Peperoncino: una cura piccante - Giamboni Nicholas
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Liceo Cantonale di Lugano 1 Lavoro di maturità in biologia: “Le cinquanta sfumature dell’…alimentazione” Peperoncino: una cura piccante Viaggio attraverso la microbiologia partendo dall’orto di casa Docente responsabile: Paltrinieri Luca Autore: Giamboni Nicholas, 4M Anno scolastico 2017/2018
Abstract Questo lavoro di maturità ha come scopo quello di scoprire se la capsaicina, la sostanza che causa la tipica piccantezza dei peperoncini, ha un potere battericida o batteriostatico. Affinché questa ricerca potesse aver luogo, è stato necessario intraprendere uno stage al laboratorio cantonale di microbiologia a Bellinzona. Il lavoro si è svolto testando, tramite il test Kirby-Bauer, differenti ceppi di batteri e di lieviti venuti a contatto con le sostanze presenti nei frutti di diverse specie appartenenti al genere Capsicum della famiglia delle Solanacee. Secondo il protocollo utilizzato, i dati ottenuti sono frutto della misura dell’alone d’inibizione dovuto ai capsaicinoidi testati. L’utilizzo di differenti concentrazioni delle sostanze utilizzate è servito ad identificare delle concentrazioni critiche alle quali i batteri non risultavano più sensibili all’effetto antibatterico della capsaicina, i cosiddetti break-points. Le variabili controllate durante i test sono state quelle del differente spessore della parete cellulare dei batteri, il differente comportamento tra lieviti e batteri e come l’esposizione alle sostanze durante un periodo che va dalle 0 alle 48 ore possa modificare la sensibilità al peperoncino da parte dei batteri e lieviti testati. I risultati ottenuti, testimoniati da aloni di inibizione di diametro da un minimo di 0.5 cm (valore minimo sotto al quale le sostanze testate non hanno nessun effetto) ed un massimo di 1.28 cm , lasciano presupporre che il peperoncino possa avere delle caratteristiche antibatteriche. La ricerca effettuata presenta dei limiti in quanto, per affermare con rigore scientifico che il peperoncino sia un antibatterico, bisognerebbe indagare più approfonditamente su questo argomento, svolgendo ricerche che metterebbero a confronto altri ceppi batterici ed altre tecniche di coltura. 1
Indice pagina 1. Introduzione 1.1 Contestualizzazione e obiettivo 4 1.2 Il peperoncino 5 I. Capsaicina 8 1.3 Brevi cenni di microbiologia I. Cos’è la microbiologia? 11 II. Come funziona un antibiotico 12 1.4 I batteri I. Forma e raggruppamento 14 II. Colorazione di Gram 15 III. Stafilococchi 18 IV. Escherichia coli 19 V. Aeromonas 20 VI. Saccharomyces cerevisiae 20 VII. Candida albicans 21 2. Materiali e metodi I. Laboratorio scolastico- parte di chimica 22 II. Laboratorio scolastico- parte di biologia 24 III. Laboratorio di microbiologia applicata – LMA Bellinzona 25 IV. Metodi- estrazione in corrente di vapore 25 V. Metodi- soxhlet 27 VI. Metodi- microbiologia 31 VII. Metodi- laboratorio di microbiologia applicata, parte prima 32 VIII. Metodi- laboratorio di microbiologia applicata, parte seconda 36 3. Risultati I. Diluizioni 38 II. Antibiogrammi 24H- Etanolo 38 III. Antibiogrammi 48H- Etanolo 39 IV. Antibiogrammi 24H- DMSO 40 V. Antibiogrammi 48H- DMSO 41 VI. Antibiogrammi 24H, secondo esperimento- DMSO 42 VII. Antibiogrammi 48H, secondo esperimento- DMSO 43 2
4. Discussione I. Lettura capsule dopo 24H- Etanolo 44 II. Lettura capsule dopo 48H- Etanolo 46 III. Lettura capsule dopo 24H- DMSO 48 IV. Lettura capsule dopo 48H- DMSO 50 V. Lettura capsule dopo 24H- DMSO- parte seconda 53 VI. Lettura capsule dopo 48H- DMSO- parte seconda 56 VII. Lettura capsule esperimento laboratorio scolastico 60 5. Conclusioni 61 6. Glossario 63 7. Bibliografia 66 8. Sitografia 68 9. Ringraziamenti 70 3
1. Introduzione 1.1 Contestualizzazione e obiettivo La scelta del tema per il mio lavoro di maturità scaturisce da una mia passione: la coltivazione e, più precisamente, la coltivazione del peperoncino piccante. Fin da piccolo ho avuto la possibilità di approcciarmi a questa pianta grazie a frequenti viaggi in medio ed estremo oriente, luoghi in cui la presenza di questo frutto all’interno della cultura culinaria è assai marcata. Da subito ne è nato un apprezzamento, ma solo di carattere gustativo. La svolta è avvenuta quando, in terza media, il mio allora docente di scienze arrivò a scuola con un frutto di un colore rosso acceso e dalla straordinaria piccantezza: fu in quel momento che si mise in moto la mia voglia di provare a coltivare la pianta di peperoncino. La scelta di intraprendere un lavoro di maturità in biologia è anche legata alla possibilità di scoprire un ramo completamente nuovo della disciplina che, per motivi comprensibilmente logistici, è quasi impossibile trattare durante uno studio liceale. In questo lavoro di maturità mi si è presentata la possibilità di verificare le proprietà e le caratteristiche di questa sostanza in campo microbiologico. Parallelamente, questo esperimento mi ha dato la possibilità di approfondire maggiormente diversi temi legati alla microbiologia. Ho sempre nutrito grande fascino per i batteri poiché trovo stupefacente come degli esseri unicellulari piccolissimi possano infettare e far insorgere gravi malattie ad esseri infinitamente più grandi di loro. Il lavoro di maturità mi ha dato dunque l’opportunità di lavorare in questo interessantissimo ambito. Nell’impostazione del lavoro ho cercato di dare una certa rilevanza alla parte sperimentale: sono fermamente convinto che, essendo la biologia e la chimica due scienze che poggiano fermamente sull’osservazione e sulla sperimentazione, un lavoro scientifico debba anche includere una parte sperimentale per avere la possibilità di osservare quello che accade all’interno di un laboratorio, e di sperimentare in prima persona cosa vuol dire intraprendere una ricerca in ambito scientifico. L’obiettivo prepostomi è quello di testare alcune sostanze contenute nel frutto del peperoncino in ambito microbiologico in modo da poter avere dei dati che confermino o screditino un eventuale effetto antibatterico di questo frutto. 4
1.2 Il peperoncino Fin da quando questa pianta ha varcato i confini dell’occidente, una folta schiera di botanici ha provato a cercare la vera origine di questo frutto. Ad oggi il mondo della tassonomia del peperoncino rimane ancora avvolto da molti misteri, in quanto nessuno ancora è riuscito ad identificare il peperoncino primordiale. Secondo il professor Hardy Eshbaugh, botanico all’università di Oxford, il primo peperoncino va collocato nelle Ande boliviane. Eshbaugh ipotizza che dalla Bolivia questa pianta si sia spostata verso il Paraguay e il Perù grazie alla dispersione dei semi dovuta dall’ingestione dei frutti ad opera di uccelli e mammiferi (questi ultimi hanno contribuito meno alla dispersione in quanto la presenza della sostanza P nei mammiferi, rendeva i peperoncino non troppo appetibili a causa del bruciore causato dalla capsaicina). Questo processo ovviamente ha richiesto moltissimi anni. Lo studio condotto dal botanico prende come campione il peperoncino conosciuto come Ulupica il quale, secondo lo stesso professore, è il parente geneticamente più stretto al peperoncino Chacoense, il genere considerato come generatore di tutte le specie di peperoncini oggi conosciuti. Il Chacoense viene considerato dai botanici il peperoncino più arcaico in quanto alcuni suoi enzimi, se paragonati con quelli di altri peperoncini, risulterebbero avere una complessità minore (Andrews J., 1984). Un’altra teoria, sostenuta dal professor Fernando Cabieses, è che il peperoncino possa aver visto la luce nel territorio che oggi chiamiamo Messico. Questa ipotesi si basa su referti archeologici dello scavo di Tehuacàn, risalenti circa al 7000 a.C., che portano alla luce pezzi carbonizzati di peperoncini. Un altro scavo nel nord del Messico ha portato alla scoperta di altri resti di quello che si ipotizza essere del peperoncino, databili tra il 6544 a.C. e il 6244 a.C. Un fatto particolare nella storia del peperoncino è la scoperta, in Perù, di una stele appartenente all’antica cultura Chavin (900 a. C. – 200 a. C.) (Wikipedia, 22.11.2017). Questa stele, alta 8 piedi e 3 pollici (circa 2,7 metri) è conosciuta anche con il nome di “Obelisco di Tello”, in onore dell’archeologo che la scoprì nel 1919. La stele raffigura uno scenario religioso in cui, nell’angolo in basso a destra, si notano tre distinti frutti del peperoncino. Il referto è oggi esposto al Museo Nacional de Antropologia y Arqueologia a Pueblo Libre, città peruviana (Monaco, 2014). 5
Fig 1. A sinistra: Immagine dell’Obelisco di Tello al Museo Nacional de Antropologia y Arqueologia A destra: Loco della stele in cui appare l’immagine del peperoncino Fonte: Historia del periodismo peruano, 31.10.2017 Fonte: Giorgio Samorini network, 31.10.2017 Sotto un aspetto puramente botanico, va detto che questa pianta non risulta essere estremamente complessa da coltivare, tanto che Colombo, quando la portò dalle Americhe, non riuscì a ricavare i profitti da lui desiderati proprio perché chiunque riusciva facilmente a coltivarla. Trattandosi pur sempre di un essere vivente, questa Solanacea ha comunque bisogno di una certa cura e attenzione. Mi misi in gioco e, volenteroso di approcciarmi alla coltivazione del peperoncino, riuscii a mescolare il mio pollice verde con una specie vegetale abbastanza facile da coltivare: ciò che ne uscì furono delle piante colme di frutti piccantissimi. La mia passione per i peperoncini aumentava di pari passo con le mie letture d’informazione su di esso e scoprii che il peperoncino era da sempre presente, con un ruolo piuttosto attivo e dinamico, all’interno della dieta dell’uomo. È stato impiegato come alimento per insaporire le pietanze e nella medicina tradizionale, ha assunto un ruolo fitoterapico nella cura di alcune malattie o malesseri. Il frutto di questa pianta fu per anni utilizzato nei rimedi cosiddetti “della nonna”, ma negli ultimi anni illustri scienziati e medici hanno dedicato parte della loro vita nella ricerca e nella sperimentazione del principio attivo presente nei frutti, la capsaicina, nella cura di alcune malattie. Le ricerche effettuate hanno dimostrato che il peperoncino, e dunque tutti i suoi capsaicinoidi, potevano essere utili nella cura di: alcolismo (Rozin, 1982), arteriosclerosi (Di Montegranaro, 1994), bronchite (De Franco, 2001), cancro (Giulio Tarro), dermatite (Bortolini,2004), digestione difficile (Altamore, 1998), depressione (Pedretti, 1990), distorsioni (Caterina, Schumacher, Tominaga, Rosen, Levine, Julius. 1997), dolori muscolari (Caterina, Schumacher, Tominaga, Rosen, Levine, Julius. 1997), emorroidi (Altamore, 1998), fermentazioni intestinali (Valnet, 1988), insufficienza epatica (Valnet, 1988), mal di testa (De Franco, 2001), obesità (Modenese, 1994), torcicollo (Altamore, 1998), ulcera gastrica (Duke, 1997) e vene varicose (Valnet , 1988). Queste ricerche, però, potrebbero non essere state affrontate con un rigore completamente scientifico; ciò vuol dire che alcuni di questi studi potrebbero non essere accompagnati da ricerche scientifiche basate sull’analisi di dati concreti, per cui i risultati sono da prendere in modo cauto. 6
Infatti, alcune scoperte e proprietà legate alla fitoterapia, ossia la cura mediante proprietà medicali attribuite ad alcune piante, si basano su vecchi detti popolari e su presunti effetti benefici: solo per poche piante è stato attribuito, o screditato, in modo scientifico l’efficacia o meno delle sostanze presenti in questi vegetali. Il protagonista del successo del peperoncino in campo medico è da attribuirsi principalmente alla (E)-N-(4-idrossi-3-metossibenzil)-8-metil-6-noneamide, chiamata comunemente capsaicina, una sostanza chimica che conferisce a questi frutti la tipica piccantezza. Alcuni scienziati hanno ipotizzato che questa molecola potesse avere anche delle proprietà antibatteriche, ma non ci sono studi che ne provino la validità (Wikipedia, 07.10.2017). 7
I. Capsaicina Tutto il mondo associa i peperoncini al bruciore, ma perché? Il motivo è che questi frutti contengono una sostanza chiamata capsaicina. Infatti, quando si mangia un peperoncino, il corpo reagisce sudando, aumentando la sua temperatura e creando una sensazione di dolore. Ma cosa succede realmente quando la capsaicina viene a contatto con le mucose della bocca? Quando questa sostanza entra in contatto con le terminazioni nervose presenti in bocca, esse trasmettono degli impulsi ai nocicettori che, tramite alcuni mediatori chimici, trasmettono a loro volta un messaggio cervello; esso viene elaborato e tramutato in una sensazione riconducibile a quella del bruciore. Il cervello risponde utilizzando tutte le risorse idrauliche che ha a disposizione per fare in modo che il corpo si liberi di questa sostanza: fa aumentare la salivazione, il naso si mette a gocciolare, la faccia comincia a sudare copiosamente, il tratto gastrointestinale aumenta il suo metabolismo e aumenta la frequenza cardiaca (Monaco, 2014). Questo particolare meccanismo è legato ai canali appartenenti alla superfamiglia dei TRP ion channel (transient receptor potential). Il canale TPRV1, appartenente alla sottofamiglia dei vanilloidi TPR, è maggiormente presente nelle radici dorsali del midollo spinale nel sistema nervoso periferico, nell’ippocampo e nell’ipotalamo nel sistema nervoso centrale. Questi canali informano normalmente il SNC su possibili danni dovuti al calore, in quanto si attivano a temperature superiori ai 43°C. Alcuni studi mostrano che questi canali hanno un’azione divisa in due fasi e, per quanto riguarda il peperoncino, il periodo di bruciore è seguito da un periodo di analgesia in cui i neuroni si trovano impossibilitati a reagire agli stimoli nocicettivi (Treccani, 04.10.2017). L’applicazione della capsaicina consegue a una riduzione della capacità di trasmettere lo stimolo nocicettivo dato dalla capsaicina stessa ma anche da altre sostanze come l’etanolo o soluzioni con valori di pH minori a 6. L’assunzione della capsaicina porta ad un considerevole aumento di ioni Ca2+ all’interno della cellula, attivando così la proteina calcineurina che defosforila il canale TRPV1, coinvolto nella trasmissione dei segnali nocicettivi. L’attivazione del canale porta ad un rapido aumento di ioni Ca2+ intracellulari e, nei neuroni, questo porta ad una depolarizzazione, ovvero una diminuzione drastica del potenziale d’azione (Wikipedia, 10.10.2017). Dopo l’attivazione del recettore TRPV1 segue uno stato di desensibilizzazione, durante il quale i neuroni che esprimono questo recettore non rispondono allo stimolo dovuto all’aggiunta di successive sostanze riconosciute dal recettore (PubMed, Novàkovà- Tousovà, Benedikt, Samad, Touska, Vlachovà & Vykliky, 13.05.2008). Questo canale è dunque regolato da processi di fosforilazione e defosforilazione, che lo rendono rispettivamente più o meno sensibile. Il canale TRPV1, coinvolto nella stimolazione dolorosa, spiega per quale motivo traduciamo la piccantezza dei peperoncini in dolore fisico (Fedoa, 08.10.2017). I neuroni che espongono questi recettori sono anche coinvolti nella secrezione della sostanza P, della CGRP e della somatostatina. Le prime due sostanze provocano un’infiammazione neurogenica locale, mentre la somatostatina (prodotta dopo una prolungata stimolazione del canale) è caratterizzata da un’azione antiinfiammatoria (NCBI, Premkumar & Sikand, 06.06.2008). Il canale è formato da sei regioni di transmembrana, con la regione del poro acquoso collocata tra la quinta e la sesta regione. I domini N e C sono intracellulari: il dominio N contiene tre domini ripetuti di anchirina, mentre il dominio C presenta i legami per la calmodulina e per il PIP2. 8
L’immagine che segue, illustra la struttura del recettore TPRV1 situato nelle cellule del sistema nervoso periferico. Capsaicina Capsaicina Calore Calore e protoni e idrogenioni Ca2+ C A" A" A" N Iperalgesia"termica"e"infiammatoria" Legenda: Membrana cellulare Regione di transmembrana Anchirina Fig. 2 Struttura del recettore vanilloide TPRV1 Fonte: disegno tratto da Monaco, 2014 Mentre il corpo cerca di liberarsi dal danno che la capsaicina apparentemente gli arreca, il cervello rilascia endorfina. Questo neurotrasmettitore è secreto ogni qual volta il corpo subisce un danno ma, visto che in questo caso il peperoncino non danneggia l’organismo, il rilascio di endorfina equivale ad una somministrazione di una blanda dose di antidolorifico senza alcun vero motivo. Storicamente, gli Aztechi erano soliti distinguere la piccantezza dei frutti classificandoli secondo una scala che va da coco (piccante) a cocopolatic (piccante da stare male). La loro classificazione era basata dunque sulle esperienze personali dei cittadini dei villaggi (Monaco, 2014). 9
Quasi 600 anni dopo, nel 1912, un farmacista di Detroit, Wilbur Scoville, creò una scala che misurava la piccantezza usando il medesimo metodo d’indagine che precedentemente fu utilizzato dai popoli Aztechi, ovvero l’interpretazione delle reazioni personali. Lo scienziato affrontò il problema di voler informare i consumatori circa la quantità di capsaicina contenuta nei peperoncini. Iniziò cercando di utilizzare sostanze chimiche o reazioni biochimiche per creare una scala, ma fallì perché non fu in grado di creare nulla di universale e tautologico. Dopo molti esperimenti scoprì che la lingua era la chiave per poter classificare i peperoncini secondo il loro grado di piccantezza: questo organo, infatti, è capace di rilevare piccole quantità di capsaicina fino a diluizioni pari a un milione di volte il suo volume. Il test che Scoville scelse di realizzare fu semplice: bisognava inizialmente estrarre la sostanza mettendo i peperoncini in infusione nell’alcool. Da questa soluzione veniva prelevata una precisa quantità aggiungendovi acqua zuccherata con successive diluizioni fino a quando il piccante non era più percepibile al “gusto” di cinque assaggiatori. La scala da lui creata indica dunque la quantità di acqua necessaria affinché la sensazione di bruciore svanisca. Ciò vuol dire che, ad esempio, il peperoncino Habanero, al quale vengono attribuiti trecentomila unità Scoville (Shu, Scoville heat units), necessita di trecentomila millilitri di acqua per neutralizzare un millilitro di estratto (in alcool) di peperoncino Habanero. Lo scienziato ricevette numerose critiche dalla comunità scientifica perché aveva basato la sua scala sulle sensazioni umane e, dunque, diverse da individuo a individuo. Nonostante ciò la scala Scoville è tutt’oggi in uso sia tra gli amatori che tra i produttori alimentari. Infatti, l’American Spice Trade Association, l’associazione che riunisce i produttori americani di spezie, appoggia l’utilizzo delle analisi con un cromatografo liquido ad alta pressione e consiglia di trasformare i dati in unità Scoville (Helmenstine, 2017). Ma Wilbur Scoville non fu l’unico a creare una scala in grado di misurare la piccantezza, fu solo il più famoso. Una scala altrettanto nota è quella dello scienziato Dremann Craig: la Dremann’s Hotness Scale. Questo sistema prevede l’analisi del diametro dei peperoncini; infatti la concentrazione di capsaicina è inversamente proporzionale al diametro del frutto. Più il peperoncino è piccolo e più capsaicina in rapporto esso conterrà (DeWitt & Bosland, 2015). Diamo ora un’occhiata, sotto un punto di vista chimico e biologico, alla capsaicina: questa sostanza fa parte del gruppo degli alcaloidi e, assieme alla capsaicina (C18H27NO3), il peperoncino contiene al suo interno altri suoi derivati come la diidrocapsaicina (C18H23NO3), la nordiidrocapsaicina (C17H27NO3) e la omodiidrocapsaicina (C19H31NO3). La capsaicina fa parte della famiglia degli alcaloidi, molecole di origine vegetale composte da un caratteristico gruppo amminico (R-NH-R). La disposizione degli atomi lungo la catena di carbonio crea i seguenti gruppi funzionali: alcoli (R- OH), amina secondaria (R-NH-R), chetone (R-C=O-R) e un ciclo benzoico. La geometria della molecola la rende apolare: la sua solubilità in acqua è quindi molto bassa (Wikipedia, 07.10.2017), mentre è alta la solubilità in solventi quali l’etanolo e il dicloro metano. Tutte queste sostanze sono definite con il nome di capsaicinoidi e sono presenti nelle specie di Capsicum della famiglia delle Solanacee. Il genere Capsicum vanta ben quarantuno specie, ma le più famose sono cinque: C. annuum, C. baccatum, C. chinense, C. fructensces e C. pubensces. Il successo riproduttivo di questa pianta è l’autogamia, ovvero la presenza sia di gameti maschili sia di quelli femminili all’interno dello stesso fiore (da non confondere con l’ermafroditismo, che vede sì la presenza dei due gameti nello stesso individuo, ma disposti in apparati separati e distinti). 10
1.3 Brevi cenni di microbiologia I. Cos’è la microbiologia? Ma cos’è la microbiologia? Cosa studia? La microbiologia è una branca della biologia che studia i microorganismi. Già Marco Terenzio Varrone (116-27 a. C) fu mosso a pensare che qualcosa come un “…animalia quaedam minuta, quae non possunt oculi consequi, ut per aera intus in corpus per 11sa c nares perveniunt atque efficiunt difficilis morbus …” (animali minuti che non si possono vedere ad occhio nudo, e che nell’atto di respirare aria entrano nel corpo attraverso la bocca e le narici, e quindi producono malattie difficili da curare) potesse provocare difficili e complicati morbi. Ma la storia di questa disciplina nasce in Olanda da un mercante di nome Antony van Leeuwenhoek (1632-1723), un appassionato di lenti. Egli fu il primo ad osservare questi microorganismi grazie ad un microscopio rudimentale auto costruito. Questo primordiale strumento era in grado di fornire un ingrandimento pari a circa 200 volte la vista umana. Quello che scoprì chiaramente ebbe molta risonanza all’interno della comunità scientifica, ma solo nel XIX secolo si ebbero le maggiori scoperte e ricerche, coadiuvate da nuovi microscopi più potenti e performanti. A cavallo tra la metà e la fine del XIX secolo, furono il chimico-biologo francese Louis Pasteur (1822-1895) e il medico tedesco Robert Koch a gettare le basi di quella che oggi chiamiamo microbiologia. Allo scienziato francese viene attribuito il nome di patrono della microbiologia in quanto fu lui a dimostrare il fondamentale ruolo dei batteri nella fermentazione del vino e della birra. Pasteur ideò anche un metodo per rendere inattivi i batteri, ciò che oggi è comunemente chiamato processo di pastorizzazione. Al medico e batteriologo Robert Koch si attribuisce invece il merito di aver sviluppato le moderne tecniche di coltivazione dei microorganismi, come la coltura di batteri su terreni abiotici solidi, l’introduzione delle lenti ad immersione e di aver scoperto ed ideato alcuni metodi di colorazione delle colonie. Lo scienziato scoprì anche i differenti cicli infettivi di patogeni come l’antrace (1876), il colera (1883) e la tubercolosi (1882); per queste scoperte gli fu attribuito il premio Nobel per la medicina nell’anno 1905. Ma cosa studia realmente questa disciplina scientifica? Studia i microorganismi, piccoli esseri viventi che non sono visibili ad occhio nudo. Bisogna specificare che con il termine microorganismo ci si riferisce ai batteri, ai funghi, ai protozoi e ai virus. Nell’albero filogenetico universale, basato sull’analisi del RNA ribosomiale, sono identificati tre domini, due dei quali raggruppano i procarioti (Bacteria e Archea) e un terzo che raggruppa gli Eucarya. Gli Archea sono diversi dai Bacteria e questo è stato possibile dimostrarlo grazie alla presenza di sequenze ribosomiali caratteristiche, differenti pareti cellulari e istoni legati al cromosoma. Un gran numero di questi organismi, per vivere e sopravvivere in ambienti ostili, ha dovuto sviluppare particolari caratteristiche; essi infatti possono essere metanogeni (organismi che vivono in ambienti anaerobici e producono metano), alofili estremi (organismi che vivono in luoghi estremamente alcalini) e termofili estremi (organismi che vivono in ambienti estremamente caldi). La linea evolutiva dei Bacteria rappresenta la forma di vita più abbondante sul pianeta a tal punto da comporre il 90% della biomassa marina, mentre in 1 grammo di terreno si trovano 109 organismi 11
procarioti che sono di 10.000 volte superiori agli organismi eucarioti presenti nella medesima quantità di materiale (La Placa, 2014). La comunità scientifica crede che si conosca solamente l’1% delle specie di microorganismi che popolano la Terra e questa percentuale porta i procarioti ad essere il dominio con più specie differenti. Si ritiene anche che i procarioti siano stati essere la prima forma di vita a comparire sulla Terra circa quattro miliardi di anni fa e dalla quale ne conseguono tutte le specie oggi conosciute. Questi organismi hanno colonizzato ogni ambiente terrestre, traendo sempre vantaggio dalle condizioni nelle quali essi si trovavano e rendendo possibile la vita per altri esseri viventi. I microorganismi ricoprono un ruolo fondamentale nelle trasformazioni e nei cicli biogeochimici di carbonio, azoto, diossigeno e sono anche implicati in processi biologici di grande interesse economico; infatti, sono responsabili di molteplici processi utilizzati nell’alimentazione, come ad esempio nella lievitazione del pane, nella trasformazione degli zuccheri in alcool, nelle bevande come la birra o il vino. Questi esseri sono anche presenti in quantità massiccia all’interno del corpo umano e l’insieme delle varie specie che vivono in simbiosi con gli uomini prendono il nome di microbiota, il quale varia da individuo a individuo. La regione gastrointestinale ospita l’ecosistema microbico più diversificato e complesso dell’essere umano. La conta dei microorganismi appartenenti a tutti e tre i domini che occupano il nostro intestino è nell’ordine di trilioni di cellule ( in notazione scientifica corrisponde a 1018 cellule). Il loro numero è di circa dieci volte superiore a quello delle cellule umane, portando informazioni genetiche di circa dieci milioni di geni unici i quali, a loro volta, sono di cento volte superiori di quelli presenti nel nostro genoma. Il microbiota agisce come una barriera che mantiene il nostro organismo protetto da microorganismi patogeni o permette il passaggio di quelle cellule che potrebbero apportare benefici al corpo, si può dire che contribuisce al mantenimento e allo sviluppo dell’omeostasi immunitaria (Pia Conte & Mastromarino, 2010). II. Come funziona un antibiotico La medicina cura le malattie dovute ai batteri con dei farmaci chiamati comunemente antibiotici o, più correttamente, antimicrobiotici. Scomponendo la parola è facile capire il funzionamento di questi farmaci; infatti anti- sta a significare una non presenza, ovvero l’impedimento di qualcosa e -microbiotico vuol dire letteralmente piccola vita. Unendo i significati della parola si ottiene che ciò che ci viene somministrato durante un’infezione o una malattia batterica è qualcosa che non permette la vita dei microorganismi, impedendone la duplicazione o uccidendoli (dal greco “contro la vita) (La Placa, 2014). Questi farmaci lavorano a stretto contatto con il sistema immunitario umano, soprattutto con il sistema immunitario innato. L’efficacia degli antimicrobiotici è dovuta anche in parte al corretto funzionamento di questo sistema all’interno dell’ospite infettato dal batterio. Gli antibiotici sono formati da sostanze direttamente prodotte da altri microorganismi, come ad esempio muffe o piante. Negli anni più recenti, l’industria farmaceutica ha avuto bisogno di incrementare la produzione di tali sostanze, creando farmaci chemioterapici, in altre parole di sintesi. La loro azione ha effetto solamente sui batteri e non sui virus. Il farmaco più famoso in questo campo è probabilmente la penicillina, scoperta casualmente da Alexander Fleming nel 1928. 12
Questa sostanza, presente in natura, fu estratta per la prima volta dal fungo Penicillium chrysogenum. Questa scoperta rivoluzionò il mondo della medicina in quanto risultò essere molto efficace per una vasta gamma di batteri Gram + (l’esperimento e la classificazione fatta da Hans Christian Gram viene trattata al capitolo 1.4) come ad esempio gli Staphylococcus (Wikipedia, 07.10.2017). A causa del suo massiccio impiego, questo farmaco è andato incontro al fenomeno conosciuto come resistenza batterica: i batteri, riproducendosi molto velocemente, sono riusciti ad evolversi in modo da non essere più sensibili alla sostanza rendendola quindi inutile al fine di debellare l’infezione. Gli antimicrobiotici adottano differenti metodi per colpire la cellula batterica: Attaccano la parete cellulare. Attaccano la membrana cellulare. Interferiscono con la sintesi di proteine o acidi nucleici, indispensabili alla scissione binaria. Disturbano o bloccano i processi metabolici. La loro azione è dovuta alla presenza di canali, recettori ed antigeni proteici posti sulla superficie di tutti i componenti della cellula. Ogni batterio presenta i suoi recettori specifici per ogni sostanza. Questo serve alla cellula batterica per poter legare alcune sostanze a sé in modo da poterle utilizzare all’interno del suo metabolismo. Gli antigeni sono anche i responsabili della risposta immunitaria del nostro corpo quando contraiamo una malattia: gli anticorpi si legano a questi antigeni e ne riconoscono la patogenicità, innescando una serie di difese in modo da proteggere l’organismo. I farmaci funzionano in modo analogo, andandosi a legare a recettori specifici presenti su tutta la superficie batterica (La Placa, 2014). Fig. 3 A sinistra: Capsaicina A destra: Meticillina Foto: Wikipedia, 07.10.2017 Gli antimicrobiotici denominati ß-lattamici, come ad esempio la penicillina o la meticillina, impediscono la sintesi della parete cellulare nei batteri, rendendo dunque impossibile la scissione binaria. Il ß-lattame è la chiave di queste molecole: esso è formato da 3 atomi di carbonio, uno di ossigeno e uno di azoto che creano un ammide ciclica. Il meccanismo d’azione di questa sostanza è piuttosto semplice: il gruppo ß-lattame si posiziona sul sito attivo della transpeptidasi impedendo la formazione dei legami peptidici che formano e rafforzano la parete cellulare. Così facendo, i ß-lattamici impediscono la formazione della parete cellulare, mandando il batterio in apoptosi (Wikipedia, 07.10.2017). È importante ricordare che, ad ogni complesso o molecola, corrisponde uno specifico recettore o sito attivo. Il paragone proposto tra la meticillina e la capsaicina potrebbe essere attribuita alla presenza, in entrambe le molecole, di un ciclo benzoico legato ad un gruppo –CH3O e di un’ammina (Fig. 3). Magari l’azione antibatterica della capsaicina potrebbe anche essere dovuta alla somiglianza con alcune componenti dei ß-lattamici. 13
1.4 I batteri In questa sezione verranno spiegate le caratteristiche dei batteri, i metodi di classificazione più comuni e saranno anche introdotte le specie batteriche e i lieviti utilizzati per l’esperimento svoltosi al laboratorio scolastico del Liceo Lugano 1 e al laboratorio di microbiologia applicata della SUPSI a Bellinzona I. Forma e raggruppamento La cellula batterica è una cellula procariota di dimensioni ridotte; la sua grandezza varia da 0.2 µm a 30µm e la sua forma può ricordare principalmente due solidi geometrici: la sfera o il cilindro (Wikipedia, 29.10.2017). I batteri che si manifestano sotto forma di sfere o quasi-sfere sono detti cocchi (dal greco kokkos= chicco), mentre i batteri di forma cilindrica vengono catalogati come bacilli (dal latino bacillum= bastoncello). Questa suddivisione, ovviamente, non si ferma solo a queste due categorie; infatti, i batteri cilindrici, ma estremamente corti, sono detti cocco-bacilli, mentre quando presentano delle estremità più sottili rispetto al corpo sono detti bacilli fusiformi e quando hanno una o più curvature lungo l’asse maggiore sono anche chiamati vibrioni o spirilli. Sovente capita che le singole cellule che si riproducono in un determinato numero di generazioni tengano, per un certo tempo, un forte legame di continuità facendo sì che vengano a crearsi dei caratteristici raggruppamenti, i quali sono denominati, a dipendenza della forma che a sua volta è determinata dal modo in cui si succedono nello spazio, i differenti livelli di divisione cellulare durante le successive generazioni. All’interno dei cocchi, i raggruppamenti osservati con più frequenza, sono quelli a diplococco, cioè quando le cellule sono unite formando delle coppie, a stafilococco quando danno origine ad ammassi irregolari (dal greco σταφυλή = grappolo) a streptococco quando le cellule si dispongono in catenelle di lunghezza variabile (dal greco στρεπτό= collana) (La Placa, 2014). Fig. 4 Differenziazione delle cellule batteriche secondo la loro forma Foto: School work helper, 09.10.2017 14
II. Colorazione di Gram Nel 1884, il batteriologo danese Hans Christian Gram sviluppò un metodo per la classificazione dei batteri. Questo metodo consiste nel colorare con il viola di genziana (cristalvioletto) e decolorare con alcool- acetone le colonie di batteri che si stanno studiando. Questo tipo di analisi è molto utilizzata in campo medico in quanto permette di identificare con facilità la grandezza, la forma e il tipo di patogeno con il quale si è venuti in contatto (Bioutils.ch, 2015) I risultati possono dare due esiti: le colonie potrebbero colorarsi di viola e restare tali anche dopo aver pulito con l’acetone o potrebbero decolorarsi dopo essere venute in contatto con il medesimo solvente. Il motivo di questa perdita o mantenimento del colore da parte dei batteri risiede nella Fig. 5 composizione della loro parete cellulare. Infatti i Hans Christian Gram batteri caratterizzati come Gram + (positivi alla Foto: ScienceProfonline.com, 12.10.2017 colorazione di Gram) manterranno il colore viola anche dopo essere stati lavati con l’acetone, in quanto la loro parete cellulare è molto spessa e dunque mantiene il colore al suo interno. Rispettivamente, i batteri classificati Gram – (negativi alla colorazione di Gram) hanno una parete cellulare più sottile e ciò permette all’acetone di decolorare i batteri, facendoli risultare non più viola ma rosa. Questi esiti nella colorazione sono dovuti alla capacità, da parte della parete cellulare, di trattenere il cristalvioletto (che è un colorante basico) e dalla quantità di mureina, un peptidoglicano presente nella parete cellulare dei batteri che permette al colorante di essere trattenuto o meno dalla cellula. Un’elevata presenza di mureina (Gram +) permette alla cellula batterica di legare una maggior quantità di colorante, risultando così di colore viola, mentre i batteri che non hanno grandi quantità di mureina tenderanno a decolorarsi, diventando di una tonalità tendente al rosa (Gram - ). I batteri Gram + presentano sostanze come N-acetilglucosamina (aminozucchero) e acido N- acetilmuriamico che, legate a catene corte di aminoacidi, creano una parete cellulare molto spessa (Wikipedia, 04.07.2017). Questi batteri hanno una parete cellulare molto spessa che racchiude completamente il batterio: essa viene chiamata sacculo ed è formata da differenti strati di peptidoglicani che si intrecciano con piccole quantità di polimeri, rappresentati principalmente da acidi teicoici (dal greco τοίχος= muro). La parete dei Gram + è altamente polare grazie alle cariche degli aminoacidi del peptidoglicano, degli aminozuccheri e dei radicali fosforici degli acidi teicoici. Proprio a seguito di questo, la parete cellulare non permette il passaggio di molecole idrofobiche, che sono in grado di danneggiare la struttura della membrana plasmatica, mentre risulta permeabile alle molecole idrofile. 15
Fig. 6 Rappresentazione grafica della parete cellulare dei batteri Gram- (a sinistra) e Gram+ (a destra) Foto: Altervista, 05.10.2017 Grazie alla polarità dovuta alle cariche degli amminomonosaccaridi che compongono i peptidoglicani della parete cellulare, il batterio Gram + è capace di legare molti cationi che, con probabilità, servono a garantire un ambiente ionico adeguato al metabolismo della cellula (Wikipedia, 10.10.2017). Le molecole presenti in maggior numero all’interno del peptidoglicano sono l’amminomonosaccaride glucosammina e l’amminoacido alanina, entrambi di carica positiva. Fig. 7 A sinistra: Glucosammina A destra: Alanina Foto: Wikipedia, 05.10.2017 Per questo motivo spesso si usa aggiungere NaCl ai terreni di coltura in modo da ottenere terreni selettivi in quanto i batteri Gram – non riescono a sopravvivere in ambienti con concentrazioni saline elevate. 16
I batteri Gram – , per contro, hanno una parete cellulare formata da lipopolisaccaridi e lipoproteine, che conferiscono loro una parete cellulare più sottile. Gli acidi teicoici sono assenti nella parete cellulare di questi batteri. Anche in questo caso la parete cellulare ha un importante ruolo nel bilancio idrico, ma non è in grado di contrastare sufficientemente il passaggio di molecole idrofobiche (ed è questa la ragione per la quale si tratta di batteri Gram –) che potrebbero potenzialmente arrecare danni alla cellula andando a danneggiare la membrana citoplasmatica (La Placa, 2014). Gli esiti dell’esperimento condotto da Gram possono variare a dipendenza dell’età della colonia, condizioni di crescita ed altri fattori fisiologici dei batteri. 17
III. Stafilococchi Al laboratorio di microbiologia applicata, al momento dello sviluppo della parte pratica del presente LAM, si è lavorato con batteri dell’ordine degli stafilococchi e, più precisamente con le specie S. hominis, S. epidermidis e S. capitis. Questi batteri si presentano con una forma sferica, visibili sotto forma di ammassi irregolari ricordanti dei grappoli del diametro di circa 0.8-1 µm. Questi batteri Gram + sono immobili, privi di capsula, asporigeni e crescono con facilità nei terreni di coltura classici. Quando inoculati su terreni solidi, formano colonie di 2- 3 mm di diametro, generalmente di forma tonda, opache e con colorazioni citree o auree. Si sviluppano a temperature comprese tra i 10°C e i 45°C, con una temperatura ideale di 30°C-37°C, mentre per quanto Fig. 8 riguarda il pH il range ottimale è tra 7 e 7.5, ma possono Batterio di forma cocco (S. hominis) vivere tra pH 4 e 9. Foto: Medicine.net, 09.10.2017 Per quanto riguarda la produzione di energia metabolica, questi batteri sono aerobi-anaerobi facoltativi che utilizzano il sistema completo dei citocromi in presenza di diossigeno, mentre in ambienti privi di diossigeno utilizzano un metabolismo fermentativo. Gli Staphylococcus sono molto resistenti anche di fronte a situazioni sfavorevoli grazie alla loro alofilia, cioè la capacità di crescere anche ad alte concentrazioni di NaCl (7.5%), sufficienti ad inibire lo sviluppo di molti altri batteri (La Placa, 2014). Questi batteri possono portare a gravi complicazioni a livello clinico, causando nella maggior parte dei casi infezioni cutanee fino ad arrivare a malattie più gravi come la setticemia o l’endocardite. Nonostante ciò, i batteri del genere Staphylococcus fanno parte della normale flora umana e la loro interazione è solitamente asintomatica. Tutta la popolazione umana è colonizzata da S. epidermidis e le infezioni dovute a questo batterio sono solitamente associate a dispositivi medici (es. impianti protesici). In alcune parti del mondo sviluppato e industrializzato le infezioni dovute a S. epidermidis raggiungono il 70-80% delle infezioni. Questo batterio è resistente alla meticillina, usata anni prima per debellare questo batterio prima della comparsa di ceppi di batteri meticillina - resistenti. Questi batteri sono infatti immuni al farmaco antibiotico sintetizzato alla fine degli anni 50 (Wikipedia, 29.10.2017). Questo ha portato a grandi problemi per la cura di alcune infezioni, sviluppando un problema sanitario sia d’interesse clinico sia pubblico e politico. 18
IV. Escherichia coli Il genere Escherichia comprende una specie soltanto, ovvero l’Escherichia coli, batterio del colon o cibacillo, scoperto nel 1855 dallo scienziato tedesco Theodor Escherich. Gram -, mobile per flagelli peritrichi, è un anaerobo facoltativo. E. coli occupa normalmente l’organismo umano e rappresenta la specie batterica predominante nell’intestino crasso, ma è anche presente nel terreno, nell’acqua e nella materia in decomposizione. Fig. 9 E.coli è capace di fermentare Batterio E. coli rapidamente il lattosio per ottenere Foto: Monitorulcij.ro, 09.10.2017 energia. Da un punto di vista sierologico, questo batterio si divide in differenti sierotipi sulle basi di antigeni somatici O, antigeni capsulari K e antigeni flagellari H. E. coli è tra i batteri patogeni più versatili in quanto è normalmente presente nella flora intestinale umana e dei vertebrati e i suoi effetti patogeni possono essere molto diversi gli uni dagli altri. Possono provocare infezioni endogene alle vie urinarie, infezioni esogene intestinali (in genere di origine animale e soprattutto bovina), meningite neonatale e occasionalmente, in associazione con altri batteri, provoca infezioni endogene del distretto addominale (La Placa, 2014). Questo enterobatterio fermenta una varietà di carboidrati per ottenere energia e questa caratteristica serve anche come differenziazione per individuare i vari sierotipi. Il termine enterobatterio deriva dal fatto che produce enterotossine, così chiamate perché colpiscono il tratto intestinale causando diarrea e perdita di liquidi. Per la patologia umana, i sierotipi di questa specie implicati nelle infezioni intestinali sono E. coli enterotossigeni (ETEC), enteroemorriagici (EHEC), enteropatogeni (EPEC), enteroinvasivi (EIEC) e enteroaggregativi (CEEA) (Pia Conte & Mastromarino, 2010). E. coli è utilizzato anche per le tecniche di elettroporazione e trasformazione dei plasmidi. Infatti al laboratorio di microbiologia di Bellinzona, durante la nostra parte pratica si è lavorato anche con E. coli BL21, un batterio più sensibile e utilizzato nell’ambito delle biotecnologie. 19
V. Aeromonas Si tratta di batteri Gram – , mobili grazie a flagelli polari (monotrichi) e sono classificati assieme alla famiglia dei vibrioni. Sono aerobi-anaerobi facoltativi, producono l’enzima catalasi e risultano positivi al test per l’ossidasi. Il genere Aeromonas comprende differenti specie diverse e la si può localizzare nelle acque superficiali ed è un parassita di alcune specie di pesci ed anfibi. Solamente una specie di Aeromonas è stata isolata nell’uomo in caso di setticemia, osteomieliti, di grosse infezioni o in casi di Fig. 10 enterite diarroica ed è la specie A. Batterio Aeromonas hydrophila. Foto: American Society for microbiology, Per la ricerca effettuata al laboratorio di 09.10.2017 Bellinzona è stata utilizzata una specie di Aeromonas che si trova come parassita nei pesci di acqua dolce , in particolare dei salmondi (La Placa, 2014). VI. Saccharomyces cerevisiae Questo lievito è un organismo unicellulare che appartiene al Regno dei funghi e si riproduce per gemmazione. È probabilmente il lievito più importante all’interno dell’industria insieme a S. carisbergensis (implicato nella fermentazione della birra), K. fragilis (coinvolto nella formazione di alcool dal latte e nella formazione dell’enzima lattasi), S. lipolytica (Formazione dell’enzima lipasi) e P. rhodozima (favorisce la produzione del carotenoide astaxantina) (Chimicare, 29.10.2017). S. cerevisiae viene principalmente Fig. 11 utilizzato per la lievitazione la pasta della Cellule di lievito di S. cerevisiae pizza o di altri prodotti di pasticceria. Foto: MicrobeWiki, 09.10.2017 Anaerobo facoltativo, ricava energia fermentando gli zuccheri e producendo principalmente etanolo e biossido di carbonio (a dipendenza del diossigeno presente). Si presenta in forma ovale o ellittica ed ha un diametro attorno ai 5-10 µm. Si può reperire con facilità nella maggior parte dei supermercati ed è venduto in cubetti. Questi cubetti sono fatti al 100% da cellule di lievito. Le cellule utilizzate nello stage al laboratorio di microbiologia provengono direttamente da un noto supermercato della zona. 20
VII. Candida albicans Questo micete lievitiforme è conosciuto per provocare principalmente lesioni superficiali a mucose o alla cute (Pia Conte & Mastromarino, 2010). Alcune specie di Candida sono abituali commensali del corpo umano, soprattutto della cute e delle mucose delle cavità naturali dell’uomo. In quanto patogeni opportunisti, questi lieviti sono in grado di mostrare la loro caratteristica virale provocando affezioni morbose. I casi di infezione riguardano solitamente le mucose e più di rado la cute e le unghie. Fig. 12 Saltuariamente si localizzano infezioni in Cellule del lievito C. albicans organi profondi, i quali creano dei casi clinici Foto: Food sensitivity solutions, 09.10.2017 estremamente pericolosi. La candidosi esofagea è la più frequente infezione, dopo la pneumocistosi, nei malati di AIDS e alcune forme viscerali possono essere presenti nei pazienti che terminano un lungo periodo di chemioterapia per neoplasie ematologiche o solide, che spesso costituiscono l’episodio finale. Questo lievito è forse più conosciuto per provocare la Candidosi. La specie di genere Candida forma solitamente delle colonie dense di colore bianco e, come la classificazione dei lieviti, anche l’identificazione di questo lievito avviene tramite esami biochimici. La sua temperatura ottimale di crescita si situa a 37°C a pH neutro (La Placa, 2014). 21
2. Materiali e metodi In questo capitolo sono raccolti i materiali e le tecniche di ricerca usate sia al laboratorio del Liceo Lugano 1 sia al Laboratorio di microbiologia applicata di Bellinzona (LMA). In questa sezione vengono presentati gli aspetti chimici della parte legata al laboratorio e, successivamente, gli aspetti biologici. Verrà in seguito presentata la parte sperimentale del lavoro, ovvero l’estrazione dei capsaicinoidi e l’impiego di essi in ambito microbiologico al fine di determinare se le sostanze contenute all’interno del frutto del peperoncino possano avere delle proprietà antibatteriche. I. Laboratorio scolastico – parte di chimica Estrazione in corrente di vapore Becher (portata 500 ml, sensibilità 0.05 ml, incertezza ± 0.05 ml) Bilancia analogica (portata 360g, sensibilità 0.01g, incertezza ± 0.01 g) Cilindro graduato (portata 100ml, sensibilità 0.01 g, incertezza ± 0.01g) Frullatore elettrico Imbuto gocciolatore (C) Imbuto separatore (portata 500 ml) Mantello termico Pallone a un collo (portata 1000 ml) (A) Pinze con stativo Raccordo angolare (E) Testa di distillazione (B) Tubo refrigerante (D) Acqua deionizzata (300 ml) Capsicum Chinense 7 pod Douglah (234.87 g) Soxhlet Etanolo anidro, 250mL(1) Pallone a un collo (2) Convogliatore di vapori(3) Filtro a ditale (4) Peperoncino (5) Sifone (6) Scarica solvente (7) Connettore (8) Condensatore a ricadere (9) Acqua in (10) Acqua out (11) 22
Fig. 13 Strumento utilizzato per l’estrazione in corrente di vapore (immagine presa dalla scheda di Professor Garavello ). Fig. 14 Strumento Soxhlet 23
Fig. 15 Rotavapor II. Laboratorio scolastico – parte di biologia Acqua deionizzata Terreno di coltura standard (Standard I nutrient agar) 6 Capsule di Petri sterili Becher Autoclave 24
III. Laboratorio di microbiologia applicata – LMA Bellinzona Macchina per test McFarland Incubatrice Bilancia elettronica (portata 100g, sensibilità 0.001g, incertezza 0.001g) Lampada UV Bunsen Autoclave Capsule Petri 140 mm, 56 pz. Capsule Petri 80 mm, 8 pz. Falcon Provette Porta provette Ansa Pinze Filtri per caffè Camice Guanti Pipette tarate Cappucci monouso per pipette Calibro Pallone 2L Etanolo DMSO Soluzioni NaCl 5% Brodo di coltura Müller- Hinton Blood Agar Capsaicina Capsaicinoidi Olio piccante IV. Metodi – estrazione in corrente di vapore Introduzione Quando siamo davanti a soluzioni eterogenee composte da due liquidi non miscibili tra di loro, il punto di ebollizione è fissato quando la somma delle loro tensioni di vapore raggiunge la pressione esterna. Questo permette la formazione di un vapore con una temperatura minore rispetto alle temperature di ebollizione delle singole sostanze. Questa tecnica è sovente utilizzata se ci si confronta con sostanze che hanno una forte tendenza a decomporsi prima del raggiungimento dell’ebollizione. A livello industriale l’estrazione in correnti di vapore è utilizzata per estrarre olii essenziali da vari vegetali (Tratto da “Estrazione oli essenziali in corrente di vapore”, Professor Garavello). Scopo dell’esperimento Lo scopo dell’esperimento è di estrarre gli olii essenziali di peperoncino per poterli successivamente utilizzare sui terreni di coltura batterica per testare la capacità antibatteriche delle sostanze presenti nel peperoncino (principalmente capsaicinoidi). 25
Parte sperimentale Una volta montata tutta l’apparecchiatura si procede con la frammentazione del campione tramite l’uso di un frullatore elettrico. Raggiunta la grandezza desiderata del campione, si inserisce lo stesso nel pallone a un collo (A), nel quale vengono aggiunti 300 ml di acqua. Non appena il pallone è stato correttamente caricato, si accende il mantello termico che riscalderà il contenuto del pallone. Si provvederà ad aprire il rubinetto affinché l’acqua possa passare all’interno del tubo refrigerante (D) e far dunque condensare il vapore. Si formeranno delle goccioline lattiginose che verranno raccolte in un cilindro graduato: esse conterranno sia delle sostanze oleose (olii essenziali), sia dell’acqua con al suo interno delle sostanze miscibili nel suddetto liquido (a livello industriale questo prodotto viene utilizzato nella creazione di profumi poco costosi come “l’eau de cologne”). Queste gocce raggiungeranno l’imbuto gocciolatore (C) e saranno raccolte all’interno di un cilindro graduato. Il processo viene ripetuto più volte, facendo attenzione ad aggiungere all’interno del pallone lo stesso volume di acqua precedentemente raccolto all’interno del cilindro graduato. L’operazione è stata ripetuta per tre volte, ottenendo così 300 mL di liquido. Essendo l’acqua polare e l’olio apolare, sulla superficie del liquido presente nel cilindro si possono vedere le due fasi ben distinte: quella più superficiale rappresenta la parte oleosa, mentre quella sottostante è acquosa. Dopo aver terminato la distillazione, il prodotto ottenuto è stato versato all’interno di un imbuto separatore, uno strumento che permette di separare un miscuglio eterogeneo (composto da più fasi) in modo molto preciso grazie ad una valvola che permette di regolare il flusso di liquido in uscita. Il risultato ottenuto è di poche gocce di olio essenziale (< 1 mL) e una grande quantità di acqua contenente alcune sostanze apolari presenti nel peperoncino. L’esperienza è durata circa tre ore ed è stata svolta al laboratorio di chimica del Liceo cantonale di Lugano 1. Partendo dai limitati risultati ottenuti si è arrivati alla conclusione che l’esperienza sarebbe stata da rifare mediante un’altra tecnica che prevede l’utilizzo di una diversa strumentazione e, soprattutto, di un differente solvente. Fig. 16 Estrazione in correnti di vapori in azione 26
Fig. 17 Imbuto separatore V. Metodi Soxhlet Introduzione Il metodo Soxhlet prende il nome dal suo inventore, Franz von Soxhlet. Questo strumento di laboratorio viene usato per fare estrazioni chiamate “continue” perché non necessita di una costante aggiunta di solvente dovuto all’evaporazione dello stesso. I solventi principalmente usati sono etanolo anidro e dicloro-metano, i quali hanno in comune una bassa temperatura di ebollizione: questo permette di non danneggiare alcune sostanze presenti nel materiale di estrazione che potrebbero ledersi ad alte temperature. Solitamente vengono usati solventi apolari per estrarre sostanze liposolubili. Scopo dell’esperienza Dopo aver provato ad estrarre gli olii essenziali con il metodo in corrente di vapori, alla luce di uno scarso risultato, si è tentato di estrarre le sostanze presenti nel peperoncino con un solvente differente. I prodotti che si dovrebbero ottenere sono una serie di differenti capsaicinoidi, molecole liposolubili contenute nel peperoncino e che sono la causa della piccantezza del frutto. 27
Parte sperimentale L’esperimento è iniziato con l’assemblaggio dello strumento: si è riempito il pallone con 250mL di etanolo anidro e si è caricato l’estrattore con del peperoncino precedentemente seccato per sei giorni a 50°C e successivamente tritato. Una volta assemblato il tutto, il rubinetto viene aperto in modo da far passare l’acqua fredda all’interno del condensatore e si accende il mantello termico così da riscaldare l’etanolo. Quando la temperatura del solvente raggiunge i 78.4°C, esso cambia di stato e diventa vapore iniziando a risalire l’apparecchio. Una volta raggiunto il condensatore, i vapori cambiano ancora di stato e gocciolano sul campione. Il fondo dell’estrattore è collegato con un sifone che trasporta il solvente al pallone sottostante: l’estrattore e il sifone (che ha una parte ascendente e una discendente) si riempiono di etanolo e, secondo il principio dei vasi comunicanti, il livello del liquido all’interno del sifone è il medesimo di quello dentro all’estrattore. Sempre secondo lo stesso principio, non appena il livello del liquido dentro al sifone (parte ascendente) raggiunge la curva, e di conseguenza la parte ascendente, tutto il solvente e il soluto vengono scaricati dentro al pallone. Il procedimento si ripete autonomamente. Per favorire lo scarico del sifone è stata inserita una pipetta Pasteur alla quale è stato tolto l’ago: questo fa in modo che quando il liquido viene riversato nel pallone non rimanga dell’etanolo dentro all’estrattore. Questo metodo è funzionale perché l’etanolo in soluzione con i soluti del peperoncino che precipita nell’estrattore potrà essere subito riutilizzato, in quanto la differenza delle temperature di ebollizione farà evaporare solamente etanolo puro: ciò vuol dire che il solvente usato è sempre puro. L’esperienza è iniziata alle ore 10.00, si è conclusa alle ore 13.00 e si sono svolti 27 cicli. Successivamente, una volta che la soluzione si è raffreddata, con l’ausilio del Rotavapor, si sono separati i soluti dal solvente. Il pallone è stato attaccato allo strumento ed è stato leggermente immerso nell’acqua calda, avente una temperatura attorno ai 55°C. Fatto ciò si apre la valvola dell’acqua fredda, la quale passa attraverso un condensatore, facendo in modo che i vapori cambino di stato passando da gassosi a liquidi. Attaccato al rubinetto dell’acqua c’è anche un altro tubo che crea il vuoto all’interno del Rotavapor (principio della pompa di Venturi). Il vuoto creatosi fa in modo che la temperatura di ebollizione del solvente (che in questo caso è etanolo) sarà minore rispetto a quella a pressione atmosferica. Il solvente che evapora ricondensa in un secondo pallone: alla fine si otterranno un pallone con i soluti puri e un altro pallone con il solvente puro. Il Rotavapor, come suggerito dal nome, continua a ruotare in modo da prevenire l’ebollizione della soluzione mescolandola ogni volta. L’accensione dello strumento è avvenuta alle 9.50 e alle 11.40 tutto l’etanolo si trovava nel pallone per il raccoglimento dei solventi. 28
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