La rassegna stampa si interrompe con questo numero per la pausa estiva e riprenderà a settembre 2017 - Rassegna Stampa Olimpias

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La rassegna stampa si interrompe con questo numero per la pausa estiva e riprenderà a settembre 2017 - Rassegna Stampa Olimpias
Rassegna Stampa Olimpias                 Settimana 30: 28-07-2017

La rassegna stampa si interrompe con questo numero per la
        pausa estiva e riprenderà a settembre 2017

                                        Wabi comunicazione d’impresa
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                              SOMMARIO

Olimpias
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Settore
        •   Benetton: nel 2016 le perdite sono aumentate
        •   Report: Forget the Supply Chain of the Future if the Tools are
            from the Stone Age
        •   Denim Trend dalla Turchia avvierà produzione a Minicevo
            (Serbia)
        •   Con l'elezione dei tre saggi parte la volata alla presidenza di Smi
        •   Forget Sustainable Collections, We Need A Sustainable Fashion
            Industry
        •   Tunisia, accordo tra unione industriali e sindacati per aumento
            salari settore tessile

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Settore

Benetton: nel 2016 le perdite sono
aumentate
Di Dominique Muret - 25 Luglio 2017

La ripresa non è ancora d’attualità per Benetton, che comunque prosegue
nel proprio piano di investimenti. Il gruppo trevigiano dell’abbigliamento
stenta a decollare, nonostante la profonda riorganizzazione in cui si
impegna dal 2015, che l’ha visto rifocalizzarsi sui suoi due marchi
principali, United Colors of Benetton e Sisley, e cambiare completamente
struttura.

Un negozio United Colors of Benetton in India - Benetton Group

Nel 2016, il gruppo veneto ha raccolto un fatturato di 1,376 miliardi di
euro, contro gli 1,504 miliardi di un anno prima, per un calo dell’8,5%.
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Una contrazione legata al programma di chiusure di numerosi negozi, ma
anche, come sottolinea l’azienda trevigiana, “alla diminuzione delle
vendite, soprattutto nel canale indiretto, e alle cattive performance dei
negozi in gestione diretta, in particolare in Italia, Francia, Germania,
Polonia e Turchia”.

Benetton Group ha inoltre quasi raddoppiato la sua perdita netta, passata
da 46 milioni nel 2015 a 81 milioni di euro un anno più tardi, mentre ha
registrato una perdita operativa di 38 milioni, contro i 19 milioni dell’anno
precedente.

Questi sono i risultati pubblicati nel bilancio 2016 di Edizione, la holding
che controlla il 100% di Benetton e l’impero della famiglia omonima. “Nel
2016, Benetton Group ha risentito della perdurante stagnazione economica
in Europa, registrando cali delle vendite e della redditività che si sono
tradotti in un indebolimento della sua posizione finanziaria”, si legge nel
rapporto. Il flusso di cassa è passato, infatti, da 85 a 24 milioni in un anno.

Il gruppo di abbigliamento puntualizza comunque che “non ha rallentato i
suoi progetti di trasformazione in corso, né il proprio piano di
investimenti, riuscendo a concretizzarli come erano stati programmati
senza ricorrere ad indebitamento”.

Di più, Benetton l’anno scorso ha aumentato gli investimenti fatti, visto
che sono cresciuti del 39,2% rispetto al 2015, raggiungendo i 45 milioni di
euro. Sono stati aperti o ristrutturati circa 330 punti vendita del brand nel
2016.

L’Italia costituisce ora il secondo mercato della società, con il 36,5% delle
vendite, dietro all’Europa (38,8%) e davanti ad Asia e America Latina
(24,7%). In tutte e tre queste macroregioni le vendite sono diminuite.

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Report: Forget the Supply Chain of the
Future if the Tools are from the Stone Age
by Caletha Crawford

Posted on July 27, 2017 in Business, Report

Sometimes it feels like speed is all anyone’s talking about these days, as retailers and brands
look for ways to increase the efficiency of their supply chains. Unfortunately, most companies
are only able to pay lip service to reducing time to market.

In its latest report, digital sourcing firm Bamboo Rose surveyed 250 retail and supply chain
professionals to find out what’s keeping their companies from evolving. The results show that
sourcing managers are often mired in a mix of red tape, antiquated processes and opaque
systems.
“There’s a severe lack of understanding about the tools that are available today to help make
sourcing easier,” the report stated. “Most retail professionals are relying heavily on generic
programs like email and spreadsheets to manage complicated sourcing operations.”

Many in the survey say they’re cobbling together tools that were not designed to meet the
challenges of a modern supply chain. Email, for instance, is used by 63 percent even though it
does not offer parties the ability to collaborate, operate in real time, or easily track revisions
and comments. Excel, which is used by 62 percent, has many of the same shortcomings.
Microsoft Word was employed by 31 percent, while written notes, mobile apps and images
were each used by about 25 percent. Surprisingly 19 percent say they have no tools at their
disposal.

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For those who have embraced more robust solutions, often they’re designed to aid only one
part of the sourcing process, resulting in the need for multiple tools. As a result, 53 percent
use two or more applications. The sourcing executives polled called for a more streamlined,
integrated process that puts all retailers and vendors in a single market.

The need is even more pressing given that not only are supply chains long and complex,
they’re also ever changing. More than 90 percent of respondents said its not uncommon for
them to work with 10 new suppliers each year. Multiply that times the number of departments
in a typical fashion firm and a retailer could have 500 new vendors in a year. With that much
supplier turnover, the company is spending countless hours finding new suppliers, evaluating
their capabilities and cost, and getting them up to speed.

Ultimately without the right tools, communication—the one thing that could help move the
process along more efficiently—is lost. Only 28 percent of respondents regularly turn to their
suppliers for inspiration and feedback. Instead, 88 percent troll social media, the Internet and
magazines to get new ideas.

For real-time communications that keep everyone in the loop, Bamboo Rose advocates a
digital sourcing platform. “As a result, you can speed up time to market, stay on top of trends
and make more profitable operational decisions. Companies can avoid issues like creating
products that factories can’t make or items that won’t work in certain markets,” the company
said.

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Denim Trend dalla Turchia avvierà produzione
a Minicevo
Posted on 26/07/2017 by Monica Ranieri

La società di produzione tessile Denim Trend ha affittato la struttura dell’ex fabbrica
di Tina nel villaggio di Minicevo, nei pressi di Knjazevac.
Come appreso da eKapija dai rappresentanti dell’autonomia locale, la società turca Denim
Trend sta attualmente ricostruendo uno stabilimento a Minicevo e l’affitto mensile è di 500
euro.
Denim Trend impiegherà 100 persone e il piano è inoltre quello di aprire una struttura a
Knjzevac, dove saranno necessarie altre 70 persone.
I colloqui con potenziali candidati, sia con quelli già in possesso di esperienza che con
quelli che hanno bisogno di formazione, sono attualmente in corso, secondo quanto rende
noto il Comune di Knjazevac.
L’investitore turco, inoltre, intenderebbe acquistare anche i locali della fabbrica a Minicevo,
nel prossimo futuro.
Denim Trend non è ancora attiva in Serbia, ma è presente in Bulgaria.
La società turca esporta in più di 40 paesi del mondo e ha stipulato contratti con Levis,
Pierre Cardin, Scotch e Soda, Zara.
Minicevo si trova tra Knjazevac e Zajecar.

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IL DOPO MARENZI lunedì 24 luglio 2017

Con l'elezione dei tre saggi parte la volata alla presidenza di
Smi

Scelti i tre nomi di coloro che selezioneranno le candidature per il prossimo presidente di Smi, che
verrà eletto da qui a maggio per sostituire l'uscente Claudio Marenzi (nella foto), proprietario
di Herno. I tre saggi sono: Pier Giacomo Borsetti (Zegna Baruffa), Antonio Gavazzeni (Cit)
e Dario Garnero (SSI Stamperia Serica Italiana).

Borsetti, Gavazzeni e Garnero sono già al lavoro e hanno avviato le consultazioni tra gli
imprenditori: dovranno raccogliere proposte, indicazioni e priorità nel sistema associativo.

Al termine del giro di consultazioni - per individuare i papabili hanno tempo fino a metà settembre -
comunicheranno un numero ristretto di candidati attorno ai quali sia stato riscontrato un ampio
consenso. È possibile anche un candidato unico.

Con la consegna delle candidature prenderà il via a tutti gli effetti la volata per la nuova presidenza
di Smi. Possibili anche delle autocandidature: gli aspiranti presidenti dovranno poter contare però
su almeno il 20% dei delegati, che parteciperanno al voto finale.

Presto si saprà dunque quale nome entrerà nella competizione per raccogliere il testimone da
Marenzi, neo presidente di Pitti Immagine e da gennaio 2018 a capo di Confindustria Moda.

Una volta che il nuovo leader di Smi sarà designato, sarà poi l'assemblea annuale, prevista a
marzo 2018, a eleggere il presidente per il quadriennio.

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Forget Sustainable Collections, We Need A
Sustainable Fashion Industry
20/07/2017 16:59

Dio KurazawaDirector of Denim at WGSN

©WGSN

Fashion and sustainability aren’t two words you often see in the same sentence.
An adjective that evokes images of industry and ecology, “sustainable” is
actually coming into fashion when describing, well, fashion. And as Director of
Denim at WGSN, I can tell you this is very good news for our industry.

Sustainability as a concept has been buzzing for years, but its precise
application to the world of fashion has been a bit murky. Still, there have been
milestones:

● This past June, H&M, Nike, and Asos were amongst the 13 fashion and textile
brands who signed the Prince of Wales International Sustainability Unit, vowing
to source 100% of all their cotton from sustainable sources by 2025
● In April, the industry came together at leading denim trade show, Kingpins,
part of Amsterdam Denim Days, and stirred up the sustainable denim debate
● In March, global fashion retailer C&A and its corporate foundation, the C&A

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foundation launched the Fashion for Good initiative, promoting a circular fashion
economy.
One-off sustainable collections, pledges for environmentally-sound production,
and eco-friendly initiatives will only be effective, however, if they are part of a
greater movement — a movement that inspires and encourages all of us to think
about our impact on our planet.

As trend forecasters, WGSN works hand-in-hand with the fashion industry,
guiding our clients through the ever-shifting landscape — but we can’t tell them
to fasten their seat belts and not fasten our own. So, we decided to experience
first-hand what brands go through when trying to make a shift towards a circular
fashion economy and the challenges that come with producing sustainable
fashion lines.

In April, we launched our first ever sustainable denim sample collection in
partnership with Avery Dennison, M&J Group, Absolute Denim and Amsterdam
Denim Days. When making the collection, we came to realise that most
suppliers, despite having innovative products focused on sustainability, had low
stock of our chosen materials. We attribute this to a general lack of demand,
largely driven by the fact that the industry has no legal responsibility to be
sustainable; there are no regulatory departments for the textile industry like there
are in the food industry, for example. Without the parameters and proper
governance, manufacturers simply aren’t obligated to create fabrics and
materials that one would consider ‘green’. With that being said, we found that it
doesn’t start with a brand saying they want to make a “sustainable collection” —
it must start with the industry demanding sustainability.

Given the lack of formal regulation for sustainable textile production, the
necessary parameters don’t exist. For example, how do we know that reducing
water usage by 1% during garment production equals sustainability? The
process of creating such necessary criteria is underway, but it comes as no
surprise that when politicians and consumers deny climate change, the
conversation can only go so far.

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Another issue is that many brands struggle to establish social responsibility as a
core corporate mission. Why is that? Well, shifting values is hard work and
requires persuasion and patience — all while running the risk of appearing
pretentious and contrived. So why should brands make the effort to embrace
environmentally friendly practices when it means having to walk an extra mile?
Not to mention that in reality, they don’t necessarily have to.

NGOs such as Greenpeace are raising awareness for circular fashion
economies and urging a shift towards environmentally conscious behaviour. And
their message isn’t falling on deaf ears — consumers aren’t just listening, they’re
taking action, too. Previously driven by price point and choice, today’s fashion
consumers progressively expect sustainable products, processes, and
behaviour. This forces the industry to rethink business models in order to stay
profitable. The question remains whether consumer preferences will also ensure
that brands truly adopt sustainability across the board, given the lack of formal
monitoring.

The fashion industry is now at a crossroads: it cannot ignore the environmental
trend any longer. One-off sustainable campaigns and collections won’t be
effective unless they’re part of a broader strategy: brands have to think of the full
lifecycle of their products; more consumers need to change their habits; non-
fashion corporations need to shift their conventions; politicians need to address
climate change head-on; and a socially-conscious mindset needs to be applied
across the board to create a truly sustainable industry. Let’s look to Patagonia
as a role model. They consider every step of their supply chain: every stitch,
every fabric, and every manufacturer before they create, design, or produce
anything. That is what I believe every fashion and textile company should be
doing. There’s too much at stake for all of us.

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Tunisia, accordo tra unione industriali e sindacati per aumento
salari settore tessile

Tunisi, 23 lug 13:30 - (Agenzia Nova) - L’Unione tunisina dell’industria, del commercio e
dell’artigianato (Utica) e l’Unione generale del lavoro tunisina (Ugtt) hanno raggiunto un accordo
sull’aumento dei salari nel settore tessile e dell’abbigliamento. L’accordo è stato firmato presso la
sede del ministero degli Affari sociali tra il vicepresidente della Federazione nazionale del tessile,
Nafaa Ennaifer, e dal segretario generale del sindacato dei lavori del tessile, Habib Hezami. In un
comunicato stampa, l’Utica ha sottolineato che l’aumento salariale avviene in un contesto
economico difficile, soprattutto per questo settore, e nonostante i sacrifici che saranno a carico
delle imprese, al fine di preservare la pace sociale e la speranza di un recupero della produttività in
questo settore. Nel comunicato, l’Utica non specifica l’entità degli aumenti. In seguito all’accordo i
lavoratori del settore tessile hanno annullato lo sciopero generale in programma per il 19 e il 20
luglio. Il ministro dell’Industria e del commercio tunisino, Zied Laadhari, ha annunciato lo scorso
mese di giugno una serie di misure per favorire i settori del tessile, dell’abbigliamento, produzione
di cuoio e calzature. L’iniziativa contempla un budget iniziale di 28 milioni di dollari e altri 1,8 milioni
di dollari per la promozione delle esportazioni di prodotti tessili e calzature durante il periodo 2017-
2019. Nel suo intervento il ministro ha ricordato la riduzione del numero di aziende attive nel
settore tessile/abbigliamento passate dalle 2.100 prima delle “rivoluzione dei gelsomini” del 2011
alle attuali 1.672. Laadhari ha ricordato anche il dimezzamento delle realtà imprenditoriali nel
comparto del cuoio e delle calzature ad oggi solo 240 rispetto alle 445 aziende attive prima delle
rivolte del 2011. La chiusura delle aziende ha provocato un crollo dei posti di lavoro, ad oggi solo
161 mila rispetto ai 210 mila prima del 2011. (Tut)
© Agenzia Nova

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