La formazione per il nuovo Terzo settore: una proposta partecipata per FQTS 2018-2020

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La formazione per il nuovo Terzo settore: una proposta partecipata per FQTS 2018-2020
La formazione per il nuovo Terzo settore:
    una proposta partecipata per FQTS 2018-2020
                  a cura del gruppo di progettazione di FQTS1

1 il gruppo di progettazione è composto da: Mauro Giannelli, coordinatore di progetto; Patrizia
Bertoni, segreteria generale; esperti: Francesca Coleti, Daniele Ferrocino, Giovanni Serra, Luciano
Squillaci; docenti: Leonardo Becchetti, Renato briganti, Gaia Peruzzi, Andrea Volterrani, Flaviano
Zandonai. Si allega al documento una breve scheda sintetica dei curriculum.
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Indice del documento per argomenti

pag.4- L’obiettivo di FQTS

pag.5- I risultati da conseguire

pag.5-Il Terzo settore Meridionale alle prese con i mutamenti nel tessuto
socioeconomico del Mezzogiorno

pag.7- L'occupazione, l'occupazione giovanile, gli andamenti demografici e la fuga
dal sud

pag.10- Condizioni economiche e povertà

pag.12- Politiche pubbliche

pag.16- Gli SDGs, Terzo settore e meridione

pag.22- La sfida della riforma del Terzo settore

pag.25- L’esigenza di infrastrutturazione sociale nel Meridione e il ruolo della
formazione

pag.26- L’impianto formativo

pag.28- Criteri metodologici

pag.28- I destinatari del percorso formativo

pag.28- La selezione partecipanti

pag.30- La formazione.

pag.30- Il piano interregionale

pag.31- Linea formativa territori e co-programmazione sociale

pag.34- Linea formativa animatori territoriali

pag.34- Linea formativa Politiche culturali

pag.37- Linea formativa Benessere ed economia della felicità

pag.40- Linea formativa Democrazia e partecipazione

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pag.43- Il Piano Regionale

pag.43- le linee formative Nazionali

pag.44- SDGs - Informazione e formazione sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile per

        la pianificazione, la valutazione e il monitoraggio da parte del Terzo settore

pag.46- Sdg’s goal 17- Partenariati e risorse per strategie trasformative
pag.48- Individuazione e messa in trasparenza e convalida delle competenze
pag.50- Formazione staff
pag.51- Piano di comunicazione
pag.53- Monitoraggio e valutazione
pag.55- Breve presentazione del gruppo di progettazione

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L’obiettivo di FQTS

      Sviluppare relazioni, rafforzare la fiducia, costruire reti, accrescere le
capacità e le conoscenze: sono questi gli obiettivi di FQTS.

      Un percorso formativo che si rivolge principalmente agli ETS del meridione
del nostro paese e che vuol contribuire ai cambiamenti e allo sviluppo di un territorio
ricco di potenzialità e di competenze, che riteniamo non solo disposto ma
assolutamente capace di apprendere, sperimentare, sviluppare e realizzare il bene
comune, l’interesse generale, per elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione
e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l'inclusione e il             pieno
sviluppo della persona, a valorizzare il potenziale di crescita e di occupazione
lavorativa, in attuazione degli articoli 2, 3, 18 e       118, quarto comma, della
Costituzione.

      Non sarà possibile contribuire a realizzare obiettivi così ambiziosi se non
attraverso un processo di formazione che veda coinvolti i molteplici attori dello
sviluppo e della coesione sociale: una formazione fra pari che realizzi un’azione
formativa democratica e orizzontale; un’azione che individui e amplifichi i saperi e
le conoscenze; un’azione che sviluppi il terzo settore come soggetto politico ed
organizzativo; un‘azione che trovi nella dimensione della partecipazione, della
comprensione e dell’accoglienza i presupposti e le conseguenze del proprio esserci
e del proprio agire.

      Vogliamo introdurre con forza il concetto di competenza nel nostro percorso
formativo, perché riteniamo che la nostra formazione non accademica e non
tecnica, trovi valore e significato quando riesce ad accrescere la capacità di avere
vari e molteplici punti di vista; di riconoscere i cambiamenti; di adeguare le proprie
risposte a questi cambiamenti; di realizzare un sistema comunitario aperto e
inclusivo che si proponga come nuovo modello culturale ed economico rispetto ad
un vecchio e fallimentare approccio predatorio ed egoistico. La formazione non
potrà essere che una delle leve del cambiamento e un contributo importante, anche
se chiaramente non esaustivo. Senza la formazione però le altre leve e gli altri
contributi potrebbero essere non organizzati e non positivamente strutturati;
potrebbero essere leve e contributi inefficaci ed inefficienti: la formazione è in
fondo il lubrificante per far funzionare un motore complesso ma di grande resa che
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deve far procedere l’intera comunità umana verso uno sviluppo sostenibile e
possibile per tutti.

I risultati da conseguire

       Gli obiettivi formativi che sopra abbiamo descritto sono evidentemente al
tempo stesso anche dei risultati da conseguire, possiamo quindi limitarci in questo
paragrafo alla definizione di un risultato fondamentale e che sottende a tutta la
nostra attività formativa: vogliamo contribuire a promuovere e rafforzare
l’infrastrutturazione sociale nelle regioni dell’Italia meridionale. L’espressione
“infrastrutturazione sociale” fa riferimento allo sviluppo di strutture immateriali,
ovvero di reti relazionali che danno l’opportunità di mettere in collegamento una
molteplicità di luoghi e di soggetti, di farli conoscere, dialogare e lavorare insieme
per il bene comune. In particolare, vogliamo contribuire attraverso il percorso
formativo di FQTS ad incentivare percorsi di coesione sociale al Sud per favorirne lo
sviluppo. La nostra azione formativa va a sostenere, non solo culturalmente ma
anche con capacità e competenze, progetti e forme di collaborazione e aggregazione
tra i soggetti che intendono impegnarsi per il miglioramento delle comunità locali,
nell’ottica della responsabilità, della partecipazione e della solidarietà. Vogliamo
formare per promuovere o rafforzare iniziative di economia civile, di cultura della
donazione, di partecipazione attiva al welfare di comunità, valorizzando le risorse
sociali e culturali locali, perché siano sempre più forza motrice di uno sviluppo che
parte dal territorio.

Il Terzo settore Meridionale alle prese con i mutamenti nel tessuto
socioeconomico del Mezzogiorno

L'economia meridionale

       La formazione dei quadri di Terzo settore, proprio perché andragogica, non
può prescindere dal contesto socio-economico in cui i discenti dovranno operare.
Per questo nella costruzione del percorso formativo per il triennio 2018-2020 si è
partiti dalle principali dinamiche in atto nel Mezzogiorno per provare a delineare
quali potranno essere gli scenari in cui ci si dovrà muovere in un prossimo futuro.

Alcuni preliminari spunti di riflessione nascono dal rapporto Svimez 2017 che
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evidenzia come nel 2015-16 si sia manifestata anche nel Mezzogiorno una sostanziale
ripresa dopo la lunga crisi avviatasi nel 2008. Addirittura la crescita registrata al sud
in tale biennio è risultata più consistente di quella del centro nord ed appare
particolarmente significativa la performance del settore industriale: quello
meridionale ha registrato un +7% pari a più del doppio di quanto registrato nel resto
d'Italia (+3%). Certo su questo risultato hanno inciso fattori fattori estemporanei: la
profondità della crisi registrata negli anni precedenti in quest’area; eventi peculiari
connessi a fluttuazioni climatiche e geopolitiche; accelerazioni legate ai cicli della
programmazione comunitaria e a strumenti messi in campo dal Governo. Tuttavia è
confortante notare che è comunque possibile invertire la dinamica economica
prevalente e fare del Mezzogiorno un’area capace di innescare processi virtuosi.
Soprattutto è interessante rilevare come un processo di sviluppo del Sud può
interessare anche altri settori e non solamente l'agricoltura ed il turismo, settori
tradizionalmente forti in questa area e suscettibili anch'essi di ampi margini di
miglioramento e di crescita.

       Naturalmente la ripresa registrata nel biennio 2015-16 non può far
dimenticare quelle che sono le carenze strutturali dell'economia meridionale: livelli
salari modesti, scarsa produttività del lavoro, ridotta competitività del sistema
imprenditoriale, ritmi di accumulazione e di investimento insufficienti. Il che si
traduce inevitabilmente in un minore benessere. D'altro canto le stime della Banca
d'Italia sulla base degli attuali andamenti economici, ci dicono che l'Italia recupererà
i livelli pre crisi nel 2019. Tuttavia anche se il Mezzogiorno dovesse riuscire a
mantenere negli anni a venire gli attuali ritmi di crescita, secondo la Svimez il
Mezzogiorno recupererà i suoi livelli pre crisi soltanto nel 2028, ossia dieci anni dopo
il resto d'Italia. Il che porterebbe ad una situazione complessiva (fra crisi e ripresa)
di un ventennio a "crescita zero", ventennio per altro preceduto dalla sostanziale
stagnazione registrata fin dai primi anni del Duemila. Facile intuire cosa vorrebbe
dire per il Mezzogiorno tale prospettiva sotto il profilo economico, sociale e
demografico; soprattutto se si confronta tale andamento sostanzialmente piatto con
la grande dinamicità che si sta registrando nel contempo in altre aree d'Europa e del
pianeta e con l'emergere prepotente di nuove realtà economiche in grado di
soppiantare alcune produzioni tipiche del nostro Mezzogiorno (si pensi alla Turchia,
al Marocco, all'area balcanica, oltre che alla Spagna ed al Portogallo).

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Questi scenari dell'economia meridionale sono significativi per i quadri del Terzo
settore sotto diversi profili. Anzitutto non si può ignorare che lo sviluppo o
l'arretramento di alcuni settori produttivi determinano degli impatti sui territori con
i quali è necessario fare i conti (si pensi per esempio all'abbandono delle campagne
registrato negli ultimi anni in molte aree o lo sviluppo di attività dall'impatto
ambientale devastante registrate in altre). Come anche è innegabile che un numero
crescente di aziende profit stia sviluppando programmi di responsabilità sociale che
potrebbero ben combinarsi con ambiti di intervento del terzo settore meridionale.
Conoscere quali settori produttivi dimostrano maggiore dinamicità, può essere utile
ad orientare i quadri delle organizzazioni nella ricerca di partnership e
collaborazioni con il mondo imprenditoriale. Inoltre saper collocare il Terzo settore
all'interno di processi socio-economici complessivi, può aiutare soprattutto le reti
strutturate e di rappresentanza a passare dalla logica “riparativa” (interveniamo per
mitigare i guasti prodotti dal mercato e dai limiti delle politiche) a quella proattiva
di attori consapevoli nei processi di sviluppo territoriale. Il tutto senza dimenticare
che il Terzo settore è già in se stesso un settore anche produttivo che realizza beni
e servizi, capace di creare buona e stabile occupazione anche in momenti di crisi
economica generalizzata (come testimoniato da tutte le ricerche condotte in questi
anni) e, soprattutto, un attivatore di processi sociali che possono a loro volta
generare la nascita di imprese sociali e forme originali di economia sociale.

L'occupazione, l'occupazione giovanile, gli andamenti demografici e la fuga dal
sud

       Anche sotto il profilo dell'occupazione i dati dell'ultimo biennio lasciano
intravedere segnali di speranza. Finalmente il numero totale degli occupati del
Mezzogiorno è risalito sopra i 6 milioni, anche se mancano all'appello ancora 380mila
posti di lavoro per ritornare ai livelli pre-crisi (mentre nel resto d'Italia l'occupazione
ha già superato di circa 50mila unità tale livello). Disaggregando i dati per regioni,
si registrano dinamiche alquanto divergenti: gli occupati calano in Sardegna e, sia
pure in misura più ridotta in Sicilia. Crescono nelle altre regioni meridionali, ma
dappertutto si rimane comunque distanti dalla situazione ante crisi: -10,5% di
occupati in Calabria, -8,6% in Sicilia, -6,6% in Sardegna e Puglia, -2,1% in Campania
e -0,8% in Basilicata. Il settore che ha creato maggiore occupazione è quello agricolo
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(+5,5%) seguito da quello industriale (+2,4%) e dai servizi (+1,8%), mentre le
costruzioni hanno registrato un ennesimo calo (-3,9%).

       Sempre il rapporto Svimez 2017 segnala come l'attuale tasso di occupazione
nel Mezzogiorno è il peggiore d'Europa collocandosi di circa 35 punti al di sotto della
media UE a 28 stati. Per altro si rileva che al sud sono cresciuti in maniera più
consistente che nel resto d'Italia i contratti a tempo indeterminato, il che è
riconducibile principalmente al prolungamento operato solo per il Mezzogiorno per
le decontribuzioni sulle assunzioni a tutele crescenti (decontribuzioni che sono state
invece sensibilmente ridotte nelle altre aree del paese).

       Un contributo significativo alla crescita dell'occupazione è stato dato dal part-
time involontario (+1,9%) che sembra concentrarsi principalmente nelle regioni
meridionali (nel Centro-Nord è infatti calato dello 0,1%) e la cui incidenza sul totale
del lavoro resta al Sud altissima (di poco inferiore all’80%).

       Anche il tasso di disoccupazione continua a mantenersi particolarmente
elevato e cresce leggermente nel 2016 rispetto al 2015 (19,6% rispetto al 19,4%). Nel
mezzogiorno rimane particolarmente elevato il tasso di disoccupazione giovanile che
si è attestato nel 2016 al 35,8%, contro il 16,1% del Centro Nord. Anche la crescita
dell'occupazione registrata nell'ultimo biennio ha interessato soprattutto gli
occupati anziani e il lavoro a tempo parziale, il che ha di fatto consolidato la
struttura e la qualità dell'occupazione prodotta dalla crisi: un drammatico dualismo
generazionale. A livello nazionale mancano all'appello ancora oltre 1 milione e 900
mila di giovani occupati rispetto al livello del 2008, dato che nel Mezzogiorno viene
aggravato da una flessione dell'occupazione giovanile ancora più accentuata che nel
Centro-Nord.

       A fronte di questi andamenti del mercato del lavoro, non è difficile
comprendere come mai molti giovani decidano di abbandonare il Mezzogiorno.
Infatti negli ultimi cinque anni sono emigrati dal Sud 1,7 milioni di persone con una
perdita secca di popolazione pari a 716 mila unità, il 72,4 % under 34, di cui 198 mila
laureati. Le regioni del sud, secondo la Filef (Federazione italiana lavoratori emigrati
e famiglie), presentano una nuova emigrazione tre volte maggiore di quella che
emerge dai dati Istat, e che supera il numero di immigrati e profughi che sbarcano
sulle coste. Nel 2015 lo stock di emigrazione ha visto prima la Sicilia con 713.483
espatri, poi la Campania con 463.239 unità, seguite subito dopo da Calabria e Puglia.
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Così non deve sorprendere che negli ultimi quindici anni, la popolazione meridionale
è cresciuta di soli 264 mila abitanti a fronte dei 3 milioni e 329 mila nel Centro-Nord.
Questo risultato è determinato sia dalla riduzione della popolazione autoctona
(diminuita di 393 mila unità, mentre è cresciuta di 274 mila nel Nord), che dalla
diversa distribuzione dell'immigrazione nelle diverse aree del paese. Nel 2016 gli
stranieri sono stati il 10,6% della popolazione del Centro-Nord (4,2 milioni) e il 4%
(834 mila) di quella meridionale (rispetto al 2015 sono aumentati di 13 mila unità gli
stranieri residenti nel Centro-Nord, mentre si sono ridotti di 34 mila unità quelli nel
Mezzogiorno). Così alla fine del 2016 la popolazione del Mezzogiorno risulta pari al
34,3% del totale nazionale con una contrazione rispetto all’inizio del nuovo millennio
quando risultava pari al 36%. Sempre secondo il rapporto SVIMEZ le dinamiche
territoriali, le migrazioni interne e quelle dall’estero continueranno a svolgere un
ruolo rilevante e contribuiranno a ridefinire la geografia umana, facendo recedere
ulteriormente il peso del Mezzogiorno che perderà 5,3 milioni di abitanti tra il 2016
e il 2065 (in termini percentuali, la popolazione meridionale passerebbe dall’attuale
34,4% sul totale nazionale al 29,2% del 2065).

       Particolarmente significativo è il fatto che l'andamento demografico negativo
sia strettamente connesso con un'emigrazione principalmente giovanile. Il rapporto
2016 della Fondazione Migrantes sugli Italiani nel Mondo, delinea questa nuova
emigrazione giovane e acculturata: tra le motivazioni, oltre al lavoro, c'è “il
desiderio di progredire professionalmente e sperimentarsi”. Risulta dunque evidente
che la connessione studio-formazione-lavoro (per esempio in esperienze come
Erasmus) porta poi a far scegliere i paesi di soggiorno temporaneo per scommettere
sul futuro. Viceversa tali politiche sembrano poco efficaci nelle regioni del
Mezzogiorno, dove strumenti come Garanzia Giovani hanno sostituito il lavoro
precario nella pubblica amministrazione, dimostrandosi in definitiva poco idonee per
la creazione di occupazione stabile.

       I “Millennials” sono i nuovi emigranti, “pendolari a lungo raggio” che
tracciano le loro rotte grazie agli smartphone, precari nella loro stessa esperienza
di migrazione, che non hanno bisogno di cancellare la propria residenza, ma
circolano nell'Europa di Shengen e portano intelligenza e vitalità lì dove sono
valorizzate le loro capacità. Può dunque essere vincente chi saprà immaginare come
invertire la rotta del Paese proprio scommettendo sulle sue energie più vivaci. Oggi

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il servizio civile nazionale costituisce l'unica occasione civica, formativa e di
transizione verso il lavoro che il Paese offre a chi ha dai 18 ai 28 anni, valorizzando
le competenze dei giovani, italiani e italiani di seconda generazione. Per le
organizzazioni di terzo settore meridionale può essere strategico saper leggere le
evoluzioni del mercato del lavoro e utilizzare al meglio le opportunità che
programmi di istruzione e formazione (Erasmus, Garanzia Giovani, Servizio Civile,
etc.) possono offrire per trattenere i millennials. In tal modo si possono offrire loro
occasioni concrete in cui mettere in gioco le proprie abilità: dalle capacità
linguistiche   a   quelle   multimediali,        necessarie   anche   per   rinnovare   e
sprovincializzare mestieri e tradizioni regionali. Per fare tutto questo, bisogna saper
offrire occasioni per andare oltre la dimensione individuale, come quella che ispira
ogni avventura migratoria, e scommettere su un progetto collettivo per l'intero
mezzogiorno. Il territorio non è della storia, ma di chi lo abita. Mobilità sociale,
lavoro, benessere possono divenire una prospettiva concreta solo se si comincia a
pensare al plurale, puntando sulle formazioni solidali del terzo settore per il civismo,
la formazione, la partecipazione democratica e la creazione di lavoro pari.

       Al tempo stesso il Terzo settore meridionale non può rimanere indifferente
alle distorsioni che le dinamiche occupazionali cui si è fatto cenno possono
determinare nelle comunità locali e nei territori. Soprattutto quando tali dinamiche
continuano ad acuire la polarizzazione sociale facendo sì che la ricchezza di
concentri sempre più in alto, mentre cresce a dismisura il numero di working poors.
Una sfida importante sarà dunque quella di attrezzare sempre più le organizzazioni
meridionali a confrontarsi con processi economici potenzialmente dirompenti per la
coesione sociale, processi meglio descritti nel paragrafo seguente.

Condizioni economiche e povertà

       La Svimez, nel rapporto 2017 sull'economia del Mezzogiorno, racconta di un
Sud dove il rischio povertà è tre volte quello del Nord, una persona su 10 è in povertà
assoluta (6% nel Centro-Nord) e l'incidenza sul totale della popolazione è
praticamente raddoppiata negli ultimi dieci anni (nel 2007 solo 5 meridionali su 100
erano in condizioni di povertà assoluta). Il fenomeno si concentra inoltre nelle
periferie: la povertà assoluta nel Mezzogiorno nel 2016 aumenta nelle periferie delle
aree metropolitane e nei comuni con più di 50 mila abitanti (da 8,8% nel 2015 a
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11,1% nel 2016), mentre diminuisce sensibilmente nei comuni centro delle aree
metropolitane e in misura più contenuta nei comuni con meno di 50 mila abitanti
(da 8,4% nel 2015 a 5,4% nel 2016 e da 8,8% a 7,8% rispettivamente).

Neanche la ripresa economica e quella dell'occupazione sono riuscite ad incidere sul
fenomeno: i nuovi posti di lavoro hanno infatti interessato in maniera molto limitata
le fasce di popolazione più fragili: lavoratori con un basso livello di istruzione,
stranieri e giovani. Tant'è che gli occupati privi di titolo di studio o con licenza
elementare hanno subito una ulteriore flessione nel 2016, mentre la crescita degli
occupati stranieri nel biennio di ripresa si è di fatto dimezzata passando da valori
intorno al 5% annuo negli anni della crisi al circa 2,5% attuale. Particolarmente
significativo è stato anche l’incremento dei lavoratori a bassa retribuzione che ha
caratterizzato l’ultimo decennio, la cui quota, dopo un andamento sostanzialmente
stabile nella prima metà degli anni Duemila, è salita nella crisi dal 30% a circa il 35%.

Questa dinamica inerente il mercato del lavoro, si ripercuote anche sulla mobilità
sociale rendendo sempre più problematico riuscire a risalire nella piramide. I dati
più recenti relativi al 2016 evidenziano che oltre il 40% di coloro che provengono da
famiglie con basso livello d’istruzione non va oltre il titolo di licenza media, mentre
solo poco più del 10% riesce a ottenere un titolo universitario. Viceversa oltre il 60%
dei figli di laureati riesce a conseguire un titolo universitario.

Date queste dinamiche del mercato del lavoro, risulta inevitabile che gran parte
dell’azione redistributiva debba essere svolta dalle politiche pubbliche, in
particolare da quelle concernenti l'istruzione e la formazione, il sostegno ai percorsi
di studio, i canali formali di ricerca lavoro, i centri per l'impiego e gli strumenti di
inclusione attiva. Particolarmente appropriati possono rivelarsi anche i trasferimenti
pensionistici, quelli monetari di sostegno al reddito, gli assegni al nucleo familiare
ed i sussidi di disoccupazione.

In tale prospettiva il Re.I. (Reddito di Inclusione) può rivelarsi uno strumento capace
di avviare, in prospettiva, un processo in grado di invertire le tendenze in atto. Se
infatti si finanziasse tale spesa e per mantenere i «saldi invariati» si modificasse
l'imposizione fiscale sugli immobili, si potrebbe determinare un impatto positivo
anche sui consumi e generare un processo in grado di rivitalizzare l'economia del
paese. Si tratta in buona sostanza di ambiti di intervento e settori nei quali il terzo
settore Meridionale può giocare dei ruoli strategici.
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Occorre infatti considerare che la povertà vera e propria è un fenomeno complesso
che dipende da diversi fattori e che emerge in maniera drammatica al termine di
processi di impoverimento e di deprivazione che possono svolgersi anche per lunghi
periodi. L'essere poveri non significa semplicemente non avere un reddito
sufficiente, ma comporta anche l'esclusione dalle opportunità a cui possono
accedere gli altri, l'impossibilità di attivare percorsi di formazione e qualificazione,
la carenza di servizi e presidi socio-sanitari adeguati, la difficoltà ad esercitare i
diritti di cittadinanza e, in definitiva, l'impossibilità a partecipare pienamente alla
vita economica e sociale del paese. Per questo il terzo settore deve essere in grado
di sviluppare una gamma di iniziative e compiti differenziati sia per ambito di
intervento che per tipologia di strumenti. Soprattutto diventa necessario saper
integrare le risorse, tessendo reti e sviluppando programmi che permettano di
combinare le misure volte a sostenere i redditi delle persone e delle famiglie, con
gli interventi di inclusione attiva finalizzati alla graduale conquista dell'autonomia.
Al tempo stesso è di cruciale importanza saper sviluppare un'analisi quantitativa e
qualitativa dei fenomeni emergenti di povertà, soprattutto andando a stanare quelle
condizioni di povertà estreme spesso difficilmente raggiungibili e che richiedono
delle modalità di intervento peculiari e spesso molto complesse.

Naturalmente il Terzo settore meridionale non può farsi carico da solo di tali
problemi, soprattutto se si tiene conto che nell'ambito degli interventi di contrasto
alla povertà e all'esclusione sociale operano diverse istituzioni che, per altro, fanno
capo a diversi livelli di governo (nazionali, regionali e locali). Tutto questo rende
ancora più problematica la lettura dei bisogni e soprattutto la programmazione degli
interventi territoriali e la valutazione delle politiche globali. Proprio per questo si
rende necessario pensare ad un terzo settore in grado di analizzare e capire meglio
le politiche pubbliche di cui si dirà appresso.

Politiche pubbliche

       Per inquadrare il ruolo svolto dalle politiche pubbliche nel Mezzogiorno può
essere utile considerare i dati contenuti nella Relazione annuale CPT (Conti Pubblici
Territoriali) dell'Agenzia per la Coesione Territoriale, relazione che ha l’obiettivo di
fornire un’analisi delle diverse componenti della spesa in Italia e nel Mezzogiorno
riferite al Settore Pubblico Allargato (SPA - che comprende non solo le politiche di
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spesa effettiva delle istituzioni e della PA, ma anche quelle delle imprese pubbliche
nazionali e locali).

Un primo dato interessante riguarda la spesa totale che, dopo gli anni di
contenimento dovuti alla crisi economica, ha registrato un incremento fra il 2014 e
il 2015 di circa il 3,7%, attestandosi nell’ultimo anno su un valore di 14.567,12 euro
pro capite. Il tutto però con una netta differenziazione fra le aree del paese (in
media: 15.801,51 € nel Centro‐Nord a fronte dei 12.222,23 € nel Mezzogiorno). Si
consideri inoltre che il 71,2% della spesa totale del SPA (pari a circa 855 miliardi di
euro) si concentra nel Centro-Nord dove risiede il 65,6% della popolazione, mentre
solo il 28,8% viene allocata al sud dove risiede invece il 34,4% della popolazione. É
evidente che si tratta di una distribuzione che è assolutamente il contrario di quanto
sarebbe necessario per colmare i divari nord-sud.

Per altro l'incremento della SPA concerne esclusivamente la spesa corrente, mentre
al contrario la spesa in conto capitale continua a registrare ulteriori flessioni
passando dai 68,2 miliardi del 2014 ai 65,4 del 2015 e risultando ancora inferiore del
29 per cento rispetto al 2009.

Analizzando la distribuzione della spesa totale del SPA si riscontra il permanere del
significativo divario di spesa pro-capite tra il Mezzogiorno ed il Centro-Nord in tutti
settori e soprattutto in quelli dei servizi essenziali quali politiche sociali, sanità, reti
infrastrutturali, mobilità. In particolare nel settore delle politiche sociali la spesa
pro-capite al Centro Nord nel 2015 è stata pari a 6.034 €, mentre nel Mezzogiorno si
è attestata a soli 4.472 euro. Nel settore mobilità invece, la spesa media pro-capite
è stata pari a € 686 nel Centro-Nord contro i 538 € del Mezzogiorno
(complessivamente in questo ambito la spesa al sud è stata del 25% inferiore a quella
del resto del paese). Per quel che concerne il settore reti infrastrutturali, dopo il
calo del 2014, si registra un lieve incremento nel Centro-Nord a fronte di una
sostanziale stabilità nel Mezzogiorno. Nel macro settore conoscenza cultura e ricerca
è invece continuata la contrazione generale già registrata negli anni precedenti,
contrazione che però ha registrato delle significative inversioni di tendenza in tre
regioni meridionali. Infatti trend positivi si registrano in Basilicata sale da 1.190 euro
pro capite del 2014 a 1.228 euro del 2015; Campania da 998 a 1030 euro pro capite;
Sardegna da 1138 a 1164 euro pro capite. Per converso un calo significativo ha
riguardato la regione Puglia che da 963 euro è scesa a 879 euro pro capite. Infine il
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settore attività produttive e opere pubbliche mantiene il trend negativo in entrambe
le aree del paese: passando nel Centro‐Nord da 1.434 euro pro capite del 2014 a
1.382 euro pro capite del 2015 e nel Mezzogiorno da 806 euro pro capite a 778.

Se si considerano i dati relativi alla sola spesa in conto capitale della PA contenuti
nella Relazione annuale CPT, si deve registrare come in Italia nel 2015 la spesa in
conto capitale sia passata dai 35,9 miliardi di euro nel 2014 ai 37,7 del 2015; si tratta
di un incremento concentrato nel Mezzogiorno e dovuto in maniera pressoché
esclusiva alla chiusura della programmazione comunitaria 2007‐2013. Infatti al sud
si è passati dai 13,3 miliardi di euro (638 € pro capite) del 2014 ai 15,8 miliardi di
euro del 2015 (759 euro pro capite). Tuttavia questa forte espansione va posta in
correlazione con la contestuale riduzione delle risorse ordinarie destinate al
Mezzogiorno che proprio nel 2015 hanno toccato il punto di minimo della serie
storica: tali risorse infatti sono giunte a rappresentare in termini pro capite nel 2015
meno di un terzo del totale delle risorse in conto capitale e circa la metà di quelle
aggiuntive provenienti dall'Europa. Il che ha portato ad una situazione in cui le
risorse del Fondo di Sviluppo e Coesione che all'inizio del periodo costituivano circa
il 50% del complesso delle risorse destinate alla coesione, nel 2015 hanno
rappresentato appena l'11% del totale ed hanno fatto sì che le sole politiche di
sostegno praticate si siano realizzate attraverso i fondi comunitari a disposizione
delle regioni meridionali.

Questa situazione in realtà non fa altro che confermare una tendenza in atto ormai
da quasi 70 anni e che sta producendo una progressiva riduzione delle risorse
destinate allo sviluppo del mezzogiorno. Il Rapporto CPT, infatti, considerando
infatti la relazione fra la spesa per le aree sottoutilizzate e il PIL ha elaborato la
seguente tabella:

                                           14
Anni          Spesa a favore        PIL a prezzi di     Incidenza % sul
                               delle aree         mercato Italia       PIL nazionale
                            sottoutilizzate

           1951-1960             665,00                98.0                   0,68

           1961-1970            1.557,00              242.380                 0,64

           1971-1980            8.478,00              993.584                 0,85

           1981-1990           27.373,00            4.640.753                 0,59

           1991-2000           44.961,00            9.568.233                 0,47

           2001-2010           47.304,00            14.547.063                0,43

           2011-2015           12.290,00            8.103.461                 0,15

Questo crollo ingiustificabile della spesa a favore delle aree sottoutilizzate e
l'evidenza degli effetti perversi causati dalla sostituzione delle politiche ordinarie
con le risorse aggiuntive dei fondi europei, hanno portato di recente alla
consapevolezza che queste politiche rischiano di condannare il Mezzogiorno
all'irrilevanza e, dunque, a rappresentare sempre più un fattore di criticità per lo
sviluppo del paese. Per tali motivi si è infine giunti alla reintroduzione nella L.
18/2017 dei principi per il riequilibrio territoriale della spesa pubblica.

Ma chiaramente queste novità normative possono contribuire solo in parte se al
contempo nei territori del Mezzogiorno non si attivano competenze ed attitudini ad
utilizzare al meglio le risorse disponibili. Soprattutto il terzo settore dovrà essere
capace di fare crescere la qualità della propria interlocuzione con le istituzioni, in
particolare quelle chiamate a colmare i divari nord-sud in ambiti quali la sanità, i
servizi sociali, l'istruzione e l'educazione, la cultura e lo sviluppo di attività
produttive coerenti con le vocazioni e le tradizioni dei territori.

                                            15
Gli SDGs, Terzo settore e meridione

Il Mezzogiorno si presenta clamorosamente come il banco di prova italiano per
sperimentare strategie e azioni che l'agenda 2030 traccia verso i 17 obiettivi di
sviluppo sostenibile per tutto il Pianeta.

       Quanto detto in precedenza rende evidente come anche nel Mezzogiorno la
definizione di piani politici e strategici volti al conseguimento di obiettivi locali
coerenti con gli SDGs potrebbe determinare una netta e definitiva inversione di
tendenza nei processi di sviluppo territoriale. Infatti ognuno dei 17 obiettivi di
sviluppo sostenibile rappresenta di fatto una sfida per il meridione ad affrontare le
cause che lo rendono ancora una area sottoutilizzata ed in ritardo di sviluppo
economico. Inoltre è evidente che operare localmente ma in virtù di una visione
globale quale quella di “sviluppo sostenibile” consente non solo di connettere le
azioni locali a quelle di altre realtà che operano in altri territori e con le quali è
possibile scambiarsi esperienze e buone prassi, ma soprattutto permette di agire
condividendo analisi, valutazioni, progettualità e risorse in una logica di matrice
multilivello. Da qui l'importanza anche per il terzo settore meridionale di imparare
a misurarsi con gli obiettivi mondiali dello sviluppo sostenibile.

Il termine “sviluppo sostenibile” è stato coniato per la prima volta nel 1987 nel
rapporto della Commissione ONU per l’Ambiente e lo Sviluppo coordinata da Gro
Harlem Brundtland (ex prima ministra norvegese). Proprio in tale rapporto si legge
la definizione che resta tutt’oggi la più esaustiva e completa: “lo sviluppo
sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere
la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Ad onta della
semplicità dell'enunciato, l'attuazione del principio nella vita reale ha determinato
una tale quantità di implicazioni ed interconnessioni che oggi dietro ad esso si
rivelano alcune fra le questioni più controverse e delicate delle politiche e degli
equilibri internazionali.

In particolare in seguito alla firma del Protocollo di Kyoto, è stata ribadita a più
riprese la necessità imprescindibile di segmentare le intenzioni dei sostenitori dello
sviluppo sostenibile e di rendere gli sforzi profusi in tale direzione finalmente
misurabili. Secondo queste intenzioni è stata prodotta e ratificata la “Dichiarazione
del Millennio”, un documento firmato dai 193 Stati membri delle Nazioni Unite nel
                                          16
settembre del 2000. Tale testo, suddiviso in 8 punti (i Millenium Development Goals
o MDGs), cercava di catalogare ed organizzare i traguardi da raggiungere entro il
2015 per garantire un futuro sostenibile alle prossime generazioni. I settori di
intervento riguardavano: il dimezzamento della povertà estrema e della fame nel
mondo; l'istruzione primaria ed universale; la parità dei sessi e l'autonomia delle
donne; la riduzione della mortalità infantile; il miglioramento della salute; la lotta
all’HIV/AIDS, alla malaria e alle altre malattie; la garanzia della sostenibilità
ambientale; la partnership mondiale per lo sviluppo.

La pubblicazione di tali obiettivi ha sancito definitivamente la mission che il
principio dello sviluppo sostenibile porta con sé ma negli anni seguiti alla firma della
dichiarazione si è vieppiù diffusa una grossa nuvola di scetticismo e di sfiducia nei
confronti degli MDGs, a causa della loro ambizione e della mancanza di vincoli
coercitivi per i Paesi firmatari. Inoltre, l’assenza di una chiara definizione dei
risultati concreti previsti, di eventuali step intermedi, unitamente alla carenza di
dati aggiornati e misurabili dei progressi raggiunti, hanno permesso a tale
scetticismo di divampare.

Col tempo, però, l’entusiasmo e la sorpresa hanno soppiantato la diffidenza. Via via
che cominciavano a diffondersi i primi numeri sui progressi ottenuti, ha preso piede
la consapevolezza del successo di strumenti come quello rappresentato dalla
dichiarazione del millennio. Tant'è che nel 2015, con legittimo orgoglio, il Segretario
Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, ha potuto annunciare una serie di dati
confortanti: il dimezzamento del numero di persone che vivono in condizioni di
povertà estrema rispetto al 1990; l’accesso all’educazione primaria nei Paesi in via
di sviluppo salito fino al 90% con pari opportunità di accesso anche per le bambine;
la riduzione della mortalità infantile pari a 17.000 bambini in meno rispetto al 1990
; la mortalità materna crollata del 45% rispetto a 25 anni prima; HIV, Tubercolosi e
numerose altre malattie contrastate efficacemente grazie ad azioni di prevenzione
e cura; la conquista per oltre 2 miliardi di persone del libero accesso all’acqua
potabile; infine la cancellazione di gran parte del debito che attanagliava lo sviluppo
di numerosi paesi poveri.

Tuttavia è risultato evidente sin da subito che quanto fatto, sebbene ammirevole,
non fosse sufficiente e che fosse necessario percorrere ancora molta strada.
Nonostante i progressi ottenuti, i numeri del sottosviluppo rivelavano l’altra
                                           17
inquietante faccia della medaglia: 800 milioni di persone al mondo continuavano a
vivere in stato di estrema povertà e a soffrire la fame; oltre 160 milioni di bambini
malnutriti; 57 milioni di bambini in età scolare esclusi da qualsiasi forma di
istruzione; il rischio di mortalità tra gli 0 e i 5 anni per 5,8 milioni di bambini ogni
anno; 2 miliardi e mezzo di persone prive di servizi igienici adeguati e quasi 60
milioni di persone costrette ogni anno a lasciare la propria casa a causa dei conflitti
bellici.

Per questo motivo, il 2015 è culminato con tre eventi che hanno definito diversi
aspetti cruciali di tale percorso: la conferenza di Addis Abeba sul finanziamento allo
sviluppo, il summit straordinario New York del 25-27 settembre e la Conferenza
COP21 di Parigi sul cambiamento climatico. Grazie anche a questi incontri, nel
settembre 2015 è stata approvata l’Agenda Globale per lo sviluppo sostenibile: un
documento che fissa 17 obiettivi, suddivisi in 169 target, da raggiungere entro il
2030 sulla scorta del successo degli MDGs del 2000. Ciò che è apparso
immediatamente chiaro fu la netta presa di coscienza da parte dei firmatari
dell’insostenibile modello di sviluppo economico, sociale ed ambientale. Per la
prima volta, poi, sono stati chiamati al rispetto dell’accordo indistintamente tutti i
Paesi del mondo a prescindere dal loro livello di industrializzazione.

La vera novità rappresentata dagli SDGs, però, non risiede certo nei singoli obiettivi,
bensì nella loro complessità. La rivoluzione dell’Agenda 2030, infatti, così come
solamente tentato dagli obiettivi del Millennio nel 2000, sta nella volontà di
esprimere una visione complessiva della società e di non limitarsi a singoli aspetti di
natura economica o ambientale. Con l’adozione dell’Agenda, i Paesi firmatari hanno
accettato di sottoporsi ad un processo di valutazione volto a monitorare i progressi
ottenuti nel corso degli anni sino al 2030. Sono stati, pertanto, varati oltre 240
indicatori globalmente riconosciuti ed è stato assegnato all’High Level Political
Forum (HLPF) il compito di svolgere tale monitoraggio.

Questi processi hanno avuto i loro riflessi anche in Italia e nel febbraio 2016 si è
costituita l’Alleanza Italiana per lo sviluppo sostenibile, che vede il Forum del Terzo
Settore fra i fondatori e che riunisce oltre 170 tra le più importanti istituzioni e reti
della società civile: associazioni, associazioni di enti territoriali, università e centri
di ricerca, soggetti attivi nei mondi della cultura e dell’informazione, fondazioni,
ecc. La missione con cui è nata l’ASviS è quella di “far crescere nella società
                                            18
italiana,     nei   soggetti   economici    e        nelle   istituzioni   la   consapevolezza
dell’importanza dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, mettendo in rete
coloro che si occupano già di aspetti specifici ricompresi negli Obiettivi di sviluppo
sostenibile”.

Anche grazie all'azione dell'ASviS Il Governo italiano nel 2016 ha avviato il proprio
percorso per l’adozione della Strategia nazionale per lo Sviluppo sostenibile. Il 4
gennaio 2017 il Ministero per l’Ambiente ha diffuso un primo documento: “Il
posizionamento Italiano rispetto ai 17 Obiettivi per lo Sviluppo sostenibile delle
Nazioni Unite”. Inoltre la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nei primi mesi del
2017, ha voluto diffondere a tutti i ministeri una direttiva affinché tutti
incorporassero gli obiettivi dell’agenda 2030 nei propri piani per il triennio
2018/2020. Dopo un intenso lavoro, frutto anche del confronto e dell’ascolto della
società civile, il 2 ottobre 2017 il Consiglio dei Ministri ha adottato il documento
finale.

La strategia individua alcuni driver trasversali quali leve fondamentali per avviare,
guidare, gestire e monitorare l’integrazione della sostenibilità nelle politiche:

   -      Istituzioni, partecipazione e partenariati
   -      Educazione, sensibilizzazione e comunicazione
   -      Conoscenza comune
   -      Modernizzazione della PP.AA. e riqualificazione della spesa pubblica
   -      Monitoraggio e valutazione delle politiche

La strategia è poi articolata in 5 aree (le 5 P):Persone, Pianeta, Prosperità, Pace,
Partnership ed alle quali afferiscono le diverse scelte ed obiettivi strategici, aree
di indubbio interesse per le organizzazioni di terzo settore.

Non può sfuggire dunque l'apporto che il nuovo percorso di FQTS del prossimo
triennio possa offrire per la mobilitazione diretta delle organizzazioni del
Mezzogiorno nella costruzione di dibattiti ed interventi concreti rispetto agli
obiettivi di sviluppo sostenibile. Questa sfida può infatti, essere vinta solo se si
riusciranno a superare i particolarismi dei campi d’azione in cui si muovono le singole
organizzazioni (povertà, ambiente, esclusione sociale, ecc.) e farli convergere in un
unico binario diretto, senza interruzioni, verso un futuro finalmente sostenibile. Per
l’ambiente, per l’uomo e, in definitiva, per l’umanità. Per questo un percorso
articolato e prolungato come FQTS può risultare un'arma strategica per supportare
                                                19
il Terzo Settore Meridionale ad agire in questa logica di interconnessione.

Al riguardo va considerato che un altro aspetto rilevante ed innovativo è il carattere
universalistico offerto dall’Agenda 2030. Infatti i responsabili del successo degli SDGs
non possono essere considerati, come invece avvenuto nel 2000, esclusivamente i
governi dei Paesi firmatari, ma vanno invece considerati anche: le imprese,
chiamate a rivedere i propri processi produttivi; i singoli individui, chiamati a vario
titolo a diventare consumatori responsabili, contribuenti alla fiscalità, cittadini
attivi, portatori di pratiche virtuose, attenti alla salute propria e altrui; la società
civile, tra cui occorre annoverare necessariamente gli enti di Terzo settore.

D'altro canto moltissime organizzazioni di Terzo Settore sono già da tempo
concretamente impegnate su questo fronte e proprio al fine di rilevare l’impegno
degli enti del Terzo settore aderenti al Forum Nazionale del Terzo Settore è stata
realizzata una prima analisi per verificare lo stato dell'arte. In questa fase si è voluto
indagare su alcuni semplici aspetti relativi al perseguimento degli SDGs,
raccogliendo informazioni sulle attività svolte dagli enti e riconducendole ai diversi
SDGs, sulle esperienze che testimoniano la realizzazione di tale impegno, nonché
sulle iniziative in programma per il prossimo biennio. La tabella seguente riepiloga
alcuni dei risultati dell'analisi:

                                                               Enti che
                                                                                 % sulle
                                SDGs                         perseguono
                                                                                risposte
                                                              l'obiettivo

         1 Porre fine ad ogni forma di povertà nel
                                                                  22              43%
         mondo

         2 Porre fine alla fame, raggiungere la
         sicurezza alimentare, migliorare la
                                                                  20              39%
         nutrizione e promuovere un’agricoltura
         sostenibile

         3 Assicurare la salute e il benessere per tutti
                                                                  42              82%
         e per tutte le età

                                            20
4 Assicurare un’istruzione di qualità, equa ed
inclusiva, e promuovere opportunità di            35   69%
apprendimento permanente per tutti

5 Raggiungere l'uguaglianza di genere ed
                                                  28   55%
emancipare tutte le donne e le ragazze

6 Garantire a tutti la disponibilità e la
gestione sostenibile dell'acqua e delle           15   29%
strutture igienico-sanitarie

7 Assicurare a tutti l'accesso a sistemi di
energia economici, affidabili, sostenibili e      16   31%
moderni

8 Incentivare una crescita economica
duratura, inclusiva e sostenibile,
                                                  28   55%
un'occupazione piena e produttiva ed un
lavoro dignitoso per tutti

9 Costruire una infrastruttura resiliente e
promuovere l'innovazione ed una
                                                  16   31%
industrializzazione equa, responsabile e
sostenibile

10 Ridurre l'ineguaglianza all'interno di e fra
                                                  28   55%
le Nazioni

11 Rendere le città e gli insediamenti umani
                                                  37   73%
inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili

12 Garantire modelli sostenibili di
                                                  30   59%
produzione e di consumo

13 Adottare misure urgenti per combattere il
                                                  22   43%
cambiamento climatico e le sue conseguenze

14 Conservare e utilizzare in modo durevole       17   33%

                                   21
gli oceani, i mari e le risorse marine per uno
         sviluppo sostenibile

         15 Proteggere, ripristinare e favorire un uso
         sostenibile dell'ecosistema terrestre, gestire
         sostenibilmente le foreste, contrastare la
                                                                 23              45%
         desertificazione, arrestare e far retrocedere
         il degrado del terreno, e fermare la perdita
         di diversità biologica

         16 Promuovere società pacifiche e più
         inclusive per uno sviluppo sostenibile; offrire
         l'accesso alla giustizia per tutti e creare             42              82%
         organismi efficienti, responsabili e inclusivi a
         tutti i livelli

         17 Rafforzare i mezzi di attuazione e
         rinnovare il partenariato mondiale per lo               29              57%
         sviluppo sostenibile

Questi dati rendono dunque evidente che dedicare la dovuta attenzione agli SDGs
nell'ambito di FQTS può rappresentare una forma per sostenere concretamente gli
enti del Terzo Settore Meridionale non solo a sviluppare meglio la propria
operatività, ma anche a connettersi sia livello territoriale che su scala globale per
rendere ancora più incisiva la loro azione nella logica dello sviluppo sostenibile.

La sfida della riforma del Terzo settore

       Nell'impostare il nuovo triennio di FQTS non si può certo ignorare che il terzo
settore meridionale si troverà a dover implementare sul territorio la recente
riforma, partendo proprio dalla definizione di terzo settore contenuta in questa
riforma: “Per Terzo settore si intende il complesso degli enti privati costituiti per
il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità
sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i
rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse
generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di
                                           22
produzione e scambio di beni e servizi”.

Così la recente Legge delega per la riforma del Terzo settore (L 106/16) ha
finalmente colmato una lacuna ormai ventennale. L’articolo 1 comma 1 ha
provveduto a definire giuridicamente il Terzo settore, riconoscendone la sua piena
dignità di attore sociale al pari di altri soggetti.

Il processo di riforma, che non è ancora terminato (dovranno essere ancora adottati
circa 40 ulteriori atti), è stato avviato “al fine di sostenere l'autonoma iniziativa dei
cittadini che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune, ad
elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo
la partecipazione, l'inclusione e il pieno sviluppo della persona, a valorizzare il
potenziale di crescita e di occupazione lavorativa (…)” (art. 1 comma 1).

Si tratta di un passaggio di grande importanza: la definizione è il frutto di decenni
di attività di milioni di cittadini attivi che vedono il loro impegno riconosciuto. La
legislazione si rimette al passo con la società.

Il Terzo settore non è un incidente storico, che nasce occupando gli spazi lasciati
liberi dai fallimenti dello Stato e del Mercato, tanto che qualcuno potrebbe dire che
se questi ultimi funzionassero a dovere il Terzo settore non avrebbe motivo di
esistere (a maggior ragione se poi il Mercato fosse tutto costituito da soggetti
dell’economia civile). Alcuni enti del Terzo settore realizzano servizi, ma di certo
questi ultimi non rappresentano il loro fine ma, piuttosto, sono un mezzo per
esprimere il proprio modo d’essere. Essi hanno una propria intrinseca ragion d’essere
secondo diversi punti di vista:
- nel loro modo di essere (una modalità organizzata per esprimere la socialità
umana creando luoghi di partecipazione attiva),
- nel loro modo di operare (creando reti e relazioni),
- in ciò di cui si occupano (prendendosi anche cura di persone in condizioni di
fragilità o di beni comuni).
L’esito di tutto ciò, il bene “prodotto” dal Terzo settore è la creazione di fiducia
e capitale sociale.

A dispetto dell'idea che vede le persone animate da pulsioni egoistiche (un pensiero
che si è fatto strada solo negli ultimi tre secoli ponendosi alla base di un certo modo
di vedere le relazioni economiche), nella realtà gli esseri umani sono "animali
sociali", come già insegnava Aristotele a suo tempo e come oggi confermano anche
                                           23
gli studi, ad esempio, di psicologia sociale, antropologia culturale, etologia e, pare,
anche gli studi di neurobiologia (i cd. “neuroni specchio”). Anche il mondo
dell’economia sembra accorgersene, come dimostrano coloro ai quali è stato
riconosciuto il premio Nobel in questi ultimi anni.

       La naturale prosocialità delle persone nella storia ha trovato, trova e troverà
sempre forme con cui organizzarsi e manifestarsi: 800 anni fa si manifestava, ad
esempio, nelle prime esperienze delle Misericordie (oggi ancora presenti ed attive).
Oggi anche tramite gli enti del Terzo settore, domani magari con le piattaforme di
condivisione e collaborazione che si stanno affermando. Chissà quali saranno le
forme organizzative adottate nel prossimo secolo.

       Ciò sottende una esigenza di comunità: non di una comunità escludente
arroccata a difesa del privilegio di pochi, ma di una includente che riconnetta le
persone, ridia un senso del futuro collaborativo. Il Terzo settore può essere un
attore, non l'unico, che sostiene una società ad andare in quella direzione. Come ci
ricorda Stefano Zamagni “il Terzo Settore del dopo Riforma (L.106/2016) non può
esimersi dal porre in cima ai propri compiti la rigenerazione della comunità, lo
sforzo costante di “fare luogo” per creare quelle relazioni che scongiurano la
minaccia dell’isolamento. Se questo è l’obiettivo, la strategia di lungo termine da
perseguire è allora quella di dare ali a pratiche di organizzazione delle comunità
(community organizing). È questo un modo alternativo di impegno “politico” che
consente alle persone, la cui voce mai verrebbe udita, di contribuire al processo di
inclusione sia sociale sia economica.”.

       Gli enti di Terzo settore svolgono una funzione sociale cruciale: creano
condizioni e opportunità di partecipazione attiva per i cittadini volte a favorire
processi inclusivi attraverso le più diverse modalità. Gli esempi sono i più diversi:
dalla tutela dei diritti alle azioni di advocacy, dalla attivazione in prima persona per
rispondere a particolari esigenze/bisogni di persone escluse alla tutela di beni
comuni. Queste attività, si basano su un alto livello di relazionalità (all’interno di
ciascun ente, fra gli operatori e i beneficiati) e sempre più spesso vengono realizzate
agendo in partnership con altri soggetti (pubblici o privati) creando ulteriori reti di
relazioni.

       Da tutto ciò deriva una fitta trama di rapporti che costituiscono i primi
“prodotti” degli Enti del Terzo settore: la coesione e il capitale sociale, elementi
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imprescindibili che stanno a monte di qualsiasi modello di sviluppo, a maggior
ragione di uno sviluppo sostenibile dal punto di vista economico, sociale e
ambientale.

      Gli enti di Terzo settore creano quello che gli economisti chiamano
“esternalità positive”, assolvendo così ad una fondamentale funzione sociale. Va
ricordato, infatti, che il sistema produttivo genera costi sociali (detti “esternalità
negative”): dal consumo del suolo ai danni ambientali, alle tensioni o fratture sociali
(insider Vs outsider), sino al consumo di beni relazionali e di capitale sociale.

Oltre a portare avanti attività di denuncia ed advocacy dei danni prodotti, gli enti
di Terzo settore hanno l’importante compito, da un lato, di rigenerare il capitale
sociale, dall'altro, di sostenere e incalzare le iniziative imprenditoriali che,
responsabilmente, internalizzano i costi sociali, facendosi anche carico delle
esigenze della comunità dove operano. Il tutto a partire dalle esperienze della
cooperazione sociale - e ora delle imprese sociali - che portano al massimo livello
tale internalizzazione, perfino andando oltre e producendo esternalità positive tanto
da essere annoverate parte integrante del Terzo settore. Un modello di produzione
estremamente virtuoso che va esteso contaminando (o, come piace dire ora,
ibridando) con i propri valori le imprese profit. Non un ruolo ancillare, quindi, per
gli enti di Terzo settore, ma di continua vigilanza, supporto e stimolo.

L’esigenza di infrastrutturazione sociale nel Meridione e il ruolo della formazione

      Quando il percorso formativo per i quadri ed i dirigenti del Terzo Settore
meridionale è stato avviato per la prima volta, si è affacciato ad una realtà di TS
fortemente frammentata, con scarse risorse a disposizione ed una bassa
consapevolezza della propria dignità di parte sociale. Una realtà che seppure in forte
crescita e con punte di eccellenza, non sembrava capace di cambiare il contesto
meridionale caratterizzato da enormi sacche di povertà e di esclusione sociale.

      Le stesse rappresentanze territoriali stentavano a prendere piede, e la
cooperazione tra enti del terzo settore era limitata a singole opportunità
progettuali. Il rapporto con le istituzioni era spesso incentrato su relazioni
asimmetriche e di carattere personale, quando non di natura clientelare, ben lungi
da una reale capacità di confronto ed ancor meno di concertazione.

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Nel corso degli ultimi 10 anni, anche grazie all’azione formativa di FQTS, abbiamo
assistito ad una evoluzione positiva del Terzo Settore meridionale, che ha visto
crescere la propria dimensione politica sui territori e l’accentuarsi di relazioni inter-
associative e di forme di cooperazione più o meno strutturate.

       Sicuramente rilevante in tal senso è stata l’infrastrutturazione territoriale dei
soggetti di rappresentanza unitaria, ottenuta attraverso il rafforzamento, e dove
necessario la costituzione dei Forum Regionali e territoriali del Terzo Settore,
percorsi che nella maggior parte dei casi sono stati sostenuti ed accompagnati anche
dai Centri di Servizio al Volontariato.

       Ma evidentemente, nonostante tale crescita, ancora molte sono le
contraddizioni e le debolezze, ed ancora forte è la frammentazione ed il
personalismo. Così come le difficoltà soprattutto delle organizzazioni più piccole e
periferiche, che si sommano alle notevoli differenze tra i diversi territori delle
regioni meridionali.

       Ecco quindi che l’azione formativa rappresenta ancora una scelta
imprescindibile per lo sviluppo degli ETS e delle stesse comunità dove sono chiamati
ad operare. Si tratta quindi di facilitare, attraverso una specifica azione formativa
di matrice unitaria, il processo di infrastrutturazione già avviato, garantendo da un
lato la diffusione di una sempre maggiore consapevolezza del proprio ruolo di agenti
di sviluppo tra le realtà del TS meridionale, e dall’altro l’acquisizione di competenze
relazionali e progettuali capaci di accompagnare l’azione politica e garantire una
reale implementazione del capitale sociale.

       La riforma del Terzo Settore, che proprio nel prossimo triennio determinerà i
principali cambiamenti, riconosce un ruolo sempre più marcato agli ETS nella
costruzione di percorsi partecipati di sviluppo sui territori. Un ruolo che, in
particolare nel meridione, per riempirsi di contenuti concreti dovrà essere giocato
sino in fondo, con responsabilità e competenza. FQTS in tal senso può rappresentare
la principale risorsa in termini di cambiamento, culturale e sociale, per il TS
meridionale.

L’impianto formativo

L’impianto formativo è composto da percorsi comuni, curriculum e percorsi
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