LE COLLANE DI CASTAGNE DELLA STREGA BIANCA - PRIMO POSTO NEL CONCORSO "IL PREMIO LETTERARIO" SEZIONE RACCONTI - Castagne Streghe e dintorni

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LE COLLANE DI CASTAGNE DELLA STREGA BIANCA - PRIMO POSTO NEL CONCORSO "IL PREMIO LETTERARIO" SEZIONE RACCONTI - Castagne Streghe e dintorni
PRIMO POSTO
NEL CONCORSO
“IL PREMIO LETTERARIO”
SEZIONE RACCONTI
LE COLLANE DI
CASTAGNE DELLA
STREGA BIANCA
 DI SARA BIFFI

Nelle prime giornate d'autunno il sole cola lentamente a picco dietro i
profili delle montagne e poco prima di lasciare che il buio della notte
prenda il suo posto e traghetti dolcemente la terra nel sonno, filtra
attraverso il fogliame arancione e macchia il terreno disegnando
arabeschi incantati. È lì, nel mezzo del bosco tra quelle greche rossastre,
che si trova un vecchio castagno. Il tronco massiccio scavato dalle
intemperie, i rami possenti e la cima piegata dal peso degli anni, ricurvo e
silenzioso l'albero osserva da secoli il mondo: lascia che i viandanti
incidano su di lui il segno del loro passaggio, custodisce le cicatrici dei
cuori infranti che sulla sua corteccia si giurarono un tempo eterno amore,
raccoglie i pensieri e le speranze di chi si assopì ai suoi piedi. Nel corso
degli anni alla sua linfa si sono mescolati i desideri e le suppliche di chi
sotto i suoi rami trovò conforto e piano piano il castagno cominciò a dare
dei frutti fatati. Il vento che passando tra le fronde attento ascoltava ogni
sussurro della natura, venne presto a conoscenza del prodigio, discese il
pendio della collina, attraversò le piccole stradine intricate dei paesini e
bussò alla porta di Amelia la strega Bianca. Non appena la giovane aprì,
il vento invase la piccola dimora, portando con sé le foglie ed il profumo
dell'autunno, turbinò felice intorno alla fanciulla, scompigliandole i lunghi
capelli castani e facendo fluttuare nella stanza ampolle e libri. La strega
ridacchiando chiese al vento -"Signor vento a cosa dobbiamo questa
festosa danza?"- Egli si fermò, gli oggetti sospesi nell'aria ricaddero al
suolo e gentile porse ad Amelia una piccola castagna dalle venature
dorate, che iniziò a raccontare il sogno di cui nel tempo era diventata la
custode. Il vento sospinse la esile strega oltre l'uscio e tirandole i lembi
della gonna la accompagnò sotto il castagno magico. Ai piedi dell'albero
vi era uno spinoso tappeto di ricci, tra quegli aculei luccicavano le
castagne d'oro, Amelia le raccolse una ad una e di tutte ascoltò la storia.
Alcune raccontavano sogni d'amore, altre di gloria e successo, alcune
celavano lacrime e altre speranze. La strega appoggiò dolcemente il viso
contro il tronco del castagno e sottovoce chiese -"Caro castagno cosa
posso farne di tutti questi sogni"- l'albero bisbigliò -"Aiutami a far sì che si
realizzino"-. Amelia tornò nella sua piccola casetta, con le tasche e il
risvolto della gonna così colmo di castagne, che nemmeno il vento, per
quanto soffiasse forte, riusciva più a sollevare il suo leggero corpicino.
Trascorse la sera cercando su libri impolverati, mescolando erbe,
pronunciando formule magiche e creando pozioni, ma da buona
pasticciona, i risultati erano solo piccole esplosioni che facevano annerire
il suo viso candido e le pareti del suo laboratorio magico. Esausta e
sconsolatala per gli scarsi risultati dei suoi esperimenti, credendo che
non sarebbe mai riuscita ad esaudire la richiesta del castagno, Amelia
scoppiò in lacrime. Le sembrava di aver perso ogni sua capacità,
pensava che forse anche la magia, da lei tanto amata, non fosse la sua
vocazione. Mentre i suoi grandi occhi verdi si annacquavano,
avvicinandosi alla candela che illuminava il davanzale della finestra, la
ragazza volse lo sguardo verso le montagne circostanti e in quell’insieme
di forme che il buio mescolava, rendendone i confini indistinti, vide la
Notte seduta sulla cima di un colle. Il suo manto luccicante ricopriva il
mondo, tra le sue mani affusolate vi erano matasse di memorie ed
emozioni, che lei sgrovigliava per tessere i sogni degli umani
addormentati. La strega sobbalzò di felicità, si stropicciò gli occhi,
asciugò il pianto, e salutata la bella signora oscura le chiese consiglio -
"Cara Notte, tu sei la sola in grado di rendere, per il tempo del sonno, i
sogni e le speranze reali, insegnami ti prego come posso fare lo stesso"-
La Notte con il suo sorriso dolce le rispose -"Fanciulla è molto semplice,
devi fare come i ragni che con le piccole zampe collegano i loro
fragilissimi fili l’uno all’altro, fino a creare quei meravigliosi disegni che gli
umani chiamano ragnatele e che spesso, aimè, tendono a distruggere"-. -
"Vedi"- proseguì -"Io scelgo i fili con cui comporre l'intreccio dei sogni dal
gomitolo leggero dei pensieri, da quello consumato dei ricordi e a volte
anche dalla matassa ingarbugliata delle paure e delle insicurezze. Una
volta concluso il primo arazzo lo adagio sulla terra e ne inizio uno nuovo
e procedo così sino all'alba"-. Amelia, con nella mente le parole della
Notte, ascoltò nuovamente i desideri di cui le castagne erano diventate
custodi ed iniziò a legare l’una all’altra quelle che insieme sembravano
produrre una storia, come le note che sullo spartito affiancate
compongono una melodia, o come le parole che sul foglio narrano una
fiaba. Il giorno seguente Amelia appese le collane di castagne ai rami del
vecchio albero e chiese al vento di farle oscillare, in modo da portare la
magia di casa in casa. Fu così che i desideri inanellati gli uni con gli altri
presero a realizzarsi: chi bramava la felicità la trovò in chi sognava
l'amore, chi voleva compiere un'impresa si imbatté in chi cercava aiuto e
conforto. Ogni autunno da allora, sui rami del vecchio albero magico nel
mezzo del bosco, compaiono le trecce di castagne dorate che nei paesini
si narra siano opera della Strega Bianca.
SECONDO POSTO NEL
CONCORSO “IL PREMIO
LETTERARIO”
SEZIONE RACCONTI

 SIAMO LE EREDI
 DELLE STREGHE
 CHE NON SONO
 RIUSCITI A
 BRUCIARE
 DI STEFANIA PEDRAZZANI

 “Siamo le eredi delle streghe che non sono riusciti a bruciare”.
Sottinteso: non dirlo a nessuno. Questo sua madre glielo sussurrava
dacché era piccina, specie da quando aveva scoperto quelle strane
sensazioni. Il suo “sentire i terremoti”, quella sua curiosità per le erbe, il
sentirsi un tutt’uno con la natura delle sue montagne, spesso alla ricerca
di un posto solingo, ove ritirarsi a meditare. Danzava nell’erba, Caterina,
quando neanche stava in piedi, e sembrava già conoscere i poteri
curativi e le proprietà medicali dei fiori, così prodighi di colori e di profumi
che esplodevano di vita sui monti intelvesi. Aveva tre anni, Caterina,
quando il Friuli aveva tremato. Lei, così piccola, aveva urlato “Cade tutto!
Ho paura!” Sette anni, l’Irpinia, stessa storia: centinaia di chilometri e la
certezza che quella pelle d’oca non fosse casuale. Sua madre si era
dapprima stupita, poi spaventata, poi, riflettendo, aveva capito. “Sentiva”.
E quel “suo sentire” era un’eredità impronunciabile, una di quelle doti
scomode ed inconfessabili, manco fosse un peccato, indelebile, inciso in
un frammento di DNA, ereditato da quell’antenata nota in paese per
essere stata una “medichessa”, “una di quelle…”. Nei ricordi di famiglia, il
suo nome era stato bandito, raramente sussurrato: “Saliva al Pian di
Strii”, un altopiano sopra Schignano ove, si mormorava, si tenessero
incontri segreti, di notte, sede di antichi incomprensibili rituali. Dove si
radunavano le streghe. Non si poteva né dire, né tantomeno pensare.
Figuriamoci ricordare! Quella scandalosa Caterina, che aveva dato vita
solo a figlie femmine -una disgrazia, nell’Ottocento! - era un fardello
genealogico da non tramandare ai posteri, sebbene fosse stata anche
l’eroina protagonista di una leggenda, una di quelle storie di fantasmi che
i più anziani narravano ai bimbi, prima di lasciarli accoccolare fra le
braccia di Morfeo. Caterina non si era lasciata intimorire dai moniti
materni: affascinata da quell’iconica figura di donna, così forte e
controcorrente, decise di scoprire chi fosse e perché fosse stata relegata
all’oblio familiare. Crescendo, aveva intuito la propria diversità ed aveva
cercato di trasformarla in punto di forza: dall’iniziale stupore di saper
percepire le emozioni dei compagni di giochi, era giunta alla
consapevolezza di essere depositaria di un dono, fiera ed onorata. Il
passo fu breve dall’intuire, dalle mezze frasi materne, dagli sguardi
impietosi delle prozie, di aver qualcosa in comune con quell’antica
innominabile Caterina, ed era ben più del nome di battesimo: Caterina
riusciva a trovare gli oggetti smarriti, a riunire amori spezzati, a prevedere
i cambiamenti metereologici o i destini dei matrimoni. Di quel “sentire”
non poteva far parola con nessuno, ma voleva capire, capirsi. Certa che,
alle soglie del Duemila, sarebbe stato più redditizio avere il talento per
l’informatica! Un dono come il suo sarebbe stato da censurare, troppo
pericoloso e facilmente associabile ad una malsana follia: qualche secolo
prima, sarebbe finita arrostita su una pira! Per anni, alla luce fioca della
luna o della vecchia lanterna, incuriosita dal gusto del proibito, alla
ricerca di qualche ricordo, di un segno di quell’impronunciabile antenata,
Caterina aveva preso l’abitudine di scappare dalla finestra, non per
l’incontro con un inconfessato amore, - purtroppo, - bensì verso la
cascina di sasso, dove, avvolta dal profumo del fieno e dei tronchi di
castagno appena tagliati e lì riposti per riscaldare gli inverni, trovava
ristoro alle sue curiosità nei bauli e nei cimeli di famiglia. Una maschera
lignea, abilmente scolpita,
ancora intrisa di olezzi di vino e sudore, figlia di chissà quanti Carnevali. I
mutandoni e le lenzuola ricamate a mano, la “moniga e ‘sculdalecc”1,, il
ferro da stiro a carbonella. Ma, soprattutto, i diari, i quaderni, le fragili
pagine ingiallite vergate d’inchiostro dai suoi antenati. Storie di vita,

1 La  Moniga e ‘l Sculdalecc sono due attrezzi usati un tempo rispettivamente per
tenere sollevate le coperte, e per scaldare il letto, nei rigidi inverni intelvesi… prima
dell’invenzione dello scalda-sonno elettrico.
segreti celati, la nota della spesa, la semina. Un tassello dopo l’altro,
ricostruiva frammenti di storia di famiglia, l’indole e gli interessi di coloro
che l’avevano preceduta, o perlomeno dei pochi che avevano avuto il
privilegio di poter frequentare qualche precettore o la scuola. Lo zio
artista, che aveva lasciato quadri come fotografie, immortalando ad
acquerello monti e frazioni dell’antico Schignano. Il bisavolo intagliatore,
la trisnonna sarta… E poi, finalmente, un quadernetto nero, ed il suo
nome vergato ad inchiostro: Caterina Maria, dai nomi delle sue nonne.
“L’avrebbero scritturata per un talent, o sarebbe stata un personaggio per
i talk show della domenica”, aveva pensato Caterina-junior, frugando
incantata fra le sue memorie. Il suo diario, le sue storie e… Fantastico! I
segreti delle erbe! La leggenda dell’antenata-Strìa prendeva corpo,
scolpita nella memoria di sottilissimi fogli; quell’affascinante testamento le
svelava, registrati con precisione quasi maniacale, gli usi e le proprietà
fitoterapiche di fiori e foglie, che già “sentiva suoi” ogniqualvolta si
immergeva nei suoi boschi e si sdraiava nei prati, incurante di insetti e
spine, per assaporarne e viverne colori, odori, sapori. Un incanto per i
sensi, tutti e sei o sette. Lei li aveva tutti, e li nutriva così. Dopo anni di
ricerche, Caterina era riuscita ad aprire una falla nell’omertà familiare che
voleva relegare all’oblio quel gran fenomeno di “Caterina la Strìa”. E non
solo le erbe, ma anche le cure per le partorienti, le manovre per
accelerare i parti o lenirne gli dolori. “Ecco i segreti del Pian di Strii!” E
quella storia, scolpita nella memoria collettiva del paese? “Le Strìe, tanto
potenti da far scappare anche i soldati nemici!” Non era solo leggenda:
l’ottocentesca Caterina ne aveva registrati i dettagli, dalla pianificazione
al successo: un piano tanto folle, quanto incredibile. “Il Brenta2 l’avevano
ammazzato, ma nun, custi chì, i scascìgum via!”- scriveva, riferendosi
agli austriaci invasori che nel 1849 ancora fiaccavano la Val d’Intelvi ed il
Lombardo-Veneto. “Faremo cumè i fantasmi.” E così fu. Caterina, fu
mente e guida di un gruppo di donne che scese di corsa dai sentieri
montani verso il paese, con un lenzuolo bianco in testa. Pioniere delle
suffragette, folli streghe o talmente disperate da tentare il gesto estremo?
Non si sa, ma si narra che gli austriaci se la diedero a gambe alla vista
“dei fantasmi schignanesi”. Verità o leggenda? In paese c’è chi è pronto
a giurare che, dopo quell’episodio, gli invasori cominciarono a trattare
con riguardo la popolazione locale. Terrorizzati da quei fantasmi notturni!
Donne-streghe, all’occorrenza fantasiosi fantasmi… “Una storia da film!”
Rifletté Caterina, mentre indefessa, in quelle pagine scopriva donne
moderne, abili erboriste, attente strateghe. “Più furbe del diavolo? Di lui
forse no, ma di quattro pavidi

2 Andrea  Brenta fu un eroe della prima guerra di indipendenza italiana, guidò
l’insurrezione della Val d'Intelvi nella primavera 1848; tradito, e catturato fu fucilato
dagli austriaci davanti alla Basilica di San Carpoforo l’11 aprile 1849.
soldati austriaci, di sicuro!” Fiera di quell’incommensurabile eredità,
Caterina registrò tutto, riscrisse, studiò. Cercò nei racconti dei vecchi, nei
tomi ingialliti delle soffitte, nelle leggende locali. Lesse chilometri di
pagine, rimettendoci qualche diottria e centinaia di ore di sonno. Scoprì
che, sulle montagne lariane, c’erano centinaia di storie di streghe
nascoste nelle cascine, nelle stalle. Nelle case e nelle cose. Donne
sensitive, donne relegate dietro a focolari e costrette al silenzio, donne
tacciate nei secoli di essere pericolose, pronte a rischiare la pelle e a
scacciare il nemico senza imbracciare arma alcuna, se non un bianco
lenzuolo. Donne guardate di sottecchi, donne incomprese. Caterina capì:
era chiamata a testimoniare tutto questo. Cercò nomi, informazioni,
racconti e volle immortalare quelle preziose storie. In primis, per capire
sé stessa: aveva senso essere strega nel Duemila? Voleva dare un
nome ai suoi doni, e condividerli, alla bisogna. Si sentì pronta ad uscire
da quell’omertoso oblio, in nome di tante donne, streghe, sensitive,
medichesse che per secoli avevano messo talenti e conoscenze a
disposizione della comunità e, per questo, erano state maltrattate o
derise. Studiò storia, chimica, biologia, poi fisica. Caterina non era mai
sazia. Ne uscì un libro, colorato e bellissimo com’era la sua vita, per
divulgare quelle straordinarie conoscenze: tisane curative, le proprietà
fitoterapiche delle erbe e le incantevoli leggende nate attorno ad esse. Il
tarassaco, soffione per i fanciulli, con proprietà digestive e depurative. La
preziosa ricetta del “Fernet dei piccoli”, un intruglio a base
dell’amarissimo assenzio selvatico che ancora sbuca, timido, sui cigli
delle mulattiere intelvesi. E poi tiglio, camomilla, rabarbaro, sambuco:
ognuno serbava un segreto, un dono, che, come il suo, andava
condiviso. In tutte le cose della natura esiste qualcosa di meraviglioso.
“Alla faccia delle streghe, tacciate di danzare col diavolo: erano medici ed
infermiere, curatrici di corpi e di anime. Generose e timorate di Dio!”
pensò. Sorrise, rileggendo il consiglio ai viandanti dell’antica Caterina,
che suggeriva di mettere l’artemisia nelle calzature, per lenire le fatiche
dei lunghi viaggi o della raccomandazione ai contadini di bruciare una
foglia d’ulivo e gettarla nella tempesta, affinché questa non danneggiasse
le colture. Riscrisse, copiò, cercò di interpretare quell’antica arzigogolata
grafia, per custodire quelle antiche usanze e tramandarle alle future
generazioni. Scelse con cura termini e contenuti. E parlò anche dei suoi
doni, ereditati dall’amata Caterina Maria, immortalandone doti e gesta,
sempre al servizio del prossimo. Ma quel sentore per le onde magnetiche
dei terremoti, come i gatti, se lo tenne per sé. Un po’ inutile, in verità. In
prima pagina una sua foto, con un lenzuolo bianco in testa, dinanzi ad
una vecchia cascina diroccata. Ancora oggi, se vi capitasse di salire a
Schignano, dopo aver inanellato tornanti e curve in mezzo ai boschi,
chiedete di Caterina, “la Stria”. Vi indicheranno una locanda a mezza
montagna, verso il Pian di Strii, ove ancora si respira il profumo del fieno
in un luogo senza tempo, a due passi da un ruscello che stilla rara acqua
sorgiva, fresca ed incontaminata. Nessun miracolo, tanta cura. Lì
giungono spesso vip, santoni e gente comune. Famiglie alla ricerca di
pace, uomini stremati dallo stress. Tutti vi trovano ristoro: una minestra di
erbe, un impacco per gli acciacchi della schiena; un impacco di parole, o
di silenzi, ristoro per l’anima. Il sorriso di Caterina. Stria del Duemila.
MENZIONE D’ONORE NEL
CONCORSO “IL PREMIO
LETTERARIO”
SEZIONE RACCONTI

 I CAPELLI DELLE
 STREGHE
 DI FEDE SARTIRANA

Quando pensi a una strega, che sia quella di carnevale, dei fumetti o che
sia la Befana, la prima cosa che ti viene in mente dopo la scopa, il
cappello e il vestito stracciato, sono i suoi lineamenti: il naso adunco, gli
occhi grandi e i capelli arruffati.
Hai mai visto una strega con la frangetta a posto, con i boccoli con la
lacca o ben pettinata?
La strega ha i capelli sempre in aria, non solo perché vola, ma perché non
ne ha cura e perché sono una sua prerogativa averli così.
I capelli sono sempre stati visti, anche in epoche lontane, come qualcosa
legata alla magia, infatti le streghe prima di esser e bruciate vive venivano
rasa t e per eliminar e i loro poteri magici.
Forse in questa consuetudine un briciolo di verità c’è. Quanto fanno par te
di noi i capelli? Nessuno lo sa finché non li perde tutti. Quante storie
abbiamo sotto i capelli? Mille. Abbiamo il passato da bambine con le
treccine e il futuro con i capelli bianchi con la crocchia, come nelle foto
della bisnonna. Ma i capelli parlano e raccontano e, i miei, vogliono
raccontare.
Raccontano a tutti, anche a chi porta il cappello sopra i capelli e, non li
lascia parlare.
Quando ti dicono che sei ammalato, l'ultimo pensiero va alle cose
estetiche, ma quando una donna, forse più di un uomo, sente fra le mani
i capelli che cadono a mazzi, le casca il mondo addosso perché, affronta
re anche questa fase, è un dolore in più. Prende il coraggio a due mani e
li taglia tutti, ma ne tiene un ciuffo, perché così potrà sceglier e la
parrucca del suo colore.
Poi, ogni tre settimane la curano e, mentre è in ospedale abbandona
cuffie, parrucche e vive con la sua testa pelata il momento perché è con
persone come lei.
Poi un giorno le cure finiscono e, la vita riprende lentamente il ritmo di
tutti i giorni, ma i capelli non ci sono ancora e, a un certo punto si
arrende, perché coi foulard in testa tutti la fermano e fanno domande.
Così decide di mettere la parrucca e nessuno chiede più nulla, se non chi
lo sa.
Poi i capelli, come per miracolo, insieme alle ciglia e alle sopracciglia,
timidamente ricompaiono sotto forma di peluria, ma del colore che più gli
garba al momento.
A qualcuno crescono come prima, a qualcuno più scuri e, ai più, grigi o
neri ma ispidi proprio come quelli delle streghe e, forse per quello,
qualcuno azzarda un “Pettinati che sembri una strega”.
Pensando di farle un dispetto o una critica, e di invitarla a fare qualcosa
per non assomigliar e a una strega. Ma, guardando il simbolo della
strega di marmo della fontana della Piazza, sorride e pensa che la strega
è davvero una persona simpatica, e che lascerà ancora il pettine al suo
posto: che i ricci vadano dove vogliono andare.
Così la parrucca comincia a dare fastidio, sopra ai primi timidi capelli, e la
toglie. Affronta la folla che parla di “taglio tattico e di colore naturale” e
che le dice che ha fatto bene a tagliarli e a non tingerli “più” e lei
annuisce. Non ha voglia di raccontare.
E così, con la vita che ritorna timidamente, insieme ai ricci, ritornano i peli
ovunque anche sulle gambe, dove potevano farne a meno e, lentamente
ma molto lentamente, avrà una testa da leone e, dopo un anno, una vera
cresta o meglio una testa da strega se, come me, decide di non pettinarli.
Ora, le persone, cominciano a cambiar e domanda e le chiedono se ha
fatto la permanente e lei annuisce ancora, ma quel che nessuno sa è che
non li ha mai pettinati e che non ha intenzione di farlo, perché non li
sente come suoi o come veri capelli e che, mettere dentro a quel mondo
un pettine vorrebbe dire riconoscere il mondo “diverso” di cui ha fatto par
te che invece vuole solo dimenticare. Ora, io, non so ancora dimenticare
anche se guardo avanti.
Quando passo davanti a uno specchio non mi guardo, tanto non mi
trucco, non mi pettino e i denti li so lavare a memoria: un giorno deciderò
cosa fare dei miei ricci sale e pepe, ma non oggi.
Chi dice di tenerli così, non è tinto o è giovane o è vecchio, ma ha deciso
lui di avere i capelli bianchi, quel che non vogliono senti re è che non ho
deciso io di avere questa meravigliosa testa riccia argentata e che se
deciderò di tenerla, lo deciderò io.
Penso con orrore alle donne che ho conosciuto che hanno avuto, dopo
qualche anno, la recidiva della malattia e che mi hanno detto che li hanno
persi tutti, ben due o tre volte, i capelli.
La forza della vita sta nelle ciglia che si ripresentano sui nostri occhi
anche solo per farci piangere? Non ci posso nemmeno pensare! Penso a
me come a una strega e penso che i miei capelli hanno il diritto di
raccontare la loro storia per dare la speranza a chi sta vivendo un
momento come quello che ho passato io, per dire a tutte le donne che in
fondo siamo tutte un po’ streghe, che a tutte ricresceranno i capelli e che
tutte ritroveremo la scopa per volare incontro alla vita. Aggiungo un solo
augurio a quello di star sempre bene:
“Speriamo solo non ci cresca anche il naso adunco!”.
La strega Nocciola, quella di Pippo, quella che non crede a niente,
nemmeno alla verità che si può toccar e, anche lei crederebbe alla
possibilità che la vita si può riacciuffar e per i capelli anche quando
sembra sia scappata via, se solo si togliesse il cappello e si mettesse in
ascolto delle storie che hanno da raccontare i suoi capelli o, se leggesse
la mia, che forse sono un po’ strega visto che sono “ancora” qui a
raccontarla.
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