Le tante e vistose carenze del Programma di gestione dei rifiuti radioattivi

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Le tante e vistose carenze del Programma di gestione dei rifiuti radioattivi
Le tante e vistose carenze del
Programma di gestione dei rifiuti
radioattivi
30 Aprile 2018 | Gianni Mattioli e Massimo Scalia

                                        Articolo pubblicato sul n.1/2018 della rivista bimestrale QualEnergia

Sintetizziamo le osservazioniche il Centro Interuniversitario di Ricerca Per lo Sviluppo Sostenibile (Cirps) e
la Commissione Scientifica sul Decommissioning dell’Associazione “Sì Fer, No Nuke” hanno presentato ai
Ministri competenti nell’ambito della procedura di Valutazione Ambientale Strategica (Vas) del Programma
Nazionale del Governo (emanato il 27 giugno 2017).

Le osservazioni sono state elaborate insieme al prof. Giorgio Parisi, al dott. Paolo Bartolomei e all’ingegner
Roberto Mezzanotte, recentemente scomparso e alla cui memoria va con affetto il nostro pensiero.

Rileviamo preliminarmente che manca nel testo un’enunciazione dei princìpi fondamentali cui ci si è
attenuti, in una materia nella quale, per i rischi, per i costi e per la complessità scientifica, le scelte non
appaiono certo facili.

Manca dunque nell’impostazione lo sforzo di fornire un quadro chiaro delle scelte attuative di
questi princìpi, sia generali sia più specifici, assunti come fondamentali, ai quali occorre ispirarsi:

      proteggere la salute umana;
      proteggere l’ambiente e la biodiversità;
      proteggere i territori oltre frontiera;
      assicurare, in ogni fase, il rispetto dei princìpi della radioprotezione da quello sulla giustificazione;
      garantire la sicurezza degli impianti dedicati alla gestione dei rifiuti radioattivi, per il tempo di vita
      degli stessi;
      assicurare il controllo e la minimizzazione della produzione dei rifiuti radioattivi;
      assicurare una gestione integrata dei rifiuti radioattivi;
      assicurare al pubblico l’accesso a tutte le informazioni pertinenti;
      favorire la partecipazione dei cittadini alle decisioni di merito;
      proteggere le future generazioni e non gravarle di oneri;
      disporre di un adeguato sistema legislativo e regolamentare nazionale, nonché di un efficace
      sistema di controlli che assicuri la prevenzione e rilevi prontamente le eventuali violazioni.

Manca ancora, come lettura conseguente del quadro generale, l’enunciazione di linee progettuali di
ricerca, magari in un quadro Europeo. Infatti, l’Unione Europea sta preparando un programma comune
europeo di ricerca, Ejp 2018-2025, per la risoluzione di questioni tecnico-scientifiche ancora aperte per lo
smaltimento finale dei rifiuti radioattivi di alta attività e lunga vita, come richiesto dalla Direttiva Europea
2011/70.

Non partecipare a questo programma sarebbe una scelta profondamente sbagliata, che danneggerebbe la
comunità scientifica italiana come anche la stessa Sogin        la società pubblica incaricata del
decommissioning, e che ne avrebbe invece assai bisogno che sarebbero escluse dai futuri progetti.

L’aspetto insoddisfacente dal punto di vista scientifico si riscontra anche nell’organizzazione dei dati,
ordinata generalmente più per posizione geografica che per fisica dei radionuclidi, così che anche nel
Rapporto Ambientale la specificità del problema della radioattività viene “diluita” all’interno di tutte le
altre questioni ambientali.
Le tante e vistose carenze del Programma di gestione dei rifiuti radioattivi
Questa mancanza, un po’ in tutti gli ambiti, di uno sforzo ordinatore si ritrova anche nel quadro legislativo
e regolamentare che si riduce sostanzialmente a un elenco delle leggi e dei decreti legislativi vigenti,
senza un’articolata ricostruzione storica che mostri la ratio delle norme nell’ambito dei problemi da
affrontare.

Venendo a osservazioni più puntuali, manca uno scadenzario per i programmi di decommissioning.
Anche se il Governo si è distinto riguardo alle previsioni irrealistiche, come mostra l’iter del Deposito
nazionale fermo da due anni alla pubblicazione della Carta delle Aree (Cnapi), una tempistica andrebbe
invece articolata perlomeno per i punti più critici del programma di smantellamento, quali:

      il trattamento delle resine di Caorso (Emilia-Romagna) e di Trino (Piemonte);
      la realizzazione dell’impianto Cemex per il condizionamento dei rifiuti liquidi di Saluggia (Piemonte);
      il condizionamento del “prodotto finito” e la messa in sicurezza del combustibile “Elk River” nel
      centro della Trisaia (Basilicata).

Ancora insoddisfacente è l’inventario dei rifiuti radioattivi, che dovrebbe invece rappresentare il
principale dato di riferimento per la redazione del programma nazionale. Si è superata la fase di
confusione alimentata dall’esistenza di due stime effettuate dall’Iapra e dall’Arma dei Carabinieri, sono
stati aggiunti all’inventario i rifiuti provenienti dall’attività di bonifica, ma a questa più realistica situazione
mancano valutazioni più attente e approfondite degli spazi necessari per questa tipologia di rifiuti nel
Deposito nazionale.

Per esempio, i soli rifiuti presenti nella discarica Capra di Capriano del Colle (BS) 55mila metri cubi ove
fossero conferiti al Deposito nazionale occuperebbero oltre la metà del volume a tutt’oggi previsto. E
manca nell’inventario, in nome di presunte norme europee, la pur ridotta quota militare dei rifiuti
radioattivi, come quelli del reattore “Galilei” di San Piero a Grado; al contrario, la Francia, pur essendo
dotata di armi nucleari, li ha inseriti.

Assente infine la valutazione dei rifiuti radioattivi provenienti da cicli tecnologici “non nucleari”, i cosiddetti
Norm e Tenorm, per i quali vanno previsti gli adeguamenti dettati dal recepimento della nuova normativa
europea sulla protezione dai pericoli delle radiazioni (Ue 2013/59). L’assetto inadeguato dei contenuti di
fisica dei radionuclidi emerge particolarmente nel cap. 5 dedicato alla “Gestione del combustibile esaurito
e dei rifiuti radioattivi”, ove proprio la fisica avrebbe potuto fornire criteri chiari per ordinare i problemi
secondo il grado di difficoltà, l’ordine di priorità, le criticità.

Invece il documento del Governo introduce, con davvero scarsa trasparenza, la strategia per cui nel sito
del Deposito nazionale per la bassa attività (Vllw, Llw) siano “temporaneamente” collocati anche la
radioattività intermedia, gli Ilw (Intermediate Level Waste), e, tout court, l’alta attività.

Ora, delle caratteristiche del Deposito non vi è traccia, neanche per indicare le dimensioni o
l’estensione richiesta per il sito; null’altro si dice poi per la sistemazione dei rifiuti a più alta attività nel
sito, se non quella loro posizione “temporanea”.

Dare per scontata quella strategia è del tutto contraddittorio con la finalità e il senso stesso di una Vas;
essa può essere, semmai, il punto di arrivo al termine della procedura di valutazione, sentiti gli
stakeholder. E a proposito dell'”opzione zero” i rifiuti restano dove sono che la Vas deve prevedere,
nessuno dei siti attuali, stando alla Guida Tecnica 29 dell’Ispra, appare oggi idoneo a ospitare il deposito
definitivo dei rifiuti di bassa attività.

Manca insomma tutto, criteri, metodi e indicazioni tecnologiche per l’abilitazione del Deposito rispetto al
compito suppletivo, e non davvero trascurabile, che la strategia del Governo gli vorrebbe assegnare.

Infatti, i rifiuti radioattivi intermedi, gli Ilw, sono materiali disomogenei cui spetta la volumetria più grande,
destinata ad aumentare quando saranno considerati anche i rifiuti militari o a seguito di una più ampia
attività di caratterizzazione radiologica. Costituiscono quindi un problema quantitativo, ma anche
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qualitativo, perché per una loro parte non sono state formulate delle ipotesi sul come trattarli.

Per esempio, in tutto il documento del Governo non è citato il problema dell’ingente quantitativo di grafite
contaminata da 14C presente nella centrale di Latina.

Due le osservazioni fondamentali:

1) La presenza, nello stesso sito del Deposito nazionale, di rifiuti radioattivi il cui tempo di
dimezzamento va assai oltre i 30 anni della bassa attività impone di informare con completezza e
chiarezza popolazioni e autorità locali e territoriali che l’aggettivo `temporaneo’, usualmente impiegato
per la struttura del loro contenimento, ascende a molte decadi. Questo tempo è principalmente legato agli
esiti della ricerca, fondamentale, necessaria per formulare soluzioni che garantiscano il controllo e/o il
confinamento sicuro degli Ilw e dell’alta attività.

2) Progettazione e realizzazione devono in ogni caso rispettare il criterio dell’irrilevanza radiologica il
non superamento dei 10 Sievert all’anno alla popolazione che anche l’imminente normativa Europea sta
assumendo come punto di riferimento nella prospettiva che i rilasci radioattivi, in particolare quelli gassosi,
rispettino quel limite anche in una previsione temporale dai 300 ai 1.000 anni.

È il caso infine di osservare che riguardo alle scorie di alta attività è aperto il di-battito nella comunità
scientifica se non sia preferibile ricorrere, prima che al deposito “geologico”, ad adeguate tecnologie di
trattamento dei rifiuti per ridurne la pericolosità e la volumetria. Questo tema è ignorato dal Programma
Nazionale.

Qualche osservazione per il cap. 6 del Documento, dedicato all’indicazione delle Responsabilità per
l’attuazione del Programma, alla partecipazione e alla necessaria informazione.

Per una reale partecipazione sarebbe stato necessario predisporre strumenti efficaci (per esempio il diritto
all’accesso ai dati, ecc.), dalla stessa discussione del Programma nazionale.

E sarà necessario realizzare occasioni d’informazione e divulgazione sui problemi legati alla
radioattività, programmate e condivise con gli stakeholder. Ma anche informazione sull’impegno di ricerca
ed economico del Governo, nel contesto Ue.

Per quanto riguarda i costi (cap. 7), essi sono stimati in: 6,5 miliardi per il decommissioning degli
impianti nucleari e la gestione dei rifiuti presenti in essi; 1,5 miliardi per la realizzazione del Deposito
nazionale. È una sottostima.

Basta guardare ai 2,6 miliardi che è costata fino a oggi la Sogin, con risultati non particolarmente brillanti,
e alle sue spese fisse a carico dello Stato, per capire che nel periodo stimato per la durata delle operazioni
(fino al 2030-35) 2 miliardi saranno spesi indipendentemente dal procedere delle operazioni stesse.

Sotto la voce costi è computato anche il “parco tecnologico” annesso al Deposito nazionale, previsto
dalla legge vigente come centro di ricerca e, soprattutto, come “misura compensativa” per il territorio. È
un retaggio della strategia di rilancio del nucleare programmato dal governo Berlusconi.

Quel quadro ora non c’è più, e dunque natura ed entità delle misure compensative dovranno scaturire
dalla trattativa con la comunità che accetterà la localizzazione del deposito nazionale sul proprio territorio.

Riguardo al Rapporto Ambientale, riportiamo solo poche osservazioni. La sua caratteristica, negativa, è
l’assenza sistematica di scenari alternativi, sia a quelli del Programma Nazionale, a partire proprio dalla
scelta, figlia di decenni, di discussioni riguardo ad un deposito unico nazionale su metodi, tecnologie e
soluzioni già disponibili per la gestione dei rifiuti radioattivi. Ma allora non è una Vas, perché non mette a
confronto, come richiede la normativa vigente, tutte le diverse opzioni possibili. E non è condivisibile non
aver tenuto conto, con motivazioni inconsistenti, delle osservazioni provenienti dai vari soggetti
competenti (Sca) e in particolare dal Dipartimento Nucleare di Ispr, che all’epoca aveva la funzione di
Le tante e vistose carenze del Programma di gestione dei rifiuti radioattivi
Autorità Nazionale sulla sicurezza nucleare.

Particolarmente carente è la parte del Rapporto ambientale sulla protezione sanitaria. Contano gli effetti
di possibili inondazioni nei siti, mentre per quello che riguarda gli eventuali effetti radiologici, ci si rifà a
uno studio epidemiologico tranquillizzante condotto dall’Istituto Superiore di Sanità, piuttosto che
presentare le più recenti acquisizioni presenti nella letteratura. Il pensiero va all’indagine commissionata
dal competente ufficio del Governo tedesco all’Università di Magonza sulle aree di tutte le centrali nucleari
operanti in Germania nel periodo 1980-2003, che, tra gli altri risultati, mostrava per le leucemie infantili
una correlazione tra la distanza della casa dalla centrale nucleare più vicina al tempo della diagnosi e il
rischio di sviluppare una leucemia entro cinque anni dalla nascita.

L’insieme dei risultati dell’indagine, consegnato nel 2008, fu scioccante e fu senz’altro tra i motivi che
indussero il Governo tedesco a programmare, subito dopo l’incidente di Fukushima, l’uscita dal nucleare
entro il 2022. I due sistemi di centrali nucleari, quello tedesco e quello italiano, potranno essere
incomparabili ma vogliamo mettere in risalto il diverso atteggiamento dei due Paesi, la diversa attenzione
dei due Governi verso la salute dei cittadini.

In conclusione: come ha potuto il Governo assumere documenti così importanti alla presenza di tali vistose
carenze?

L’articolo è stato pubblicato sul n.1/2018 dellal rivista bimestrale QualEnergia con il titolo “Nucleare
carente”

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Francia, al posto della centrale più
vecchia si farà un parco fotovoltaico
30 Aprile 2018 | Gianni Mattioli e Massimo Scalia

“Chiudere Fessenheim senza farne un esempio dimostrativo della transizione energetica non avrebbe
senso”.

Con queste parole Sébastien Lecornu, sottosegretario al Ministère de la Transition écologique et solidaire
guidato da Nicolas Hulot, ha annunciato il progetto della più anziana tra le centrali nucleari francesi, che
dovrà essere spenta entro il 2019: sul sito troverà posto un parco fotovoltaico da 300 MW.

Come ha spiegato l’uomo del ministero della Transizione (le cui parole leggiamo riportate da Agence
France Presse), sarà lanciata un’asta che metterà a gara 200 MW per gli impianti a terra e 100 MW per
quelli su tetto.

La gara si svolgerà in diverse sessioni tra novembre 2018 e novembre 2019, sarà “aperta al
finanziamento partecipativo”, avrà come garante la Cassa depositi transalpina (Cdc) e ha già riscosso
l’interesse della stessa Edf, che possiede e gestisce la centrale nucleare da pensionare.

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Le tante e vistose carenze del Programma di gestione dei rifiuti radioattivi
Anche il Belgio vuole rinunciare al
nucleare dal 2025
30 Aprile 2018 | Gianni Mattioli e Massimo Scalia

Abbandono dell’atomo e incremento delle fonti rinnovabili, con particolare attenzione allo sviluppo dei
grandi parchi eolici offshore, senza dimenticare tecnologie più di nicchia, come il solare galleggiante: si
può riassumere così la strategia energetica appena proposta dal consiglio dei ministri del Belgio
(Stratégie énergétique fédérale, documento completo allegato in basso).

Il caso del Belgio è interessante a causa della sua dipendenza dal nucleare, con oltre il 51% dell’energia
elettrica assicurata dai sette reattori delle due centrali di Doel e Tihange, per una potenza
complessivamente installata di quasi 6 GW.

Solo Francia e Slovacchia, tra i 28 Stati membri Ue, hanno un mix elettrico ancora più centrato sul
nucleare.

La nuova strategia prevede di uscire dall’atomo entro il 2025; in sostanza, il governo federale guidato
da Charles Michel, pensa di non estendere più la vita utile degli impianti esistenti, entrati in funzione
tra il 1975 e il 1985 e destinati così a essere dismessi nel 2022-2025.

Il Belgio, nel 2013-2015, aveva temporaneamente chiuso alcuni reattori per eseguire dei controlli di
sicurezza sulla loro “tenuta” e consentire il prolungamento delle attività, nonostante le critiche dei gruppi
ambientalisti con i timori di possibili incidenti su impianti già molto vecchi.

La sfida, quindi, è garantire la continuità delle forniture energetiche senza quel 50% di nucleare,
puntando sulle tecnologie rinnovabili e sull’interconnessione con i sistemi elettrici dei paesi vicini, in modo
da creare una rete più aperta e flessibile.

Nel documento si parla soprattutto di eolico offshore, anche se mancano dei riferimenti precisi in termini
di capacità da installare nei prossimi anni.

L’uscita dal nucleare dovrà certamente imprimere un’accelerata alle risorse “verdi”, ricordando tra l’altro
che il Belgio è in ritardo sull’obiettivo Ue per le rinnovabili al 2020. Il paese, che dovrebbe arrivare al 13%
di energia green sul totale dei consumi finali, è fermo a poco meno del 9% secondo i dati Eurostat.

Intanto, il ministro dell’energia del governo delle Fiandre, Bart Tommelein, ha dichiarato che circa 6 milioni
di euro saranno destinati allo sviluppo di parchi fotovoltaici galleggianti (vedi QualEnergia.it per
maggiori approfondimenti su questa tecnologia a livello globale).

Secondo quanto riportato dal sito PV Magazine, i primi progetti-pilota saranno realizzati su piccoli laghi
artificiali, ma anche in questo caso, al momento, mancano dettagli sulle caratteristiche tecniche dei futuri
impianti.

Il seguente documento è riservato agli abbonati a QualEnergia.it PRO:

      La strategia energetica federale belga

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Le tante e vistose carenze del Programma di gestione dei rifiuti radioattivi
Scorie nucleari, a breve il decreto sul
deposito. Regioni e cittadini pronti alla
mobilitazione
30 Aprile 2018 | Gianni Mattioli e Massimo Scalia

Ne vedremo a breve di tutti i colori con la “polpetta avvelenata” della potenziale collocazione del deposito
per le scorie nucleari che il Ministro Carlo Calenda lascerà in eredità al nuovo governo.

Infatti sembra imminente, forse in uscita la prossima settimana, il decreto sulla Carta Nazionale delle
Aree Potenzialmente Idonee a ospitare il Deposito Nazionale e Parco Tecnologico (CNAPI). Il ministro
del MiSE parla soprattutto di una ormai urgente decisione tecnica, ma di fatto la questione è soprattutto di
natura politica, tanto da sollevare dure critiche, peraltro bipartisan.

“La pubblicazione della mappa dei siti adatti per deposito non è atto discrezionale del Governo, ma
termine di un lungo processo tecnico. C’è stato un enorme ritardo che mette a rischio accordi con paesi
che tengono materiale. Pubblicarla è atto dovuto di responsabilità e di trasparenza”, ha detto il ministro
nei giorni scorsi.

Il Deposito Nazionale – spiega oggi il MiSE in una nota – è un’infrastruttura ambientale di superficie dove
saranno conferiti i rifiuti radioattivi prodotti in Italia, generati dall’esercizio e dallo smantellamento delle
centrali e degli impianti nucleari, dalle attività di medicina nucleare, industriali e di ricerca.

Servirà per lo smaltimento a titolo definitivo dei rifiuti radioattivi a bassa e media attività e per lo
stoccaggio temporaneo, a titolo provvisorio di lunga durata, dei rifiuti radioattivi ad alta attività.

Insieme al Deposito Nazionale sorgerà un Parco Tecnologico, nel quale saranno avviate attività di ricerca
specializzata, ha spiegato il MiSE in una nota.

La disciplina europea- si legge nel comunicato del MiSE – richiede che ciascun Paese si dia una strategia
per gestire in sicurezza i rifiuti radioattivi. La Direttiva 2011/70/EURATOM prevede che la sistemazione
definitiva dei rifiuti radioattivi avvenga nello Stato membro in cui sono stati generati. La maggior parte dei
Paesi europei si è dotata o si sta dotando di depositi per mettere in sicurezza i propri rifiuti a bassa e
media attività.

Per consentire all’opinione pubblica di avere un quadro più chiaro sulla gestione dei rifiuti radioattivi in
Italia e per assicurare l’effettiva partecipazione da parte del pubblico ai processi decisionali in materia-
prosegue ancora la nota- è stato sottoposto alla procedura di VAS (Valutazione Ambientale Strategica) il
Programma Nazionale per la gestione dei rifiuti radioattivi e del combustibile nucleare esaurito
provenienti da attività civili.

Su tale Programma si è tenuta la consultazione pubblica e transfrontaliera. All’esito della fase di VAS, il
Ministro dello sviluppo economico e il Ministro dell’ambiente dovranno proporre il Programma nazionale
per l’approvazione al Presidente del Consiglio dei Ministri, sentiti il Ministro della salute, la Conferenza
unificata e l’Ispettorato Nazionale per la Sicurezza Nucleare e la Radioprotezione.

Ricordiamo che il Programma Nazionale non riguarda in modo specifico la localizzazione del Deposito
Nazionale, il cui processo è definito, invece, da un’altra legge che prevede una apposita consultazione
pubblica sulla CNAPI. Il decreto legislativo 31/2010 e successive modifiche ha individuato, infatti, la
procedura per realizzare anche in Italia un sito di stoccaggio centralizzato dei rifiuti radioattivi.

La CNAPI è predisposta dalla Sogin, che, dopo la validazione da parte di Ispra, su nulla osta dei Ministeri,
avvierà la consultazione pubblica.

L’iter per la realizzazione del Deposito è presidiato di verifiche e requisiti molto stringenti e ha tutte le
garanzie per un’ampia partecipazione pubblica (vedi grafico), spiegano da via Molise.

Una volta realizzato il deposito potranno rientrare in Italia anche i rifiuti radioattivi derivanti dal
riprocessamento del combustibile nucleare all’estero, in base agli impegni assunti dal Governo italiano.

Alcune regioni, in predicato di ospitare sul loro territorio il deposito, già stanno protestando con forza e
minacciano di ribellarsi.

“Il governo non osi sfidare la volontà espressa dal popolo sardo democraticamente con il referendum”, ha
detto Ugo Cappellacci, deputato e coordinatore regionale di Forza Italia. Infatti il 97% dei votanti sardi ha
espresso la propria contrarietà alla realizzazione del deposito nella Regione Sardegna. Ancora però
nessuna dichiarazione ufficiale da parte del governatore Pigliaru.

Il governatore della Basilicata Marcello Pittella nei giorni scorsi aveva ribadito “l’assoluta indisponibilità
della terra lucana ad essere sito nazionale di deposito”, minacciando, come 15 anni fa, una seconda
Scanzano Jonico.

Molti esponenti di diversi partiti hanno considerato inaccettabile che un governo uscente e in carica solo
per il disbrigo degli affari correnti possa indicare per decreto le aree nelle quali dovrebbero essere
depositate le scorie.

Inoltre si critica il fatto che non si conosca ancora il programma per la gestione dei rifiuti nucleari
nazionali, sul quale l’Italia è in procedura di infrazione europea , ma si sta invece solo decidendo il sito
dove stoccarli in maniera definitiva.

Sulla scarsa trasparenza e livello di partecipazione pubblica, oltre che per l’insufficienza dei
contenuti dei documenti finora pubblicati dal Governo, si sono espressi in un recente articolo pubblicato su
QualEnergia, Massimo Scalia e Gianni Mattioli (Nucleare Italia, le criticità del Programma Nazionale per la
gestione dei rifiuti radioattivi), due riconosciuti esperti del settore.

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Fusione nucleare, perché se ne parla a
fronte delle tante incognite
30 Aprile 2018 | Gianni Mattioli e Massimo Scalia

Produrre energia potenzialmente illimitata, a zero emissioni di anidride carbonica, senza scorie radioattive,
competitiva con le altre fonti di generazione elettrica: chi azzarda una scommessa sulla fusione nucleare
pensa che questi risultati siano raggiungibili, anche se la ricerca scientifica è ancora allo stadio
sperimentale.

Qualche giorno fa due notizie che riguardano la fusione nucleare hanno avuto una certa risonanza sulla
stampa italiana ed estera.
La prima è che l’Enea sta per decidere in quale regione italiana ospitare il laboratorio che svilupperà il
progetto DTT (Divertor Tokamak Test), che a sua volta rientra nel programma ITER (International
Thermonuclear Experimental Reactor).

Intanto il Massachusetts Institute of Technology (MIT) – ecco la seconda notizia – in collaborazione con la
neonata società Commonwealth Fusion Systems, che ha attirato anche un investimento pari a 50 milioni di
euro da parte di Eni, lavorerà a un prototipo di reattore a fusione, chiamato SPARC, che potrebbe
essere operativo tra una quindicina d’anni.

Questo tipo di esperimenti ha qualche prospettiva realistica?

Le ricerche dell’Enea

“Il nostro obiettivo è dimostrare che la fusione nucleare può essere utilizzata per produrre energia
sostenibile a costi competitivi”, spiega a QualEnergia.it Aldo Pizzuto, responsabile del dipartimento
dell’Enea che si occupa di fusione e sicurezza nucleare.

Tuttavia, prima di arrivare al traguardo, rappresentato da una centrale elettrica a fusione di taglia
commerciale, c’è ancora moltissima strada davanti a noi e con tanti problemi tecnici disseminati lungo
il percorso, che sembrano veramente difficili da risolvere.

Il processo di fusione, in sintesi, prevede l’interazione di due nuclei di idrogeno, deuterio e trizio,
avvicinandoli così tanto da superare la loro repulsione elettrica. Questi nuclei, chiarisce Pizzuto, “vanno
scaldati a oltre cento milioni di gradi centigradi, portandoli così allo stato di plasma, in cui gli elettroni
si sono completamente separati dai rispettivi nuclei”.

Per contenere il plasma, prosegue il ricercatore, bisogna costruire delle “bottiglie magnetiche” con dei
materiali superconduttori, in grado di “tenere insieme” il plasma in sospensione, senza farlo entrare in
contatto con le pareti del cilindro (che altrimenti fonderebbero), controllando l’enorme potenza termica
che via via si sviluppa e amplifica al suo interno.

Ed è proprio questo lo scopo del progetto DTT: “Sarà un simulatore di un reattore”, spiega ancora
l’esperto dell’Enea, “quindi avrà tutte le caratteristiche funzionali di un reattore, ma non produrrà
energia elettrica”.

La scommessa della fusione avrà successo, secondo Pizzuto, se gli scienziati riusciranno a garantire un
guadagno energetico superiore ad almeno un fattore trenta. Come primo passo, il reattore ITER, “in fase
avanzata di costruzione a Cadarache in Francia, aggiunge Pizzuto, avrà un guadagno pari a dieci, con 50
MW di energia in ingresso e 500 MW di energia in uscita”.

In sostanza, i risultati di ITER e DTT serviranno a determinare la fattibilità tecnica e la sostenibilità
economica di un impianto commerciale.

Una delle tecniche impiegate per innescare la fusione è la radiofrequenza: semplificando molto, parliamo
di microonde che scaldano il plasma, interagendo con gli elettroni o gli ioni.

La sfida è molto complessa anche per accertare la competitività economica di un futuro reattore a
fusione nucleare, che dovrà avere un costo d’investimento “sostenibile” in confronto alle tecnologie
concorrenti di generazione elettrica.

Ecco perché una buona parte della ricerca si sta concentrando anche sui magneti superconduttori,
testando materiali in grado di generare dei campi magnetici molto potenti, ma a costi inferiori rispetto a
oggi.

I tempi? Il reattore dimostrativo, termina Pizzuto, è previsto per la metà di questo secolo, quindi
intorno al 2050. Nel frattempo, per realizzare il progetto DTT, l’investimento complessivo sarà nell’ordine
di 500 milioni di euro.
Tante, troppe incertezze

In un recente contributo sul Bulletin of the Atomic Scientists, un ex ricercatore del Princeton Plasma
Physics Lab, Daniel Jassby (vedi qui l’articolo completo) ha riassunto e illustrato i principali punti critici
della fusione, con un riferimento specifico al progetto ITER.

In particolare, scrive Jassby, il guadagno energetico “promesso” dal consorzio che sta sviluppando
l’impianto – output di 500 MW a fronte di 50 MW in ingresso – è fuorviante, perché questi 50 MW
riguardano solo la potenza termica iniettata nel plasma, mentre l’energia complessivamente spesa per
alimentare il reattore sarebbe molto più elevata, nell’ordine di circa 300 MW elettrici.

Poi è bene precisare, ancora una volta, che ITER non è stato progettato per utilizzare la potenza della
fusione per produrre energia elettrica. L’immenso calore, infatti, sarà catturato e disperso nell’atmosfera
grazie alle torri di raffreddamento.

Tra le incognite più evidenti, spiega a QualEnergia.it Alex Sorokin, ex progettista di centrali nucleari e ora
consulente energetico internazionale, c’è il tema dei costi.

“Non s’intravede la possibilità che la fusione possa diventare più economica delle fonti rinnovabili, che già
oggi, in molti casi, costano meno dei combustibili fossili e in futuro saranno ancora più competitive”.

Inoltre, “nessuno ha idea di come realizzare impianti a fusione a livello industriale e di quanto bisognerà
investire, in totale, per costruire anche un solo reattore di grandi dimensioni”.

Il punto, in definitiva, è che si rischia di spendere un fiume di denaro inseguendo il miraggio
dell’energia pulita potenzialmente inesauribile, che però guardando più da vicino rivela tanti dubbi e tante
incertezze sui risultati che si potranno effettivamente ottenere.

Lapidario il giudizio di Greenpeace Italia: parlare di fusione nucleare “è una perdita di tempo”, ha
commentato a QualEnergia.it il suo direttore esecutivo, Giuseppe Onufrio.

La strada vincente, riassume quindi Sorokin, è puntare sulle energie rinnovabili con sistemi di accumulo,
tecnologie collaudate e disponibili, a zero emissioni inquinanti, con costi in continua discesa e ottime
prospettive di crescita in tutto il mondo, evitando di disperdere miliardi di euro e senza dover aspettare
il 2050 o anche oltre.

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30 Aprile 2018 | Gianni Mattioli e Massimo Scalia

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A 7 anni da Fukushima: livelli medi di
radiazione anche oltre 100 volte il limite
30 Aprile 2018 | Gianni Mattioli e Massimo Scalia

Quando si dice che il nucleare è per sempre. Un’ulteriore conferma viene da un recentissimo rapporto di
Greenpeace Giappone (vedi in fondo all’all’articolo) a sette anni dal disastro nucleare di Fukushima,
avvenuto l’11 marzo 2011. Il documento fa il punto sulla radioattività presente in diverse aree colpite.

Dopo il tentativo di decontaminazione, ad esempio, in quattro delle sei case di Iitate, i livelli medi di
radiazione sono tre volte più alti rispetto all’obiettivo governativo a lungo termine. Alcune aree hanno
mostrato un aumento rispetto all’anno precedente, che potrebbe derivare dall’effetto
“ricontaminazione”.
In una casa di Tsushima, nella zona di esclusione Namie, si stima una dose di 7 mSv all’anno, mentre il
limite internazionale per l’esposizione pubblica in una situazione non accidentale è 1 mSv/anno.

Il lavoro di decontaminazione iniziato tra il 2011 e il 2012 non si sta dunque dimostrando efficace.

Altro esempio è in una scuola nella città di Namie. Qui l’ordine di evacuazione è stato revocato, la
decontaminazione non è riuscita a ridurre significativamente i rischi di radiazioni, con livelli in una foresta
vicina con un tasso medio di dose di oltre 10 mSv all’anno.

In una zona di Obori, il massivo livello di radiazioni misurato a 1m darebbe l’equivalente di 101 mSv
all’anno, ovvero 100 volte il limite massimo annuale raccomandato, supponendo che una persona
resti lì per un anno intero. Un pericolo per chi sta lavorando nella decontaminazione, vista la presenza
costante in quell’area.

Nel novembre scorso, l’Universal Periodic Review (UPR) dell’UNHRC (Alto Commissariato Rifugiati dell’ONU)
sul Giappone ha emesso quattro raccomandazioni sui problemi di Fukushima.

I governi degli Stati membri (Austria, Portogallo, Messico e Germania) hanno chiesto al Giappone di
rispettare i diritti umani degli sfollati di Fukushima e adottare misure forti per ridurre i rischi di
radiazioni per i cittadini, in particolare donne e bambini.

La Germania ha invitato il Giappone a tornare alle radiazioni massime ammissibili di 1 mSv all’anno,
mentre l’attuale politica governativa giapponese è di consentire esposizioni fino a 20 mSv all’anno. Se
questa raccomandazione dovesse essere adottata, il governo nipponico non potrebbe far rientrare la
popolazione nelle aree contaminate.

«Il governo giapponese deve smettere di costringere le persone a tornare a casa e deve proteggere i diritti
dei propri cittadini», ha dichiarato Kazue Suzuki, della campagna Energia di Greenpeace Giappone.

«È essenziale che il governo accetti pienamente e applichi immediatamente le raccomandazioni delle
Nazioni Unite. I risultati delle nostre indagini sulla contaminazione da radiazioni forniscono la prova che
esiste un rischio significativo per la salute e la sicurezza di un eventuale ritorno degli evacuati»,
conclude.

Report “Reflections in Fukushima: The Fukushima Daiichi Accident Seven Years On

Fonte: Ufficio stampa Greempeace Italia

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L’Autorità per l’energia Usa non fa più
“scavare” il carbone a Trump
30 Aprile 2018 | Gianni Mattioli e Massimo Scalia

L’Autorità federale per l’energia statunitense (Ferc) ha bocciato all’unanimità il piano di Donald Trump
per il salvataggio dell’industria del carbone e del nucleare.

È stato infatti respinta la porposta presentata dal ministro Usa dell’energia, Rick Perry, di riscrivere il
mercato elettrico nazionale con la concessione di sussidi, che avrebbero gravato sui contribuenti
americani, alle centrali elettriche come quelle a carbone o nucleari.

L’obiettivo governativo era di rendere il sistema elettrico più affidabile, ma la ragione più evidente era
di dare respiro a questi impianti non più economicamente convenienti. Insomma, alla faccia del libero
mercato professato dal presidente Trump.

La Federal Energy Regulatory Commission ieri, 8 gennaio, ha quindi emesso un ordinanza (pdf) che va
modificare l’avviso di settembre scorso del Dipartimento dell’Energia (Doe) in cui si uniformavano le
centrali a carbone e nucleari con quelle solari, eoliche e a fonti più pulite, proponendo di sostenere
economicamente quegli impianti che devono avere scorte di carburante sul sito per almeno 90
giorni. Nei fatti un provvedimento applicabile solo a quelle centrali alimentate a carbone e al nucleare.

Nella disposizione della Ferc si afferma che il Doe, che sappiamo ormai al servizio di Trump, non ha
fornito alcuna prova che il pensionamento delle centrali a carbone e nucleari rappresenti una reale
minaccia per l’affidabilità e la resilienza della rete elettrica, in pratica la motivazione utilizzata
proprio per giustificare tale modifica di approccio economico verso gli impianti energetici del paese.

Le tariffe a favore delle centrali a carbone e nucleari sarebbero, secondo la Ferc, “ingiuste e
irragionevoli”.

Una ricerca di Energy Innovation ha valutato che pagare gli impianti per avere per 90 giorni combustibile
presso il sito avrebbe comportato un costo per i contribuenti fino a circa 11 miliardi di dollari. Più
dell’80% dell’incremento dei costi in bolletta per i consumatori sarebbe andato per i sussidi al carbone,
praticamente a favore di 5 società.

Negli Stati Uniti tra il 2010 e il 2015 gli impianti a carbone hanno rappresentato il 52% di quelli chiusi. Il
crollo della generazione elettrica da carbone negli States negli ultimi anni è netto e irreversibile.

Nel grafico si vede come dalla metà del primo decennio del 2000 in poi (le cifre sono in mld di kWh) la
produzione da carbone sia calata. Sono al contempo cresciuti il gas, per via del boom dei giacimenti shale
gas, e le rinnovabili.

“L’annuncio della Ferc è un ritorno alla realtà dopo mesi di pressioni delle lobby miliardarie del carbone
e del nucleare per il salvataggio illegale dei loro impianti non più economici”, commenta in una nota Mary
Anne Hitt, direttore della campagna “oltre il carbone” di Sierra Club.

Su scala globale la domanda di carbone, secondo l’ultimo rapporto della IEA “Coal 2017” è diminuita
del 4,2% nel 2016 in confronto al 2014, segnando così il declino biennale più consistente dopo quello
registrato nel 90’-92’ dall’agenzia internazionale dell’energia. Tuttavia in alcuni paesi come Cina,
Germania e India, questo trend è ancora da intraprendere con forza.

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I pericoli del vecchio nucleare nel cuore
dell’Europa
30 Aprile 2018 | Gianni Mattioli e Massimo Scalia

In una delle aree più densamente popolate dell’Europa, c’è un problema di sicurezza nucleare che si
aggrava anno dopo anno.

Infatti il 4 gennaio si è deciso che resterà spento “per un periodo indefinito” uno dei sette reattori del
Belgio, il Doel 3, dopo che l’Agenzia federale belga per il controllo del nucleare (Afcn) ha confermato che
la capsula in cemento armato dell’impianto non è più a norma, non avendo ricevuto gli interventi di
manutenzione necessari.

A informare della criticità l’Afcn – come spiega l’Agenzia stessa in una nota – è stata la società che
gestisce la struttura, l’Electrabel, del gruppo Engie.

Quest’ultima sul proprio sito web ha scritto che il reattore Doel 3 non entrerà in funzione prima del 15
aprile prossimo, ma per l’Agenzia belga non è ancora possibile indicare delle date precise: “Abbiamo
constatato che il gestore non ha condotto i sufficienti controlli sullo stato del cemento armato
della capsula, né realizzato gli interventi che ne conseguono”, ha spiegato il portavoce dell’Afcn.

A risultare logorato è appunto il cemento armato, che mostra crepe e porzioni di superficie venute via. Il
problema è causato dal vapore sprigionato intorno alla capsula. Sono interessate le parti non nucleari,
ossia dove trovano posto le apparecchiature del sistema di sicurezza, tra cui pompe e generatori, un
doppio sistema necessario a innescare il meccanismo di sicurezza. Per questa ragione, evidenziano ancora
i media locali, è importante che le componenti siano in buono stato e in grado di funzionare correttamente
in caso di necessità.

Il Doel 3, entrato in funzione nel 1982, è uno dei quattro reattori (per un totale di 2.910 MW) situati
nell’omonima regione settentrionale, vicino alla periferia di Anversa, a cui si aggiungono i tre di Tihange, a
est.

Il Belgio produce il 60% della propria elettricità con il nucleare, con 5,7 GW di potenza, suddivisa fra i 4
reattori della centrale di Doel e i tre di quella di Tihange, dove vivono nel raggio di 70 km circa 9 milioni di
persone.

QualEnergia.it si era occupata dello stato di degrado delle centrali atomiche belghe già nel febbraio del
2016. Da tempo nel paese si parla del cattivo stato di Doel 3 e della obsolescenza delle altre centrali,
alcune vecchie di 42 anni.

A settembre scorso il Doel 3 era stato momentaneamente spento per realizzare degli interventi di
manutenzione programmati, durante i quali i tecnici hanno osservato che il logoramento della struttura
era più avanzato di quanto gli standard di sicurezza consentirebbero.

Tanto per far capire la gravità della questione, le autorità della città tedesca di Aachen (Acquisgrana),
vicino al confine, da settembre hanno distribuito per due mesi pillole con iodio a tutta la popolazione
dell’area proteggere la ghiandola tiroidea dagli effetti causati dalle radiazioni. Lo stesso è stato fatto in
Olanda.

Il giornalista Giovanni Masini, in un suo articolo, spiega che queste crepe continuano a sorgere attraverso
le pareti dei contenitori, si espandono e sono sempre più profonde.
Nelle recenti ispezioni sono stati trovati 13.047 vuoti nella centrale nucleare di Doel e 3.149 nella centrale
nucleare di Tihange. L’esame ha rivelato che il loro numero è doppio rispetto a quello registrato
due anni fa. Le fessure più grandi fortunatamente corrono parallele al muro e non affondano
perpendicolarmente.

Il problema è discusso ovviamente dalla politica. Alcuni chiedono un rinnovamento delle infrastrutture, altri
di uscire completamente dal nucleare entro il 2025. Il 18 giugno 2015 il Parlamento belga aveva votato
una legge per prorogare, “per mancanza di alternative”, il funzionamento dei reattori 1 e 2 (ben più vecchi
di Doel 3 e in funzione dal 1974-75) di 10 anni, estendendone la vita rispettivamente fino al 2024 e al
2025, anche se dovevano essere chiusi proprio nel 2015.

Sempre sulla potenziale pericolo dell’atomo in Belgio e in Europa, va segnalato che a ottobre Greenpeace
International aveva anche messo in guardia contro il rischio di attacchi esterni agli impianti nucleari
del Belgio, ma anche della Francia, visto il basso livello di protezione.

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A Londra sempre più energia “verde” con
le incognite di gas e nucleare
30 Aprile 2018 | Gianni Mattioli e Massimo Scalia

Il 2017 sarà ricordato come un anno “green” per il mix elettrico della Gran Bretagna. Le fonti rinnovabili,
nel complesso, hanno generato il triplo dell’energia rispetto al carbone (i dati sono aggiornati a fine
novembre-inizio dicembre).

Per 315 giorni in totale, le tecnologie pulite hanno battuto il combustibile fossile: i parchi eolici hanno
prodotto più elettricità del carbone in 263 giorni, mentre gli impianti fotovoltaici hanno sopravanzato la
fonte “sporca” per antonomasia in 180 giorni.

Lo schema sotto, elaborato da MyGridGB e BM Reports, riassume l’output energetico inglese dei dodici
mesi precedenti, dove eolico, solare, biomasse e idroelettrico hanno rappresentato il 21% circa del mix
elettrico.
Il carbone, al contrario, è precipitato ai minimi storici, soprattutto in primavera-estate, quando il contributo
del fotovoltaico ha toccato i livelli più alti, come evidenzia il prossimo grafico sulla generazione elettrica
mensile in Gran Bretagna.

Il crollo del carbone si deve essenzialmente alle scelte politiche: Londra, da un lato, ha deciso di
abbandonare questa risorsa fossile entro il 2025, chiudendo tutte le centrali ancora in attività, dall’altro
ha imposto un prezzo minimo (floor-price) su ogni tonnellata di CO2 emessa dal settore termoelettrico,
da aggiungere al prezzo del carbonio sul mercato europeo ETS (Emissions Trading Scheme).

Ecco perché in Inghilterra le rinnovabili e il gas hanno guadagnato rapidamente terreno, mentre in
Germania, nonostante la forte crescita dell’eolico e del solare, il carbone continua a essere la fonte
energetica dominante, grazie anche al costo irrisorio della CO2 sulla piattaforma ETS (La contestabile
leadership green della Germania che brucia troppo carbone).

In Gran Bretagna, in definitiva, il gas ha sostituito il carbone, diventando la risorsa primaria per la
generazione “baseload” di elettricità.

Eolico e solare hanno costantemente aumentato la potenza installata: il fotovoltaico, quest’anno, dovrebbe
superare 1 GW di nuova capacità, con 902 MW già installati tra novembre 2016 e novembre 2017,
secondo le stime ufficiali del governo.

Intanto l’eolico offshore ha registrato valori incredibilmente bassi nelle ultime aste regolate dai “contratti
per differenza” (CFD, Contracts for Difference): parliamo di circa 63 €/MWh, molto meno del costo
dell’energia prodotta dalla futura centrale nucleare di Hinkley Point C (In Gran Bretagna anche l’eolico
offshore è più economico del nucleare).

Il prossimo grafico, sempre elaborato da MyGridGB, chiarisce l’evoluzione del mix delle fonti negli ultimi
anni, con la sostituzione carbone/gas, il boom delle rinnovabili e il leggero incremento del nucleare.

D’altronde, già nel 2016 l’eolico era riuscito a produrre più elettricità del carbone, segnando una svolta
storica per il sistema elettrico inglese (vedi QualEnergia.it).

Per capire quanto vale la possibile leadership verde della Gran Bretagna, bisogna richiamare alcune
contraddizioni e incognite che pesano sul futuro dell’energia in questo paese.

L’attuale dipendenza dal gas, infatti, espone Londra ai rischi tipici di questo combustibile fossile, legati
essenzialmente alla sicurezza delle forniture e alla volatilità dei prezzi.

Per puntare sempre di più sulle fonti rinnovabili, Londra dovrà “scommettere” sui dispositivi di accumulo
per la rete (articolo di QualEnergia.it sulle potenzialità dello storage vs gas in California), da abbinare alle
piccole centrali OCGT per coprire i picchi di domanda che gli impianti eolici e solari non sono in grado di
gestire.

Questa ricetta sta interessando anche Drax, il colosso energetico inglese che intende completare la
riconversione della super-centrale a carbone dello Yorkshire, iniziata con le biomasse, indirizzandola
verso il gas e le batterie di accumulo (Drax, il “mostro” inglese del carbone che pensa anche a gas e
storage).

La domanda è se Londra riuscirà a ridurre gradualmente il peso del gas e del nucleare, incrementando la
quota delle rinnovabili con storage.

Certo non aiuta la contestata decisione di costruire i nuovi reattori di Hinkley Point C, un progetto
costosissimo che il governo di Theresa May aveva autorizzato in via definitiva lo scorso anno (vedi
QualEnergia.it).
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Verso la bocciatura del programma
nazionale per la gestione nucleare:
“troppo generico”
30 Aprile 2018 | Gianni Mattioli e Massimo Scalia

Secondo alcune comunicazioni ancora in fase di predisposizione ma citate da fonti riservate si ritiene che il
programma nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi sia stato bocciato.

In particolare lo ha segnalato il deputato sardo di Unidos Mauro Pili che ha fatto trapelare che la
Commissione nazionale per la valutazione d’impatto ambientale avrebbe respinto a maggioranza il
Programma nazionale in quanto generico, privo di indicazioni puntuali e, soprattutto, incapace di
indicare il sito dove si sarebbe dovuto realizzare il deposito unico delle scorie nucleari.

Per il deputato questo “no” sul deposito unico nucleare è importante per la Sardegna che “aveva fatto
sentire in modo deciso e chiaro il proprio contrasto proprio nella procedura di scelta del deposito unico
nazionale”.

Come avevamo ricordato anche pochi giorni con un comunicato della Commissione scientifica sul
Decommissioning l’esame della valutazione strategica non avrebbe lasciato scampo al provvedimento
predisposto dai ministeri dell’Ambiente e dello Sviluppo economico

“Il governo – secondo il deputato sardo – aveva cercato di aggirare l’ostacolo della valutazione
strategica con un piano privo di indicazioni precise, cercando di passare direttamente alla valutazione di
impatto ambientale ma ha fatto male i calcoli proprio perché non si può fare una valutazione strategica
generica, sostiene la Commissione, su un tema così delicato”.

Dunque una bocciatura tecnica, ma soprattutto politica.

Il deputato sardo di Unidos Mauro Pili ha promosso un’imponente mobilitazione della Sardegna chiedendo
anche al governo di cancellare definitivamente il piano per evitare nuovi clamorosi fallimenti tecnici e
politici.

“I tentativi anche di queste ore attraverso la legge di Bilancio di affidare a Sogin l’individuazione del
sito significa aver perso ogni ragionevole buon senso- dice Pili- Il piano è stato bocciato alla radice e va
dunque accantonato e perseguita una strategia completamente diversa, sia sul piano della ricerca che
della individuazione di un modello di deposito articolato nelle stesse aree dove sono già attive le condizioni
di sicurezza delle vecchie centrali nucleari”.

Secono Pili il piano era “subdolo” visto che non indicava mai il nome del sito del deposito, ma che nei
contenuti puntava esplicitamente alla Sardegna.

L’avvio della consultazione pubblica per la valutazione strategica (Vas) “era solo apparentemente rivolta al
metodo ma in realtà era tutta incentrata sul documento dell’Ispra denominato guida tecnica n.29- segnala
Pili- Una guida tecnica che portava dritti dritti alla Sardegna”, ha detto Pili.
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Il problema Sogin: sia del tutto
ristrutturata e non poltrona per politici in
declino
30 Aprile 2018 | Gianni Mattioli e Massimo Scalia

Ci sono tante, troppe cose che non vanno nell’attività (?) Sogin.

Si sono accavallate incapacità di programmazione e pessime gestioni, appetiti politici, interessi di
lobby grandi, medie e minuscole, velleità varie sui finanziamenti per lo smantellamento degli impianti.

Tra queste velleità va segnalata quella del ritorno al nucleare che, incredibilmente, non si è mai spenta.
Peggio dei militari giapponesi, che da una qualche isoletta del Pacifico si arrendevano ancora venticinque
dopo la fine della guerra. Già, ma dal referendum del 1987 sono passati più di cinque lustri e c’è stato un
altro referendum per chi non avesse capito. E arrendetevi!

In questi giorni stanno girando insistenti rumors di commissariamento della Sogin. L’intervento su
questa società è ormai ineludibile, ma deve essere una ristrutturazione completa e di alto livello. Chi
pensasse che possa essere un mezzo per creare una poltroncina per qualche politico, trombato o
“trombaturus”, sarebbe un irresponsabile. Un cretino irresponsabile.

La vicenda EUREX di Saluggia

EUREX è l’impianto nel quale, da oltre 40 anni, sono allocati dei serbatoi ormai vetusti che contengono
più di 200 litri di rifiuti liquidi radioattivi residuati dal ritrattamento del combustibile nucleare. Nel
2000 il Dipartimento nucleare dell’ANPA impose di solidificare quei rifiuti entro il termine improrogabile
del 31 dicembre 2005.

Nel 2003 gli impianti passarono alla Sogin e il generale Jean, commissario pro tempore, decise da bravo
generale di cambiare il progetto ENEA, basato sulla tecnologia della vetrificazione, a favore, invece, di
una più semplice cementazione dei liquidi in modo da accelerare i tempi: il progetto CEMEX.

La Sogin ha impiegato ben 10 anni per portare a gara il progetto, mentre tra i due gruppi pubblici,
Ansaldo Nucleare (Finmeccanica) e SAIPEM (gruppo ENI), si svolgeva uno scontro a colpi bassi.

E quando la SAIPEM vince la gara, lo scontro si sposta al contenzioso continuo tra appaltatore e
committente e all’interno della stessa Sogin fino alla paralisi totale dell’operatività.

Oggi, dopo che nel luglio scorso il nuovo CdA Sogin ha rescisso unilateralmente il contratto, siamo alla
carta bollata tra Sogin e SAIPEM.

Sullo sfondo un’umiliante e grave realtà: di fatto siamo tornati indietro di 20 anni nella gestione di quella
che è la situazione più critica dei rifiuti radioattivi in Italia. E ne va della salute e della sicurezza dei
cittadini.

Sì, “Industria 4.0”! È l’italietta delle faide tra corporazioni medievali, e se il Ministro Calenda, così
impegnato sul futuro, si voltasse a dare un’occhiata a questo pregresso non farebbe un’oncia di danno.
Comunicato della Presidenza della Commissione scientifica sul Decommissioning

Il presidente della Commissione è Giorgio Parisi, premio Max Planck della Fisica teorica. Nella presidenza
anche Massimo Scalia, fisico e storico leader ambientalista.

Sul Programma Nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi e il conseguente
Rapporto Ambientale

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Nucleare Italia, le criticità del Programma
Nazionale per la gestione dei rifiuti
radioattivi
30 Aprile 2018 | Gianni Mattioli e Massimo Scalia

                                          L’articolo è stato pubblicato sul n.4/2017 della rivista QualEnergia

Il Ministero dell’Economia e il Ministero dell’Ambiente propongono, al “giudizio” dei cittadini, il
Programma Nazionale per la gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi e il
conseguente Rapporto Ambientale.

Ci pare che, per la rilevanza dei problemi da affrontare, sarebbe stato preferibile garantire alla
consultazione la forma dell’inchiesta pubblica, con tanto di squilli di tromba, piuttosto che la pubblicazione
dei documenti quasi clandestina in piena estate.

Subito colpisce, nella lettura dei testi, la frequente ripetizione dei medesimi concetti in parti diverse che
suggerisce la mancanza di un coordinamento su tutta la materia.

Suggerisce anche che questo lavoro sia un diligente collage di contributi dovuti, senza una consapevolezza
unitaria dell’importanza dei temi trattati.

Un esempio per tutti si può individuare su come viene affrontata la questione del Deposito Nazionale
dei rifiuti radioattivi, la cui localizzazione – il tema si perde ormai nel tempo – sembra un problema
burocratico, piuttosto che uno scottante problema di consenso informato.

Due questioni appaiono subito trattate in modo insufficiente. La prima, riguarda il Programma di ricerca
da sviluppare nel quadro del Programma Comune Europeo e, la seconda, la soluzione da dare alla
questione dei rifiuti ad alta attività, una volta scartato perché antieconomico l’insediamento di tipo
geologico.

Non partecipare al Programma di ricerca sarebbe una scelta profondamente sbagliata da parte del
Governo Italiano: danneggerebbe la comunità scientifica italiana, che sarebbe esclusa dai futuri progetti;
danneggerebbe la Sogin, che non potrà partecipare direttamente alla produzione delle nuove tecnologie –
e ne ha tanto bisogno! – insieme con le altre waste management organization europee e, soprattutto,
danneggerebbe il Paese.

Imprecisata resta poi la descrizione del Quadro organizzativo con l’indicazione delle Responsabilità per
l’attuazione del Programma (paragrafo 6.1, 8 righe) – manca addirittura un riferimento alla Sogin, che è il
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