Gli adelphi 561 - Adelphi Edizioni

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gli adelphi
                                                        561

                     Di Lawrence Wright, uno dei più autorevoli
                     giornalisti investigativi del « New York­er », A-
                     delphi ha pubblicato anche La prigione della fe-
                     de (2015) e Gli anni del terrore (2017). Apparso
                     per la prima volta nel 2007, Le altissime torri ha
                     ottenuto il Premio Pulitzer per la saggistica.

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Lawrence Wright

              Le altissime torri
                  Come al-Qaeda giunse all’11 settembre

                  traduzione di giovanni ferrara degli uberti

                                        ADELPHI EDIZIONI

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titolo originale:
                                                 The Looming Tower
                                          Al-Qaeda and the Road to 9/11

                            Prima edizione in questa collana: gennaio 2019

                                          © 2006 lawrence wright
                 This translation published by arrangement with Alfred A. Knopf,
                 an imprint of The Knopf Doubleday Group, a division of Penguin
                                       Random House, LLC
                              © 2007 adelphi edizioni s.p.a. milano
                                                    www.adelphi.it

                                                 isbn 978-88-459-3331-8

             AnnoEdizione
             -----------------------------------------------------------------------------------------------------------
             2022 2021 2020 2019                                  1 2 3 4 5 6 7 8

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INDICE

            Prologo                                              15
            i.       Il martire                                  21
            ii.      Lo Sporting Club                            51
            iii.     Il fondatore                                83
            iv.      Cambiamento                                112
            v.       I miracoli                                 130
            vi.      La base                                    156
            vii. Il ritorno dell’eroe                           184
            viii. Paradiso                                      205
            ix.      La Silicon Valley                          220
            x.       Paradiso perduto                           233
            xi.      Il Principe delle Tenebre                  251
            xii. Le spie ragazzini                              264
            xiii. Hijra                                         276
            xiv. Passaggio all’azione                           291
            xv.      Pane e acqua                               301
            xvi. «Ci siamo»                                     321

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xvii. Il nuovo millennio                            350
            xviii. Bum!                                         366
            xix.        Il Grande Matrimonio                    405
            xx.         Rivelazioni                             439

            Personaggi principali                               453
            Note                                                465
            Bibliogra$a                                         531
            Interviste condotte dall’autore                     545
            Ringraziamenti e Nota sulle fonti                   553
            Indice analitico                                    563

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Alla mia famiglia
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LE ALTISSIME TORRI

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PROLOGO

              Il giorno di san Patrizio dell’anno 1996 Daniel Coleman,
           un agente dell’ufficio di New York del Federal Bureau of
           Investigation (FBI) che si occupava di casi di foreign intelli-
           gence, ovvero di raccolta di informazioni concernenti sog-
           getti stranieri, guidò fino a Tysons Corner, in Virginia, per
           assumere il suo nuovo incarico. I marciapiedi erano ancora
           sepolti sotto una coltre di neve grigiastra, residuo della tor-
           menta di qualche settimana prima. Coleman entrò in un
           grattacielo di uffici che non aveva niente di speciale chia-
           mato Gloucester Building, prese l’ascensore e salì al quinto
           piano. Qui c’era l’Alec Station.
              A differenza dalle altre sedi della CIA, dislocate nei diver-
           si paesi su cui vigilano, l’Alec era la prima stazione « virtua-
           le », e distava solo poche miglia dal quartier generale di
           Langley. In un diagramma dell’organizzazione era etichet-
           tata come « Legami tra finanza e terrorismo », una sottose-
           zione del Centro Antiterrorismo della CIA; ma in pratica
           era impegnata a ricostruire le attività di un unico individuo:
           Osama bin Laden, emerso come il grande finanziatore del
           terrorismo. Coleman aveva sentito quel nome per la prima
           volta nel 1993, quando una fonte straniera aveva parlato di
           un « principe saudita » che finanziava una cellula di islami-
           sti radicali la quale stava lavorando a un piano per far salta-
           re i luoghi simbolo di New York, compresi il palazzo delle
           Nazioni Unite, il Lincoln e l’Holland Tunnel, e perfino

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           l’edificio situato al n. 26 di Federal Plaza, dove Coleman la-
           vorava. Adesso, tre anni dopo, il Bureau aveva finalmente
           trovato il tempo di spedirlo a esaminare le informazioni rac-
           colte dalla CIA. Si trattava di decidere se c’erano motivi
           sufficienti per avviare un’indagine.
              L’Alec Station aveva già trentacinque volumi di materiale
           su Bin Laden. Il grosso era costituito dalle trascrizioni di
           conversazioni telefoniche captate dalle orecchie elettroni-
           che della National Security Agency. Coleman trovò il mate-
           riale ripetitivo e di scarsa utilità. Aprì tuttavia un dossier in-
           formativo su Bin Laden, più che altro come segnaposto, nel
           caso in cui il «finanziere islamista » risultasse essere qualco-
           sa di più.
              Come molti altri agenti, David Coleman era stato adde-
           strato a combattere la Guerra Fredda. Entrò nell’FBI come
           archivista nel 1973. Temperamento di studioso e spirito in-
           dagatore, fu naturalmente attirato dal controspionaggio.
           Negli anni Ottanta si concentrò sul reclutamento di spie co-
           muniste nella popolosa comunità diplomatica gravitante in-
           torno alle Nazioni Unite; un acquisto particolarmente pre-
           zioso fu un attaché tedesco orientale. Ma nel 1990, con la
           Guerra Fredda appena finita, si ritrovò in una squadra che
           si occupava del terrorismo mediorientale. Nella sua prece-
           dente esperienza c’era ben poco che lo preparasse per que-
           sta svolta – ma ciò era vero di tutto il Bureau, che considera-
           va il terrorismo un fastidio, non una minaccia concreta. Nei
           giorni felici seguiti alla caduta del Muro di Berlino, era
           difficile credere che l’America avesse ancora di fronte un
           qualsivoglia vero nemico.
              Quindi nell’agosto 1996 Bin Laden dichiarò guerra al-
           l’America da una grotta in Afghanistan. La ragione dichiara-
           ta era la perdurante presenza di forze USA in Arabia Saudita
           cinque anni dopo la prima Guerra del Golfo. «Contro di voi,
           che portate armi nella nostra terra, il terrore è non solo le-
           gittimo, ma un dovere morale» disse. Pretendeva di parlare
           in nome di tutti i musulmani, e si spinse fino a rivolgere una
           parte della sua lunga fatwa personalmente a William Perry, il
           segretario alla Difesa americano: «William, ecco che cosa ti
           dico: questi giovani amano la morte come tu ami la vita ...
           Questi giovani non ti chiederanno spiegazioni. Proclame-
           ranno che tra noi non c’è niente che abbia bisogno di essere
           spiegato; c’è soltanto l’uccidere e il bastonare».

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Prologo          17
               A parte Coleman, in America pochi (anche nel Bureau)
           sapevano del dissidente saudita, o se ne curavano. I trenta-
           cinque volumi custoditi nell’Alec Station dipingevano il ri-
           tratto di un messianico miliardario uscito da una vasta, ra-
           mificatissima e influente famiglia che aveva stretti legami
           con i governanti dell’Arabia Saudita. S’era fatto un nome in
           Afghanistan, nel jihad contro l’occupazione sovietica. Cole-
           man sapeva abbastanza di storia per cogliere nel grido di
           guerra di Bin Laden i riferimenti alle crociate e alle prime
           battaglie dell’islam. In effetti, uno degli aspetti straordinari
           del documento era che il tempo sembrava essersi fermato
           mille anni prima. C’era l’adesso e l’allora, ma niente nel
           mezzo. Era come se nell’universo di Bin Laden le crociate
           fossero tuttora in corso. Per Coleman anche l’intensità del-
           l’ira era difficile da spiegare. Si chiedeva perplesso: che co-
           sa gli abbiamo fatto?
               Coleman mostrò il testo della fatwa di Bin Laden ai pro-
           curatori del Distretto Meridionale di New York. Era buffo-
           nesco, era bizzarro, ma era un reato? I procuratori si scer-
           vellarono sul linguaggio usato da Bin Laden, e scovarono
           una norma sulla cospirazione sediziosa risalente alla Guerra
           Civile, raramente invocata, che proibisce l’istigazione alla
           violenza e i tentativi di rovesciare il governo degli Stati Uni-
           ti. Sembrava esagerato pensare che potesse venire applicata
           a un saudita apolide che risiedeva in una grotta a Tora Bora,
           ma sulla base di questi esigui precedenti Coleman aprì un
           fascicolo penale sul personaggio destinato a diventare il ri-
           cercato numero uno in tutta la storia dell’FBI. E continuò a
           occuparsene da solo.
               Qualche mese più tardi si recò in una base militare ame-
           ricana in Germania insieme con due procuratori, Kenneth
           Karas e Patrick Fitzgerald. Qui in una casa sotto protezio-
           ne c’era un esagitato informatore sudanese che si chiama-
           va Jamal al-Fadl, e sosteneva di aver lavorato per Bin La-
           den a Khartum. Coleman aveva con sé una raccolta di do-
           cumenti con le fotografie dei collaboratori noti di Bin La-
           den, e Fadl identificò senza esitazioni la maggioranza di
           loro. Certo, era impegnato a vendere una storia, ma era
           chiaro che ne conosceva gli attori. Il problema era che
           continuava a mentire agli investigatori, abbellendo il rac-
           conto e dipingendo se stesso come un eroe che voleva sol-
           tanto fare la cosa giusta.

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18                                   Le altissime torri
              « Dunque perché te ne sei andato? » volevano sapere i
           procuratori.
              Fadl disse che amava l’America. Era vissuto a Brooklyn e
           parlava inglese. Poi raccontò che era scappato per poter
           scrivere un bestseller. Era sovreccitato, e gli riusciva difficile
           starsene seduto tranquillo. Era chiaro che aveva molte altre
           cose da dire. Ci vollero parecchie lunghe giornate per con-
           vincerlo a smettere di raccontare frottole e a riconoscere
           che era scappato con più di 100.000 dollari: soldi che appar-
           tenevano a Bin Laden. Fatta questa confessione, non la fini-
           va più di singhiozzare. Fu il punto di svolta dell’interrogato-
           rio. Fadl accettò di testimoniare per il governo nel caso che
           si arrivasse a un processo; ma la cosa sembrava improbabile,
           dato il modesto rilievo delle imputazioni che i procuratori
           stavano prendendo in considerazione.
              Poi, di sua iniziativa, cominciò a parlare di un’organizza-
           zione chiamata al-Qaeda. Fino a quel momento nessuno di
           coloro che erano nella stanza aveva mai sentito quel nome.
           Fadl descrisse i campi di addestramento e le cellule in son-
           no. Parlò dell’interesse di Bin Laden ad acquistare armi nu-
           cleari e chimiche. Disse che al-Qaeda portava la responsabi-
           lità di un attentato dinamitardo compiuto nello Yemen nel
           1992 e dell’addestramento dei ribelli che in quello stesso
           anno avevano abbattuto gli elicotteri americani in Somalia.
           Fornì nomi e organigrammi. La storia sbalordì gli investiga-
           tori. Per due settimane, per sei o sette ore al giorno, analiz-
           zarono più e più volte i particolari, passando al setaccio le
           sue risposte per verificarne la coerenza. Fadl non cambiò
           mai versione.
              Quando Coleman ritornò al Bureau, nessuno sembrò
           particolarmente interessato. Tutti convenivano che la testi-
           monianza di Fadl era agghiacciante; ma come potevano cor-
           roborare le affermazioni di un ladro e bugiardo? Inoltre,
           c’erano cose più urgenti su cui indagare.
              Per un anno e mezzo Coleman continuò la sua indagine
           solitaria su Bin Laden. Era sempre relegato nell’Alec Sta-
           tion, e in sostanza il Bureau si dimenticò di lui. Utilizzando
           intercettazioni sulle linee telefoniche delle società di Bin
           Laden, Coleman fu in grado di tracciare una mappa della
           rete di al-Qaeda, che copriva l’intero Medio Oriente, l’Afri-
           ca, l’Europa e l’Asia centrale. Si accorse con un senso di al-
           larme che molti degli uomini di al-Qaeda avevano legami

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Prologo         19
           negli Stati Uniti. La sua conclusione fu che si trattava di
           un’organizzazione terroristica presente in tutto il mondo e
           votata alla distruzione dell’America. Ma Coleman non riu-
           scì nemmeno a far sì che i suoi superiori rispondessero alle
           sue telefonate sull’argomento.
              Fu lasciato solo a scervellarsi sulle domande che in segui-
           to tutti si sarebbero posti. Da dove nasceva questo movimen-
           to? Perché aveva scelto di attaccare l’America? E che cosa si
           poteva fare per fermarlo? Era come un tecnico di laborato-
           rio alle prese con un vetrino sul quale c’era un virus mai vi-
           sto prima. Sotto il microscopio, cominciarono ad apparire
           le caratteristiche letali di al-Qaeda. Il gruppo era piccolo –
           all’epoca, contava soltanto novantatré membri – ma faceva
           parte di un più vasto movimento radicale che stava dilagan-
           do da un capo all’altro del mondo islamico, e specialmente
           nei paesi arabi. Le possibilità di contagio erano considere-
           voli. Gli uomini che lo costituivano erano ben addestrati e
           temprati dall’esperienza della guerra. A quanto sembrava,
           disponevano di ingenti risorse. Inoltre erano fanaticamente
           devoti alla loro causa e convinti che sarebbero usciti vincito-
           ri dalla lotta. Li teneva insieme una filosofia così cogente
           che erano disposti a sacrificare la vita per essa (erano anzi
           impazienti di farlo). Nel frattempo volevano uccidere il
           maggior numero di persone possibile.
              Ma l’aspetto più spaventevole di questa nuova minaccia
           era il fatto che quasi nessuno la prendeva sul serio. Era trop-
           po bizzarra, aveva un carattere troppo primitivo ed esotico.
           A fronte della fiducia che gli americani nutrivano nella ca-
           pacità della modernità e nella tecnologia, nonché dei loro
           ideali, di proteggerli contro il dispiegamento delle forze sel-
           vagge della storia, i gesti di sfida di Bin Laden apparivano
           assurdi, perfino patetici. Eppure al-Qaeda non era un mero
           prodotto dell’Arabia del VII secolo. Aveva imparato a usare
           strumenti moderni e idee moderne; né la cosa poteva sor-
           prendere, poiché in realtà la sua storia era cominciata, non
           moltissimo tempo prima, proprio in America.

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