La nuova politica dell'immigrazione in Italia

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La nuova politica dell’immigrazione in Italia
On. Paolo Ferrero, Ministro della Solidarietà Sociale

         Credo che parlare di immigrazione significhi soprattutto parlare di inclusione; si
tratta, in questo contesto, indubbiamente di una questione complicata. Per vari motivi.
Il primo: l’immigrazione è ormai un fenomeno strutturale, un fenomeno che ha le sue
cause prime nelle differenze di reddito tra i paesi del Sud e del Nord del mondo e nella
necessità di manodopera nei paesi del Nord. Ma la maggioranza della popolazione dei
paesi del Nord tende a non considerare bene queste cause e ad avere un atteggiamento
ambivalente, cosicché, se da un lato riconosce la necessità di immigrati per soddisfare
le esigenze di manodopera, dall’altro tende a considerare molto negativamente gli elementi
di disturbo che l’immigrazione determina. Le paure sociali complicano le cose.
         In Italia l’immigrazione è un fenomeno molto recente, soprattutto nella sua dimensione
numerica. Parliamo di un paese che continua a guardare al fenomeno immigrazione
dal punto di vista di un paese povero, dal quale si parte “alla ricerca di fortuna”, come
si diceva un tempo, e non di un paese ricco, che attira manodopera di migranti.

         La nuova legge sull’immigrazione
         Dico questo per sottolineare la consapevolezza di una difficoltà, della quale gli scontri
politici sono solo una faccia. Parlo degli scontri politici perché non sono stati pochi, quelli
che hanno accompagnato, e che accompagneranno l’iter dell’approvazione della nuova legge
proposta dal ministro Amato e dal sottoscritto, legge che una volta approvata dal Parlamento
comporterà l’eliminazione definitiva della Bossi-Fini. Probabilmente il punto che comporta
maggiore scontro e differenza di vedute è quello dell’identità. Un problema complesso
cui conviene rapportarsi non solo sul piano politico, ma anche su quello culturale.
         Innanzitutto vorrei fare subito una breve descrizione della nuova legge. Ribadisco
l’esigenza di superare la Bossi-Fini per vari motivi, ma ce n’è uno che vorrei sottolineare. Quella
in vigore è una legge che obbliga alla clandestinità centinaia di migliaia di migranti.
     • Con la nuova legge vorremmo in primo luogo cambiare radicalmente le modalità
di ingresso in Italia. Abbiamo previsto vari canali, cercando di far emergere
quelli che sono i canali informali attraverso cui avviene l’immigrazione al fine di
restringere l’area di clandestinità resa obbligatoria dalla rigidità della Bossi-Fini.
Questa pluralità dovrebbe permettere l’incontro legale tra domanda e offerta di
lavoro, cosa che in altri paesi succede da tempo.
     • Abbiamo inoltre previsto un allungamento significativo (sino al raddoppio) dei
tempi dei permessi di soggiorno. I permessi di soggiorno saranno validi anche nelle
more del rinnovo, cioè durante il periodo in cui uno sta per rinnovarlo, se è scaduto.
Per quanto riguarda i rinnovi, le competenze passeranno ai comuni.
     • La nuova legge prevede anche il diritto di voto attivo e passivo per i migranti alle
elezioni locali, così come la modifica del trattamento dei minori non accompagnati. In
pratica rende più semplice la loro permanenza in Italia al compimento del diciottesimo
anno di età e istituisce un apposito fondo con cui curare il loro inserimento sociale.
     • Riporta inoltre il tema dell’immigrazione all’interno della giurisdizione ordinaria.
Verrà così superata la giurisdizione del giudice di pace e anche il sistema dei CPT
(Centro di permanenza temporanea) per come l’abbiamo conosciuto. Sarà ridotto drasticamente
il loro impatto sui migranti, sia come numero di persone potenzialmente
coinvolte sia come numero dei CPT. Vorremmo migliorare le condizioni di trasparenza
dei medesimi, aprire ai giornalisti e ai rappresentanti degli enti locali.
    • Quello che proponiamo è una legge che dovrebbe abolire il contratto di soggiorno
e rendere meno stringente il rapporto tra posto di lavoro e regolarità della
presenza del migrante in Italia. Si permetterà la regolarizzazione di tutti quei migranti
che, dopo essere stati presenti sul territorio per almeno 18 mesi e aver perso
la condizione di regolarità, abbiano trovato un lavoro.
    • Prevediamo infine di estendere a tutti gli immigrati che abbiano due anni di
permanenza in Italia tutte le forme di assistenza sociale.
        Stiamo quindi lavorando ad una legge che faccia uscire il fenomeno dell’immigrazione
da una logica emergenziale, cercando di costruire una gestione razionale del fenomeno
stesso.
        Conviene ricordare che la storia di questi anni, qui da noi, è fatta di ingressi irregolari
di dimensioni significative, per questo ci sembra così importante il primo punto, quello che
moltiplica i canali attraverso cui attuare – all’interno dei flussi previsti – un ingresso regolare.
Stiamo quindi lavorando per modificare le leggi ma contemporaneamente dobbiamo
modificare le procedure di funzionamento dello Stato e dobbiamo migliorare e adattare le
funzioni dello Stato italiano per gestire meglio la questione nel suo complesso.
        A un tedesco potrà probabilmente sembrare strano ma in Italia, un immigrato che
oggi chieda la cittadinanza italiana può dover attendere, solo per la risposta burocratica,
un numero di anni simile a quelli che in altri paesi sono necessari per ottenere la
cittadinanza. Un esempio e mi spiego. Oggi in Italia sono necessari 10 anni di residenza
per chiedere la cittadinanza. A questi si possono aggiungere 6 o 7 anni per avere la risposta.
Per gli immigrati che chiedono il rinnovo del permesso di soggiorno i tempi di
attesa medi sono al di sopra dei 6 mesi. Parliamo di persone che nell’attesa del rinnovo,
sono bloccati, non possono uscire dall’Italia. Altro esempio. L’Italia ha una splendida
rete di ambasciate e consolati nei paesi di emigrazione degli italiani (in Svizzera, Germania,
Stati Uniti, Svezia), ma non ha una rete adeguata nei paesi di provenienza degli
immigrati. Questo rende difficilissima la possibilità di costruire dei percorsi regolari di
ingresso in Italia.
        Ci troviamo quindi a fare un lavoro che prevede la modifica delle leggi ma anche un
cambiamento del concreto funzionamento dello Stato italiano nei confronti dei migranti.
Per questo servono tempi lunghi; non basta una modifica legislativa, per quanto buona,
perché dalla legge scritta è necessario passare ad una pratica scorrevole e corretta.

        Direzione di marcia delle politi che di immigrazione
        Primo punto: evitare i ghetti, le segregazioni territoriali. In Italia non ci sono
banlieue. L’immigrazione in Italia non è legata alla grande fabbrica fordista, come in
Francia o in Germania, ma ad un tessuto produttivo disperso sul territorio. Non abbiamo
quindi grandi periferie urbane con residenti immigrati; tuttavia abbiamo dei ghetti,
piccoli, ma molto degradati.
        Il Fondo sulle politiche di integrazione che è stato approvato, rende disponibili 50
milioni di euro, destinando quasi metà del suo ammontare a progetti di eliminazione dei
ghetti e di inserimento delle persone nel tessuto residenziale delle città. Stiamo facendo
un ottimo lavoro con alcuni enti locali, tra cui Padova e Brescia: si tratta di proseguirlo
e di estenderlo. No assoluto quindi alla segregazione, ma una profonda attenzione ad
evitare la costruzione di quartieri con abitanti di una sola nazionalità o basati sulla
discriminazione degli immigrati.
        Secondo punto: importanza dell’insegnamento della lingua italiana. Riteniamo che
quello che può trasformare davvero la vita di una persona, che può dargli la possibilità
di entrare in rapporto con una comunità diversa dalla sua di origine, sia la possibilità
di comunicare. Quindi c’è una necessità assoluta di impostare la lingua italiana come
vettore, come comune modalità espressiva.
         Una parte consistente del Fondo sull’Integrazione servirà a finanziare quelle scuole,
quei corsi organizzati dalle associazioni di volontariato o di solidarietà, dalle chiese
come dai sindacati, che fino ad oggi hanno lavorato in modo informale. Noi interverremo
per estendere e sostenere queste iniziative fatte a livello di territorio e di quartiere.
Abbiamo già avviato un esperimento nella moschea di Roma, in collaborazione con il
centro culturale islamico. Intendiamo portare avanti due corsi, uno di lingua italiana,
l’altro di educazione civica. Sono rivolti in particolare alle donne. Questo perché forse
è più facile per una donna immigrata, di 50 anni, musulmana andare in moschea ad
imparare l’italiano, piuttosto che in una scuola pubblica. Vogliamo così avviare corsi
di italiano nei luoghi di aggregazione dei migranti. Così come stiamo lavorando con il
Ministero della Pubblica Istruzione per un programma di lotta alla dispersione scolastica
di giovani immigrati o figli di immigrati. La percentuale di ragazzi e ragazze che
abbandona la scuola dell’obbligo è infatti enorme, superiore al 25%.
         Sempre a proposito della diffusione della lingua, abbiamo in calendario un confronto
con la RAI per chiedere la riproposizione di un programma che andava in onda negli anni
‘60. Gli italiani di una certa età se lo ricorderanno. Si chiamava “Non è mai troppo tardi”,
ed era condotto del maestro Alberto Manzi. Il maestro, che anche nella vita faceva quel
mestiere, insegnava gli aspetti fondamentali della nostra lingua agli italiani adulti che non
la conoscevano a sufficienza. Questa esperienza va adesso riproposta dal sistema televisivo
pubblico agli immigrati. (Dobbiamo ricordarci che l’Italia è uno Stato nazionale recente, e
le persone dell’età di mio padre, per esempio, imparavano l’italiano a scuola e non a casa.
A casa ognuno parlava un dialetto diverso). Stiamo costruendo un sistema, una struttura
complessa di insegnamento e di diffusione della lingua italiana. Partendo dai ragazzi,
e cioè dalla scuola pubblica, vorremmo arrivare al sostegno economico dei percorsi di
volontariato per insegnare l’italiano anche agli adulti. E in questo percorso vorremmo
coinvolgere i mezzi di comunicazione di massa, almeno quelli più diffusi.
         Terzo punto: la centralità della Costituzione italiana. Vorremmo che entrassero
nel senso comune, nella pratica concreta – e non solo degli immigrati, ma anche delle
nostre comunità – tutti quei principi, quei diritti e quei doveri civili, quei diritti sociali
che sono o dovrebbero essere, elementi costitutivi della nostra convivenza e che sono
sanciti dalla Costituzione. E quindi, la democrazia, l’uguaglianza, la parità uomo-donna,
la libertà religiosa, la libertà di espressione. Vorremmo concentrare l’attenzione sulla
Costituzione, evitando leggi specifiche.
         Ritengo sbagliato evitare di dover legiferare per esempio, su elementi di costume.
Faccio un esempio: la discussione avuta in Italia sull’opportunità di impedire per legge
l’uso del velo. Io mi sono battuto molto contro, perché penso che noi dobbiamo limitarci
all’essenziale della civile convivenza. Credo che, proprio nel rispetto della Costituzione,
non dovremmo obbligare le persone a scegliere tra i costumi del paese di origine o della
propria fede e il vivere in Italia. Dobbiamo concentrarci sugli elementi di fondo, quelli
di base, necessari alla convivenza civile, e non sulle forme fenomeniche, non sugli elementi
di costume che sono storicamente determinati. Credo che per questi ultimi vada
lasciata libertà di scelta. Gli elementi di costume non devono diventare un elemento di
contrasto, di scelta netta. Non possiamo imporre una linea di fedeltà allo Stato italiano,
e neanche favorire un’adesione alla propria identità, come dire, pre-esistente.
Sono convinto che la laicità dello Stato sia un punto decisivo per permettere l’integrazione
e l’inclusione sociale, perché proprio nella laicità stanno gli elementi fondamentali
della convivenza civile. L’esempio che faccio sempre è quello di mia nonna che
metteva il velo. Mia figlia invece indossa la minigonna. Mia nonna non sarebbe mai andata
in giro in minigonna, né mia figlia col velo. Ma sono tutte e due italiane. I costumi
si modificano, se non sono loro a costituire, o peggio a costringere, la tua l’identità. E
siamo noi che dobbiamo evitare di fare questa operazione di costrizione o di appiattire
le persone su un singolo aspetto della loro identità: la categoria generale dell’immigrato
o dell’immigrata.
        Insomma, si tratta di porre la Costituzione come legge centrale, senza altri orpelli.
Come dice la Bibbia: “Il tuo sì sia sì, il tuo no sia no, perché tutto il resto viene dal maligno”.
Questo è a mio parere il senso della centralità della Costituzione. Nulla di meno,
ma nulla di più.

         Allargamento di diritti sociali, civili e religiosi
         Da queste precondizioni vogliamo lavorare in primo luogo ad un sostanziale allargamento
dei diritti sociali. Vogliamo che chi lavora in Italia abbia gli stessi diritti degli
italiani. C’è bisogno di un welfare universalistico, che includa tutti, visto che tutti quelli
che vivono e lavorano sul territorio italiano contribuiscono al finanziamento dello stato
sociale. Peraltro è interessante notare come il tasso di occupazione della popolazione
italiana sia al 57%, mentre quello degli immigrati regolarmente presenti in Italia sia al
67%. Questo vuol dire che gli immigrati contribuiscono proporzionalmente di più degli
italiani al finanziamento del sistema sociale. Quindi, un welfare esteso a tutti e a tutte a
parità sostanziale di diritti sociali.
         In secondo luogo occorre operare per una tendenziale omogeneità di diritti civili e
per questo abbiamo previsto il diritto di voto alle amministrative; così come l’allungamento
e la semplificazione della richiesta dei permessi di soggiorno che si faranno presso
l’anagrafe dei comuni, e il superamento del diritto penale speciale per gli immigrati.
         Da ultimo, ma non perché sia meno importante, c’è bisogno di una legge che riconosca
e rispetti la libertà religiosa. Si tratta di tradurre in pratica il mandato costituzionale.
Quello che dico in Germania potrà sembrare strano, ma in Italia è ancora in vigore una
legge sui “culti ammessi”. È una legge del 1929, e riguarda i culti diversi dalla religione
cattolica. Eravamo in pieno fascismo ed è una legge di polizia. Oggi abbiamo la necessità
di fare una legge sulla libertà religiosa nuova. Una legge che rispecchi l’ordinamento
costituzionale, quello che vige in Italia da più di cinquanta anni.
         Questi tre elementi (diritti sociali, diritti civili e libertà religiosa) hanno un obiettivo
semplice: garantire alla persona immigrata il rispetto dei suoi diritti essenziali, quelli
fondamentali. Parallelamente all’immigrato chiediamo il rispetto della Costituzione e di
imparare la lingua italiana. L’immigrato non deve essere spinto a difendersi attraverso
l’appartenenza ad una comunità chiusa. All’immigrato deve essere garantita la possibilità
di stare nella nostra società. L’immigrato, e così l’immigrata, non devono sentirsi deboli,
costretti a costruire un meccanismo tribale di difesa di se stessi attraverso un gruppo.
         Penso che le forme comunitarie che emergono tra gli immigrati nei paesi occidentali
non siano quello che rimane di un’identità precedente, religiosa o nazionale. Credo che
siano cose nuove, forme che gli individui con un passato di migrazione elaborano per
difendersi. Lo fanno in una situazione in cui si sentono in pericolo, che abbiano una percezione
che suona più o meno così, “Meglio stare in gruppo, perché da soli ci schiacciano,
non ci rispettano”. I diritti fondamentali che sono alla base della nostra Costituzione devono
essere garantiti dallo Stato italiano e non da forme comunitarie, chiuse.

         Cittadinanza, lavoro, identità
         Finisco sul nodo delle seconde generazioni e sul modo in cui abbiamo portato avanti
questa legge, come l’abbiamo costruita; i problemi dell’identità e della cittadinanza.
Io credo in generale che la cittadinanza, più che un punto definitivo sia la tappa di un
processo. Lo si vede bene sulle seconde generazioni. Sebbene siano in gran parte già
cittadini, i giovani, le giovane immigrate, presentano nodi complessi.
         Il lavoro, per esempio. Il tipo di attività che era vista come una benedizione per le
prime generazioni non è accettato allo stesso modo dalle seconde. In Italia gli immigrati
fanno mediamente quello che gli italiani non vogliono più fare: lavorano in fonderia, in
agricoltura, nell’allevamento e nella pastorizia, forniscono l’assistenza familiare con orari
molto lunghi e con una retribuzione molto bassa. Tutti lavori che gli italiani rifiutano. Ma
i figli degli immigrati non sono più così disponibili a fare questo tipo di attività.
         Questo è un problema non da poco perché il lavoro che era visto come un punto di
arrivo per il padre o per la madre è visto come un elemento di segregazione o discriminazione
per le seconde generazioni. È un punto decisivo su cui bisogna lavorare in
termini di scolarizzazione e di formazione professionale. Bisogna modificare le leggi
italiane, a partire dalla legge 30, in modo da non segmentare troppo il mercato del lavoro.
Se oggi questo della segmentazione non viene percepito come un problema è perché
lo tamponiamo con consistenti ondate di immigrazione, ma rappresenterà un problema
grande fra dieci anni.
         Altro elemento a cui dobbiamo prestare attenzione riguarda l’identità. Siamo abituati
a parlare di immigrati in termini generici. La cosa è già un po’ ridicola perché tra
gli immigrati ci sono algerini come cinesi o brasiliani, cioè persone che tra loro non
hanno nessun punto in comune se non di essere arrivati in Italia. Quando si parla di
immigrati qui da noi, sembra quasi di stare in quei quadri che raffigurano New York.
Quelli dove la città si limita alla Quarta e Quinta strada, e il resto è una cosa indistinta
sullo sfondo, un amalgama in cui tutto si confonde. Per le prime generazioni questo può
funzionare. Per le seconde non è più così, perché chi è nato in Italia o ha vissuto una
parte consistente della propria vita in Italia non si considera in primo luogo come un
figlio di immigrati, ma a partire dalla propria esperienza.
         Mi ha colpito molto una ragazza di seconda generazione, con la pelle scura – lei
parla il dialetto romanesco, tifa per la Roma, si sente “romana” – che un giorno mi
ha detto: “Sono nata a Roma e mi ricordo di avere la pelle scura quando me lo dicono
gli altri”. Dobbiamo fare attenzione a non appiattire l’identità di quella ragazza su un
aspetto solo, il colore della sua pelle, che per lei non è assolutamente l’elemento fondante
della sua identità. Dobbiamo riconoscere l’identità plurale che ognuno di noi ha (io
sono un maschio, italiano, comunista, valdese, bianco, ministro pro-tempore e mi piace
andare in montagna). Se per ciò che riguarda la prima generazione possiamo pensare di
avere a che fare con dei “migranti”, alla seconda generazione dobbiamo riconoscere una
pluralità di identità. Quindi riconoscere questi giovani, queste giovani, solo a partire
dal fatto di essere figli di un immigrato, cioè da un solo punto di vista rispetto a tutto
quello che loro effettivamente sono, può diventare, nella loro percezione, una forma di
discriminazione inaccettabile.
         Voglio sottolineare questo concetto della percezione soggettiva della discriminazione,
e la sua inaccettabilità. Ci sono cose che per la prima generazione sono accettabili.
La prima generazione subisce una serie di cose che ritiene non discriminanti. Magari
l’immigrato di prima generazione sa che c’è un’ingiustizia di fondo in certe discriminanti,
ma la accetta. Forse confligge con essa, ma c’è un grado di disponibilità maggiore.
Per le seconde generazioni, la discriminazione diviene intollerabile perché i ragazzi e
le ragazze giustamente non capiscono la differenza rispetto al coetaneo che ha fatto la
stessa scuola, usa lo stesso linguaggio, ha fatto esattamente lo stesso percorso. Penso
che si debba accettare l’idea di un’ identità plurale, che siano le relazioni a modificare
l’identità. Nelle relazioni, quando si è in tanti, si modifica l’identità di tutti, non solo
quella di chi è arrivato per ultimo. Questo è il punto decisivo per evitare che le seconde,
le terze, le quarte generazioni, formino ex novo delle comunità chiuse che consegnano
il nostro occidente ad una sorta di apartheid concreto.
         Credo che il problema strategico non sia la prima generazione. La sfida nel tempo
è tenere assieme la persistenza dei valori di fondo dell’occidente, quali la libertà, la democrazia,
il rispetto, insomma i valori della rivoluzione francese insieme ai diritti sociali
e alla valorizzazione delle identità plurali. Su questo credo che la scommessa sia una.
Evitare che il fatto di essere immigrati continui ad essere il punto discriminante per
qualificare una persona della seconda, terza, quarta generazione. In altre parole l’essere
figlio di un immigrato non deve implicare la ghettizzazione, da un lato, né la rivendicazione
identitaria chiusa, dall’altro.
         Volevo anche accennare al percorso partecipato attraverso cui si è arrivati al nostro
disegno di legge, come abbiamo lavorato, della partecipazione che c’è stata, attorno a
questa legge, dell’ampio e ricco dibattito che l’ha seguita, in questi mesi. Molti i soggetti:
comuni, associazioni, sindacati e imprenditori. Molte sono state le proposte fatte,
molte le polemiche, come è normale. Io credo che pur non recependo completamente le
richieste dei soggetti proponenti e delle molte associazioni questa legge, se approvata,
costituirebbe una vera svolta in materia di politiche dell’immigrazione, passando da un
problema di ordine pubblico a grande questione sociale e culturale.
         Infatti, se i criteri per cui una persona può finire nel CPT sono stati di molto ridotti, e
se le condizioni di trasparenza che vorremmo ottenere per chi finisce dentro un CPT sono
migliori, possiamo augurarci col tempo di agire sul senso comune, di agire positivamente
sul senso comune? A livello di senso comune mi pare importante pure un’altra norma.
Quella che prevede una regolarizzazione per il migrante che sia stato presente per 18 mesi
in Italia, anche se alla fine si è adattato a lavorare in nero. Spero che siano pratiche che
possano servire a sciogliere l’equazione immigrato-uguale illegale-uguale delinquente.

        Ringraziamento al movimento anti razzista
        Quello che siamo riusciti a ottenere è dovuto in primo luogo alla capacità di questo
movimento antirazzista di sedimentarsi in un enorme lavoro sul territorio. Le associazioni,
i volontari, hanno non solo lavorato moltissimo, ma lavorato bene. Il loro lavoro
ha permeato, influenzato, dato linfa a buona parte delle amministrazioni locali.
        Per quanto mi riguarda, come Ministro ho cercato di costruire canali, percorsi,
attraverso cui questa elaborazione, soprattutto questa pratica politica diffusa, potesse
entrare dentro il processo di produzione della legge. Da questo punto di vista il percorso
di ascolto fatto con le assemblee regionali, gli incontri nazionali con le associazioni,
sono stati elementi decisivi del processo. Il testo prodotto è quindi il frutto di una impostazione
politica che ci siamo dati, puntando a contaminare la politica con le pratiche sociali,
costruendo processi partecipati che impedissero separatezze autoreferenziali della
politica. Credo che dobbiamo continuare a lavorare, se vogliamo rendere il nostro paese
più civile in generale, e più civile nei confronti dei migranti in particolare.
Insomma, dobbiamo insistere e porre le basi per battere il populismo di destra, che
ha nel razzismo, nella produzione di paure e nella divisione dei lavoratori, i propri punti
di forza. Da qui dobbiamo partire per costruire la società in cui sia possibile convivere
civilmente, in cui le diversità possano essere valorizzate senza dar luogo a gerarchie o
a segregazioni.
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