a
mescolare il mio pollice verde con una specie vegetale abbastanza facile da coltivare: ciò che ne
uscì furono delle piante colme di frutti piccantissimi.
La mia passione per i peperoncini aumentava di pari passo con le mie letture d’informazione su di
esso e scoprii che il peperoncino era da sempre presente, con un ruolo piuttosto attivo e dinamico,
all’interno della dieta dell’uomo. È stato impiegato come alimento per insaporire le pietanze e nella
medicina tradizionale, ha assunto un ruolo fitoterapico nella cura di alcune malattie o malesseri.
Il frutto di questa pianta fu per anni utilizzato nei rimedi cosiddetti “della nonna”, ma negli ultimi
anni illustri scienziati e medici hanno dedicato parte della loro vita nella ricerca e nella
sperimentazione del principio attivo presente nei frutti, la capsaicina, nella cura di alcune malattie.
Le ricerche effettuate hanno dimostrato che il peperoncino, e dunque tutti i suoi capsaicinoidi,
potevano essere utili nella cura di:
alcolismo (Rozin, 1982), arteriosclerosi (Di Montegranaro, 1994), bronchite (De Franco, 2001),
cancro (Giulio Tarro), dermatite (Bortolini,2004), digestione difficile (Altamore, 1998), depressione
(Pedretti, 1990), distorsioni (Caterina, Schumacher, Tominaga, Rosen, Levine, Julius. 1997), dolori
muscolari (Caterina, Schumacher, Tominaga, Rosen, Levine, Julius. 1997), emorroidi (Altamore,
1998), fermentazioni intestinali (Valnet, 1988), insufficienza epatica (Valnet, 1988), mal di testa
(De Franco, 2001), obesità (Modenese, 1994), torcicollo (Altamore, 1998), ulcera gastrica (Duke,
1997) e vene varicose (Valnet , 1988).
Queste ricerche, però, potrebbero non essere state affrontate con un rigore completamente
scientifico; ciò vuol dire che alcuni di questi studi potrebbero non essere accompagnati da ricerche
scientifiche basate sull’analisi di dati concreti, per cui i risultati sono da prendere in modo cauto.

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Infatti, alcune scoperte e proprietà legate alla fitoterapia, ossia la cura mediante proprietà medicali
attribuite ad alcune piante, si basano su vecchi detti popolari e su presunti effetti benefici: solo per
poche piante è stato attribuito, o screditato, in modo scientifico l’efficacia o meno delle sostanze
presenti in questi vegetali.
Il protagonista del successo del peperoncino in campo medico è da attribuirsi principalmente alla
(E)-N-(4-idrossi-3-metossibenzil)-8-metil-6-noneamide, chiamata comunemente capsaicina, una
sostanza chimica che conferisce a questi frutti la tipica piccantezza.
Alcuni scienziati hanno ipotizzato che questa molecola potesse avere anche delle proprietà
antibatteriche, ma non ci sono studi che ne provino la validità (Wikipedia, 07.10.2017).

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I.     Capsaicina

Tutto il mondo associa i peperoncini al bruciore, ma perché?
Il motivo è che questi frutti contengono una sostanza chiamata capsaicina.
Infatti, quando si mangia un peperoncino, il corpo reagisce sudando, aumentando la sua temperatura
e creando una sensazione di dolore.
Ma cosa succede realmente quando la capsaicina viene a contatto con le mucose della bocca?
Quando questa sostanza entra in contatto con le terminazioni nervose presenti in bocca, esse
trasmettono degli impulsi ai nocicettori che, tramite alcuni mediatori chimici, trasmettono a loro
volta un messaggio cervello; esso viene elaborato e tramutato in una sensazione riconducibile a
quella del bruciore. Il cervello risponde utilizzando tutte le risorse idrauliche che ha a disposizione
per fare in modo che il corpo si liberi di questa sostanza: fa aumentare la salivazione, il naso si
mette a gocciolare, la faccia comincia a sudare copiosamente, il tratto gastrointestinale aumenta il
suo metabolismo e aumenta la frequenza cardiaca (Monaco, 2014).
Questo particolare meccanismo è legato ai canali appartenenti alla superfamiglia dei TRP ion
channel (transient receptor potential). Il canale TPRV1, appartenente alla sottofamiglia dei
vanilloidi TPR, è maggiormente presente nelle radici dorsali del midollo spinale nel sistema
nervoso periferico, nell’ippocampo e nell’ipotalamo nel sistema nervoso centrale.
Questi canali informano normalmente il SNC su possibili danni dovuti al calore, in quanto si
attivano a temperature superiori ai 43°C.
Alcuni studi mostrano che questi canali hanno un’azione divisa in due fasi e, per quanto riguarda il
peperoncino, il periodo di bruciore è seguito da un periodo di analgesia in cui i neuroni si trovano
impossibilitati a reagire agli stimoli nocicettivi (Treccani, 04.10.2017).
L’applicazione della capsaicina consegue a una riduzione della capacità di trasmettere lo stimolo
nocicettivo dato dalla capsaicina stessa ma anche da altre sostanze come l’etanolo o soluzioni con
valori di pH minori a 6. L’assunzione della capsaicina porta ad un considerevole aumento di ioni
Ca2+ all’interno della cellula, attivando così la proteina calcineurina che defosforila il canale
TRPV1, coinvolto nella trasmissione dei segnali nocicettivi. L’attivazione del canale porta ad un
rapido aumento di ioni Ca2+ intracellulari e, nei neuroni, questo porta ad una depolarizzazione,
ovvero una diminuzione drastica del potenziale d’azione (Wikipedia, 10.10.2017). Dopo
l’attivazione del recettore TRPV1 segue uno stato di desensibilizzazione, durante il quale i neuroni
che esprimono questo recettore non rispondono allo stimolo dovuto all’aggiunta di successive
sostanze riconosciute dal recettore (PubMed, Novàkovà- Tousovà, Benedikt, Samad, Touska,
Vlachovà & Vykliky, 13.05.2008).
Questo canale è dunque regolato da processi di fosforilazione e defosforilazione, che lo rendono
rispettivamente più o meno sensibile.
Il canale TRPV1, coinvolto nella stimolazione dolorosa, spiega per quale motivo traduciamo la
piccantezza dei peperoncini in dolore fisico (Fedoa, 08.10.2017).
I neuroni che espongono questi recettori sono anche coinvolti nella secrezione della sostanza P,
della CGRP e della somatostatina. Le prime due sostanze provocano un’infiammazione neurogenica
locale, mentre la somatostatina (prodotta dopo una prolungata stimolazione del canale) è
caratterizzata da un’azione antiinfiammatoria (NCBI, Premkumar & Sikand, 06.06.2008).
Il canale è formato da sei regioni di transmembrana, con la regione del poro acquoso collocata tra la
quinta e la sesta regione. I domini N e C sono intracellulari: il dominio N contiene tre domini
ripetuti di anchirina, mentre il dominio C presenta i legami per la calmodulina e per il PIP2.

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L’immagine che segue, illustra la struttura del recettore TPRV1 situato nelle cellule del sistema
nervoso periferico.

Capsaicina
Capsaicina                                              Calore
                                                      Calore    e protoni
                                                             e idrogenioni

                                           Ca2+                       C
    A"

                A"

           A"         N

                Iperalgesia"termica"e"infiammatoria"

Legenda:

                     Membrana cellulare                  Regione di transmembrana

                     Anchirina

Fig. 2
Struttura del recettore vanilloide TPRV1
Fonte: disegno tratto da Monaco, 2014

Mentre il corpo cerca di liberarsi dal danno che la capsaicina apparentemente gli arreca, il cervello
rilascia endorfina. Questo neurotrasmettitore è secreto ogni qual volta il corpo subisce un danno ma,
visto che in questo caso il peperoncino non danneggia l’organismo, il rilascio di endorfina equivale
ad una somministrazione di una blanda dose di antidolorifico senza alcun vero motivo.
Storicamente, gli Aztechi erano soliti distinguere la piccantezza dei frutti classificandoli secondo
una scala che va da coco (piccante) a cocopolatic (piccante da stare male).
La loro classificazione era basata dunque sulle esperienze personali dei cittadini dei villaggi
(Monaco, 2014).

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Quasi 600 anni dopo, nel 1912, un farmacista di Detroit, Wilbur Scoville, creò una scala che
misurava la piccantezza usando il medesimo metodo d’indagine che precedentemente fu utilizzato
dai popoli Aztechi, ovvero l’interpretazione delle reazioni personali.
Lo scienziato affrontò il problema di voler informare i consumatori circa la quantità di capsaicina
contenuta nei peperoncini.
Iniziò cercando di utilizzare sostanze chimiche o reazioni biochimiche per creare una scala, ma fallì
perché non fu in grado di creare nulla di universale e tautologico.
Dopo molti esperimenti scoprì che la lingua era la chiave per poter classificare i peperoncini
secondo il loro grado di piccantezza: questo organo, infatti, è capace di rilevare piccole quantità di
capsaicina fino a diluizioni pari a un milione di volte il suo volume.
Il test che Scoville scelse di realizzare fu semplice: bisognava inizialmente estrarre la sostanza
mettendo i peperoncini in infusione nell’alcool.
Da questa soluzione veniva prelevata una precisa quantità aggiungendovi acqua zuccherata con
successive diluizioni fino a quando il piccante non era più percepibile al “gusto” di cinque
assaggiatori.
La scala da lui creata indica dunque la quantità di acqua necessaria affinché la sensazione di
bruciore svanisca.
Ciò vuol dire che, ad esempio, il peperoncino Habanero, al quale vengono attribuiti trecentomila
unità Scoville (Shu, Scoville heat units), necessita di trecentomila millilitri di acqua per
neutralizzare un millilitro di estratto (in alcool) di peperoncino Habanero.
Lo scienziato ricevette numerose critiche dalla comunità scientifica perché aveva basato la sua scala
sulle sensazioni umane e, dunque, diverse da individuo a individuo.
Nonostante ciò la scala Scoville è tutt’oggi in uso sia tra gli amatori che tra i produttori alimentari.
Infatti, l’American Spice Trade Association, l’associazione che riunisce i produttori americani di
spezie, appoggia l’utilizzo delle analisi con un cromatografo liquido ad alta pressione e consiglia di
trasformare i dati in unità Scoville (Helmenstine, 2017).
Ma Wilbur Scoville non fu l’unico a creare una scala in grado di misurare la piccantezza, fu solo il
più famoso.
Una scala altrettanto nota è quella dello scienziato Dremann Craig: la Dremann’s Hotness Scale.
Questo sistema prevede l’analisi del diametro dei peperoncini; infatti la concentrazione di
capsaicina è inversamente proporzionale al diametro del frutto. Più il peperoncino è piccolo e più
capsaicina in rapporto esso conterrà (DeWitt & Bosland, 2015).
Diamo ora un’occhiata, sotto un punto di vista chimico e biologico, alla capsaicina: questa sostanza
fa parte del gruppo degli alcaloidi e, assieme alla capsaicina (C18H27NO3), il peperoncino contiene
al suo interno altri suoi derivati come la diidrocapsaicina (C18H23NO3), la nordiidrocapsaicina
(C17H27NO3) e la omodiidrocapsaicina (C19H31NO3).
La capsaicina fa parte della famiglia degli alcaloidi, molecole di origine vegetale composte da un
caratteristico gruppo amminico (R-NH-R).
La disposizione degli atomi lungo la catena di carbonio crea i seguenti gruppi funzionali: alcoli (R-
OH), amina secondaria (R-NH-R), chetone (R-C=O-R) e un ciclo benzoico.
La geometria della molecola la rende apolare: la sua solubilità in acqua è quindi molto bassa
(Wikipedia, 07.10.2017), mentre è alta la solubilità in solventi quali l’etanolo e il dicloro metano.
Tutte queste sostanze sono definite con il nome di capsaicinoidi e sono presenti nelle specie di
Capsicum della famiglia delle Solanacee.
Il genere Capsicum vanta ben quarantuno specie, ma le più famose sono cinque: C. annuum, C.
baccatum, C. chinense, C. fructensces e C. pubensces.
Il successo riproduttivo di questa pianta è l’autogamia, ovvero la presenza sia di gameti maschili sia
di quelli femminili all’interno dello stesso fiore (da non confondere con l’ermafroditismo, che vede
sì la presenza dei due gameti nello stesso individuo, ma disposti in apparati separati e distinti).

                                                  10
1.3 Brevi cenni di microbiologia
I.    Cos’è la microbiologia?

Ma cos’è la microbiologia? Cosa studia?
La microbiologia è una branca della biologia che studia i microorganismi.
Già Marco Terenzio Varrone (116-27 a. C) fu mosso a pensare che qualcosa come un “…animalia
quaedam minuta, quae non possunt oculi consequi, ut per aera intus in corpus per 11sa c nares
perveniunt atque efficiunt difficilis morbus …” (animali minuti che non si possono vedere ad occhio
nudo, e che nell’atto di respirare aria entrano nel corpo attraverso la bocca e le narici, e quindi
producono malattie difficili da curare) potesse provocare difficili e complicati morbi.
Ma la storia di questa disciplina nasce in Olanda da un mercante di nome Antony van Leeuwenhoek
(1632-1723), un appassionato di lenti.
Egli fu il primo ad osservare questi microorganismi grazie ad un microscopio rudimentale auto
costruito.
Questo primordiale strumento era in grado di fornire un ingrandimento pari a circa 200 volte la vista
umana.
Quello che scoprì chiaramente ebbe molta risonanza all’interno della comunità scientifica, ma solo
nel XIX secolo si ebbero le maggiori scoperte e ricerche, coadiuvate da nuovi microscopi più
potenti e performanti.
A cavallo tra la metà e la fine del XIX secolo, furono il chimico-biologo francese Louis Pasteur
(1822-1895) e il medico tedesco Robert Koch a gettare le basi di quella che oggi chiamiamo
microbiologia.
Allo scienziato francese viene attribuito il nome di patrono della microbiologia in quanto fu lui a
dimostrare il fondamentale ruolo dei batteri nella fermentazione del vino e della birra.
Pasteur ideò anche un metodo per rendere inattivi i batteri, ciò che oggi è comunemente chiamato
processo di pastorizzazione.
Al medico e batteriologo Robert Koch si attribuisce invece il merito di aver sviluppato le moderne
tecniche di coltivazione dei microorganismi, come la coltura di batteri su terreni abiotici solidi,
l’introduzione delle lenti ad immersione e di aver scoperto ed ideato alcuni metodi di colorazione
delle colonie.
Lo scienziato scoprì anche i differenti cicli infettivi di patogeni come l’antrace (1876), il colera
(1883) e la tubercolosi (1882); per queste scoperte gli fu attribuito il premio Nobel per la medicina
nell’anno 1905.
Ma cosa studia realmente questa disciplina scientifica? Studia i microorganismi, piccoli esseri
viventi che non sono visibili ad occhio nudo.
Bisogna specificare che con il termine microorganismo ci si riferisce ai batteri, ai funghi, ai
protozoi e ai virus.
Nell’albero filogenetico universale, basato sull’analisi del RNA ribosomiale, sono identificati tre
domini, due dei quali raggruppano i procarioti (Bacteria e Archea) e un terzo che raggruppa gli
Eucarya. Gli Archea sono diversi dai Bacteria e questo è stato possibile dimostrarlo grazie alla
presenza di sequenze ribosomiali caratteristiche, differenti pareti cellulari e istoni legati al
cromosoma.
Un gran numero di questi organismi, per vivere e sopravvivere in ambienti ostili, ha dovuto
sviluppare particolari caratteristiche; essi infatti possono essere metanogeni (organismi che vivono
in ambienti anaerobici e producono metano), alofili estremi (organismi che vivono in luoghi
estremamente alcalini) e termofili estremi (organismi che vivono in ambienti estremamente caldi).
La linea evolutiva dei Bacteria rappresenta la forma di vita più abbondante sul pianeta a tal punto
da comporre il 90% della biomassa marina, mentre in 1 grammo di terreno si trovano 109 organismi

                                                 11
procarioti che sono di 10.000 volte superiori agli organismi eucarioti presenti nella medesima
quantità di materiale (La Placa, 2014).
La comunità scientifica crede che si conosca solamente l’1% delle specie di microorganismi che
popolano la Terra e questa percentuale porta i procarioti ad essere il dominio con più specie
differenti.
Si ritiene anche che i procarioti siano stati essere la prima forma di vita a comparire sulla Terra
circa quattro miliardi di anni fa e dalla quale ne conseguono tutte le specie oggi conosciute.
Questi organismi hanno colonizzato ogni ambiente terrestre, traendo sempre vantaggio dalle
condizioni nelle quali essi si trovavano e rendendo possibile la vita per altri esseri viventi.
I microorganismi ricoprono un ruolo fondamentale nelle trasformazioni e nei cicli biogeochimici di
carbonio, azoto, diossigeno e sono anche implicati in processi biologici di grande interesse
economico; infatti, sono responsabili di molteplici processi utilizzati nell’alimentazione, come ad
esempio nella lievitazione del pane, nella trasformazione degli zuccheri in alcool, nelle bevande
come la birra o il vino.
Questi esseri sono anche presenti in quantità massiccia all’interno del corpo umano e l’insieme delle
varie specie che vivono in simbiosi con gli uomini prendono il nome di microbiota, il quale varia da
individuo a individuo.
La regione gastrointestinale ospita l’ecosistema microbico più diversificato e complesso dell’essere
umano.
La conta dei microorganismi appartenenti a tutti e tre i domini che occupano il nostro intestino è
nell’ordine di trilioni di cellule ( in notazione scientifica corrisponde a 1018 cellule).
Il loro numero è di circa dieci volte superiore a quello delle cellule umane, portando informazioni
genetiche di circa dieci milioni di geni unici i quali, a loro volta, sono di cento volte superiori di
quelli presenti nel nostro genoma.
Il microbiota agisce come una barriera che mantiene il nostro organismo protetto da microorganismi
patogeni o permette il passaggio di quelle cellule che potrebbero apportare benefici al corpo, si può
dire che contribuisce al mantenimento e allo sviluppo dell’omeostasi immunitaria (Pia Conte &
Mastromarino, 2010).

II.    Come funziona un antibiotico
La medicina cura le malattie dovute ai batteri con dei farmaci chiamati comunemente antibiotici o,
più correttamente, antimicrobiotici. Scomponendo la parola è facile capire il funzionamento di
questi farmaci; infatti anti- sta a significare una non presenza, ovvero l’impedimento di qualcosa e
-microbiotico vuol dire letteralmente piccola vita. Unendo i significati della parola si ottiene che ciò
che ci viene somministrato durante un’infezione o una malattia batterica è qualcosa che non
permette la vita dei microorganismi, impedendone la duplicazione o uccidendoli (dal greco “contro
la vita) (La Placa, 2014).
Questi farmaci lavorano a stretto contatto con il sistema immunitario umano, soprattutto con il
sistema immunitario innato. L’efficacia degli antimicrobiotici è dovuta anche in parte al corretto
funzionamento di questo sistema all’interno dell’ospite infettato dal batterio.
Gli antibiotici sono formati da sostanze direttamente prodotte da altri microorganismi, come ad
esempio muffe o piante. Negli anni più recenti, l’industria farmaceutica ha avuto bisogno di
incrementare la produzione di tali sostanze, creando farmaci chemioterapici, in altre parole di
sintesi.
La loro azione ha effetto solamente sui batteri e non sui virus.
Il farmaco più famoso in questo campo è probabilmente la penicillina, scoperta casualmente da
Alexander Fleming nel 1928.

                                                  12
Questa sostanza, presente in natura, fu estratta per la prima volta dal fungo Penicillium
chrysogenum. Questa scoperta rivoluzionò il mondo della medicina in quanto risultò essere molto
efficace per una vasta gamma di batteri Gram + (l’esperimento e la classificazione fatta da Hans
Christian Gram viene trattata al capitolo 1.4) come ad esempio gli Staphylococcus (Wikipedia,
07.10.2017).
A causa del suo massiccio impiego, questo farmaco è andato incontro al fenomeno conosciuto come
resistenza batterica: i batteri, riproducendosi molto velocemente, sono riusciti ad evolversi in modo
da non essere più sensibili alla sostanza rendendola quindi inutile al fine di debellare l’infezione.
Gli antimicrobiotici adottano differenti metodi per colpire la cellula batterica:
     Attaccano la parete cellulare.
     Attaccano la membrana cellulare.
     Interferiscono con la sintesi di proteine o acidi nucleici, indispensabili alla scissione binaria.
     Disturbano o bloccano i processi metabolici.

La loro azione è dovuta alla presenza di canali, recettori ed antigeni proteici posti sulla superficie di
tutti i componenti della cellula. Ogni batterio presenta i suoi recettori specifici per ogni sostanza.
Questo serve alla cellula batterica per poter legare alcune sostanze a sé in modo da poterle utilizzare
all’interno del suo metabolismo. Gli antigeni sono anche i responsabili della risposta immunitaria
del nostro corpo quando contraiamo una malattia: gli anticorpi si legano a questi antigeni e ne
riconoscono la patogenicità, innescando una serie di difese in modo da proteggere l’organismo.
I farmaci funzionano in modo analogo, andandosi a legare a recettori specifici presenti su tutta la
superficie batterica (La Placa, 2014).

                                                                                 Fig. 3
                                                                                 A sinistra: Capsaicina
                                                                                 A destra: Meticillina
                                                                                 Foto: Wikipedia, 07.10.2017

Gli antimicrobiotici denominati ß-lattamici, come ad esempio la penicillina o la meticillina,
impediscono la sintesi della parete cellulare nei batteri, rendendo dunque impossibile la scissione
binaria.
Il ß-lattame è la chiave di queste molecole: esso è formato da 3 atomi di carbonio, uno di ossigeno e
uno di azoto che creano un ammide ciclica.
Il meccanismo d’azione di questa sostanza è piuttosto semplice: il gruppo ß-lattame si posiziona sul
sito attivo della transpeptidasi impedendo la formazione dei legami peptidici che formano e
rafforzano la parete cellulare. Così facendo, i ß-lattamici impediscono la formazione della parete
cellulare, mandando il batterio in apoptosi (Wikipedia, 07.10.2017).
È importante ricordare che, ad ogni complesso o molecola, corrisponde uno specifico recettore o
sito attivo.
Il paragone proposto tra la meticillina e la capsaicina potrebbe essere attribuita alla presenza, in
entrambe le molecole, di un ciclo benzoico legato ad un gruppo –CH3O e di un’ammina (Fig. 3).
Magari l’azione antibatterica della capsaicina potrebbe anche essere dovuta alla somiglianza con
alcune componenti dei ß-lattamici.

                                                   13
1.4 I batteri

                 In questa sezione verranno spiegate le caratteristiche dei batteri, i metodi di
             classificazione più comuni e saranno anche introdotte le specie batteriche e i lieviti
            utilizzati per l’esperimento svoltosi al laboratorio scolastico del Liceo Lugano 1 e al
                       laboratorio di microbiologia applicata della SUPSI a Bellinzona

I.     Forma e raggruppamento
La cellula batterica è una cellula procariota di dimensioni ridotte; la sua grandezza varia da 0.2 µm
a 30µm e la sua forma può ricordare principalmente due solidi geometrici: la sfera o il cilindro
(Wikipedia, 29.10.2017).
I batteri che si manifestano sotto forma di sfere o quasi-sfere sono detti cocchi (dal greco kokkos=
chicco), mentre i batteri di forma cilindrica vengono catalogati come bacilli (dal latino bacillum=
bastoncello).
Questa suddivisione, ovviamente, non si ferma solo a queste due categorie; infatti, i batteri
cilindrici, ma estremamente corti, sono detti cocco-bacilli, mentre quando presentano delle
estremità più sottili rispetto al corpo sono detti bacilli fusiformi e quando hanno una o più curvature
lungo l’asse maggiore sono anche chiamati vibrioni o spirilli.
Sovente capita che le singole cellule che si riproducono in un determinato numero di generazioni
tengano, per un certo tempo, un forte legame di continuità facendo sì che vengano a crearsi dei
caratteristici raggruppamenti, i quali sono denominati, a dipendenza della forma che a sua volta è
determinata dal modo in cui si succedono nello spazio, i differenti livelli di divisione cellulare
durante le successive generazioni.
All’interno dei cocchi, i raggruppamenti osservati con più frequenza, sono quelli a diplococco, cioè
quando le cellule sono unite formando delle coppie, a stafilococco quando danno origine ad
ammassi irregolari (dal greco σταφυλή = grappolo) a streptococco quando le cellule si dispongono
in catenelle di lunghezza variabile (dal greco στρεπτό= collana) (La Placa, 2014).
Fig. 4
Differenziazione delle cellule batteriche secondo la loro forma
Foto: School work helper, 09.10.2017

                                                  14
II.    Colorazione di Gram
                                                   Nel 1884, il batteriologo danese Hans Christian
                                                   Gram sviluppò un metodo per la classificazione dei
                                                   batteri.
                                                   Questo metodo consiste nel colorare con il viola di
                                                   genziana (cristalvioletto) e decolorare con alcool-
                                                   acetone le colonie di batteri che si stanno
                                                   studiando.
                                                   Questo tipo di analisi è molto utilizzata in campo
                                                   medico in quanto permette di identificare con
                                                   facilità la grandezza, la forma e il tipo di patogeno
                                                   con il quale si è venuti in contatto (Bioutils.ch,
                                                   2015)
                                                   I risultati possono dare due esiti: le colonie
                                                   potrebbero colorarsi di viola e restare tali anche
                                                   dopo aver pulito con l’acetone o potrebbero
                                                   decolorarsi dopo essere venute in contatto con il
                                                   medesimo solvente.
                                                   Il motivo di questa perdita o mantenimento del
                                                   colore da parte dei batteri risiede nella
  Fig. 5                                           composizione    della loro parete cellulare. Infatti i
  Hans Christian Gram                              batteri caratterizzati come Gram + (positivi alla
  Foto: ScienceProfonline.com, 12.10.2017          colorazione
                                                   di Gram) manterranno il colore viola anche dopo
                                                   essere stati lavati con l’acetone, in quanto la loro
parete cellulare è molto spessa e dunque mantiene il colore al suo interno.
Rispettivamente, i batteri classificati Gram – (negativi alla colorazione di Gram) hanno una parete
cellulare più sottile e ciò permette all’acetone di decolorare i batteri, facendoli risultare non più
viola ma rosa.
Questi esiti nella colorazione sono dovuti alla capacità, da parte della parete cellulare, di trattenere
il cristalvioletto (che è un colorante basico) e dalla quantità di mureina, un peptidoglicano presente
nella parete cellulare dei batteri che permette al colorante di essere trattenuto o meno dalla cellula.
Un’elevata presenza di mureina (Gram +) permette alla cellula batterica di legare una maggior
quantità di colorante, risultando così di colore viola, mentre i batteri che non hanno grandi quantità
di mureina tenderanno a decolorarsi, diventando di una tonalità tendente al rosa (Gram - ).
I batteri Gram + presentano sostanze come N-acetilglucosamina (aminozucchero) e acido N-
acetilmuriamico che, legate a catene corte di aminoacidi, creano una parete cellulare molto spessa
(Wikipedia, 04.07.2017). Questi batteri hanno una parete cellulare molto spessa che racchiude
completamente il batterio: essa viene chiamata sacculo ed è formata da differenti strati di
peptidoglicani che si intrecciano con piccole quantità di polimeri, rappresentati principalmente da
acidi teicoici (dal greco τοίχος= muro).
La parete dei Gram + è altamente polare grazie alle cariche degli aminoacidi del peptidoglicano,
degli aminozuccheri e dei radicali fosforici degli acidi teicoici.
Proprio a seguito di questo, la parete cellulare non permette il passaggio di molecole idrofobiche,
che sono in grado di danneggiare la struttura della membrana plasmatica, mentre risulta permeabile
alle molecole idrofile.

                                                   15
Fig. 6
 Rappresentazione grafica della parete cellulare dei batteri Gram- (a sinistra) e Gram+ (a destra)
 Foto: Altervista, 05.10.2017

Grazie alla polarità dovuta alle cariche degli amminomonosaccaridi che compongono i
peptidoglicani della parete cellulare, il batterio Gram + è capace di legare molti cationi che, con
probabilità, servono a garantire un ambiente ionico adeguato al metabolismo della cellula
(Wikipedia, 10.10.2017).
Le molecole presenti in maggior numero all’interno del peptidoglicano sono
l’amminomonosaccaride glucosammina e l’amminoacido alanina, entrambi di carica positiva.

Fig. 7
A sinistra: Glucosammina
A destra: Alanina
Foto: Wikipedia, 05.10.2017

Per questo motivo spesso si usa aggiungere NaCl ai terreni di coltura in modo da ottenere terreni
selettivi in quanto i batteri Gram – non riescono a sopravvivere in ambienti con concentrazioni
saline elevate.

                                                16
I batteri Gram – , per contro, hanno una parete cellulare formata da lipopolisaccaridi e lipoproteine,
che conferiscono loro una parete cellulare più sottile. Gli acidi teicoici sono assenti nella parete
cellulare di questi batteri.
Anche in questo caso la parete cellulare ha un importante ruolo nel bilancio idrico, ma non è in
grado di contrastare sufficientemente il passaggio di molecole idrofobiche (ed è questa la ragione
per la quale si tratta di batteri Gram –) che potrebbero potenzialmente arrecare danni alla cellula
andando a danneggiare la membrana citoplasmatica (La Placa, 2014).
Gli esiti dell’esperimento condotto da Gram possono variare a dipendenza dell’età della colonia,
condizioni di crescita ed altri fattori fisiologici dei batteri.

                                                 17
III. Stafilococchi

                                               Al laboratorio di microbiologia applicata, al momento
                                               dello sviluppo della parte pratica del presente LAM, si è
                                               lavorato con batteri dell’ordine degli stafilococchi e, più
                                               precisamente con le specie S. hominis, S. epidermidis e
                                               S. capitis.
                                               Questi batteri si presentano con una forma sferica,
                                               visibili sotto forma di ammassi irregolari ricordanti dei
                                               grappoli del diametro di circa 0.8-1 µm. Questi batteri
                                               Gram + sono immobili, privi di capsula, asporigeni e
                                               crescono con facilità nei terreni di coltura classici.
                                               Quando inoculati su terreni solidi, formano colonie di 2-
                                               3 mm di diametro, generalmente di forma tonda, opache
                                               e con colorazioni citree o auree. Si sviluppano a
                                               temperature comprese tra i 10°C e i 45°C, con una
                                               temperatura ideale di 30°C-37°C, mentre per quanto
  Fig. 8
                                               riguarda il pH il range ottimale è tra 7 e 7.5, ma possono
  Batterio di forma cocco (S. hominis)
                                               vivere tra pH 4 e 9.
  Foto: Medicine.net, 09.10.2017               Per quanto riguarda la produzione di energia metabolica,
                                               questi batteri sono aerobi-anaerobi facoltativi che
utilizzano il sistema completo dei citocromi in presenza di diossigeno, mentre in ambienti privi di
diossigeno utilizzano un metabolismo fermentativo.
Gli Staphylococcus sono molto resistenti anche di fronte a situazioni sfavorevoli grazie alla loro
alofilia, cioè la capacità di crescere anche ad alte concentrazioni di NaCl (7.5%), sufficienti ad
inibire lo sviluppo di molti altri batteri (La Placa, 2014).
Questi batteri possono portare a gravi complicazioni a livello clinico, causando nella maggior parte
dei casi infezioni cutanee fino ad arrivare a malattie più gravi come la setticemia o l’endocardite.
Nonostante ciò, i batteri del genere Staphylococcus fanno parte della normale flora umana e la loro
interazione è solitamente asintomatica.
Tutta la popolazione umana è colonizzata da S. epidermidis e le infezioni dovute a questo batterio
sono solitamente associate a dispositivi medici (es. impianti protesici).
In alcune parti del mondo sviluppato e industrializzato le infezioni dovute a S. epidermidis
raggiungono il 70-80% delle infezioni. Questo batterio è resistente alla meticillina, usata anni prima
per debellare questo batterio prima della comparsa di ceppi di batteri meticillina - resistenti. Questi
batteri sono infatti immuni al farmaco antibiotico sintetizzato alla fine degli anni 50 (Wikipedia,
29.10.2017).
Questo ha portato a grandi problemi per la cura di alcune infezioni, sviluppando un problema
sanitario sia d’interesse clinico sia pubblico e politico.

                                                   18
IV. Escherichia coli
                                                               Il genere Escherichia comprende una
                                                               specie soltanto, ovvero l’Escherichia
                                                               coli, batterio del colon o cibacillo,
                                                               scoperto nel 1855 dallo scienziato
                                                               tedesco Theodor Escherich.
                                                               Gram -, mobile per flagelli peritrichi, è
                                                               un anaerobo facoltativo.
                                                               E.      coli    occupa     normalmente
                                                               l’organismo umano e rappresenta la
                                                               specie       batterica     predominante
                                                               nell’intestino crasso, ma è anche
                                                               presente nel terreno, nell’acqua e nella
                                                               materia in decomposizione.
  Fig. 9                                                      E.coli è capace di fermentare
  Batterio E. coli                                            rapidamente il lattosio per ottenere
  Foto: Monitorulcij.ro, 09.10.2017                           energia.
                                                              Da un punto di vista sierologico, questo
batterio si divide in differenti sierotipi sulle basi di antigeni somatici O, antigeni capsulari K e
antigeni flagellari H.
E. coli è tra i batteri patogeni più versatili in quanto è normalmente presente nella flora intestinale
umana e dei vertebrati e i suoi effetti patogeni possono essere molto diversi gli uni dagli altri.
Possono provocare infezioni endogene alle vie urinarie, infezioni esogene intestinali (in genere di
origine animale e soprattutto bovina), meningite neonatale e occasionalmente, in associazione con
altri batteri, provoca infezioni endogene del distretto addominale (La Placa, 2014).
Questo enterobatterio fermenta una varietà di carboidrati per ottenere energia e questa caratteristica
serve anche come differenziazione per individuare i vari sierotipi.
Il termine enterobatterio deriva dal fatto che produce enterotossine, così chiamate perché colpiscono
il tratto intestinale causando diarrea e perdita di liquidi.
Per la patologia umana, i sierotipi di questa specie implicati nelle infezioni intestinali sono E. coli
enterotossigeni (ETEC), enteroemorriagici (EHEC), enteropatogeni (EPEC), enteroinvasivi (EIEC)
e enteroaggregativi (CEEA) (Pia Conte & Mastromarino, 2010).
E. coli è utilizzato anche per le tecniche di elettroporazione e trasformazione dei plasmidi. Infatti al
laboratorio di microbiologia di Bellinzona, durante la nostra parte pratica si è lavorato anche con E.
coli BL21, un batterio più sensibile e utilizzato nell’ambito delle biotecnologie.

                                                  19
V.     Aeromonas
                                                          Si tratta di batteri Gram – , mobili grazie a
                                                          flagelli polari (monotrichi) e sono
                                                          classificati assieme alla famiglia dei
                                                          vibrioni.
                                                          Sono aerobi-anaerobi facoltativi, producono
                                                          l’enzima catalasi e risultano positivi al test
                                                          per l’ossidasi.
                                                          Il genere Aeromonas comprende differenti
                                                          specie diverse e la si può localizzare nelle
                                                          acque superficiali ed è un parassita di
                                                          alcune specie di pesci ed anfibi.
                                                          Solamente una specie di Aeromonas è stata
                                                          isolata nell’uomo in caso di setticemia,
                                                          osteomieliti, di grosse infezioni o in casi di
 Fig. 10                                                  enterite diarroica ed è la specie A.
 Batterio Aeromonas                                       hydrophila.
 Foto: American Society for microbiology,                 Per la ricerca effettuata al laboratorio di
 09.10.2017                                               Bellinzona è stata utilizzata una specie di
                                                          Aeromonas che si trova come parassita nei
pesci di acqua dolce , in particolare dei salmondi (La Placa, 2014).

VI. Saccharomyces cerevisiae

                                                          Questo lievito è un organismo unicellulare
                                                          che appartiene al Regno dei funghi e si
                                                          riproduce per gemmazione.
                                                          È probabilmente il lievito più importante
                                                          all’interno dell’industria insieme a S.
                                                          carisbergensis         (implicato         nella
                                                          fermentazione della birra), K. fragilis
                                                          (coinvolto nella formazione di alcool dal
                                                          latte e nella formazione dell’enzima lattasi),
                                                          S. lipolytica (Formazione dell’enzima
                                                          lipasi) e P. rhodozima (favorisce la
                                                          produzione del carotenoide astaxantina)
                                                          (Chimicare, 29.10.2017).
                                                          S.     cerevisiae    viene      principalmente
 Fig. 11                                                  utilizzato per la lievitazione la pasta della
 Cellule di lievito di S. cerevisiae                      pizza o di altri prodotti di pasticceria.
 Foto: MicrobeWiki, 09.10.2017                            Anaerobo facoltativo, ricava energia
                                                          fermentando gli zuccheri e producendo
principalmente etanolo e biossido di carbonio (a dipendenza del diossigeno presente).
Si presenta in forma ovale o ellittica ed ha un diametro attorno ai 5-10 µm.
Si può reperire con facilità nella maggior parte dei supermercati ed è venduto in cubetti. Questi
cubetti sono fatti al 100% da cellule di lievito.
Le cellule utilizzate nello stage al laboratorio di microbiologia provengono direttamente da un noto
supermercato della zona.

                                                   20
VII. Candida albicans

                                                           Questo micete lievitiforme è conosciuto per
                                                           provocare principalmente lesioni superficiali
                                                           a mucose o alla cute (Pia Conte &
                                                           Mastromarino, 2010).
                                                           Alcune specie di Candida sono abituali
                                                           commensali del corpo umano, soprattutto
                                                           della cute e delle mucose delle cavità
                                                           naturali dell’uomo.
                                                           In quanto patogeni opportunisti, questi lieviti
                                                           sono in grado di mostrare la loro
                                                           caratteristica virale provocando affezioni
                                                           morbose.
                                                           I casi di infezione riguardano solitamente le
                                                           mucose e più di rado la cute e le unghie.
  Fig. 12                                                 Saltuariamente si localizzano infezioni in
  Cellule del lievito C. albicans                         organi profondi, i quali creano dei casi clinici
  Foto: Food sensitivity solutions, 09.10.2017            estremamente pericolosi.
                                                          La candidosi esofagea è la più frequente
infezione, dopo la pneumocistosi, nei malati di AIDS e alcune forme viscerali possono essere
presenti nei pazienti che terminano un lungo periodo di chemioterapia per neoplasie ematologiche o
solide, che spesso costituiscono l’episodio finale.
Questo lievito è forse più conosciuto per provocare la Candidosi.
La specie di genere Candida forma solitamente delle colonie dense di colore bianco e, come la
classificazione dei lieviti, anche l’identificazione di questo lievito avviene tramite esami biochimici.
La sua temperatura ottimale di crescita si situa a 37°C a pH neutro (La Placa, 2014).

                                                   21
2. Materiali e metodi
  In questo capitolo sono raccolti i materiali e le tecniche di ricerca usate sia al laboratorio del
        Liceo Lugano 1 sia al Laboratorio di microbiologia applicata di Bellinzona (LMA).
    In questa sezione vengono presentati gli aspetti chimici della parte legata al laboratorio e,
                                 successivamente, gli aspetti biologici.
Verrà in seguito presentata la parte sperimentale del lavoro, ovvero l’estrazione dei capsaicinoidi e
     l’impiego di essi in ambito microbiologico al fine di determinare se le sostanze contenute
         all’interno del frutto del peperoncino possano avere delle proprietà antibatteriche.

I.     Laboratorio scolastico – parte di chimica
Estrazione in corrente di vapore
Becher (portata 500 ml, sensibilità 0.05 ml, incertezza ± 0.05 ml)
Bilancia analogica (portata 360g, sensibilità 0.01g, incertezza ± 0.01 g)
Cilindro graduato (portata 100ml, sensibilità 0.01 g, incertezza ± 0.01g)
Frullatore elettrico
Imbuto gocciolatore (C)
Imbuto separatore (portata 500 ml)
Mantello termico
Pallone a un collo (portata 1000 ml) (A)
Pinze con stativo
Raccordo angolare (E)
Testa di distillazione (B)
Tubo refrigerante (D)
Acqua deionizzata (300 ml)
Capsicum Chinense 7 pod Douglah (234.87 g)

Soxhlet
Etanolo anidro, 250mL(1)
Pallone a un collo (2)
Convogliatore di vapori(3)
Filtro a ditale (4)
Peperoncino (5)
Sifone (6)
Scarica solvente (7)
Connettore (8)
Condensatore a ricadere (9)
Acqua in (10)
Acqua out (11)

                                                 22
Fig. 13
     Strumento utilizzato per l’estrazione in
     corrente di vapore (immagine presa
     dalla scheda di Professor Garavello ).

     Fig. 14
     Strumento Soxhlet

23
Fig. 15
                                                         Rotavapor

II. Laboratorio scolastico – parte di biologia
Acqua deionizzata
Terreno di coltura standard (Standard I nutrient agar)
6 Capsule di Petri sterili
Becher
Autoclave

                                                 24
III. Laboratorio di microbiologia applicata – LMA Bellinzona
Macchina per test McFarland
Incubatrice
Bilancia elettronica (portata 100g, sensibilità 0.001g, incertezza 0.001g)
Lampada UV
Bunsen
Autoclave
Capsule Petri 140 mm, 56 pz.
Capsule Petri 80 mm, 8 pz.
Falcon
Provette
Porta provette
Ansa
Pinze
Filtri per caffè
Camice
Guanti
Pipette tarate
Cappucci monouso per pipette
Calibro
Pallone 2L
Etanolo
DMSO
Soluzioni NaCl 5%
Brodo di coltura Müller- Hinton
Blood Agar
Capsaicina
Capsaicinoidi
Olio piccante

IV. Metodi – estrazione in corrente di vapore
Introduzione

Quando siamo davanti a soluzioni eterogenee composte da due liquidi non miscibili tra di loro, il
punto di ebollizione è fissato quando la somma delle loro tensioni di vapore raggiunge la pressione
esterna. Questo permette la formazione di un vapore con una temperatura minore rispetto alle
temperature di ebollizione delle singole sostanze. Questa tecnica è sovente utilizzata se ci si
confronta con sostanze che hanno una forte tendenza a decomporsi prima del raggiungimento
dell’ebollizione.
A livello industriale l’estrazione in correnti di vapore è utilizzata per estrarre olii essenziali da vari
vegetali (Tratto da “Estrazione oli essenziali in corrente di vapore”, Professor Garavello).

Scopo dell’esperimento

Lo scopo dell’esperimento è di estrarre gli olii essenziali di peperoncino per poterli
successivamente utilizzare sui terreni di coltura batterica per testare la capacità antibatteriche delle
sostanze presenti nel peperoncino (principalmente capsaicinoidi).
                                                   25
Parte sperimentale

Una volta montata tutta l’apparecchiatura si procede con la frammentazione del campione tramite
l’uso di un frullatore elettrico.
Raggiunta la grandezza desiderata del campione, si inserisce lo stesso nel pallone a un collo (A), nel
quale vengono aggiunti 300 ml di acqua.
Non appena il pallone è stato correttamente caricato, si accende il mantello termico che riscalderà il
contenuto del pallone.
Si provvederà ad aprire il rubinetto affinché l’acqua possa passare all’interno del tubo refrigerante
(D) e far dunque condensare il vapore.
Si formeranno delle goccioline lattiginose che verranno raccolte in un cilindro graduato: esse
conterranno sia delle sostanze oleose (olii essenziali), sia dell’acqua con al suo interno delle
sostanze miscibili nel suddetto liquido (a livello industriale questo prodotto viene utilizzato nella
creazione di profumi poco costosi come “l’eau de cologne”).
Queste gocce raggiungeranno l’imbuto gocciolatore (C) e saranno raccolte all’interno di un cilindro
graduato.
Il processo viene ripetuto più volte, facendo attenzione ad aggiungere all’interno del pallone lo
stesso volume di acqua precedentemente raccolto all’interno del cilindro graduato.
L’operazione è stata ripetuta per tre volte, ottenendo così 300 mL di liquido.
Essendo l’acqua polare e l’olio apolare, sulla superficie del liquido presente nel cilindro si possono
vedere le due fasi ben distinte: quella più superficiale rappresenta la parte oleosa, mentre quella
sottostante è acquosa.
Dopo aver terminato la distillazione, il prodotto ottenuto è stato versato all’interno di un imbuto
separatore, uno strumento che permette di separare un miscuglio eterogeneo (composto da più fasi)
in modo molto preciso grazie ad una valvola che permette di regolare il flusso di liquido in uscita.
Il risultato ottenuto è di poche gocce di olio essenziale (< 1 mL) e una grande quantità di acqua
contenente alcune sostanze apolari presenti nel peperoncino.
L’esperienza è durata circa tre ore ed è stata svolta al laboratorio di chimica del Liceo cantonale di
Lugano 1.
Partendo dai limitati risultati ottenuti si è arrivati alla conclusione che l’esperienza sarebbe stata da
rifare mediante un’altra tecnica che prevede l’utilizzo di una diversa strumentazione e, soprattutto,
di un differente solvente.

                                                                             Fig. 16
                                                                             Estrazione in correnti di vapori in
                                                                             azione

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Fig. 17
                                                                    Imbuto separatore

V. Metodi Soxhlet

Introduzione

Il metodo Soxhlet prende il nome dal suo inventore, Franz von Soxhlet.
Questo strumento di laboratorio viene usato per fare estrazioni chiamate “continue” perché non
necessita di una costante aggiunta di solvente dovuto all’evaporazione dello stesso.
I solventi principalmente usati sono etanolo anidro e dicloro-metano, i quali hanno in comune una
bassa temperatura di ebollizione: questo permette di non danneggiare alcune sostanze presenti nel
materiale di estrazione che potrebbero ledersi ad alte temperature.
Solitamente vengono usati solventi apolari per estrarre sostanze liposolubili.

Scopo dell’esperienza

Dopo aver provato ad estrarre gli olii essenziali con il metodo in corrente di vapori, alla luce di uno
scarso risultato, si è tentato di estrarre le sostanze presenti nel peperoncino con un solvente
differente.
I prodotti che si dovrebbero ottenere sono una serie di differenti capsaicinoidi, molecole liposolubili
contenute nel peperoncino e che sono la causa della piccantezza del frutto.

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Parte sperimentale

L’esperimento è iniziato con l’assemblaggio dello strumento: si è riempito il pallone con 250mL di
etanolo anidro e si è caricato l’estrattore con del peperoncino precedentemente seccato per sei giorni
a 50°C e successivamente tritato.
Una volta assemblato il tutto, il rubinetto viene aperto in modo da far passare l’acqua fredda
all’interno del condensatore e si accende il mantello termico così da riscaldare l’etanolo.
Quando la temperatura del solvente raggiunge i 78.4°C, esso cambia di stato e diventa vapore
iniziando a risalire l’apparecchio.
Una volta raggiunto il condensatore, i vapori cambiano ancora di stato e gocciolano sul campione.
Il fondo dell’estrattore è collegato con un sifone che trasporta il solvente al pallone sottostante:
l’estrattore e il sifone (che ha una parte ascendente e una discendente) si riempiono di etanolo e,
secondo il principio dei vasi comunicanti, il livello del liquido all’interno del sifone è il medesimo
di quello dentro all’estrattore.
Sempre secondo lo stesso principio, non appena il livello del liquido dentro al sifone (parte
ascendente) raggiunge la curva, e di conseguenza la parte ascendente, tutto il solvente e il soluto
vengono scaricati dentro al pallone.
Il procedimento si ripete autonomamente.
Per favorire lo scarico del sifone è stata inserita una pipetta Pasteur alla quale è stato tolto l’ago:
questo fa in modo che quando il liquido viene riversato nel pallone non rimanga dell’etanolo dentro
all’estrattore.
Questo metodo è funzionale perché l’etanolo in soluzione con i soluti del peperoncino che precipita
nell’estrattore potrà essere subito riutilizzato, in quanto la differenza delle temperature di
ebollizione farà evaporare solamente etanolo puro: ciò vuol dire che il solvente usato è sempre puro.
L’esperienza è iniziata alle ore 10.00, si è conclusa alle ore 13.00 e si sono svolti 27 cicli.
Successivamente, una volta che la soluzione si è raffreddata, con l’ausilio del Rotavapor, si sono
separati i soluti dal solvente.
Il pallone è stato attaccato allo strumento ed è stato leggermente immerso nell’acqua calda, avente
una temperatura attorno ai 55°C.
Fatto ciò si apre la valvola dell’acqua fredda, la quale passa attraverso un condensatore, facendo in
modo che i vapori cambino di stato passando da gassosi a liquidi. Attaccato al rubinetto dell’acqua
c’è anche un altro tubo che crea il vuoto all’interno del Rotavapor (principio della pompa di
Venturi).
Il vuoto creatosi fa in modo che la temperatura di ebollizione del solvente (che in questo caso è
etanolo) sarà minore rispetto a quella a pressione atmosferica.
Il solvente che evapora ricondensa in un secondo pallone: alla fine si otterranno un pallone con i
soluti puri e un altro pallone con il solvente puro.
Il Rotavapor, come suggerito dal nome, continua a ruotare in modo da prevenire l’ebollizione della
soluzione mescolandola ogni volta.
L’accensione dello strumento è avvenuta alle 9.50 e alle 11.40 tutto l’etanolo si trovava nel pallone
per il raccoglimento dei solventi.

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