LA SOLITUDINE COME OPPORTUNITÀ 7/ 2020 - Luglio 2020 di Giulia Polin, Corporate Services - Phoenix Capital Iniziative di Sviluppo Srl
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7/ 2020 LA SOLITUDINE COME OPPORTUNITÀ di Giulia Polin, Corporate Services - Phoenix Capital Iniziative di Sviluppo Srl Luglio 2020
Ha una sua solitudine lo spazio, solitudine il mare e solitudine la morte - eppure tutte queste son folla in confronto a quel punto più profondo, segretezza polare, che è un’anima al cospetto di se stessa - infinità finita. Emily Dickinson (1695) In questo “attimo lunghissimo” nel corso del quale le polveri del tempo restavano incastrate nella fessura di qualche clessidra, la vita ha acquisito una dimensione nuova, quasi surreale che ha scardinato inesorabilmente tutti i parametri e gli standard ai quali eravamo abituati. Riconosco nelle parole della scrittrice un’astrazione suggestiva, intrisa di poesia, di quella solitudine profonda che caratterizza l’essere umano nella sua radice più vera, a tratti immateriale, ma tangibile nella sostanza. A causa delle recenti vicende legate all’emergenza generata dal Covid-19 l’intera società è stata improvvisamente catapultata in una dimensione sconosciuta che ci rende partecipi delle parole evocate nella poesia, parole strettamente “umane”, oltre la contingenza del contesto storico. Si è verificata in un lampo la collisione e contrapposizione di due solitudini: la desolazione della morte di fronte alla quale siamo impotenti e l’isolamento che ci estrania dalla società. Se l’attaccamento alla vita è un fatto quasi scontato, la circostanza che la solitudine sociale - seppur circoscritta nel tempo - ci lasci spiazzati è un evento piuttosto singolare, proprio perché l’indagine autoreferenziale, il riflesso del sé dovrebbe costituire un bisogno primario più che una prigione dalla quale sfuggire. La poesia citata descrive l’animo umano come fosse dilatato verso l’infinito, da qui il perché della profonda paura della solitudine: il nichilismo di fronte all’isolamento è forse conseguenza del fatto che tutto ciò che attiene all’infinito è percepito al contempo come sublime e inquietante. Pensiamo all’immagine suggestiva di un temporale che squarcia la volta celeste e potremo avere la misura dello spaesamento dell’uomo di fronte a sé stesso. Ritengo quindi che l’horror vacui di cui soffriamo nella solitudine sia frutto di un fraintendimento emotivo, della mancanza di mezzi adeguati nella società moderna che ci guidino nell’introspezione come un evento naturale: ecco perché la poesia citata in epigrafe allude all’ “infinità finita”
Infinita è l’aspirazione, ma finiti e limitati sono i nostri mezzi. Astraendoci ovviamente dai contorni drammatici dell’emergenza sanitaria potremmo viceversa considerare l’isolamento come un’immensa e irripetibile opportunità. Usando una parola suggestiva chiamerei la solitudine utopia. L’utopia è un luogo astratto e onirico, ha contorni indefiniti e sfumati, tutto ciò che possiede queste caratteristiche è secondo Giacomo Leopardi pervaso di poesia. Rifacendoci alla radice del termine in questione si possono dare due definizioni: ou (non) e topos (luogo) dunque “luogo che non esiste” oppure eu (buono). Concedendoci la fusione delle due interpretazioni, potremmo sintetizzare: “L’ottimo luogo, in nessun luogo” si tratterebbe quindi di un punto indefinito - nel tempo e nello spazio - che appartiene a ciascuno e per sua stessa natura è inespugnabile e inviolabile. Trovo quindi che in questa forma di utopia vi sia una componente fortemente positiva, un’illusione paradisiaca nella quale il singolo, attingendo alla propria stessa natura, si perde in un’infinita ricerca. La poesia citata ci regala un percorso da seguire costellato di metafore; la morte è negazione dell’io e quindi desolazione, il mare e lo spazio rappresentano l’infinito senza eguali, ma l’io fonde queste caratteristiche e replica sé stesso innumerevoli volte. Ho usato precedentemente il termine “sublime” perché il percorso introspettivo ci permette di raggiungere le più alte vette della conoscenza dell’io, “inquietante” perché non misurabile, non arginabile e di conseguenza non riferibile a parametri conosciuti. Il riferimento a metri di giudizio standard, che ci collochino in un ruolo pre- confezionato, ci dice che non siamo stati abituati ad affrancarci dalla condivisione, dalla socialità; l’emancipazione è pertanto solo illusoria laddove la nostra stessa identità è riflesso della “doxa ton pollon” (l’opinione dei più). Il nostro benchmark è quindi sbilanciato verso l’aleatorietà del pubblico sentire, la razionalità è surclassata dalla violenza dell’opinione altrui, all’interno di una rete che tende a sovrapporsi all’io: l’approvazione, la comparazione costituiscono palliativi alla sete di infinito e colmano il vuoto lasciato da quel genere di costante incompletezza. In questo scenario di dominio reputazionale dell’opinione sociale si incardina però il permanere della capacità di esercitare il dubbio; parlerei quindi di bimorfismo, trovandosi l’uomo razionale e pensante perennemente in bilico tra condivisione e chiusura, tra collegamento e isolamento, tra difesa dell’io e identificazione nella massa. Da un punto di vista sociale questa opposta tendenza, questa natura bicefala dell’uomo e questa insanabile contraddizione tra “ego” e società hanno avuto sfogo nelle diverse
reazioni e correnti di pensiero che si sono susseguite in seguito al verificarsi dell’emergenza. Questa propensione al dubbio, alla quale facevo riferimento, talvolta genera il bisogno di opporsi al sentire comune, anche nel corso della pandemia non sono mancate differenti correnti di pensiero. Si sono verificate diverse reazioni di fronte a identiche circostanze, a titolo meramente esemplificativo e senza presunzione di completezza ne cito alcune. Sono nate tesi minoritarie, complottistiche, che hanno ipotizzato che tutti i provvedimenti e le misure messe in atto fossero frutto di un’intelligenza superiore, un super io volto a condurre un enorme esperimento sociale che avrebbe coinvolto almeno un terzo della popolazione mondiale: un esperimento diretto ad analizzare le reazioni di milioni di individui differenti per classe, estrazione sociale, capacità di sostentamento, età e genere, di fronte a eventi improvvisi e repentini. Altre tesi - peraltro negate dalla scienza - sostenevano che il virus fosse stato elaborato deliberatamente in qualche laboratorio, dividendosi qui l’opinione tra chi ipotizzava un errore fortuito e chi invece vi vedeva una aberrante decisione volontaria. Secondo questa ultima ipotesi, in particolare, si sarebbe trattato di un attacco batteriologico finalizzato a paralizzare l’economia della Cina (la tesi partiva dai sospetti che si aggiravano attorno a uno studio effettuato dal Center for Health Securiy della Johns Hopkins University finanziato dalla fondazione di Bill Gates, Bloomberg e dal World Economic Forum. Oggetto era l’analisi delle conseguenze economiche di una eventuale pandemia globale e secondo i complottisti non si sarebbe trattato di una semplice simulazione ma di una preparazione vera e propria agli eventi futuri). In altri casi si è parlato invece di Virus Connection di Wuhan e di coinvolgimento di Cina e Usa nell’elaborazione di virus considerati ad alto rischio. Altrettanto diffusi, soprattutto nei primi tempi, sono stati gli atteggiamenti xenofobi di chiusura che hanno fatto della pandemia una questione razziale difficilmente sostenibile col dilagare dei contagi, ma che hanno esasperato ancora di più lo sbarramento delle frontiere, l’individualismo, la ricerca di un’appartenenza etnica e il rifiuto verso usi e costumi esotici e lontani. Il pensiero emotivo in questi casi supera quello razionale, ma questo può essere sempre ricondotto alla capacità dell’uomo di mettere in dubbio, di fondare un’opinione propria sulle circostanze, qualche volta a discapito di evidenze scientifiche e fondamentalmente può essere il riflesso della paura ancestrale del controllo, quell’impeto di libertà che porta a slegarsi dalla maggioranza per costituire opposizione all’imposizione altrui. Se questi sono forse stati gli atteggiamenti minoritari, bisogna ammettere che la maggior parte della popolazione ha seguito l’influenza dominante dei mass media e delle fonti più ufficiali, e il risultato che ne è conseguito è stato il tanto auspicato “distanziamento
sociale”. Chiuse le porte delle proprie abitazioni, ognuno ha finalmente dovuto confrontarsi col proprio io, forse per la prima volta in un silenzio assordante fatto di attesa, a tratti logorante, sulla quale non era possibile esercitare alcun controllo. Siamo già entrati in una nuova fase, nella quale le certezze appena acquisite sono nuovamente svanite e la modalità di gestione delle criticità è mutato. Siamo proiettati ora alla prevenzione come forma di difesa. In merito alle nuove misure che si stanno adottando per il controllo della diffusione del virus una menzione va alla tanto chiacchierata App “Immuni”: ad oggi circa 4 milioni i download. Obiettivo, tracciare i collegamenti tra soggetti in modo da informare tempestivamente gli utilizzatori su eventuali contatti con persone risultate positive. Il sistema si avvale della tecnologia bluetooth e identifica l’utente senza mai violarne l’identità segreta, tramite l’associazione a ogni fruitore di un codice puramente casuale che viene modificato più volte in modo da garantire il completo anonimato. Nell’informativa riguardante la privacy dell’app si specifica che la stessa non verrà in alcun modo utilizzata per finalità di marketing o profilazione, l’associazione tra ID sarà completamente anonima e avverrà su base volontaria, i dati relativi alla geolocalizzazione saranno utilizzati solamente se l’utente consentirà un collegamento col GPS. Le informazioni verranno comunicate esclusivamente alle autorità sanitarie e nell’ambito delle finalità precedentemente descritte, restando fermi tutti i diritti previsti dalla normativa sulla privacy quindi: - diritto di accesso ai propri dati; - diritto di rettifica o cancellazione; - opposizione al trattamento per lo svolgimento di un compito di interesse pubblico o per il perseguimento di un legittimo interesse dei titolari; - portabilità dei dati; - possibilità di proporre reclamo all’autorità garante per la protezione dei dati personali; - non necessaria comunicazione di dati sensibili; Non sono mancate le opposizioni non solo in merito alla presunta inefficacia dell’app a raggiungere lo scopo, ma soprattutto in merito a possibili violazioni della privacy del singolo individuo. Tornando alla poesia di Emily Dickinson si fa riferimento alla “segretezza polare”: ancora una volta emerge l’intrinseca contraddizione umana tra socialità e isolamento, il timore della violazione degli aspetti più segreti e nascosti della persona prevale sul bisogno di protezione della salute, sulla necessità di ottenere informazioni costanti e sull’esigenza di interconnessione.
L’atteggiamento di chiusura nei riguardi di strumenti informatici, in questo contesto, potrebbe apparire contraddittorio e grottesco se si pensa al sempre più diffuso utilizzo dei social network. Sotto questa prospettiva la privacy diventa un’istituzione di paglia che poggia su carboni ardenti e un mito che si accartoccia su sé stesso e si autolegittima nella misura didascalica di erudire l’utente, ma sfugge poi al controllo della vita sociale. All’inizio del lockdown ho scritto una frase che vorrei lasciare a me e a voi come monito futuro perché di questa esperienza resti una traccia positiva: “Nel tempo lento bisogna attingere a pozzi profondi di risorse sepolte, guardarsi in faccia dopo essersi quasi seminati nella giostra incessante della vita che come un turbine colma di leggerezza i vuoti. Ma i vuoti si scoprono, al primo soffio di vento, sepolti sotto le ceneri di pensieri fragili”. È il tempo della solitudine che dà modo di scoprire che si può restare a galla, nel proprio io.
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