Paper Difesa e Sicurezza - Febbraio 2017 - The Alpha Institute of Geopolitics and Intelligence

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Paper Difesa e Sicurezza – Febbraio 2017

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Paper Difesa e Sicurezza – Febbraio 2017

The Alpha Institute of Geopolitics and Intelligence
Paper Difesa e Sicurezza

Le prime azioni di Trump all’alba del suo mandato
Federica Fanuli, Emiliano Fiore, Riccardo Florio, Francesca Samperi, Andrea Sperini

Roma, febbraio 2017

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INDICE

L’analisi del voto

Trump e la politica economica

La posizione di Trump rispetto alla NATO

Le intenzioni nei confronti della Russia

Il protezionismo di Trump e gli interessi cinesi

USA e Medio Oriente: le petro-monarchie…

… Israele e Iran

Il Mediterraneo

Conclusioni

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 Le prime azioni di Trump all’alba del suo mandato
   Federica Fanuli, Emiliano Fiore, Riccardo Florio, Francesca Samperi, Andrea Sperini

L’analisi del voto
La vittoria del socialista Bernie Sanders, candidato democratico che si è conteso la
nomination con Hillary Clinton durante le primarie, avrebbe dovuto far capire ai
democratici quanto la candidatura della Clinton, già sconfitta nel 2008 da Obama,
mettesse a rischio la vittoria del partito.
Tali dati, uniti all’evidente crisi dell’establishment politico americano, che nel 2016 ha
visto una contrapposizione tra la classe politica, ricca e privilegiata rappresentata dalla
Clinton e i ceti impoveriti che hanno appoggiato Trump, conquistati da: promesse di
posti di lavoro, agevolazioni fiscali per la classe media americana, controllo stretto
dell’immigrazione, lotta al terrorismo islamico e meno vincoli per la vendita di armi,
hanno portato al risultato che tutti conosciamo.
Il voto popolare ha premiato la Clinton con 60 milioni e 981 mila consensi (pari al 47,79%),
contro i 60 milioni e 350 mila (pari al 47,3%) di Trump. In base alle analisi delle scelte
compiute dai giovani, dai meno giovani e dagli elettori di Sanders, si può evincere che,
se avessero votato solo i ragazzi di età compresa tra 18 e 29 anni (millennials o
generazione Y), la Clinton avrebbe vinto.
Si evidenzia, inoltre, che il 55% dei giovani ha scelto la candidata democratica e che il
37% ha votato Trump. Un vantaggio che si riduce nella fascia dei 30-44 anni (50% contro
il 42) e che s’inverte a favore del candidato repubblicano dai 43 anni in poi.
A votare Trump sono stati soprattutto gli uomini, di età superiore ai 45 anni, con un livello
di istruzione basso, provenienti da contesti rurali. Considerando che, negli Stati Uniti, il
70% degli aventi diritti al voto è bianco, di questa categoria il 58% ha votato per Trump e
il 37% Hillary Clinton. Inoltre, il 53% degli uomini ha preferito Trump e il 41% la Clinton,
sostenuta soprattutto dalle donne. Osservando i terzi partiti si comprende anche quanto
la metà dell’elettorato democratico non fosse convinto della candidatura della Clinton.
Michigan (0,27%), New Hampshire (0,37%), Wisconsin (0,93), Pennsylvania (1,24%) e
Florida (1,27%) sono gli Stati in cui Trump ha vinto con un basso margine di voti popolari.
Qui, i terzi partiti hanno conseguito il 3%-4% di voti. I voti dei Verdi, vicini ai Democratici,
avrebbero potuto ribaltare il risultato come nel 2000, quando il Verde Ralph Nader fece
perdere la Florida ad Al Gore, a favore di George W. Bush. Malgrado il voto popolare,
tuttavia, è Donald Trump ad aver conquistato il voto (304) dei Grandi elettori.

Trump e la politica economica
Nella sua ascesa elettorale Donald Trump ha cercato ed in parte ottenuto l’appoggio di
quegli asset strutturali che nell’era obamiana avevano visto una marginalizzazione da

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parte dell’establishment liberal, che aveva puntato sulla new economy e stretto alleanza
col settore high tech della Silicon Valley. La nomina di Rex Tillerson, CEO di Exxon, a
Secretary of State va letta in questa dimensione, che cerca di conciliare gli interessi
dell’industria pesante americana con la necessità di deescalation con la Russia di Putin.
Una parte importante di quella che è stata definita “trumpnomics” ha riguardato la parte
delle relazioni commerciali con i relativi trattati, in particolare l’idea di Trump è di
rinegoziare o uscire dal NAFTA e di lasciar venire meno il TPP.
L’idea base è quella di non vincolare l’economia americana ad accordi commerciali
considerati desueti o poco convenienti per il paese. In una tale ottica il nemico principale
è la Cina, il cui export è visto come una minaccia, non solo per la bilancia commerciale,
ma anche per la conseguente deindustrializzazione di alcuni segmenti produttivi. Le
contromisure in tal senso nascono da alcune idee di Peter Navarro, appena nominato
direttore del National Trade Council, il quale considera la Cina un “nemico economico”
estremamente insidioso contro cui attuare protezionismo selettivo attraverso barriere
doganali con dazi in entrata. A questa politica commerciale dovrebbe seguire una fase
economica di onshoring, in discontinuità rispetto all’offshoring consolidato negli anni,
con cui far rientrare nel paese una serie di produzioni che erano state delocalizzate negli
anni passati.
Il rapporto più complesso di tutti è stato quello con il tempio della finanza, Wall Street,
con cui lo scontro è stato costante, soprattutto sulle questioni che stanno più a cuore
all’ortodossia neoliberista americana. I tempi più populisti della campagna di Trump non
sono piaciuti a Wall Street ed è forse per evitare scontri ulteriori che si è deciso di
rimettere mano al “Dodd-Frank Act”, fortemente voluto da Obama per riformare la
finanza nei suoi aspetti più predatori.

La posizione di Trump rispetto alla NATO
Durante la campagna elettorale, Trump, ha in più occasioni affermato di considerare la
NATO un’alleanza “obsoleta” e “scorretta economicamente per noi statunitensi perché
aiuta di più gli altri membri e noi paghiamo una quota sproporzionata”. Al riguardo, in
occasione di due telefonate intercorse, lo scorso 28 gennaio, con il Presidente della
Repubblica Francese e con la Cancelleria Merkel, il Presidente Trump ha riaffermato
l’impegno USA verso la NATO, ponendo l’accento, però, sull’importanza che tutti gli
alleati condividano l’onere delle spese difensive.
La NATO è importante sia per la sicurezza collettiva in Europa ma anche per gli Stati
Uniti, tanto che l’unica volta che è stato invocato l’articolo 5 per la difesa collettiva è
stato dopo l’attacco all’America dell’11 settembre 2001. Gli USA spendono il 3,6 per
cento del PIL nella difesa e forniscono tra la metà e i due terzi delle capacità militari
alleate, e restano i principali contribuenti al bilancio NATO coprendone quasi il 30 per
cento. Non a caso Washington ha costantemente chiesto, nel passato, agli alleati
europei di impegnare più risorse nella difesa e assumere un maggiore ruolo in tale
ambito per contribuire alla sicurezza comune e in primis a quella del Vecchio
Continente.
La questione della condivisione degli oneri ha segnato la storia recente – e meno
recente – dell’Alleanza, ma è probabile che sarà posta dal Presidente USA con forza e

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toni ben più decisi, rispetto al recente passato, invitando gli Alleati ad investire di più per
la spesa militare al fine di allinearla al limite minino del 2% del P.I.L. L’Italia si ferma
all’1,15%.
Le aree nelle quali la NATO, sotto l’azione propulsiva degli USA, focalizzerà la sua
attenzione saranno: guerra al terrorismo fondamentalista di matrice islamica, la cyber
warfare e le varie forme di guerra convenzionale. Inoltre, non sono in programma altre
attività tese all’allargamento della NATO ad altri Nazioni.

Le intenzioni nei confronti della Russia
Il secondo mandato del Presidente Obama ha causato non pochi problemi agli Stati Uniti
nei suoi rapporti con la Russia di Vladimir Putin. La politica delle “rivoluzioni colorate” ha
provocato scontri durissimi tra i due paesi, soprattutto a causa della questione ucraina.
Il tentativo di allargamento della NATO ad ovest e la decisione di staccare l’Ucraina dal
progetto russo dell’Unione Eurasiatica ha dato esito a non pochi contraccolpi. In questo
scenario, sotto la guida del gruppo di potere del presidente Putin, la Russia ha cercato
di mettere in discussione l’ordine post-bipolare e il ruolo degli Usa come paese chiave
del sistema di sicurezza globale, favorendo l’emergere di un sistema multipolare. In
campagna elettorale il nuovo presidente americano ha auspicato la fine della “nuova
guerra fredda” con Mosca e la possibilità di una convergenza russo-americana su
comuni direttrici di interesse. Trump vuole accantonare definitivamente i “regime
change” mediorientali ed in particolare quelle “rivoluzioni colorate” che così tanto
impensieriscono la Russia nella sua sfera d’influenza. L’idea della nuova
amministrazione è quella di proporre un nuovo “containment” con Russia e Cina a parti
invertite rispetto all’epoca bipolare. I dossier, su cui si pensa si possa convergere con i
russi, sono quelli relativi alla guerra al terrorismo jihadista (Isis e al-Qaeda) e alla
stabilizzazione del Medio Oriente, in particolar modo la soluzione del conflitto siriano. Il
primo passo di questa eventuale distensione potrebbe riguardare il riconoscimento
della Crimea come parte della Russia ed una de-escalation sulle sanzioni chiedendo
come contropartita la cessazione delle ostilità in Ucraina e il rispetto di una linea rossa
che vada dai paesi baltici all’Europa orientale

Il protezionismo di Trump e gli interessi cinesi
Il programma economico dell’amministrazione Trump, chiaramente proiettato verso un
modello “protezionista”, colpirà in modo importante gli interessi cinesi che negli USA
esportano beni e servizi per un valore superiore ai 483 miliardi di dollari (stima del n 2015
mentre le proiezioni per il 2016 attestano il valore intorno ai 453 miliardi di dollari).
Contrariamente le esportazioni degli USA verso la Cina si attestano intorno ai 110 miliardi
di dollari, determinando un rapporto di 1 a 4. Tenuto conto di quanto sopra, ben si
comprende come, almeno in una fase iniziale, la politica statunitense nei confronti della
Cina sia destinata a generare momenti di alta tensione con una conseguente, ma
momentanea “destabilizzazione” del mercato globale. È, tuttavia, ipotizzabile come
questa iniziale fase sia destinata a rientrare nel medio periodo vedendo una Cina che
dovrà cedere qualcosa, in termini di convenienza, agli Stati Uniti.

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Infatti, a fare la differenza in questo annunciato braccio di ferro sarà, ancora una volta, la
qualità della struttura economica statunitense che si presenta come decisamente
stabile, matura, e non dipendente, in modo esclusivo dal mercato estero. Al contrario la
Cina non avendo ancora sviluppato un mercato interno “medio” è quasi totalmente
dipendente dall’export. Questo costringerà la dirigenza cinese a smorzare i toni e a
valutare, anche con condizioni meno favorevoli, le richieste di Washington.
Nell’immediato, le tensioni economiche genereranno ulteriori criticità nello scenario
geopolitico asiatico dove la Cina tenderà ad affermare, ancor più di prima, una
leadership regionale anche dal punto di vista militare coinvolgendo gli storici alleati
statunitensi nell’area.

USA e Medio Oriente: le petro-monarchie…
Da un punto di vista energetico, le informazioni raccolte sulle politiche avviate da Trump
e sulle evoluzioni del mercato energetico, danno credito all’intenzione dichiarata dal
neopresidente americano di “ottenere una indipendenza energetica dal cartello OPEC”. La
politica energetica americana si può infatti fare forte dei seguenti elementi:
    - l’aumento delle estrazioni di shale oil nel territorio americano, registrato dal
        Centro governativo di analisi statistica EIA, nonché previsto grazie a evidenti
        investimenti di società petrolifere grazie specialmente all’abbattimento dei costi
        produttivi;
    - i rifornimenti in previsto aumento dalle sabbie bituminose del Canada, oggi
        caratterizzante circa il 40% dell’import totale, in base alla previsione
        dell’Associazione Produttori Petroliferi Canadesi (CAPP) di aumento della
        produzione di petrolio fino al 2030, e ai via libera dati di recente da Trump per far
        ripartire i lavori per la pipeline del Dakota Access e per rinegoziare i termini per
        quella del Keystone X;,
    - il recente accordo raggiunto al vertice OPEC di porre un freno alla produzione per
        permettere un rialzo dei prezzi, rendendo in tal modo più competitive le estrazioni
        sia dalle rocce di scisto bituminoso (shale oil) che dalle sabbie bituminose
        canadesi;
    - registrato aumento degli investimenti americani in energie rinnovabili grazie
        anche ad una recente legge proroga per incentivi economici.
Unica nota stonante, ma meno rilevante rispetto al resto, si registra sul fronte messicano
a causa della dichiarata intenzione di Trump di aumento delle tassazioni sulle
importazioni, per pagare la costruzione del muro sul confine, e dell’andamento in ribasso
delle vendite agli Stati Uniti da parte della principale compagnia petrolifera statale
messicana Pemex, già dal 2016.
Tuttavia, per una comprensione aggiornata della questione, si rimanda ad un
monitoraggio della conferenza Energy Mexico 2017 che si terrà a febbraio 2017, dove tra
le tematiche in discussione, si darà un outlook sulla politica energetica del Nord America
e si discuterà degli impatti ambientali su scala mondiale.

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… Israele e Iran
Il 22 dicembre 2016, è stata presentata una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite, con la quale l’Egitto ha chiesto la condanna della politica israeliana degli
insediamenti e a cui Trump si è fermamente opposto, anche se sembra aver fatto un
passo indietro sul punto, avendo dichiarato, il 3 febbraio, che ulteriori insediamenti,
soprattutto se al di fuori dai confini attuali, non favoriscono il processo di pace. La
risoluzione n. 2334, presentata, invece, il 23 dicembre da Malesia, Senegal, Nuova
Zelanda e Venezuela, è stata approvata con l’astensione degli Stati Uniti e, nonostante
la sua approvazione, la Commissione edilizia israeliana ha appena dato il via a nuovi piani
di costruzione di centinaia di unità abitative negli insediamenti in Cisgiordania, per
volontà del primo ministro Netanyahu.
Oltre che dalla sua opposizione alla risoluzione presentata dall’Egitto, la volontà di
Trump di sostenere Israele si può evincere dalle personalità pro-Israele che ha nominato
per il suo establishment, tra cui, il genero Jared Kushner, nel ruolo di consulente della
Casa Bianca per il commercio e il Medio Oriente, e l’ambasciatore USA in Israele, David
M. Friedman, e, soprattutto, dall’intenzione di voler spostare l’ambasciata americana
da Tel Aviv a Gerusalemme, intenzione che sembra stia trovando spazio fra le varie
questioni poste al vaglio di Trump e dei suoi collaboratori del Dipartimento di Stato,
proprio in questi primi giorni di insediamento del Presidente. Se questo spostamento
dovesse essere confermato, le ripercussioni nell’area potrebbero essere dirompenti,
proprio alla luce del fortissimo ed evidente valore simbolico che questo gesto
assumerebbe.
La telefonata tra Trump e Netanyahu del 22 gennaio scorso, con la quale è stato fissato
un incontro tra il presidente e il primo ministro per il 15 febbraio alla Casa Bianca, ha fatto
emergere la volontà comune di voler incrementare la cooperazione militare e di
intelligence per la sicurezza, in modo particolare per quanto attiene alla volontà di
contrasto all’ISIS, che per Trump costituisce una priorità. Il Presidente neo eletto ha
anche sottolineato che gli Stati Uniti si impegneranno attivamente per il raggiungimento
della pace tra Israele e Palestina e che l’impegno della nuova amministrazione in questa
direzione costituisce un’opportunità importante da cogliere per Israele.
Il Presidente e il primo ministro hanno, inoltre, convenuto di doversi consultare
attentamente su molte altre questioni che interessano la regione, tra cui le possibili
minacce poste dall’Iran.
Il neo Presidente ha, infatti, dichiarato, durante la campagna elettorale, di voler porre
fine all’accordo sul nucleare raggiunto nel luglio 2015 tra Teheran e il cosiddetto ‘5+1’
(Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania). Il 3 febbraio, inoltre,il
Dipartimento del tesoro americano ha annunciato nuove sanzioni contro 13 persone e
12 entità iraniane, alcune accusate di contribuire alla proliferazione di armamenti di
distruzione di massa e altri per presunti legami con il terrorismo. Anche in questo caso,
le intenzioni di Trump hanno trovato riscontro nelle nomine da lui effettuate, che sono
ricadute su Michael Flynn, Jeff Sessions e Mike Pompeo, personalità che hanno
ampiamente manifestato il proprio orientamento anti Nuclear Deal e che, più in generale,
si presentano particolarmente determinate al contrasto all’immigrazione illegale e al
terrorismo islamico.

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L’ordine esecutivo di Trump, che ha determinato la sospensione temporanea
dell’ingresso dei rifugiati e dei cittadini provenienti da sette Paesi islamici, tra cui
l’Iran, costituisce una chiara espressione di questo orientamento e ha suscitato
l’immediata reazione dell’Iran, che ha applicato il principio di reciprocità al
provvedimento del Presidente.
Non si può, quindi, prescindere, dal verificare se le future politiche di Trump
corrisponderanno o meno a quanto dichiarato in relazione ad Israele e all’Iran. Nel primo
caso è necessario attendere l’incontro tra Trump e Netanyahu; per quanto, invece,
attiene all’Iran, è indispensabile monitorare il seguito che avranno le intenzioni
manifestate dal Presidente.

Il Mediterraneo
La voce “mediterraneo” ha avuto scarsa eco nella campagna presidenziale di Donald
Trump. Tale assenza sancisce di fatto l’avvenuta marginalizzazione dell’area nella
politica estera statunitense.
È prevedibile che l’attuale presidenza si muoverà in un’ottica di disengagement dallo
scacchiere mediterraneo, tesa alla stabilizzazione dei regimi autoritari emersi o
emergenti dalla ormai esaurita spinta propulsiva delle cosiddette “primavere arabe”. In
particolare verrà definitivamente accantonato il piano di regime change che prevedeva
l’integrazione politica delle cosiddette forze islamiste moderate (Fratelli Musulmani).
I principali dossier mediterranei che giacciono sul tavolo dell’attuale presidente
riguardano Libia, Egitto e Turchia. Nel caso libico è improbabile che l’amministrazione
cerchi di imporre Serraj, essendo anzi probabile che si defili dai suoi sponsor
internazionali.
Per l’Egitto tutto sembra indicare un recupero dei rapporti, soprattutto in tema di anti-
terrorismo, dopo i contrasti e le rotture avvenute durante la precedente
amministrazione.
Il dossier certamente più delicato è quello riguardante la Turchia, storica alleata di
Washington durante la Guerra Fredda, che guidata dall’uomo forte dell’Akp sta
cercando una nuova politica estera dopo il fallito tentativo di patronage delle primavere
arabe e della guerra siriana.
La Turchia dell’Akp si è sentita molto frustrata nel suo rapporto con Washington circa le
proprie ambizioni regionali e sulla questione curda. Un recupero della Turchia da parte
dell’amministrazione Trump è imprescindibile per la futura guerra all’Isis e al contrasto
del fondamentalismo islamico nella regione mediorientale.

Conclusioni
L’attuale panorama delle relazioni internazionali vive la vigilia dell’emersione di un
“nuovo paradigma”. Questa crisi, intesa come rottura di continuità, vede la
frammentazione dei blocchi strategico/geopolitici in cui l’elezione di Trump segna
l’impasse della globalizzazione politica, dopo la crisi del modello politico neo-liberista
ed il fallimento della sua esportazione, e vede la contrazione della globalizzazione
economica.

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In generale, considerate le azioni che Trump ha posto in essere in queste prime
settimane di insediamento, in rapporto a quanto da lui dichiarato in campagna elettorale,
è possibile evidenziare una sostanziale coerenza di azione. Alla luce di queste premesse
possiamo fare alcune considerazioni sulle ricadute che la nuova politica estera di Trump
potrebbe avere sull’Italia. La fine delle “Primavere Arabe” nella sponda sud ed est del
mediterraneo e la resilienza del regime alauita di Bashar al-Assad, segnano il declino
della fase unipolare nella politica estera statunitense e l’ascesa di nuovi attori nello
scacchiere mediterraneo e mediorientale. In questo contesto l’Italia deve recuperare il
rapporto con l’Egitto di al-Sisi e assumere una postura più proattiva nelle questioni
libiche cercando un dialogo sul tema in modo particolare con Russia e Usa, nell’auspicio
che questi attori propendano per un appoggio comune ad Haftar.
Per l’Iran la situazione è ancora embrionale ed è difficile prevedere quale linea prevarrà
nell’amministrazione, in tal senso sarà molto importante comprendere come si
articoleranno le future relazioni tra Israele e Stati Uniti. L’area euro-mediterranea
testimonierà l’assenza di una comune politica estera europea, laddove, ad un parziale
arretramento americano, non seguirà un dispiegamento geopolitico russo. Entrambe le
potenze sono alla ricerca di brilliant second, essendo la loro sfida geopolitica essenziale
dislocata in altro scenario. Il profilo basso tenuto durante la questione ucraina con le
relative sanzioni imposte alla Russia ci rende agli occhi dei russi dei partner privilegiati
in quest’area. Questo scenario apre grandi opportunità di elaborazione per un nuovo
“terzomondismo atlantista” in cui la componente mediterranea dell’Italia potrebbe
uscire rafforzata con la possibilità di riunire le sue due politiche estere (Est-Ovest),
facendole convergere nella sua vocazione mediterranea, avendo gli americani bisogno
di proconsoli e i russi di alleati volenterosi nell’area.

Fonti

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      http://www.huffingtonpost.it/massimo-teodori/trump-la-verita-dei-numeri-
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       Sapelli-la-rabbia-dei-dimenticati-cambiera-anche-casa-nostra/732365/;
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      Sapelli Giulio, Così Trump può salvarci dalla Germania, Il Sussidiario 23/11/2016
      Jean Carlo, La guerra ibrida secondo Putin, Limes 02/02/2016
      Tremonti Giulio, Intervista al “Corriere della Sera” 15/01/2017

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      Klein M., Putin's New National Guard, SWP
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      James Harold, Trump’s Currency War against Germany could destroy the EU,
       Foreign Policy 02/02/2017
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       Order, Foreign Affairs 20/01/2017
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