Patrimonio di marca e gestione d'impresa

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© SYMPHONYA Emerging Issues in Management, n. 1, 2000-2001
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                                Patrimonio di marca
                                e gestione d’impresa
                                                 Silvio M. Brondoni∗

                                                           Abstract

   La marca rappresenta la notorietà e l’immagine che un’ offerta ha sviluppato presso un pubblico di rife-
rimento. In un’ottica economico-aziendale, una marca può definirsi come una specifica relazione istituita
con un dato mercato per l’affermazione di una particolare offerta.
   La specifica relazione esistente tra una marca e un dato mercato esprime le valenze funzionali e sim-
boliche che la domanda attribuisce ad una determinata offerta mediante la marca.
   Il patrimonio di marca esprime il valore della marca in condizioni di funzionamento. Il patrimonio di
marca riguarda il valore, in un determinato momento, dell’identità di marca (notorietà e immagine) istituita
presso una specifica domanda.

Keywords: Marca; Marchio registrato; Patrimonio di marca; Valore di marca; Immagine di marca; Noto-
rietà di marca; Identità di marca; Politica di marca; Politica di marca-prodotto; Politica di marca ombrello;
Portafoglio di marca

1. Patrimonio di marca e risorse immateriali d’impresa

1.1 Le risorse immateriali nell’economia d’impresa

    Nelle economie moderne le imprese si confrontano in mercati globali,
 caratterizzati da un’alta intensità di concorrenza e da un esubero struttura-
              1
 le di offerta .
    Nei mercati in eccesso di offerta le produzioni migliorano continuamente
 le caratteristiche-base della funzione d’uso ed inoltre sono realizzate a co-
 sti decrescenti e in quantità nettamente superiori alle capacità di assorbi-
                                                               2
 mento della domanda. In tali condizioni i caratteri ‘fisici’ delle produzioni
 tendono ad essere standardizzati e pertanto perdono la connotazione di
 elemento di differenziazione competitiva dell’offerta.
    Nei sistemi socio-economici ad alta competitività, il successo delle stra-
 tegie aziendali è condizionato dalle risorse immateriali d’impresa (intangi-
 bile assets), cioè sofisticati fattori di gestione che riguardano, secondo una
 nota definizione, ‘l’insieme delle conoscenze accumulate dall’azienda, ma
 anche il complesso dei canali che permettono l’acquisizione delle informa-
                                  3
 zioni importanti per l’azienda’ .
    Le risorse immateriali nell’economia d’impresa si qualificano pertanto
 con una duplice natura di ‘input’ (cioè flussi informativi desunti
 dall’ambiente) e di ‘output’ (ossia flussi informativi veicolati dall’impresa
 verso l’ambiente).
  In particolare, le potenzialità di ‘input’ delle risorse immateriali consentono
di acquisire conoscenze in precedenza non disponibili; conoscenze che
specificamente rappresentano la condizione per i successivi miglioramenti
dell’attività aziendale. La dimensione di ‘input’ delle risorse immateriali con-
segue dunque da un’architettura di attività volute, progettate e realizzate per
acquisire flussi continui di dati e di informazioni, come d’altro canto richiedo-

∗
 Professore Ordinario di Economia e Gestione delle Imprese, Direttore ISTEI-Istituto di Eco-
nomia d’Impresa, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Edited by: ISTEI - University of Milan-Bicocca                                                              ISSN: 1593-0300
Brondoni Silvio M., Patrimonio di marca e gestione d’impresa, Symphonya. Emerging Issues in Management (www.unimib.it/sym-
phonya), n. 1, 2000-2001, pp. 11-32                              (English Version: http://dx.doi.org/10.4468/2001.1.02brondoni)
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 no le moderne attività aziendali, che devono confrontarsi con contesti ad
 alta tensione competitiva.
   Per contro, le risorse immateriali governabili dall’impresa nella dimen-
 sione di ‘output’ possono riguardare: lo sviluppo di una specifica cultura
 aziendale all’interno dell’organizzazione (ambiente interno); la predisposi-
 zione ed il continuo aggiornamento del sistema informativo aziendale (ri-
 volto all’ambiente interno ed anche all’ambiente esterno); ed infine la cre-
                                                                            4
 azione e la gestione di un definito patrimonio di marca (Brand Equity) , ri-
 ferito a particolari offerte oppure all’impresa nel suo insieme.
   Le risorse immateriali così definite permettono innanzi tutto di osservare
 che ‘i flussi informativi sono presenti in tutte le fasi di sviluppo’ ed inoltre
 che ‘i patrimoni di conoscenza formano un differenziale competitivo ovun-
 que siano prese decisioni o accadano osservazioni da parte delle perso-
     5
 ne’ .
   In una logica di ‘market driven management’, le risorse immateriali si
 connettono pertanto a flussi informativi, specificatamente classificabili in
 interni, ambientali e aziendali, che palesano importanti potenzialità siner-
 giche quando siano gestiti, come un sistema di fattori concorrenziali, per
 avvalorare rispettivamente la cultura aziendale, il sistema informativo
 d’impresa ed il patrimonio di marca (Brand Equity).
   In sintesi, le risorse immateriali specificamente riguardanti il patrimonio
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 di marca si sviluppano in un più vasto sistema di ‘intangible assets’
 d’impresa che condizionano il successo della gestione aziendale.

 1.2 Il sistema delle risorse immateriali: patrimonio di marca, sistema
 informativo e cultura d’impresa

    Nell’ambito del sistema delle risorse immateriali, il patrimonio di marca
 (Brand Equity) tende a definire un fattore critico di gestione della instabilità
 della relazione impresa-domanda-concorrenza, e a tale fine interagisce
 con altre risorse immateriali, composte da:
 1.sistema informativo aziendale, i cui flussi di informazione in entrata e in
    uscita di fatto determinano la base conoscitiva per la gestione del patri-
    monio di marca;
 2.cultura aziendale, da cui discendono le linee di condotta per strutturare il
    sistema informativo, in coerenza con i profili – specifici per ogni singola
    organizzazione – di sintonia e di partecipazione delle risorse umane.
    La criticità delle relazioni sinergiche tra ‘Brand Equity’, sistema informa-
 tivo e cultura aziendale risulta particolarmente evidente negli accordi e
 nelle alleanze (ad esempio, VW, SEAT e Skoda; BMW, Rover e Rolls Ro-
 yce; Daimler e Crysler; Peugeot e Citroen; ecc.) che sempre più spesso le
 grandi corporation stipulano a fini competitivi proprio per contenere
 l’eccesso di offerta.
  Nei grandi accordi internazionali, in effetti, appare chiaro come la valuta-
zione del patrimonio di marca non si riduca alla semplice quantificazione di
un ‘labelling value’, cioè di un ‘valore di facciata’ espressivo di micro-
indicatori ad alta volatilità (come quote di mercato, numero di punti di vendita
esclusivi, ecc.), valutati in modo sostanzialmente indipendente dai caratteri

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strutturali delle organizzazioni che li hanno generati e che sono in grado di
governarli. D’altro canto, gli avvenimenti degli ultimi anni insegnano che gli
accordi e le operazioni di ‘merger & acquisition’ non possono essere stipu-
lati con una predominante finalità finanziaria, senza valutare in via preven-
tiva le effettive possibilità di integrazione delle risorse immateriali delle or-
ganizzazioni interessate (specificamente, le culture e la compatibilità dei
sistemi informativi), come è avvenuto per l’alleanza KLM-Alitalia.
      □ Il 27 novembre 1998 KLM e Alitalia siglano un’alleanza per forma-
   re un gruppo in grado di competere con Lufthansa, British Airwais e
   Air France (con 260 aerei, tre hub, 39 milioni di passegggeri trasporta-
   ti, 3771 collegamenti nel mondo). L’accordo prevedeva la privatizza-
   zione di Alitalia entro giugno 2000 ed il vincolo di non stringere altre al-
   leanze senza il consenso reciproco.KLM era impegnata a versare 200
   miliardi come contributo per il nuovo hub di Milano-Malpensa e la fu-
   sione era prevista avvenire nel 2002.
      In realtà, il 29 aprile 2000 KLM rompe le trattative con un comunicato
   dove afferma che: “…l’alleanza non è sostenibile, considerata la persi-
   stente incertezza sul futuro di Malpensa e sulla privatizzazione di Alita-
   lia…L’assenza di chiare decisioni...costituisce un rischio che potrebbe
   mettere in pericolo la posizione finanziaria di KLM, la sua profittabilità e
   l’attrattività per un eventuale partner”. E i quotidiani italiani sintetizzava-
   no:“…l’accordo tra Alitalia e KLM aveva ottime ragioni industriali, in teo-
   ria. Una compagnia fortissima sul proprio mercato domestico ma debole
   fuori casa risultava complementare a un’azienda globale ma senza pa-
                                                                 7
   tria… In pratica le cose sono state molto più complicate” .

2. Marca e patrimonio di marca
2.1 Il marchio d’impresa registrato (Trade Mark)

    In passato, la marca è stata definita come un ‘nome, termine, segno,
 simbolo, o disegno, o una combinazione di questi che mira a identificare i
 beni o i servizi di un venditore o un gruppo di venditori e a differenziarli da
 quelli dei concorrenti’ (American Marketing Association). Questo concetto
 enfatizza specificamente la funzione segnaletica della marca, cioè la fun-
 zione-base che permette di associare un determinato offerente a definiti
 beni o servizi.
    La funzione segnaletica della marca riveste notevole importanza
 nell’economia d’impresa. Tale carattere costituisce infatti l’elemento infor-
 mativo elementare e fondamentale per il processo di scelta e soprattutto
 pone le premesse per difendere prodotti e produttori da offerte simili rea-
 lizzate da concorrenti.
 In concreto, tuttavia, la marca limita le proprie prerogative alla semplice
funzione segnaletica solo in mercati contrassegnati da un’economia di scar-
sità, cioè quando i fabbisogni di certi beni sono largamente superiori alle
capacità di offerta e di conseguenza si determina una domanda insoddisfat-
ta di notevole entità. La condizione di domanda non soddisfatta genera in-
fatti i concorrenti propriamente intesi (intenzionati appunto a concorrere alla
crescita di un dato mercato, per permanervi nel tempo), ma al contempo

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favorisce anche lo sviluppo di numerosi imitatori servili, mossi da compor-
tamenti meramente imitativi e spesso interessati a generare stati di confu-
sione circa le denominazioni dei prodotti offerti.
   La funzione segnaletica della marca, ad evidenza, esprime l’elemento
chiave per la tutela di un particolare prodotto da eventuali contraffazioni.
   Sotto il profilo della tutela giuridica, peraltro, l’elemento distintivo di una
particolare offerta (nome, termine, segno, simbolo, o disegno, o una com-
binazione di questi) non si riferisce al significante di ‘marca’ bensì a quello
di ‘marchio’, ovvero più precisamente al marchio d’impresa registrato
               8
(Trade Mark) .
   La funzione segnaletica rappresenta quindi solo un carattere elementare
del ‘patrimonio’ di marca. In mercati con complesse relazioni di domanda-
offerta, la semplice associazione fra una marca e un prodotto in effetti la-
scia in ombra molteplici valenze, di natura sia funzionale sia simbolica,
che la domanda mediante la marca può attribuire ad una determinata of-
ferta. In presenza di elevate tensioni competitive, proprio queste valenze
rivestono però un peso determinante nella formazione delle scelte e costi-
                                                                 9
tuiscono i fattori-base per la gestione della politica di marca .

2.2 Il concetto di marca nell’economia d’impresa

   In condizioni di limitata intensità di competizione, quando le varie offerte
si differenziano per fattori tangibili e caratteri oggettivi di valutazione, la
funzione della marca può essere contenuta nella dimensione segnaletica.
   All’intensificarsi della pressione concorrenziale (cioè in presenza di nu-
merose offerte, molto differenziate e con una predominanza di caratteri
                                                                           10
intangibili), la marca tende però ad assumere funzioni più complesse . Il
ruolo distintivo della marca (cioè la funzione segnaletica assolta in concre-
to dal marchio d’impresa registrato), rappresenta infatti solo un primo ele-
mento di quel particolare legame che una marca stabilisce fra una deter-
minata offerta e una data domanda.
   In condizioni di alta intensità concorrenziale, la marca sintetizza la noto-
rietà e l’immagine che un’offerta è stata in grado di consolidare presso un
determinato pubblico di riferimento e quindi, in un’ottica economico-
aziendale, può definirsi come “una specifica relazione istituita con un dato
                                                        11
mercato per l’affermazione di una particolare offerta” .
   La specifica relazione esistente tra una marca e un dato mercato espri-
me le valenze funzionali e simboliche che la domanda – mediante la mar-
ca – attribuisce ad una determinata offerta: valenze che costituiscono la
‘memoria del prodotto e/o del servizio’.
   La marca condensa la storia evolutiva del bene, sia sotto il profilo della
sua crescita obiettiva, sia sotto l’aspetto delle esperienze maturate dalla
domanda.
   In questa accezione, la marca riassume sinteticamente le risorse desti-
nate dall’impresa ai processi di competizione ed in particolare gli investi-
menti dedicati a sviluppare la conoscenza e la relazione con il mercato.
  In mercati ad elevata concorrenza, la marca lega pertanto un dato bene
a particolari aspettative di definiti segmenti di domanda e di conseguenza,
oltre ad identificare un prodotto, garantisce una ‘promessa’. Più specifica-

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mente, la marca esprime un complesso di attese dal lato della domanda,
e correlatamente – dal lato dell’offerta – definisce un sistema di respon-
sabilità nei confronti di un pubblico di riferimento (Figura 1).
Figura 1: La marca come relazione: il sistema delle responsabilità

   Fonte: S.M. Brondoni, A. Di Gregorio, Brand Equity e politiche di marca (1996).

  Dal punto di vista del produttore, la marca sintetizza una molteplicità di
‘obblighi’, la cui esplicitazione definisce la natura e l’intensità della relazio-
ne instaurata con una data domanda. In altri termini la marca tende ad e-
sprimere il complesso di ‘risorse’ (tipicamente di credibilità, legittimità ed
affettività) che in concreto sostanziano una relazione domanda-offerta e
che richiedono linee di condotta dirette a rispettare specifici ‘obblighi’ di
coerenza, di continuità e socio-culturali; obblighi che si manifestano da un
lato nelle caratteristiche tecniche del prodotto e nelle modalità di concreta
esecuzione della prestazione (componente tangibile di una data offerta) e
dall’altro nelle attività di comunicazione d’impresa (componente immateria-
le di offerta, di primaria rilevanza in condizioni di eccesso di offerta). Gli
obblighi di coerenza si riferiscono alle attività aziendali finalizzate ad im-
porre e preservare i caratteri distintivi di una data marca e mirano a svi-
luppare una specifica risorsa della relazione di marca, costituita dalla cre-
dibilità di particolari caratteri dell’offerta. L’impresa e i suoi diretti concor-
renti in concreto generano ‘azioni e reazioni’ che si riflettono sui connotati
e sulla connessa credibilità dell’offerta; di conseguenza, gli obblighi di coe-
renza perseguono il mantenimento della relazione di marca tra domanda e
offerta nello spazio e nel tempo, e quindi tendono a sostenere un profilo di
coerenza, idoneo a contrastare le azioni di ‘deposizionamento’ dei concor-
renti.
   □ “Uno dei principali problemi che devono fronteggiare le marche nelle
   economie mature dei paesi socialmente avanzati è costituito dalla ten-
   denza inarrestabile verso la dequalificazione del prodotto di marca in
   prodotto di base (commodity). D’altro canto, le innovazioni tecnologi-
   che e lo sviluppo di prodotti esistenti sono rapidamente imitati dai con-
   correnti ed altrettanto rapidamente sono negoziati dai distributori per
   essere posti in assortimento con marchio proprio (own label). Per le
   imprese diviene quindi sempre più difficile sostenere la marca in
   un’ottica ‘premium price’ ed investire per creare valori di differen-
   ziazione dell’ offerta… In concreto, in numerosi settori, si è deter-
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   minata una situazione di offerta in cui le marche dei distributori hanno
   assunto il ruolo di effettivi innovatori di prodotto, mentre le marche dei
   produttori appaiono lente ad introdurre miglioramenti e comunque po-
   co propense al cambiamento. Tipici esempi in proposito si riscontrano
   nei ‘piatti preparati’ offerti da Marks & Spencer nel Regno Unito e da
                                 12
   Boston Market negli USA” .

  Sotto il profilo operativo, la credibilità di marca consegue da una finaliz-
zazione unitaria di tutti gli strumenti di comunicazione commerciale, istitu-
zionale e organizzativa (comunicazione integrata d’azienda), per enfatiz-
zare i caratteri identificativi di una data offerta.
  Gli obblighi di continuità riguardano invece le condizioni per il manteni-
mento della relazione di una marca con uno specifico mercato, nel profilo
quantitativo e qualitativo. Sotto il profilo quantitativo, gli obblighi di conti-
nuità si collegano alla numerosità delle organizzazioni che, nei sistemi e-
conomici più evoluti, sono in grado di offrire beni sostitutivi; la disponibilità
di offerte alternative impone alla marca di perseguire una continuità di
presenza, per contrastare l’azione di indebolimento della relazione svolta
dai concorrenti e per non disperdere il capitale d’identità costruito: in sin-
tesi, presidiare la specifica risorsa di legittimità di presenza della marca.
Sotto il profilo qualitativo, soprattutto per le marche affermate, le esigenze
di continuità riguardano invece l’esigenza di adeguare dinamicamente nel
tempo e nello spazio le valenze di marca alle attese della domanda, evi-
tando così cambiamenti della ‘promessa’ di offerta, destinati a ingenerare
fenomeni di confusione e di disorientamento.
  Infine, il sistema di responsabilità rappresentato dalla marca configura
una dimensione di obblighi socio-culturali; questi ultimi afferiscono alle
modalità con cui una data marca si ‘lega’ ad un definito mercato e, più in
generale, verso l’ambiente. L’evoluzione dei sistemi economici determina
infatti scelte sempre meno vincolate dal soddisfacimento di bisogni essen-
ziali e motivate piuttosto da attese (esigenze) complesse ed articolate; la
domanda, inoltre, è sempre meno un soggetto passivo delle politiche
d’impresa, tendendo ad esercitare essa stessa un ruolo attivo sulla base
di propri convincimenti e valori.
  La moderna responsabilità di marca si caratterizza perciò con particolari
obblighi socio-culturali, adatti ad interpretare i valori di uno specifico con-
                       13
testo socio-culturale e di conseguenza idonei a sviluppare adeguate ri-
sorse di affettività, che di fatto sono alla base delle motivazioni a livello ra-
zionale e a livello inconscio di determinate preferenze di marca.
                                                              ***
  In sintesi, le politiche di marketing e di comunicazione focalizzano le at-
tese della domanda e definiscono le linee di condotta da attivare per co-
struire una relazione con il mercato obiettivo e per fronteggiare le offerte
concorrenti.
  La qualificazione della marca come relazione fra una data offerta e una
domanda di riferimento evidenzia inoltre che, nei processi decisionali e
nelle motivazioni di scelta, i caratteri immateriali dei beni risultano
ormai assolutamente predominanti rispetto alle componenti tangibili.

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  Infine, per costruire una relazione duratura nel tempo, cioè per determi-
nare le condizioni di ‘legame’ ad una definita marca, l’impresa deve deli-
neare il sistema di responsabilità di marca, individuando gli specifici ‘ob-
blighi’ che ne affermano la credibilità, la legittimità e l’affettività nei con-
fronti di una data domanda.

2.3 Valore di marca e patrimonio di marca

   Nei mercati con eccesso di offerta – dove prevalgono le politiche competi-
tive incentrate sugli ‘intangible assets’ – il valore economico del patrimonio
di marca (Brand Equity) – cioè, il valore (stato), in un dato momento ‘t’, di
una specifica relazione domanda-offerta (Brand) – supera l’ambito funzio-
nale del marketing strategico ed operativo per configurare piuttosto un ele-
mento chiave della gestione aziendale. In tale realtà, la logica e le procedu-
re di valutazione del patrimonio di marca assumono tipiche configurazioni,
che comunque non possono essere confuse con i procedimenti e le tecni-
che utilizzabili in caso di dismissione di marche note, derivanti da accordi,
joint ventures, oppure da operazioni di finanza straordinaria (cessione, fu-
sione, incorporazione e scorporo di rami di attività o di intere aziende).
    Negli accordi e nelle operazioni di ‘merger & acquisition’ riveste infatti
 primaria importanza il concetto di ‘valore di cessione della marca’ (Brand
 Value), che concerne il valore monetario di transazione, connesso alla
 perdita di controllo sulla marca e che in buona sostanza è espressivo di
 fenomeni esogeni alla dinamica concorrenziale della marca: tale concetto
 di valore della marca tende infatti a quantificare accadimenti aziendali del
 passato (ad esempio, gli investimenti pubblicitari di anni precedenti, oppu-
 re gli andamenti storici di quotazioni azionarie particolarmente positi-
 ve/negative), ritenuti significativi per sintetizzare un valore utile per avviare
 o chiudere una transazione di mercato.
       □ ‘La trasformazione di Corning da produttore di vetro in gruppo
    high-tech è proseguita ieri, quando il gruppo US ha confermato la noti-
    zia dell’acquisto, dalla società italiana Pirelli, dell’area di business del-
    le fibre ottiche per telecomunicazioni per circa 3.6 milioni di dollari
    US…Se l’acquisto fosse perfezionato per intero pacchetto azionazio,
    l’azienda italiana sarebbe valutata 165 volte il fatturato di quest’anno,
    un importo molto elevato anche per gli standard del settore dei com-
                   14
    ponenti ottici’ .
    La stima del cosiddetto valore della marca in ipotesi di cessione (Brand
 Value) di norma si basa su una valorizzazione di fenomeni ed andamenti
 esterni all’azienda (come quando si assume come riferimento la capitaliz-
 zazione media di Borsa), oppure si avvale di procedure di razionalizzazio-
 ne di un plusvalore (ovvero di un minusvalore) determinato per meglio ca-
 librare il valore di transazione. Queste stime del valore di marca sono
 specificamente utilizzabili a fini negoziali, per valutazioni di breve periodo
 (come nei piani di incentivazione di breve periodo), oppure nel
 perfezionamento di trattative di acquisto/vendita di un’azienda o di
                                                                    15
 un ramo di attività in cui è ricompresa una data marca . Per contro,
 la quantificazione monetaria del ‘valore di cessione della marca’
 non presenta alcuna utilità per misurare lo stato di competitività
 di una marca, ovvero per fornire indicazioni di ‘continuità di valore’
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phonya), n. 1, 2000-2001, pp. 11-32                              (English Version: http://dx.doi.org/10.4468/2001.1.02brondoni)
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alla proprietà ed al management aziendali, nonché a ‘terze parti interessa-
te’ (azionisti di minoranza, Autorità pubbliche di controllo, Enti di vigilanza
nazionali e internazionali, ecc.).
   Nelle moderne economie, contrassegnate da eccesso di offerta e da
uno stretto confronto competitivo, le aziende devono tuttavia sviluppare la
conoscenza del valore di marca andando oltre l’ipotesi di cessione, situa-
zione eccezionale per la quale il valore economico della marca dipende
primariamente dall’identità delle parti impegnate nella transazione e dalle
                                        16
loro motivazioni di acquisto/vendita .
   In effetti, in ipotesi di funzionamento d’impresa, la valutazione della mar-
ca si collega strettamente a condizioni di continuità gestionale ed assume
un concreto significato operativo in contesti di alta concorrenza.
   In ipotesi di funzionamento, il valore economico della marca può essere
ricondotto ad un concetto economico-aziendale di patrimonio di marca
(Brand Equity), definibile come valore (stato) dello ‘spessore del rapporto’
in essere tra una definita offerta ed un particolare mercato.
   Il ‘patrimonio di marca’ si ricollega pertanto ad un insieme di componenti
di offerta ‘immateriali’ e ‘materiali’ (soft and hard products attributes), la cui
ricaduta sulla marca è quantificabile e misurabile in rapporto alle variazioni
dipercezioni sedimentate presso definiti segmenti di domanda. Quantifica-
zioni che, ad evidenza, non trovano espressione in un valore monetario.
   La valorizzazione economica della marca in ipotesi di funzionamento
(Brand Equity) si ricollega a diversi parametri analitici, comunque correlati
alle dimensioni della fidelizzazione della domanda e della ‘customer sati-
sfaction’; la stima della ‘Brand Equity’ si determina quindi con il ricorso a
indicatori di sintesi della conoscenza di marca, rispetto ai livelli di notorietà
(brand awareness) ed alla intensità dei caratteri identificativi (brand ima-
ge). Tali indicatori possono ovviamente trovare anche espressione mone-
taria – mediante procedimenti di stima delle risorse finanziarie necessarie
per le varie ipotesi di operatività – per decidere le politiche di ‘brand
management’ su una base quantitativa di giudizio e più in generale per
esprimere valutazioni comparative (omogenee nel tempo, nello spazio e
per classi di prodotto) sui costi/benefici del posizionamento di una data
marca a differenti livelli di competitività.

3. La valutazione del patrimonio di marca

    Il patrimonio di marca (Brand Equity) costituisce una risorsa immateriale
 d’impresa che si fonda sulla conoscenza di una determinata marca (Brand
 Perception) da parte di un dato mercato.
    Il patrimonio di marca esprime quindi la risultante nel tempo delle rispo-
 ste di un mercato di riferimento alle azioni attuate da un’impresa per im-
 porre una definita identità di marca (Brand Identity), intesa come profilo
 ‘teorico’ da perseguire.
  L’approfondimento delle componenti di notorietà e di immagine, che con-
corrono a determinare la conoscenza della marca, rappresenta pertanto il
presupposto economico-aziendale necessario per la gestione dell’identità di

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marca e per la valutazione quantitativa del patrimonio di marca (Brand
Equity).

3.1 La conoscenza di marca (Brand Perception) nella dimensione e-
conomico- aziendale

   Per valutare la conoscenza di marca (Brand Perception) in un’ottica e-
conomico- aziendale è innanzi tutto utile ricollegarsi alla rappresentazione
della struttura della memoria secondo il noto schema del ‘network memory
model’.
   Ad esempio, se si considera la cioccolata da spalmare, un consumatore
italiano può pensare immediatamente alla ‘Nutella Ferrero’ per la forte i-
dentificazione della marca con la classe di prodotto. Questa prima asso-
ciazione non esaurisce tuttavia i legami di un consumatore fedele alla
marca; tale consumatore richiamerebbe infatti dalla memoria anche la
percezione del gusto e della confezione, le ultime esperienze d’uso e/o
quelle che nel passato hanno avuto un’importanza speciale, le immagini
delle più recenti (o più efficaci) campagne pubblicitarie.
   L’adozione di siffatto concetto di conoscenza di marca comporta che il
problema centrale della valutazione della ‘Brand Equity’ consiste
nell’esplicitare le proprietà di questi nodi e dei relativi legami (associazio-
ni). In altri termini, valutare gli aspetti quantitativi e qualitativi inerenti lo
‘spessore’ e la ‘caratterizzazione’ della conoscenza di marca, cioè rispetti-
vamente la notorietà e l’immagine.
   La notorietà di marca (Brand Awareness), in particolare, esprime il gra-
do di consapevolezza della domanda con riguardo ad una ‘brand’, ovvero
il livello di identificazione selettiva di una definita marca. Nello schema so-
pra delineato, quindi, la notorietà di marca individua la solidità di uno spe-
cifico ‘nodo’ nella struttura della memoria della domanda.
   L’immagine di marca (Brand Image), invece, riflette le percezioni della
domanda relativamente ad una data marca, cioè le associazioni contenute
nella relazione e fissate nella memoria della marca stessa. Le valutazioni
qualitative di una data ‘brand’ sono contenute nei nodi della memoria e, a
seconda delle caratteristiche di questi legami, determinano connotazioni
più o meno favorevoli. Questa dimensione della conoscenza di marca,
quindi, sintetizza le determinanti qualitative della ‘Brand Equity’ e cioè la
fedeltà, la qualità percepita e le altre associazioni evocate dalla marca.
   In estrema sintesi, la conoscenza di marca evidenzia la concomitante
presenza di due distinte tipologie di associazioni: le associazioni che de-
terminano la notorietà (carattere quantitativo) e le associazioni che forma-
no l’immagine (carattere qualitativo). Di seguito si esaminano queste as-
sociazioni per approfondirne la valutazione congiunta nella stima del pa-
                      17
trimonio di marca .

3.2 La notorietà di marca (Brand Awareness)

  La notorietà di marca definisce la capacità di una domanda potenziale di
identificare una particolare marca. La notorietà esprime una variabile che
delimita un fenomeno quantitativo, il cui campo di variabilità evidenzia come

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limite inferiore la completa non-conoscenza della marca e come limite su-
periore associa la marca con la classe di prodotto di appartenenza (in
questa fattispecie, la marca si qualifica come ‘top of mind’ e la sua notorie-
tà configura valori prossimi a 85-95 per cento del potenziale di doman-
    18
da ). All’interno di queste situazioni-limite, si possono indicare due ulterio-
ri livelli-standard di notorietà, associabili sinteticamente alle condizioni ti-
pologiche di riconoscimento e di ricordo della marca.
   Il riconoscimento (ovvero il ricordo aiutato) della marca definisce uno
standard di notorietà in cui la domanda, opportunamente stimolata, è in
grado di riconoscere determinati elementi del segno distintivo (Trade
Mark); definiti segmenti di domanda, quindi, sono in grado di richiamare
l’informazione dalla propria memoria. Lo standard di notorietà associabile
al riconoscimento è limitato ad una corretta discriminazione della marca e
si attesta su valori del 25-45 per cento del potenziale di domanda. Questo
livello-standard di notorietà assume un’importanza critica quando la scelta
tra offerte alternative discende da una condizione di confrontabilità diretta
(come accade di norma per i beni di largo consumo nei punti di vendita
della distribuzione moderna) in cui la marca contribuisce alla scelta con-
giuntamente ad altri fattori di selezione.
   Il ricordo (recall) della marca, per contro, presuppone che la domanda
potenziale sia in grado di indicare con esattezza le principali marche di
una data classe di prodotto, senza ricevere alcuno stimolo (ricordo spon-
taneo).
   Lo standard di notorietà legato al ricordo esprime dunque una precisa
definizione delle valenze distintive di marca ed in questo caso configura
un valore di notorietà del 55-75 per cento del potenziale di domanda.
     □ ‘Una ricerca condotta sul mercato del caffè ha evidenziato con
   chiarezza l’impatto della notorietà. Per 19 successivi intervalli di tem-
   po, con periodicità bimestrale, la quota di mercato e la spesa pubblici-
   taria sono state correlate con i risultati di 19 indagini telefoniche effet-
   tuate negli stessi periodi di tempo e che miravano a misurare il ricordo
   spontaneo e gli atteggiamenti nei confronti di marche di caffé. Dai ri-
   sultati emerge che la pubblicità impatta la quota di mercato solo in
   modo indiretto, tramite la notorietà e l’atteggiamento.Inoltre, si registra
   una notevole influenza relativamente a variazione dei livelli di notorie-
   tà, per cui si ipotizza che quest’ultima possa essere un importante fat-
   tore di mutamento dell’atteggiamento. In altri termini, la conoscenza di
   marca, stimolata da campagne pubblicitarie di mantenimento del ri-
   cordo di marca, influisce in misura notevole sulle decisioni di acqui-
       19
   sto’ .
  Dal punto di vista economico-aziendale, la notorietà è innanzi tutto un
indicatore di stabilità e di continuità nel tempo dell’offerta aziendale e, per-
tanto, può essere interpretato come un indice della ‘forza competitiva as-
soluta’ di una definita marca. In altri termini, il valore di notorietà tende ad
esprimere in termini sintetici la forza di mercato di una marca ed in tal
senso integra con un concetto dinamico il significato statico espresso dalla
quota di mercato (market share) delle vendite di un prodotto.

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3.3 L’immagine di marca (Brand Image)

   La marca (Brand) sintetizza peculiari caratteri di preferenza espressi
dalla domanda e collegati alle modalità con cui sono recepite particolari
informazioni o sensazioni. Nella dinamica competitiva, la marca catalizza
quindi associazioni che discendono dalle percezioni della domanda e che
differenziano una data offerta da prodotti concorrenti; di conseguenza, una
marca presenta un profilo tanto più caratterizzante quanto più tali associa-
zioni (le cui determinanti definiscono l’immagine di marca) sono uniche
(cioè ritenute esclusive di una particolare offerta), solide e favorevoli.
   Dal punto di vista economico-aziendale, le peculiari valenze che conno-
tano una determinata offerta presso definiti segmenti di domanda (cioè i
fattori che caratterizzano un’immagine di marca) costituiscono il presup-
posto per stimare – e specialmente per prevedere – i comportamenti di
preferenza e di scelta comparata, ottenibili per l’effetto combinato delle at-
tività sviluppate dall’azienda e dai concorrenti.
   L’immagine di marca può quindi essere intesa come un indicatore di re-
lazione competitiva (in quanto tende a sintetizzare la specificità e
l’intensità di fattori differenziali di offerta, distintivi rispetto ai concorrenti
ma comunque a questi legati). In tal senso, l’immagine di marca esprime
un indice di ‘forza competitiva relativa’ di una definita marca e riassume
complessi fenomeni qualitativi in livelli di gradimento/non gradimento, il cui
campo di manifestazione prevede – come teorici valori-limite – livelli di ac-
cettazione del tutto positivi (+∞), oppure all’estremo opposto situazioni di
totale rifiuto (-∞), con configurazioni d’immagine assolutamente negative.

3.4 La misura quantitativa e qualitativa della conoscenza di marca

   La valutazione del patrimonio di marca (Brand Equity) si basa in termini
                                                  20
operativi sulla stima della conoscenza di marca . La conoscenza di mar-
ca, in particolare, è un fenomeno multi-dimensionale e pertanto, per esse-
re quantificata richiede il simultaneo apprezzamento di indicatori di natura
quantitativa e qualitativa, tra cui assumono specifica rilevanza la notorietà
di marca e l’immagine di marca.
   La valutazione della conoscenza di marca presuppone inoltre un’analisi
comparata della marca rispetto alle interrelazioni competitive con le mar-
che concorrenti. D’altro canto, la stima del valore di marca in ipotesi di
funzionamento (patrimonio di marca) individua proprio nel confronto tra
marche in concorrenza – e soprattutto nel confronto dinamico dei diversi
‘legami’ tra marche e mercato – un elemento fondamentale e caratteristico
del processo di valutazione.
   La definizione dello spazio competitivo di marca richiede la preventiva
individuazione delle marche concorrenti, cioè la delimitazione dei confini di
offerta entro cui certi prodotti si propongono ad una data domanda con ef-
fettivi rapporti di sostitutività.
 Secondo una visione tradizionale, la concorrenza fra marche risulta ricom-
presa nei confini della classe di prodotto, da intendere secondo un signifi-
cato merceologico complessivo (ad esempio, autovetture) oppure secondo

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sub-sistemi parziali ma omogenei dal punto di vista produttivo (ad esem-
pio, fuoristrada, station wagon, coupé, cabrio, ecc.).
   In mercati contraddistinti da eccesso di offerta, il superamento dei valori
d’uso funzionali dei beni e la complessità dei comportamenti d’acquisto
delimitano tuttavia confini molto sofisticati per l’operatività delle marche,
che abbandonano l’elementare riferimento al processo produttivo dei beni.
   In effetti, il semplice riferimento alla classe merceologica di offerta può
indurre a ricomprendere in un certo spazio di conoscenza marche che in
concreto non si trovano in competizione e escluderne altre, tradizional-
mente collocate in differenti classi merceologiche, che invece rappresen-
tano effettive alternative per la domanda potenziale. In altri termini, il rife-
rimento alla classe di offerta in senso merceologico può impedire una pie-
na comprensione dei fenomeni di customer satisfaction e quindi, essendo
fuorviante rispetto alle aspettative della domanda, condurre a definire de-
terminanti-chiave dell’immagine di marca non utili ai fini di una corretta mi-
surazione del patrimonio di marca.
   In contesti competitivi dominati da eccesso di offerta, le marche che ef-
fettivamente concorrono a sviluppare un dato mercato e a controllarne
stabilmente una quota dei consumi, cioè le marche che soddisfano un par-
ticolare bisogno di una definita domanda, possono essere individuate con-
siderando in modo esplicito le ‘associazioni di base delle motivazioni di
scelta’. Queste ultime possono dunque accomunare in una stessa funzio-
ne d’uso anche marche non appartenenti alla medesima classe di prodot-
to, intesa in senso merceologico. Ad esempio, il tipico beneficio atteso dal-
la classe di prodotto ‘snack’ è costituito dalla funzione d’uso di ‘rompi di-
giuno’, che oggi delinea una funzione molto complessa. In effetti, gli snack
si trovano in competizione anche con prodotti di altre classi merceologiche
che tendono a soddisfare il medesimo bisogno (quali, ad esempio, il latte,
lo yogurt, la frutta, il pane con marmellata, i gelati, le tavolette di cioccolata
di piccola grammatura, le patatine fritte); per valutare il patrimonio di mar-
ca (Brand Equity) di una particolare marca di snack, la definizione dello
spazio competitivo non può pertanto prescindere dal considerare anche i
prodotti di marca delle altre classi di prodotto che concorrono a soddisfare
la medesima attesa di domanda.
                                           ***
    Il processo di valutazione della Brand Equity riferito ad una specifica
 marca – come è stato proposto in precedenza, per semplicità espositiva –
 esprime una realtà molto semplificata, valida solo nei contesi socio-
 economici protocapitalistici, dove la concorrenza si confronta con schemi
 elementari e soprattutto dove le aziende sono monoprodotto ed operano
 su un unico mercato.
    Nelle odierne realtà d’impresa, caratterizzate da molteplici prodotti
 (spesso di differenti classi merceologiche), la valorizzazione della Brand
 Equity deve essere ricondotta ad un processo gestionale complesso, dal
 momento che di norma occorre considerare:
1. una pluralità di marche, con specifici e differenziati patrimoni di marca;
2.i diversi profili di sviluppo delle marche di una stessa azienda (con intera-
  zioni talvolta positive e in altri casi negative), sia a livello di ‘brand name’,

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 sia come relazione tra ‘corporate name’ di impresa ed i singoli ‘brand
 name’ di prodotto.
  L’articolazione dell’offerta di un’azienda (e ancora con più evidenza, di
gruppi di imprese) impone quindi di approfondire la politica di marca per
una pluralità di prodotti, al fine di verificare gli effetti di un ‘brand
management’ complesso sul patrimonio di marca delle singole offerte e
sulla ‘Brand Equity’ dell’azienda nel suo insieme (Corporate Brand Equity).

4. Brand Equity e politica di portafoglio di marca

  Numerosi fattori contribuiscono ad aumentare la numerosità delle mar-
che gestite da un’impresa, tra cui: lo sviluppo dell’area di operatività ge-
                                                21
stionale; la crescita delle dimensioni aziendali ; i processi di fusione e di
                                                         22
acquisizione, gli accordi, le alleanze e le joint venture ; e infine, il ruolo
sempre più attivo e partecipativo della domanda intermedia (trade e inter-
mediari finanziari) e della domanda finale.
  In generale, nei sistemi economici più evoluti, la domanda si sfaccetta in
una molteplicità di esigenze (funzionali e simboliche) che non possono es-
sere soddisfatte da un’unica ‘promessa’, cioè dal sistema di responsabilità
rappresentato da un’unica marca. Da tale contesto articolato delle relazio-
ni domanda-offerta trae origine l’esigenza di operare con diverse marche,
per contrastare le offerte concorrenti.
   □ Il gruppo L’Oréal, fondato nel 1907, attualmente presenta un vasto
   portafoglio di marche fra cui Garnier, Lancome, Vichy, Elena Rubin-
   stein, Biotherm, Cacharel.
   Le imprese multinazionali con un vasto portafoglio di marche sono nu-
merosissime. Ad esempio, 3M (Scotch, Scotch Brite, Post-it), Lever, Proc-
ter & Gamble, Philip Morris; quest’ultima, in particolare, può essere citata
a titolo paradigmatico, dal momento che controlla società (quali Kraft, Ge-
neral Foods, Jacobs Suchard, Miller Brewing Company) le quali operano
con un altrettanto ampio numero di marche.
   Un complesso portafoglio di marca non è peraltro una prerogativa delle
imprese che operano nei beni di consumo ad elevata rotazione (Fast Mo-
ving Consumer Goods), dal momento che tale condotta si riscontra anche
nel settore ‘business to business’ e nei servizi.
   In effetti, il portafoglio di marca non può essere considerato una peculia-
rità di specifiche culture aziendali. Anche alcune imprese multinazionali
              23
giapponesi , che storicamente hanno perseguito una politica di afferma-
zione di un unico ‘corporate name’, sono interessate da uno sviluppo del
portafoglio delle proprie marche, come illustrato dall’evoluzione di Toyota
e di Sony Corporation.
     □ Toyota ha affiancato alla ‘storica’ denominazione la ‘brand’ ‘Lexus
   – The luxury brand of Toyota’ per le auto di gamma alta, destinate a
   competere con Mercedes e BMW. Il progetto Lexus è stato avviato da
   Toyota nel 1983 con 24 team di produzione, 60 progettisti, 1400 inge-
   gneri, 2300 tecnici specializzati.

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     □ Sony Corporation è leader mondiale nell’elettronica di consumo. In
   particolare, la marca Sony si è affermata nei comparti delle attrezzatu-
   re video, audio e televisive, sostenendo una ‘promessa’ fondata sui
   fattori innovazione ed alta specializzazione di massa. Agli inizi degli
   anni ‘90, Sony Corporation ha iniziato un processo di diversificazione
   nel comparto entertainment (cinema e discografia), acquisendo mar-
   che consolidate come Columbia, Epic e Tristar; successivamente ha
   ulteriormente ampliato il proprio portafoglio di marche lanciando, nel
   settore discografico, le marche Chaos e Tristar Music Group.
   La gestione di un portafoglio di marca rappresenta un aspetto centrale
del ‘brand management’ in quanto gli investimenti necessari per consegui-
re un’adeguata visibilità e, più in generale, le risorse richieste per mante-
nere una favorevole relazione con un dato mercato sono sempre molto
rilevanti.
   Come specificare il numero e la forza delle identità di marca da afferma-
re nei diversi mercati e/o segmenti obiettivo. Un primo contributo per o-
rientare tali scelte può discendere dall’analisi dei punti di forza e di debo-
lezza che contraddistinguono le politiche-limite di portafoglio: la politica di
portafoglio mono-brand e la politica ‘multi-brand portfolio’.

4.1 La politica di portafoglio multi-brand

    La politica-limite di portafoglio multi-brand prevede una specifica marca
 per ogni segmento delle domande di riferimento. Una simile politica è coe-
 rente con un focus strategico mirato alla differenziazione: l’impresa si pre-
 figge di caratterizzare le singole offerte, sviluppando per ognuna di esse
 una precisa conoscenza di marca. In altri termini, si predispongono offerte
 mirate a soddisfare le esigenze di singoli segmenti di mercato.
   I vantaggi di una simile politica di portafoglio delle marche sono numerosi.
   In primo luogo, una molteplicità di marche può essere necessaria per
concorrere a ‘creare un mercato’: una singola offerta, infatti, in genere non
soddisfa una domanda evoluta di vaste dimensioni. Gli esempi in proposito
sono numerosi: Philips per i TV color (che nel mercato italiano ‘compete’
con le marche di gruppo: Philips, Grundig, Phonola); Rossignol per le at-
trezzature sportive (soprattutto con le marche Rossignol, Dynastar, Kerma
e Lange); od anche Philip Morris per i formaggi freschi moderni in Italia.
      □ Philip Morris è presente nel mercato nazionale dei formaggi freschi
   moderni con la marca-gamma Philadelphia (Philadelphia, Philadelphia
   Light, Philadelphia Fantasie e Philadelphia Mousse), con Jocca e con
   Maman Louise (queste ultime due con la controllata Kraft General Fo-
   ods). I diretti concorrenti sono invece Sitia-Yomo con la marca Belgioio-
   so e Galbani-BSN con Fior di Certosa. La presenza di Jocca e Maman
   Louise ha certamente permesso a Philip Morris di contrastare meglio i
   concorrenti Sitia-Yomo e Galbani-BSN, ‘chiudendo’ spazi di mercato in-
   dispensabili per raggiungere la ‘dimensione critica’ minima per effettua-
   re azioni di marketing adeguate allo sviluppo della domanda.
  La politica di portafoglio multi-brand, che consente di competere con più
marche su uno stesso mercato, permette inoltre di commercializzare le mar-
che di più basso profilo a fini tattici (ad esempio, per limitare le possibilità di

Edited by: ISTEI - University of Milan-Bicocca                                                              ISSN: 1593-0300
Brondoni Silvio M., Patrimonio di marca e gestione d’impresa, Symphonya. Emerging Issues in Management (www.unimib.it/sym-
phonya), n. 1, 2000-2001, pp. 11-32                              (English Version: http://dx.doi.org/10.4468/2001.1.02brondoni)
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                     © SYMPHONYA Emerging Issues in Management, n. 1, 2000-2001
                                  www.unimib.it/symphonya

brand extension dei concorrenti), per difendere la marca principale da poli-
tiche di prezzi al ribasso, che potrebbero pregiudicare l’immagine della
marca leader.
   Infine, una politica multi-brand può rendersi necessaria nell’ottica di
soddisfare esigenze specifiche di mercati regionali, come nel caso di Hei-
neken in Italia.
 □ Heineken è un Gruppo internazionale che produce e distribuisce i pro-
 pri prodotti in oltre 170 Paesi. L’headquarter è ad Amsterdam, dove nel
 1864 Gerard Adriaan Heineken acquistò la birreria De Hooiberg, che
 produceva birra dal 1592. Heineken è oggi il primo produttore di birra in
 Europa, il secondo del mondo con oltre 79 milioni di ettolitri; gli addetti
 sono circa 33000 e il fatturato totale è di circa 13.800 miliardi di lire (25%
 Americhe, 50% Europa, 13% Africa, 12% Asia/Australia/Oceania – dati
 1998). Le marche internazionali di Heineken sono: Heineken, con oltre
 20 milioni di ettolitri venduti nel mondo, Amstel, Murphy’s. Le ‘brand’ in-
 ternazionali sono affiancate da marche ‘regionali’ (cioè vendute nelle re-
 gioni: ‘Europe’, ‘Western Hemisphere’, ‘Africa’; Asia/Pacific’) e ‘nazionali’,
 tra cui: Tiger, Anchor, Mutzig, Primus, Dreher, Pelforth, Aguila, Calanda,
 Bintang, Number One, DB, Reeb, Rong Cheng, Piton, Kalik, Talléros,
 Lorraine, Bourbon, Zlaty Bazant, Fischer, Moretti, Zywiecz, Adelshoffen,
 Corgon. In Italia, Heineken è presente dal 1974, con l’acquisizione di bir-
 ra Dreher SpA, azienda di antiche origini. Heineken Italia (con circa il
 36% di quota del mercato nazionale ed un fatturato di 1279 miliardi di lire
 – dati 1999) impiega circa 1100 addetti, è presente sul territorio con sei
 stabilimenti, produce e commercializza 5,6 milioni di ettolitri di birra. Le
 marche di Heineken Italia SpA sono: Heineken, Birra Moretti, Dreher,
 Stella Artois, Amstel, Baffo d’Oro, Buckler, Henninger, Hoegaarden, I-
 chnusa, Jupiler, Labatt Blue, Labatt Ice, Leffe, Loburg, McFarland, Mes-
 sina, Moretti La Rossa, Murphy’s, Pedavena, Sans Souci, Sans Souci
 Ice, Adelscott, Desperados. (Heineken Financial Report, 1999).
   L’onerosità della politica di portafoglio di marca multi-brand è particolar-
mente evidente in un orizzonte di medio-lungo periodo: investimenti ina-
deguati al sostegno promozionale delle diverse marche tendono ad impe-
dire la percezione delle specifiche identità di marca, a limitare le risorse di
marca (credibilità, legittimità e affettività) e quindi a pregiudicare le diverse
‘Brand Equity’.

4.2 La politica di portafoglio mono-brand

   La politica mono-brand, ovviamente, si contrappone alla linea di condot-
ta esaminata in precedenza: in altri termini, indipendentemente dalla nu-
merosità dei segmenti potenziali di domanda, le risorse aziendali sono de-
stinate e sviluppare un’unica marca.
   I vantaggi e i limiti della politica mono-brand sono speculari a quelli di
una politica multi-brand: a fronte della possibilità di concentrare le risorse
(finanziarie e manageriali) su un’unica identità di marca da trasmettere al
mercato di riferimento, si manifesta il limite di essere ‘focalizzati’ a compe-
tere su più segmenti con un’unica ‘promessa’, con un unico sistema di re-
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sponsabilità .
□ Il caso Coca-Cola è emblematico. La costruzione nel tempo di una diffusa
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Brondoni Silvio M., Patrimonio di marca e gestione d’impresa, Symphonya. Emerging Issues in Management (www.unimib.it/sym-
phonya), n. 1, 2000-2001, pp. 11-32                              (English Version: http://dx.doi.org/10.4468/2001.1.02brondoni)
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