Marco Settimini La macchina-cinema e l'immagine del corpo Per una teoria e storia del corpo nel cinema

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                                         Marco Settimini

                La macchina-cinema e l’immagine del corpo
                Per una teoria e storia del corpo nel cinema
                                         – appunti di ricerca –

      Che cos’è il cinema? Che cos’è il corpo nel cinema? Che uso fa il cinema del
corpo? Che ne è del corpo, nelle immagini del cinema? Che esperienza si fa del
corpo con le immagini del cinema? Che effetti, che affetti, e quale senso ne deriva-
no? Con queste poche domande si potrebbe riassumere il problema del corpo nel
cinema. E nei due libri di Deleuze sul e col cinema, si possono trovare molte rispo-
ste.
      Un primo dato, così evidente che lo potrebbe quasi dimenticare, è che l’e-
sperienza estetica del cinema è una differente sperimentazione del corpo, una
esperienza tanto soggettiva quanto oggettuale dei corpi, in quanto soggetti e oggetti
di visione: un particolare rapporto tra l’immagine e il corpo, insomma; e un impiego
dei corpi e dei soggetti da parte del dispositivo, in una prospettiva pragmatica che è
inversa a quella più diffusa negli studi cinematografici: non come gli spettatori usano
il cinema e i film, ma come il cinema come e i film usano gli spettatori.
      Da una parte abbiamo il corpo dell’autore del film, del regista, e dell’attore sul
set cinematografico, entrambi tenuti a rapportarsi a una certa tecnologia e a un fine
creativo che è il film in sé. La storia del cinema è d’altra parte, come ha scritto
Leutrat1, la storia dei corpi delle star, dei registi che li hanno impiegati, e dei registi
che si sono mostrati nei loro stessi film. C’è poi il corpo, una serie di corpi, ricomposti
una volta per tutte nelle immagini del film, proiettate sullo schermo per un pubblico
eterogeneo. E c’è, per concludere, il corpo dello spettatore, tanto come corpo em-
pirico, presenza corporea nella sala buia del cinema, quanto come corpo virtuale,
immaginario, nella relazione dello spettatore con le immagini.
      Se queste tre prospettive possono essere prese e analizzate singolarmente, è
tuttavia interessante, usando il sistema delineato da Deleuze, considerarle nel loro
rapporto, come fossero le tre linee di una stessa prospettiva, determinata dalla com-
posizione del film, per dirla con Deleuze, in quanto tramite tra i corpi impiegati sul
set, le loro modalità di recitazione2, i movimenti dei corpi nelle immagini, i movimenti
delle immagini stesse, nelle loro relazioni determinate dal montaggio, e quindi gli
affetti e gli effetti determinati dal rapporto tra questi corpi e quelli degli spettatori. Una
logica del corpo insomma, che corrisponde a una logica del senso del film, degli
affetti e degli effetti di un film sugli spettatori. Un pensiero del film, col film, nel film,
dunque.

1
    Cfr. J.-L. Leutrat, Il cinema in prospettiva: una storia, Recco, Le Mani, 1997, p. 125
2
    Cfr. J. Nacache, L’acteur de cinéma, Parigi, Nathan, 2003

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Secondo Deleuze, con Bergson, una cosa e la percezione di questa cosa sono
lo stesso essere, che è appunto l’immagine: l’immagine si riferisce sia alla cosa che
alla percezione della cosa, e però lo fa in modo variabile, presentando meno presen-
za o comunque meno elementi che la cosa in sé; perché l’immagine è una visione
soggettiva di un Tutto complessivo, è per questo sottrae gioco forza qualcosa alla
realtà. La sottrazione è dovuta alla dimensione per così dire pratica che abitualmente
s’insinua nella percezione, poiché c’è di solito un soggetto che guarda una cosa, e
non soltanto la guarda, ma lo fa esprimendo nella sua visione un obiettivo pratico che
influenza l’immagine che vede.
       Questo dato provoca quella che Deleuze chiama «incurvazione» dell’immagine,
e cioè la valorizzazione del lato pratico dell’immagine stessa, a partire dal rapporto
tra il corpo del soggetto della visione e l’oggetto su cui la sua capacità d’azione può
realizzarsi. Può tuttavia eventualmente accadere che l’elemento puramente visivo,
percettivo, possa prendere il sopravvento sul lato pratico, o che sia un terzo elemen-
to, che «occupa l’intervallo» tra l’aspetto visivo e il lato pratico, che si trovi a imporsi.
Nel qual caso, più che rappresentare l’azione di un soggetto su di un oggetto, l’imma-
gine viene a raffigurare una «coincidenza» tra i due, tra la soggettività e l’oggettualità
della visione, una situazione che il mezzo cinematografico, in maniera particolare, è
in grado di rivelare.3
       Facendo un passo indietro, alla base della questione ontologica del cinema-
tografo, si può dire che se il teatro è sempre stato una forma di rappresentazione
realizzata attraverso la presenza dei corpi, nel cinema si ha piuttosto una riprodu-
zione di quelle presenze per tramite di una proiezione di punti-corpi. Il cinema, ancor
più precisamente, come dice Deleuze, «non riproduce corpi», bensì «produce» dei
corpi, attraverso dei «punti di tempo», di un tempo che è passato, poiché le immagini
del cinema non sono declinate al presente, bensì sempre necessariamente al pas-
sato, e vale a dire mediante porzioni di spazio-tempo-movimento in cui restano le
tracce di presenze corporee che non sono riproposte come copie immateriali dei
corpi, quanto piuttosto presentate in una loro specifica consistenza fisica, tutta cine-
matografica.4
       Se il cinema è l’affermazione di una serie di presenze corporee, proiettate in
forma di tracce luminose, e posto che l’eventuale narrazione s dà a partire proprio
dal corpo e dal movimento, non v’è una perdita, nelle immagini, una derealizzazione
in senso stretto, quando un ampliamento della esperienza della realtà concreta.
       L’avvento del cinema, e soprattutto del cinema muto, è stata pertanto, come
afferma Balász, una eccezionale «svolta nella storia della civiltà». Perché a secoli di
predominio visivo implicato in quello della scrittura, col cinema si può mostrare e
approfondire il movimento «spontaneo», immediato, del corpo, il movimento «espres-
sivo» del corpo in modo appunto diretto, nel visibile e non nel dicibile, in tutta la sua
irrazionalità. Un movimento che sarebbe capace dunque di rivelare l’anima, l’inte-
riorità attraverso l’esteriorità del corpo, e in particolare del volto, per tramite dei sensi,
di vibrazioni.
       Secondo Balász, il cinema sonoro non avrebbe poi modificato nella sostanza
questo potenziale, poiché l’essenza del cinema rimarrebbe comunque il dato visivo.
Pur di pari passo con un «livellamento internazionale» della gestualità del corpo
cinematografico, a tutto vantaggio di un ingenuo «umanesimo internazionale» che
Balász stesso auspicava, anticipando l’utopia di Deleuze, intuiva anche che la più

3
 Cfr. G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, Milano, Ubulibri, 1984, pp. 82-85
4
 Cfr. G. Deleuze, Il cervello è lo schermo (conversazione con P. Bonitzer, J. Narboni, S. Toubiana, e
altri), in Che cos’è l’atto di creazione?, Cronopio, Napoli, 2003, pp. 36-38

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profonda forza estetica del cinema avrebbe potuto essere la disgiunzione di audio e
video.5
      Ma quel che più è interessante, su di un piano generale, è la capacità di tutto il
cinema di rendere visibile l’uomo in un modo che in precedenza non era possibile,
rendendo visibile quel senso che Barthes6, molto ottusamente, definisce ottuso. E
vale a dire un elemento sfuggente, insondabile, senza significato dicibile a parole, un
elemento ulteriore che si rivela con violenza proprio nella espressività del volto, una
forza non razionale eccedente la coscienza che, dice Pasolini7, costituisce la base
delle immagini del cinema, in particolare in rapporto ai corpi, e che per Deleuze è la
forza che può far pensare per immagini, proprio in virtù di questa irriducibilità di ciò
che si vede in ciò che si può dire con un linguaggio cui tutto questo tende a sfuggire.8
      Ma il cinema non solo perpetua dei corpi in immagine, li esibisce, li dramma-
tizza, e ne rivela una espressività prima non visibile: li fa pure a pezzi, li riduce in
frammenti, li smembra. Tanto con le inquadrature, quanto con il montaggio. E il primo
piano del volto è in questo senso una sorta di condizione di base, esemplare del
cinema, in quanto trasformazione della distanza tra l’occhio dello spettatore e l’imma-
gine dei corpi, sia per via di una prossimità percettiva, sia in una sorta di prossimità
temporale. Il primo piano sospende difatti in qualche maniera il tempo, rendendolo
visibile in maniera diretta. Più precisamente, come scrive Jacques Aumont riferen-
dosi a Deleuze, «il primo piano non è una questione di distanza». Sarebbe piuttosto
l’amplificazione anche temporale, della percezione delle cose per tramite della mac-
china cinematografica, con una metamorfosi del tempo «materiale» (estrinseco) in un
tempo «trascendentale» (spirituale).9
      Balász era d’altra parte arrivato ad affermare che, di fronte a un primo piano,
«non ci sentiamo nello spazio».10 Lo spettatore, nel momento in cui si viene a trovare
di fronte a un primo piano di un volto, perde cioè la sensazione di trovarsi in un certo
spazio, e di riuscire a muoversi in esso, a muoversi in una coordinazione di spazio-
tempo-movimento simile a quella per lui abituale. La percezione dello spazio-tempo-
movimento consueto viene meno, rimpiazzata da una sorta d’immersione in un
micro-cosmo, come ha avuto modo di dire Edgar Morin11, un micro-cosmo rappre-
sentativo del cosmo, di una idea di mondo, che un film intende dare, nel singolo
frammento come nella totalità della sua composizione, nel Tutto del film di cui il
primo piano è in certo qual modo la miniaturizzazione che a un tempo vi si avvicina e
vi reagisce.
      Se da una parte cinema procede infatti ininterrottamente a una frammentazione
del corpo, e insieme ne tenta altrettanto continuamente una ricostruzione, un ri-
pristino della sua totalità, questa è corrisponde alla ricostruzione di una sorta di
soggettività della visione, in risposta alla impersonalità della macchina cinematogra-
fica. Una soggettività indotta, prodotta dalle immagini del film, dalla composizione del
Tutto del film, nella mente dello spettatore, che si rivela in particolare in relazione ai
corpi mostrati nelle immagini.

5
  Cfr. B. Balázs, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Einaudi, Torino, 1955, pp. 44-49, pp.
63-65, pp. 83-84
6
   Cfr. R. Barthes, Il terzo senso. Note di ricerca su alcuni fotogrammi di Ejzenstejn, in Sul cinema,
Melangolo, Genova, 1994
7
   Cfr. P. P. Pasolini, Il cinema di poesia, in Empirismo eretico. Lingua, letteratura, cinema, Milano,
Garzanti, 1972
8
  Cfr. G. Deleuze, Foucault, Cronopio, Napoli, 2002
9
  Cfr. J. Aumont, Du visage au cinéma, op. cit., pp. 100-102
10
   Cfr. B. Balász, Il film, op. cit., pp. 70-72
11
   Cfr. E. Morin Il cinema o l’uomo immaginario, Feltrinelli, Milano, 1982

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E’ mediante l’evento del corpo, pure il più minuscolo evento, il più minuscolo
movimento, che il cinema è in grado di esprimere idee, raccontare delle storie, mo-
strare delle realtà, o d’inventarne altre, ulteriori, utilizzando in certi casi un corpo
ordinario, per così dire quotidiano, e in certi altri con un corpo eccedente, che può
apparire estraneo, spaventoso, altro rispetto alla nostra identità, oppure con un corpo
seducente, capace d’attrarre, proprio in virtù della sua stessa distanza nelle immani-
ni, come nel caso delle star hollywoodiane. Ma un dato è certo: il cinema è quasi
sempre antropocentrico. C’è una «presenza (…) ossessiva di persone», e vale a dire
di corpi, a reggere l’essenziale dinamismo delle immagini del cinema, scrive Pierre
Sorlin, un qualcosa che va oltre la rappresentazione e la narrazione.
      Il problema, per dirla con Sorlin, è proprio di capire che cosa sia un corpo, che
cosa sia un movimento di un corpo. Il problema sarebbe per Sorlin di matrice squisi-
tamente estetica, ossia risiederebbe nel rapporto tra lo spettatore e le immagini, tra il
corpo dello spettatore e il corpo nelle immagini. L’esibizione del corpo sullo schermo
è quindi una sorta di «sfida» che essa v’impone, e che s’impone allo spettatore.
      La questione non è quindi semplicemente di interpretare un racconto, come
vuole la narratologia, quanto di ritrovare un posto sullo schermo, nelle immagini.12
Con Deleuze si può insomma parlare, facendo riferimento a Bergson13 e a Leibnitz14,
di un avere-un-corpo nel rapporto con le immagini e coi corpi presenti nelle immagini,
in una trama di relazioni di soggettività e oggettualità, e di percezione, corpo, memo-
ria e pensiero che producono il senso del film.15
      Il desiderio ordinario dello spettatore del cinema è quello di avere-un-corpo nelle
immagini, con le immagini, di fare corpo con le immagini. Se la presenza effettuale e
attiva dello spettatore (quale immagine-del-corpo quotidiana) è quasi annientata,
nella sala buia del cinema, è difatti possibile, in alternativa, cercarla e trovarla nelle
immagini (quale immagine-del-corpo cinematica), nella serie d’individuazioni, insieme
corporee e mentali (quale corpo immaginario), determinate dalle immagini e dai corpi
che vi compaiono.
      Ma percezione cinematica non è per nulla identica, per Deleuze, alla percezione
quotidiana, per il semplice fatto che è acentrata, che produce un movimento di visio-
ne acentrato. Più semplicemente, l’occhio del cinema è l’occhio di una macchina, e
non un corpo umano, e si muove, si può spostare dove vuole, dal punto di vista dello
spazio, del tempo e del movimento e dal punto di vista del corpo. E’ uno spazio-
tempo-movimento acentrato e variabile, quello di un film. Per questo motivo, afferma
Deleuze, esso può riproporre, raffigurandolo nelle immagini in movimento, il dinami-
smo del mondo, del cosmo, della materia, e pensarlo, farlo pensare, fisicamente.
      Lo sguardo di un film produce, nonostante questo movimento acentrato, una
sorta di centro idealizzato, nelle serie d’individuazioni determinate dalle immagini, un
centro che si definisce e si disfa di continuo nel corso del film. Lo spettatore, segue
cioè le immagini, e i corpi nelle immagini, e nel movimento delle immagini trova il suo
posto, in rapporto con i corpi in esse presenti, con una adesione tanto allo spazio, al
tempo e al movimento delle immagini, quanto ai corpi stessi in esse presenti. Questo
è il corpo virtuale, immaginario dello spettatore, pur nello stesso tempo inscindibile
dal suo corpo reale in quanto centro percettivo. La presenza corporea reale dello
spettatore sparisce e riappare, mentre quella immaginaria si definisce nel tempo, su

12
   Cfr. P. Sorlin, Estetiche dell’audiovisivo, La Nuova Italia, Firenze, 1997, pp. 133-141
13
   Cfr. G. Deleuze, Il bergsonismo, Milano, Feltrinelli, 1983
14
   Cfr. G. Deleuze, La piega. Leibnitz e il barocco, Torino, Einaudi, 2004
15
   Cfr. J.-P. Esquenazi, Film, perception et memoire, L’Harmattan, Parigi, 1994

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un piano che Deleuze, con Epstein e Schefer, definirebbe spirituale, fatto di rapporti
mnemonici, di «suture».16
      L’ipotesi che si può prospettare, con Schefer, è che le immagini cinematografi-
che diano allo spettatore una sorta di corporeità mostruosa aggiuntiva; una specie di
protesi visuale che si connette alle sensazioni, ai movimenti e ai corpi che appaiono
sullo schermo, definiti una volta per tutte e imposti a un pubblico di corpi eterogenei e
anonimi: l’altro corpo «ordinario» del cinema, insieme a quello mostrato nelle imma-
gini.17
      La logica del senso di un certo film è quindi pure la logica del corpo del film
medesimo, come la storia del cinema è pure la storia del corpo nel cinema. Il corpo
umano è d’altra parte l’oggetto e soggetto fondamentale delle immagini cinemato-
grafiche, pensate in relazione a uno spettatore, a uno sguardo umano, che è peraltro
l’unico sguardo in grado di percepire questo tipo d’immagini grazie a un difetto della
retina.
      Per concludere, ci si può domandare quale tipo di film si possa dunque consi-
derare realista, e in base a quali criteri. Una questione, questa, del tutto centrale in
Deleuze. Si potrebbe forse affermare che un film è realista allorquando vi si definisce
una corporalità, sia come corpo sullo schermo sia come corpo immaginario dello
spettatore che l’osserva, sostanzialmente identico a quello della percezione che si dà
per ordinario nei codici (psicologici, sociologici) del quotidiano. Tanto su di un piano,
percettivo, fisico, dinamico e pratico quanto sul piano delle determinazioni sociali e
culturali. Nel cinema, infatti, v’è evidentemente, una messa in scena e una messa in
forma socialmente determinate, dei corpi, e con essi dei soggetti, in rapporto a una
certa ideologia, il che ha a sua volta delle conseguenze sociali e psichiche, fisiche e
di pensiero.
      E’ anche per comprendere tutto questo substrato di controllo e di disciplina, per
impiegare dei termini foucaultiani cari a Deleuze, dei corpi e del pensiero coi quali e
nei quali esso si dà, che è necessaria una storia del corpo dalla macchina cinemato-
grafica, delle maniere in cui esso è stato impiegato per lo schermo, e riproposto sullo
schermo, nelle immagini, che sia a un tempo una teoria estetica.

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16
     Cfr. J.-P. Oudart, La suture, “Cahiers du Cinéma”, 212, 1969, pp. 36-39 e 213, 1969, pp. 50-55
17
     Cfr. J.-L. Schefer, L’homme ordinaire du cinéma, Cahiers du Cinéma, Parigi, 1980

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