La formazione per il nuovo Terzo settore: una proposta partecipata per FQTS 2018-2020
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La formazione per il nuovo Terzo settore: una proposta partecipata per FQTS 2018-2020 a cura del gruppo di progettazione di FQTS1 1 il gruppo di progettazione è composto da: Mauro Giannelli, coordinatore di progetto; Patrizia Bertoni, segreteria generale; esperti: Francesca Coleti, Daniele Ferrocino, Giovanni Serra, Luciano Squillaci; docenti: Leonardo Becchetti, Renato briganti, Gaia Peruzzi, Andrea Volterrani, Flaviano Zandonai. Si allega al documento una breve scheda sintetica dei curriculum. 1
Indice del documento per argomenti pag.4- L’obiettivo di FQTS pag.5- I risultati da conseguire pag.5-Il Terzo settore Meridionale alle prese con i mutamenti nel tessuto socioeconomico del Mezzogiorno pag.7- L'occupazione, l'occupazione giovanile, gli andamenti demografici e la fuga dal sud pag.10- Condizioni economiche e povertà pag.12- Politiche pubbliche pag.16- Gli SDGs, Terzo settore e meridione pag.22- La sfida della riforma del Terzo settore pag.25- L’esigenza di infrastrutturazione sociale nel Meridione e il ruolo della formazione pag.26- L’impianto formativo pag.28- Criteri metodologici pag.28- I destinatari del percorso formativo pag.28- La selezione partecipanti pag.30- La formazione. pag.30- Il piano interregionale pag.31- Linea formativa territori e co-programmazione sociale pag.34- Linea formativa animatori territoriali pag.34- Linea formativa Politiche culturali pag.37- Linea formativa Benessere ed economia della felicità pag.40- Linea formativa Democrazia e partecipazione 2
pag.43- Il Piano Regionale pag.43- le linee formative Nazionali pag.44- SDGs - Informazione e formazione sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile per la pianificazione, la valutazione e il monitoraggio da parte del Terzo settore pag.46- Sdg’s goal 17- Partenariati e risorse per strategie trasformative pag.48- Individuazione e messa in trasparenza e convalida delle competenze pag.50- Formazione staff pag.51- Piano di comunicazione pag.53- Monitoraggio e valutazione pag.55- Breve presentazione del gruppo di progettazione 3
L’obiettivo di FQTS Sviluppare relazioni, rafforzare la fiducia, costruire reti, accrescere le capacità e le conoscenze: sono questi gli obiettivi di FQTS. Un percorso formativo che si rivolge principalmente agli ETS del meridione del nostro paese e che vuol contribuire ai cambiamenti e allo sviluppo di un territorio ricco di potenzialità e di competenze, che riteniamo non solo disposto ma assolutamente capace di apprendere, sperimentare, sviluppare e realizzare il bene comune, l’interesse generale, per elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l'inclusione e il pieno sviluppo della persona, a valorizzare il potenziale di crescita e di occupazione lavorativa, in attuazione degli articoli 2, 3, 18 e 118, quarto comma, della Costituzione. Non sarà possibile contribuire a realizzare obiettivi così ambiziosi se non attraverso un processo di formazione che veda coinvolti i molteplici attori dello sviluppo e della coesione sociale: una formazione fra pari che realizzi un’azione formativa democratica e orizzontale; un’azione che individui e amplifichi i saperi e le conoscenze; un’azione che sviluppi il terzo settore come soggetto politico ed organizzativo; un‘azione che trovi nella dimensione della partecipazione, della comprensione e dell’accoglienza i presupposti e le conseguenze del proprio esserci e del proprio agire. Vogliamo introdurre con forza il concetto di competenza nel nostro percorso formativo, perché riteniamo che la nostra formazione non accademica e non tecnica, trovi valore e significato quando riesce ad accrescere la capacità di avere vari e molteplici punti di vista; di riconoscere i cambiamenti; di adeguare le proprie risposte a questi cambiamenti; di realizzare un sistema comunitario aperto e inclusivo che si proponga come nuovo modello culturale ed economico rispetto ad un vecchio e fallimentare approccio predatorio ed egoistico. La formazione non potrà essere che una delle leve del cambiamento e un contributo importante, anche se chiaramente non esaustivo. Senza la formazione però le altre leve e gli altri contributi potrebbero essere non organizzati e non positivamente strutturati; potrebbero essere leve e contributi inefficaci ed inefficienti: la formazione è in fondo il lubrificante per far funzionare un motore complesso ma di grande resa che 4
deve far procedere l’intera comunità umana verso uno sviluppo sostenibile e possibile per tutti. I risultati da conseguire Gli obiettivi formativi che sopra abbiamo descritto sono evidentemente al tempo stesso anche dei risultati da conseguire, possiamo quindi limitarci in questo paragrafo alla definizione di un risultato fondamentale e che sottende a tutta la nostra attività formativa: vogliamo contribuire a promuovere e rafforzare l’infrastrutturazione sociale nelle regioni dell’Italia meridionale. L’espressione “infrastrutturazione sociale” fa riferimento allo sviluppo di strutture immateriali, ovvero di reti relazionali che danno l’opportunità di mettere in collegamento una molteplicità di luoghi e di soggetti, di farli conoscere, dialogare e lavorare insieme per il bene comune. In particolare, vogliamo contribuire attraverso il percorso formativo di FQTS ad incentivare percorsi di coesione sociale al Sud per favorirne lo sviluppo. La nostra azione formativa va a sostenere, non solo culturalmente ma anche con capacità e competenze, progetti e forme di collaborazione e aggregazione tra i soggetti che intendono impegnarsi per il miglioramento delle comunità locali, nell’ottica della responsabilità, della partecipazione e della solidarietà. Vogliamo formare per promuovere o rafforzare iniziative di economia civile, di cultura della donazione, di partecipazione attiva al welfare di comunità, valorizzando le risorse sociali e culturali locali, perché siano sempre più forza motrice di uno sviluppo che parte dal territorio. Il Terzo settore Meridionale alle prese con i mutamenti nel tessuto socioeconomico del Mezzogiorno L'economia meridionale La formazione dei quadri di Terzo settore, proprio perché andragogica, non può prescindere dal contesto socio-economico in cui i discenti dovranno operare. Per questo nella costruzione del percorso formativo per il triennio 2018-2020 si è partiti dalle principali dinamiche in atto nel Mezzogiorno per provare a delineare quali potranno essere gli scenari in cui ci si dovrà muovere in un prossimo futuro. Alcuni preliminari spunti di riflessione nascono dal rapporto Svimez 2017 che 5
evidenzia come nel 2015-16 si sia manifestata anche nel Mezzogiorno una sostanziale ripresa dopo la lunga crisi avviatasi nel 2008. Addirittura la crescita registrata al sud in tale biennio è risultata più consistente di quella del centro nord ed appare particolarmente significativa la performance del settore industriale: quello meridionale ha registrato un +7% pari a più del doppio di quanto registrato nel resto d'Italia (+3%). Certo su questo risultato hanno inciso fattori fattori estemporanei: la profondità della crisi registrata negli anni precedenti in quest’area; eventi peculiari connessi a fluttuazioni climatiche e geopolitiche; accelerazioni legate ai cicli della programmazione comunitaria e a strumenti messi in campo dal Governo. Tuttavia è confortante notare che è comunque possibile invertire la dinamica economica prevalente e fare del Mezzogiorno un’area capace di innescare processi virtuosi. Soprattutto è interessante rilevare come un processo di sviluppo del Sud può interessare anche altri settori e non solamente l'agricoltura ed il turismo, settori tradizionalmente forti in questa area e suscettibili anch'essi di ampi margini di miglioramento e di crescita. Naturalmente la ripresa registrata nel biennio 2015-16 non può far dimenticare quelle che sono le carenze strutturali dell'economia meridionale: livelli salari modesti, scarsa produttività del lavoro, ridotta competitività del sistema imprenditoriale, ritmi di accumulazione e di investimento insufficienti. Il che si traduce inevitabilmente in un minore benessere. D'altro canto le stime della Banca d'Italia sulla base degli attuali andamenti economici, ci dicono che l'Italia recupererà i livelli pre crisi nel 2019. Tuttavia anche se il Mezzogiorno dovesse riuscire a mantenere negli anni a venire gli attuali ritmi di crescita, secondo la Svimez il Mezzogiorno recupererà i suoi livelli pre crisi soltanto nel 2028, ossia dieci anni dopo il resto d'Italia. Il che porterebbe ad una situazione complessiva (fra crisi e ripresa) di un ventennio a "crescita zero", ventennio per altro preceduto dalla sostanziale stagnazione registrata fin dai primi anni del Duemila. Facile intuire cosa vorrebbe dire per il Mezzogiorno tale prospettiva sotto il profilo economico, sociale e demografico; soprattutto se si confronta tale andamento sostanzialmente piatto con la grande dinamicità che si sta registrando nel contempo in altre aree d'Europa e del pianeta e con l'emergere prepotente di nuove realtà economiche in grado di soppiantare alcune produzioni tipiche del nostro Mezzogiorno (si pensi alla Turchia, al Marocco, all'area balcanica, oltre che alla Spagna ed al Portogallo). 6
Questi scenari dell'economia meridionale sono significativi per i quadri del Terzo settore sotto diversi profili. Anzitutto non si può ignorare che lo sviluppo o l'arretramento di alcuni settori produttivi determinano degli impatti sui territori con i quali è necessario fare i conti (si pensi per esempio all'abbandono delle campagne registrato negli ultimi anni in molte aree o lo sviluppo di attività dall'impatto ambientale devastante registrate in altre). Come anche è innegabile che un numero crescente di aziende profit stia sviluppando programmi di responsabilità sociale che potrebbero ben combinarsi con ambiti di intervento del terzo settore meridionale. Conoscere quali settori produttivi dimostrano maggiore dinamicità, può essere utile ad orientare i quadri delle organizzazioni nella ricerca di partnership e collaborazioni con il mondo imprenditoriale. Inoltre saper collocare il Terzo settore all'interno di processi socio-economici complessivi, può aiutare soprattutto le reti strutturate e di rappresentanza a passare dalla logica “riparativa” (interveniamo per mitigare i guasti prodotti dal mercato e dai limiti delle politiche) a quella proattiva di attori consapevoli nei processi di sviluppo territoriale. Il tutto senza dimenticare che il Terzo settore è già in se stesso un settore anche produttivo che realizza beni e servizi, capace di creare buona e stabile occupazione anche in momenti di crisi economica generalizzata (come testimoniato da tutte le ricerche condotte in questi anni) e, soprattutto, un attivatore di processi sociali che possono a loro volta generare la nascita di imprese sociali e forme originali di economia sociale. L'occupazione, l'occupazione giovanile, gli andamenti demografici e la fuga dal sud Anche sotto il profilo dell'occupazione i dati dell'ultimo biennio lasciano intravedere segnali di speranza. Finalmente il numero totale degli occupati del Mezzogiorno è risalito sopra i 6 milioni, anche se mancano all'appello ancora 380mila posti di lavoro per ritornare ai livelli pre-crisi (mentre nel resto d'Italia l'occupazione ha già superato di circa 50mila unità tale livello). Disaggregando i dati per regioni, si registrano dinamiche alquanto divergenti: gli occupati calano in Sardegna e, sia pure in misura più ridotta in Sicilia. Crescono nelle altre regioni meridionali, ma dappertutto si rimane comunque distanti dalla situazione ante crisi: -10,5% di occupati in Calabria, -8,6% in Sicilia, -6,6% in Sardegna e Puglia, -2,1% in Campania e -0,8% in Basilicata. Il settore che ha creato maggiore occupazione è quello agricolo 7
(+5,5%) seguito da quello industriale (+2,4%) e dai servizi (+1,8%), mentre le costruzioni hanno registrato un ennesimo calo (-3,9%). Sempre il rapporto Svimez 2017 segnala come l'attuale tasso di occupazione nel Mezzogiorno è il peggiore d'Europa collocandosi di circa 35 punti al di sotto della media UE a 28 stati. Per altro si rileva che al sud sono cresciuti in maniera più consistente che nel resto d'Italia i contratti a tempo indeterminato, il che è riconducibile principalmente al prolungamento operato solo per il Mezzogiorno per le decontribuzioni sulle assunzioni a tutele crescenti (decontribuzioni che sono state invece sensibilmente ridotte nelle altre aree del paese). Un contributo significativo alla crescita dell'occupazione è stato dato dal part- time involontario (+1,9%) che sembra concentrarsi principalmente nelle regioni meridionali (nel Centro-Nord è infatti calato dello 0,1%) e la cui incidenza sul totale del lavoro resta al Sud altissima (di poco inferiore all’80%). Anche il tasso di disoccupazione continua a mantenersi particolarmente elevato e cresce leggermente nel 2016 rispetto al 2015 (19,6% rispetto al 19,4%). Nel mezzogiorno rimane particolarmente elevato il tasso di disoccupazione giovanile che si è attestato nel 2016 al 35,8%, contro il 16,1% del Centro Nord. Anche la crescita dell'occupazione registrata nell'ultimo biennio ha interessato soprattutto gli occupati anziani e il lavoro a tempo parziale, il che ha di fatto consolidato la struttura e la qualità dell'occupazione prodotta dalla crisi: un drammatico dualismo generazionale. A livello nazionale mancano all'appello ancora oltre 1 milione e 900 mila di giovani occupati rispetto al livello del 2008, dato che nel Mezzogiorno viene aggravato da una flessione dell'occupazione giovanile ancora più accentuata che nel Centro-Nord. A fronte di questi andamenti del mercato del lavoro, non è difficile comprendere come mai molti giovani decidano di abbandonare il Mezzogiorno. Infatti negli ultimi cinque anni sono emigrati dal Sud 1,7 milioni di persone con una perdita secca di popolazione pari a 716 mila unità, il 72,4 % under 34, di cui 198 mila laureati. Le regioni del sud, secondo la Filef (Federazione italiana lavoratori emigrati e famiglie), presentano una nuova emigrazione tre volte maggiore di quella che emerge dai dati Istat, e che supera il numero di immigrati e profughi che sbarcano sulle coste. Nel 2015 lo stock di emigrazione ha visto prima la Sicilia con 713.483 espatri, poi la Campania con 463.239 unità, seguite subito dopo da Calabria e Puglia. 8
Così non deve sorprendere che negli ultimi quindici anni, la popolazione meridionale è cresciuta di soli 264 mila abitanti a fronte dei 3 milioni e 329 mila nel Centro-Nord. Questo risultato è determinato sia dalla riduzione della popolazione autoctona (diminuita di 393 mila unità, mentre è cresciuta di 274 mila nel Nord), che dalla diversa distribuzione dell'immigrazione nelle diverse aree del paese. Nel 2016 gli stranieri sono stati il 10,6% della popolazione del Centro-Nord (4,2 milioni) e il 4% (834 mila) di quella meridionale (rispetto al 2015 sono aumentati di 13 mila unità gli stranieri residenti nel Centro-Nord, mentre si sono ridotti di 34 mila unità quelli nel Mezzogiorno). Così alla fine del 2016 la popolazione del Mezzogiorno risulta pari al 34,3% del totale nazionale con una contrazione rispetto all’inizio del nuovo millennio quando risultava pari al 36%. Sempre secondo il rapporto SVIMEZ le dinamiche territoriali, le migrazioni interne e quelle dall’estero continueranno a svolgere un ruolo rilevante e contribuiranno a ridefinire la geografia umana, facendo recedere ulteriormente il peso del Mezzogiorno che perderà 5,3 milioni di abitanti tra il 2016 e il 2065 (in termini percentuali, la popolazione meridionale passerebbe dall’attuale 34,4% sul totale nazionale al 29,2% del 2065). Particolarmente significativo è il fatto che l'andamento demografico negativo sia strettamente connesso con un'emigrazione principalmente giovanile. Il rapporto 2016 della Fondazione Migrantes sugli Italiani nel Mondo, delinea questa nuova emigrazione giovane e acculturata: tra le motivazioni, oltre al lavoro, c'è “il desiderio di progredire professionalmente e sperimentarsi”. Risulta dunque evidente che la connessione studio-formazione-lavoro (per esempio in esperienze come Erasmus) porta poi a far scegliere i paesi di soggiorno temporaneo per scommettere sul futuro. Viceversa tali politiche sembrano poco efficaci nelle regioni del Mezzogiorno, dove strumenti come Garanzia Giovani hanno sostituito il lavoro precario nella pubblica amministrazione, dimostrandosi in definitiva poco idonee per la creazione di occupazione stabile. I “Millennials” sono i nuovi emigranti, “pendolari a lungo raggio” che tracciano le loro rotte grazie agli smartphone, precari nella loro stessa esperienza di migrazione, che non hanno bisogno di cancellare la propria residenza, ma circolano nell'Europa di Shengen e portano intelligenza e vitalità lì dove sono valorizzate le loro capacità. Può dunque essere vincente chi saprà immaginare come invertire la rotta del Paese proprio scommettendo sulle sue energie più vivaci. Oggi 9
il servizio civile nazionale costituisce l'unica occasione civica, formativa e di transizione verso il lavoro che il Paese offre a chi ha dai 18 ai 28 anni, valorizzando le competenze dei giovani, italiani e italiani di seconda generazione. Per le organizzazioni di terzo settore meridionale può essere strategico saper leggere le evoluzioni del mercato del lavoro e utilizzare al meglio le opportunità che programmi di istruzione e formazione (Erasmus, Garanzia Giovani, Servizio Civile, etc.) possono offrire per trattenere i millennials. In tal modo si possono offrire loro occasioni concrete in cui mettere in gioco le proprie abilità: dalle capacità linguistiche a quelle multimediali, necessarie anche per rinnovare e sprovincializzare mestieri e tradizioni regionali. Per fare tutto questo, bisogna saper offrire occasioni per andare oltre la dimensione individuale, come quella che ispira ogni avventura migratoria, e scommettere su un progetto collettivo per l'intero mezzogiorno. Il territorio non è della storia, ma di chi lo abita. Mobilità sociale, lavoro, benessere possono divenire una prospettiva concreta solo se si comincia a pensare al plurale, puntando sulle formazioni solidali del terzo settore per il civismo, la formazione, la partecipazione democratica e la creazione di lavoro pari. Al tempo stesso il Terzo settore meridionale non può rimanere indifferente alle distorsioni che le dinamiche occupazionali cui si è fatto cenno possono determinare nelle comunità locali e nei territori. Soprattutto quando tali dinamiche continuano ad acuire la polarizzazione sociale facendo sì che la ricchezza di concentri sempre più in alto, mentre cresce a dismisura il numero di working poors. Una sfida importante sarà dunque quella di attrezzare sempre più le organizzazioni meridionali a confrontarsi con processi economici potenzialmente dirompenti per la coesione sociale, processi meglio descritti nel paragrafo seguente. Condizioni economiche e povertà La Svimez, nel rapporto 2017 sull'economia del Mezzogiorno, racconta di un Sud dove il rischio povertà è tre volte quello del Nord, una persona su 10 è in povertà assoluta (6% nel Centro-Nord) e l'incidenza sul totale della popolazione è praticamente raddoppiata negli ultimi dieci anni (nel 2007 solo 5 meridionali su 100 erano in condizioni di povertà assoluta). Il fenomeno si concentra inoltre nelle periferie: la povertà assoluta nel Mezzogiorno nel 2016 aumenta nelle periferie delle aree metropolitane e nei comuni con più di 50 mila abitanti (da 8,8% nel 2015 a 10
11,1% nel 2016), mentre diminuisce sensibilmente nei comuni centro delle aree metropolitane e in misura più contenuta nei comuni con meno di 50 mila abitanti (da 8,4% nel 2015 a 5,4% nel 2016 e da 8,8% a 7,8% rispettivamente). Neanche la ripresa economica e quella dell'occupazione sono riuscite ad incidere sul fenomeno: i nuovi posti di lavoro hanno infatti interessato in maniera molto limitata le fasce di popolazione più fragili: lavoratori con un basso livello di istruzione, stranieri e giovani. Tant'è che gli occupati privi di titolo di studio o con licenza elementare hanno subito una ulteriore flessione nel 2016, mentre la crescita degli occupati stranieri nel biennio di ripresa si è di fatto dimezzata passando da valori intorno al 5% annuo negli anni della crisi al circa 2,5% attuale. Particolarmente significativo è stato anche l’incremento dei lavoratori a bassa retribuzione che ha caratterizzato l’ultimo decennio, la cui quota, dopo un andamento sostanzialmente stabile nella prima metà degli anni Duemila, è salita nella crisi dal 30% a circa il 35%. Questa dinamica inerente il mercato del lavoro, si ripercuote anche sulla mobilità sociale rendendo sempre più problematico riuscire a risalire nella piramide. I dati più recenti relativi al 2016 evidenziano che oltre il 40% di coloro che provengono da famiglie con basso livello d’istruzione non va oltre il titolo di licenza media, mentre solo poco più del 10% riesce a ottenere un titolo universitario. Viceversa oltre il 60% dei figli di laureati riesce a conseguire un titolo universitario. Date queste dinamiche del mercato del lavoro, risulta inevitabile che gran parte dell’azione redistributiva debba essere svolta dalle politiche pubbliche, in particolare da quelle concernenti l'istruzione e la formazione, il sostegno ai percorsi di studio, i canali formali di ricerca lavoro, i centri per l'impiego e gli strumenti di inclusione attiva. Particolarmente appropriati possono rivelarsi anche i trasferimenti pensionistici, quelli monetari di sostegno al reddito, gli assegni al nucleo familiare ed i sussidi di disoccupazione. In tale prospettiva il Re.I. (Reddito di Inclusione) può rivelarsi uno strumento capace di avviare, in prospettiva, un processo in grado di invertire le tendenze in atto. Se infatti si finanziasse tale spesa e per mantenere i «saldi invariati» si modificasse l'imposizione fiscale sugli immobili, si potrebbe determinare un impatto positivo anche sui consumi e generare un processo in grado di rivitalizzare l'economia del paese. Si tratta in buona sostanza di ambiti di intervento e settori nei quali il terzo settore Meridionale può giocare dei ruoli strategici. 11
Occorre infatti considerare che la povertà vera e propria è un fenomeno complesso che dipende da diversi fattori e che emerge in maniera drammatica al termine di processi di impoverimento e di deprivazione che possono svolgersi anche per lunghi periodi. L'essere poveri non significa semplicemente non avere un reddito sufficiente, ma comporta anche l'esclusione dalle opportunità a cui possono accedere gli altri, l'impossibilità di attivare percorsi di formazione e qualificazione, la carenza di servizi e presidi socio-sanitari adeguati, la difficoltà ad esercitare i diritti di cittadinanza e, in definitiva, l'impossibilità a partecipare pienamente alla vita economica e sociale del paese. Per questo il terzo settore deve essere in grado di sviluppare una gamma di iniziative e compiti differenziati sia per ambito di intervento che per tipologia di strumenti. Soprattutto diventa necessario saper integrare le risorse, tessendo reti e sviluppando programmi che permettano di combinare le misure volte a sostenere i redditi delle persone e delle famiglie, con gli interventi di inclusione attiva finalizzati alla graduale conquista dell'autonomia. Al tempo stesso è di cruciale importanza saper sviluppare un'analisi quantitativa e qualitativa dei fenomeni emergenti di povertà, soprattutto andando a stanare quelle condizioni di povertà estreme spesso difficilmente raggiungibili e che richiedono delle modalità di intervento peculiari e spesso molto complesse. Naturalmente il Terzo settore meridionale non può farsi carico da solo di tali problemi, soprattutto se si tiene conto che nell'ambito degli interventi di contrasto alla povertà e all'esclusione sociale operano diverse istituzioni che, per altro, fanno capo a diversi livelli di governo (nazionali, regionali e locali). Tutto questo rende ancora più problematica la lettura dei bisogni e soprattutto la programmazione degli interventi territoriali e la valutazione delle politiche globali. Proprio per questo si rende necessario pensare ad un terzo settore in grado di analizzare e capire meglio le politiche pubbliche di cui si dirà appresso. Politiche pubbliche Per inquadrare il ruolo svolto dalle politiche pubbliche nel Mezzogiorno può essere utile considerare i dati contenuti nella Relazione annuale CPT (Conti Pubblici Territoriali) dell'Agenzia per la Coesione Territoriale, relazione che ha l’obiettivo di fornire un’analisi delle diverse componenti della spesa in Italia e nel Mezzogiorno riferite al Settore Pubblico Allargato (SPA - che comprende non solo le politiche di 12
spesa effettiva delle istituzioni e della PA, ma anche quelle delle imprese pubbliche nazionali e locali). Un primo dato interessante riguarda la spesa totale che, dopo gli anni di contenimento dovuti alla crisi economica, ha registrato un incremento fra il 2014 e il 2015 di circa il 3,7%, attestandosi nell’ultimo anno su un valore di 14.567,12 euro pro capite. Il tutto però con una netta differenziazione fra le aree del paese (in media: 15.801,51 € nel Centro‐Nord a fronte dei 12.222,23 € nel Mezzogiorno). Si consideri inoltre che il 71,2% della spesa totale del SPA (pari a circa 855 miliardi di euro) si concentra nel Centro-Nord dove risiede il 65,6% della popolazione, mentre solo il 28,8% viene allocata al sud dove risiede invece il 34,4% della popolazione. É evidente che si tratta di una distribuzione che è assolutamente il contrario di quanto sarebbe necessario per colmare i divari nord-sud. Per altro l'incremento della SPA concerne esclusivamente la spesa corrente, mentre al contrario la spesa in conto capitale continua a registrare ulteriori flessioni passando dai 68,2 miliardi del 2014 ai 65,4 del 2015 e risultando ancora inferiore del 29 per cento rispetto al 2009. Analizzando la distribuzione della spesa totale del SPA si riscontra il permanere del significativo divario di spesa pro-capite tra il Mezzogiorno ed il Centro-Nord in tutti settori e soprattutto in quelli dei servizi essenziali quali politiche sociali, sanità, reti infrastrutturali, mobilità. In particolare nel settore delle politiche sociali la spesa pro-capite al Centro Nord nel 2015 è stata pari a 6.034 €, mentre nel Mezzogiorno si è attestata a soli 4.472 euro. Nel settore mobilità invece, la spesa media pro-capite è stata pari a € 686 nel Centro-Nord contro i 538 € del Mezzogiorno (complessivamente in questo ambito la spesa al sud è stata del 25% inferiore a quella del resto del paese). Per quel che concerne il settore reti infrastrutturali, dopo il calo del 2014, si registra un lieve incremento nel Centro-Nord a fronte di una sostanziale stabilità nel Mezzogiorno. Nel macro settore conoscenza cultura e ricerca è invece continuata la contrazione generale già registrata negli anni precedenti, contrazione che però ha registrato delle significative inversioni di tendenza in tre regioni meridionali. Infatti trend positivi si registrano in Basilicata sale da 1.190 euro pro capite del 2014 a 1.228 euro del 2015; Campania da 998 a 1030 euro pro capite; Sardegna da 1138 a 1164 euro pro capite. Per converso un calo significativo ha riguardato la regione Puglia che da 963 euro è scesa a 879 euro pro capite. Infine il 13
settore attività produttive e opere pubbliche mantiene il trend negativo in entrambe le aree del paese: passando nel Centro‐Nord da 1.434 euro pro capite del 2014 a 1.382 euro pro capite del 2015 e nel Mezzogiorno da 806 euro pro capite a 778. Se si considerano i dati relativi alla sola spesa in conto capitale della PA contenuti nella Relazione annuale CPT, si deve registrare come in Italia nel 2015 la spesa in conto capitale sia passata dai 35,9 miliardi di euro nel 2014 ai 37,7 del 2015; si tratta di un incremento concentrato nel Mezzogiorno e dovuto in maniera pressoché esclusiva alla chiusura della programmazione comunitaria 2007‐2013. Infatti al sud si è passati dai 13,3 miliardi di euro (638 € pro capite) del 2014 ai 15,8 miliardi di euro del 2015 (759 euro pro capite). Tuttavia questa forte espansione va posta in correlazione con la contestuale riduzione delle risorse ordinarie destinate al Mezzogiorno che proprio nel 2015 hanno toccato il punto di minimo della serie storica: tali risorse infatti sono giunte a rappresentare in termini pro capite nel 2015 meno di un terzo del totale delle risorse in conto capitale e circa la metà di quelle aggiuntive provenienti dall'Europa. Il che ha portato ad una situazione in cui le risorse del Fondo di Sviluppo e Coesione che all'inizio del periodo costituivano circa il 50% del complesso delle risorse destinate alla coesione, nel 2015 hanno rappresentato appena l'11% del totale ed hanno fatto sì che le sole politiche di sostegno praticate si siano realizzate attraverso i fondi comunitari a disposizione delle regioni meridionali. Questa situazione in realtà non fa altro che confermare una tendenza in atto ormai da quasi 70 anni e che sta producendo una progressiva riduzione delle risorse destinate allo sviluppo del mezzogiorno. Il Rapporto CPT, infatti, considerando infatti la relazione fra la spesa per le aree sottoutilizzate e il PIL ha elaborato la seguente tabella: 14
Anni Spesa a favore PIL a prezzi di Incidenza % sul delle aree mercato Italia PIL nazionale sottoutilizzate 1951-1960 665,00 98.0 0,68 1961-1970 1.557,00 242.380 0,64 1971-1980 8.478,00 993.584 0,85 1981-1990 27.373,00 4.640.753 0,59 1991-2000 44.961,00 9.568.233 0,47 2001-2010 47.304,00 14.547.063 0,43 2011-2015 12.290,00 8.103.461 0,15 Questo crollo ingiustificabile della spesa a favore delle aree sottoutilizzate e l'evidenza degli effetti perversi causati dalla sostituzione delle politiche ordinarie con le risorse aggiuntive dei fondi europei, hanno portato di recente alla consapevolezza che queste politiche rischiano di condannare il Mezzogiorno all'irrilevanza e, dunque, a rappresentare sempre più un fattore di criticità per lo sviluppo del paese. Per tali motivi si è infine giunti alla reintroduzione nella L. 18/2017 dei principi per il riequilibrio territoriale della spesa pubblica. Ma chiaramente queste novità normative possono contribuire solo in parte se al contempo nei territori del Mezzogiorno non si attivano competenze ed attitudini ad utilizzare al meglio le risorse disponibili. Soprattutto il terzo settore dovrà essere capace di fare crescere la qualità della propria interlocuzione con le istituzioni, in particolare quelle chiamate a colmare i divari nord-sud in ambiti quali la sanità, i servizi sociali, l'istruzione e l'educazione, la cultura e lo sviluppo di attività produttive coerenti con le vocazioni e le tradizioni dei territori. 15
Gli SDGs, Terzo settore e meridione Il Mezzogiorno si presenta clamorosamente come il banco di prova italiano per sperimentare strategie e azioni che l'agenda 2030 traccia verso i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile per tutto il Pianeta. Quanto detto in precedenza rende evidente come anche nel Mezzogiorno la definizione di piani politici e strategici volti al conseguimento di obiettivi locali coerenti con gli SDGs potrebbe determinare una netta e definitiva inversione di tendenza nei processi di sviluppo territoriale. Infatti ognuno dei 17 obiettivi di sviluppo sostenibile rappresenta di fatto una sfida per il meridione ad affrontare le cause che lo rendono ancora una area sottoutilizzata ed in ritardo di sviluppo economico. Inoltre è evidente che operare localmente ma in virtù di una visione globale quale quella di “sviluppo sostenibile” consente non solo di connettere le azioni locali a quelle di altre realtà che operano in altri territori e con le quali è possibile scambiarsi esperienze e buone prassi, ma soprattutto permette di agire condividendo analisi, valutazioni, progettualità e risorse in una logica di matrice multilivello. Da qui l'importanza anche per il terzo settore meridionale di imparare a misurarsi con gli obiettivi mondiali dello sviluppo sostenibile. Il termine “sviluppo sostenibile” è stato coniato per la prima volta nel 1987 nel rapporto della Commissione ONU per l’Ambiente e lo Sviluppo coordinata da Gro Harlem Brundtland (ex prima ministra norvegese). Proprio in tale rapporto si legge la definizione che resta tutt’oggi la più esaustiva e completa: “lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Ad onta della semplicità dell'enunciato, l'attuazione del principio nella vita reale ha determinato una tale quantità di implicazioni ed interconnessioni che oggi dietro ad esso si rivelano alcune fra le questioni più controverse e delicate delle politiche e degli equilibri internazionali. In particolare in seguito alla firma del Protocollo di Kyoto, è stata ribadita a più riprese la necessità imprescindibile di segmentare le intenzioni dei sostenitori dello sviluppo sostenibile e di rendere gli sforzi profusi in tale direzione finalmente misurabili. Secondo queste intenzioni è stata prodotta e ratificata la “Dichiarazione del Millennio”, un documento firmato dai 193 Stati membri delle Nazioni Unite nel 16
settembre del 2000. Tale testo, suddiviso in 8 punti (i Millenium Development Goals o MDGs), cercava di catalogare ed organizzare i traguardi da raggiungere entro il 2015 per garantire un futuro sostenibile alle prossime generazioni. I settori di intervento riguardavano: il dimezzamento della povertà estrema e della fame nel mondo; l'istruzione primaria ed universale; la parità dei sessi e l'autonomia delle donne; la riduzione della mortalità infantile; il miglioramento della salute; la lotta all’HIV/AIDS, alla malaria e alle altre malattie; la garanzia della sostenibilità ambientale; la partnership mondiale per lo sviluppo. La pubblicazione di tali obiettivi ha sancito definitivamente la mission che il principio dello sviluppo sostenibile porta con sé ma negli anni seguiti alla firma della dichiarazione si è vieppiù diffusa una grossa nuvola di scetticismo e di sfiducia nei confronti degli MDGs, a causa della loro ambizione e della mancanza di vincoli coercitivi per i Paesi firmatari. Inoltre, l’assenza di una chiara definizione dei risultati concreti previsti, di eventuali step intermedi, unitamente alla carenza di dati aggiornati e misurabili dei progressi raggiunti, hanno permesso a tale scetticismo di divampare. Col tempo, però, l’entusiasmo e la sorpresa hanno soppiantato la diffidenza. Via via che cominciavano a diffondersi i primi numeri sui progressi ottenuti, ha preso piede la consapevolezza del successo di strumenti come quello rappresentato dalla dichiarazione del millennio. Tant'è che nel 2015, con legittimo orgoglio, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, ha potuto annunciare una serie di dati confortanti: il dimezzamento del numero di persone che vivono in condizioni di povertà estrema rispetto al 1990; l’accesso all’educazione primaria nei Paesi in via di sviluppo salito fino al 90% con pari opportunità di accesso anche per le bambine; la riduzione della mortalità infantile pari a 17.000 bambini in meno rispetto al 1990 ; la mortalità materna crollata del 45% rispetto a 25 anni prima; HIV, Tubercolosi e numerose altre malattie contrastate efficacemente grazie ad azioni di prevenzione e cura; la conquista per oltre 2 miliardi di persone del libero accesso all’acqua potabile; infine la cancellazione di gran parte del debito che attanagliava lo sviluppo di numerosi paesi poveri. Tuttavia è risultato evidente sin da subito che quanto fatto, sebbene ammirevole, non fosse sufficiente e che fosse necessario percorrere ancora molta strada. Nonostante i progressi ottenuti, i numeri del sottosviluppo rivelavano l’altra 17
inquietante faccia della medaglia: 800 milioni di persone al mondo continuavano a vivere in stato di estrema povertà e a soffrire la fame; oltre 160 milioni di bambini malnutriti; 57 milioni di bambini in età scolare esclusi da qualsiasi forma di istruzione; il rischio di mortalità tra gli 0 e i 5 anni per 5,8 milioni di bambini ogni anno; 2 miliardi e mezzo di persone prive di servizi igienici adeguati e quasi 60 milioni di persone costrette ogni anno a lasciare la propria casa a causa dei conflitti bellici. Per questo motivo, il 2015 è culminato con tre eventi che hanno definito diversi aspetti cruciali di tale percorso: la conferenza di Addis Abeba sul finanziamento allo sviluppo, il summit straordinario New York del 25-27 settembre e la Conferenza COP21 di Parigi sul cambiamento climatico. Grazie anche a questi incontri, nel settembre 2015 è stata approvata l’Agenda Globale per lo sviluppo sostenibile: un documento che fissa 17 obiettivi, suddivisi in 169 target, da raggiungere entro il 2030 sulla scorta del successo degli MDGs del 2000. Ciò che è apparso immediatamente chiaro fu la netta presa di coscienza da parte dei firmatari dell’insostenibile modello di sviluppo economico, sociale ed ambientale. Per la prima volta, poi, sono stati chiamati al rispetto dell’accordo indistintamente tutti i Paesi del mondo a prescindere dal loro livello di industrializzazione. La vera novità rappresentata dagli SDGs, però, non risiede certo nei singoli obiettivi, bensì nella loro complessità. La rivoluzione dell’Agenda 2030, infatti, così come solamente tentato dagli obiettivi del Millennio nel 2000, sta nella volontà di esprimere una visione complessiva della società e di non limitarsi a singoli aspetti di natura economica o ambientale. Con l’adozione dell’Agenda, i Paesi firmatari hanno accettato di sottoporsi ad un processo di valutazione volto a monitorare i progressi ottenuti nel corso degli anni sino al 2030. Sono stati, pertanto, varati oltre 240 indicatori globalmente riconosciuti ed è stato assegnato all’High Level Political Forum (HLPF) il compito di svolgere tale monitoraggio. Questi processi hanno avuto i loro riflessi anche in Italia e nel febbraio 2016 si è costituita l’Alleanza Italiana per lo sviluppo sostenibile, che vede il Forum del Terzo Settore fra i fondatori e che riunisce oltre 170 tra le più importanti istituzioni e reti della società civile: associazioni, associazioni di enti territoriali, università e centri di ricerca, soggetti attivi nei mondi della cultura e dell’informazione, fondazioni, ecc. La missione con cui è nata l’ASviS è quella di “far crescere nella società 18
italiana, nei soggetti economici e nelle istituzioni la consapevolezza dell’importanza dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, mettendo in rete coloro che si occupano già di aspetti specifici ricompresi negli Obiettivi di sviluppo sostenibile”. Anche grazie all'azione dell'ASviS Il Governo italiano nel 2016 ha avviato il proprio percorso per l’adozione della Strategia nazionale per lo Sviluppo sostenibile. Il 4 gennaio 2017 il Ministero per l’Ambiente ha diffuso un primo documento: “Il posizionamento Italiano rispetto ai 17 Obiettivi per lo Sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite”. Inoltre la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nei primi mesi del 2017, ha voluto diffondere a tutti i ministeri una direttiva affinché tutti incorporassero gli obiettivi dell’agenda 2030 nei propri piani per il triennio 2018/2020. Dopo un intenso lavoro, frutto anche del confronto e dell’ascolto della società civile, il 2 ottobre 2017 il Consiglio dei Ministri ha adottato il documento finale. La strategia individua alcuni driver trasversali quali leve fondamentali per avviare, guidare, gestire e monitorare l’integrazione della sostenibilità nelle politiche: - Istituzioni, partecipazione e partenariati - Educazione, sensibilizzazione e comunicazione - Conoscenza comune - Modernizzazione della PP.AA. e riqualificazione della spesa pubblica - Monitoraggio e valutazione delle politiche La strategia è poi articolata in 5 aree (le 5 P):Persone, Pianeta, Prosperità, Pace, Partnership ed alle quali afferiscono le diverse scelte ed obiettivi strategici, aree di indubbio interesse per le organizzazioni di terzo settore. Non può sfuggire dunque l'apporto che il nuovo percorso di FQTS del prossimo triennio possa offrire per la mobilitazione diretta delle organizzazioni del Mezzogiorno nella costruzione di dibattiti ed interventi concreti rispetto agli obiettivi di sviluppo sostenibile. Questa sfida può infatti, essere vinta solo se si riusciranno a superare i particolarismi dei campi d’azione in cui si muovono le singole organizzazioni (povertà, ambiente, esclusione sociale, ecc.) e farli convergere in un unico binario diretto, senza interruzioni, verso un futuro finalmente sostenibile. Per l’ambiente, per l’uomo e, in definitiva, per l’umanità. Per questo un percorso articolato e prolungato come FQTS può risultare un'arma strategica per supportare 19
il Terzo Settore Meridionale ad agire in questa logica di interconnessione. Al riguardo va considerato che un altro aspetto rilevante ed innovativo è il carattere universalistico offerto dall’Agenda 2030. Infatti i responsabili del successo degli SDGs non possono essere considerati, come invece avvenuto nel 2000, esclusivamente i governi dei Paesi firmatari, ma vanno invece considerati anche: le imprese, chiamate a rivedere i propri processi produttivi; i singoli individui, chiamati a vario titolo a diventare consumatori responsabili, contribuenti alla fiscalità, cittadini attivi, portatori di pratiche virtuose, attenti alla salute propria e altrui; la società civile, tra cui occorre annoverare necessariamente gli enti di Terzo settore. D'altro canto moltissime organizzazioni di Terzo Settore sono già da tempo concretamente impegnate su questo fronte e proprio al fine di rilevare l’impegno degli enti del Terzo settore aderenti al Forum Nazionale del Terzo Settore è stata realizzata una prima analisi per verificare lo stato dell'arte. In questa fase si è voluto indagare su alcuni semplici aspetti relativi al perseguimento degli SDGs, raccogliendo informazioni sulle attività svolte dagli enti e riconducendole ai diversi SDGs, sulle esperienze che testimoniano la realizzazione di tale impegno, nonché sulle iniziative in programma per il prossimo biennio. La tabella seguente riepiloga alcuni dei risultati dell'analisi: Enti che % sulle SDGs perseguono risposte l'obiettivo 1 Porre fine ad ogni forma di povertà nel 22 43% mondo 2 Porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare la 20 39% nutrizione e promuovere un’agricoltura sostenibile 3 Assicurare la salute e il benessere per tutti 42 82% e per tutte le età 20
4 Assicurare un’istruzione di qualità, equa ed inclusiva, e promuovere opportunità di 35 69% apprendimento permanente per tutti 5 Raggiungere l'uguaglianza di genere ed 28 55% emancipare tutte le donne e le ragazze 6 Garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell'acqua e delle 15 29% strutture igienico-sanitarie 7 Assicurare a tutti l'accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e 16 31% moderni 8 Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, 28 55% un'occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti 9 Costruire una infrastruttura resiliente e promuovere l'innovazione ed una 16 31% industrializzazione equa, responsabile e sostenibile 10 Ridurre l'ineguaglianza all'interno di e fra 28 55% le Nazioni 11 Rendere le città e gli insediamenti umani 37 73% inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili 12 Garantire modelli sostenibili di 30 59% produzione e di consumo 13 Adottare misure urgenti per combattere il 22 43% cambiamento climatico e le sue conseguenze 14 Conservare e utilizzare in modo durevole 17 33% 21
gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile 15 Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell'ecosistema terrestre, gestire sostenibilmente le foreste, contrastare la 23 45% desertificazione, arrestare e far retrocedere il degrado del terreno, e fermare la perdita di diversità biologica 16 Promuovere società pacifiche e più inclusive per uno sviluppo sostenibile; offrire l'accesso alla giustizia per tutti e creare 42 82% organismi efficienti, responsabili e inclusivi a tutti i livelli 17 Rafforzare i mezzi di attuazione e rinnovare il partenariato mondiale per lo 29 57% sviluppo sostenibile Questi dati rendono dunque evidente che dedicare la dovuta attenzione agli SDGs nell'ambito di FQTS può rappresentare una forma per sostenere concretamente gli enti del Terzo Settore Meridionale non solo a sviluppare meglio la propria operatività, ma anche a connettersi sia livello territoriale che su scala globale per rendere ancora più incisiva la loro azione nella logica dello sviluppo sostenibile. La sfida della riforma del Terzo settore Nell'impostare il nuovo triennio di FQTS non si può certo ignorare che il terzo settore meridionale si troverà a dover implementare sul territorio la recente riforma, partendo proprio dalla definizione di terzo settore contenuta in questa riforma: “Per Terzo settore si intende il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di 22
produzione e scambio di beni e servizi”. Così la recente Legge delega per la riforma del Terzo settore (L 106/16) ha finalmente colmato una lacuna ormai ventennale. L’articolo 1 comma 1 ha provveduto a definire giuridicamente il Terzo settore, riconoscendone la sua piena dignità di attore sociale al pari di altri soggetti. Il processo di riforma, che non è ancora terminato (dovranno essere ancora adottati circa 40 ulteriori atti), è stato avviato “al fine di sostenere l'autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l'inclusione e il pieno sviluppo della persona, a valorizzare il potenziale di crescita e di occupazione lavorativa (…)” (art. 1 comma 1). Si tratta di un passaggio di grande importanza: la definizione è il frutto di decenni di attività di milioni di cittadini attivi che vedono il loro impegno riconosciuto. La legislazione si rimette al passo con la società. Il Terzo settore non è un incidente storico, che nasce occupando gli spazi lasciati liberi dai fallimenti dello Stato e del Mercato, tanto che qualcuno potrebbe dire che se questi ultimi funzionassero a dovere il Terzo settore non avrebbe motivo di esistere (a maggior ragione se poi il Mercato fosse tutto costituito da soggetti dell’economia civile). Alcuni enti del Terzo settore realizzano servizi, ma di certo questi ultimi non rappresentano il loro fine ma, piuttosto, sono un mezzo per esprimere il proprio modo d’essere. Essi hanno una propria intrinseca ragion d’essere secondo diversi punti di vista: - nel loro modo di essere (una modalità organizzata per esprimere la socialità umana creando luoghi di partecipazione attiva), - nel loro modo di operare (creando reti e relazioni), - in ciò di cui si occupano (prendendosi anche cura di persone in condizioni di fragilità o di beni comuni). L’esito di tutto ciò, il bene “prodotto” dal Terzo settore è la creazione di fiducia e capitale sociale. A dispetto dell'idea che vede le persone animate da pulsioni egoistiche (un pensiero che si è fatto strada solo negli ultimi tre secoli ponendosi alla base di un certo modo di vedere le relazioni economiche), nella realtà gli esseri umani sono "animali sociali", come già insegnava Aristotele a suo tempo e come oggi confermano anche 23
gli studi, ad esempio, di psicologia sociale, antropologia culturale, etologia e, pare, anche gli studi di neurobiologia (i cd. “neuroni specchio”). Anche il mondo dell’economia sembra accorgersene, come dimostrano coloro ai quali è stato riconosciuto il premio Nobel in questi ultimi anni. La naturale prosocialità delle persone nella storia ha trovato, trova e troverà sempre forme con cui organizzarsi e manifestarsi: 800 anni fa si manifestava, ad esempio, nelle prime esperienze delle Misericordie (oggi ancora presenti ed attive). Oggi anche tramite gli enti del Terzo settore, domani magari con le piattaforme di condivisione e collaborazione che si stanno affermando. Chissà quali saranno le forme organizzative adottate nel prossimo secolo. Ciò sottende una esigenza di comunità: non di una comunità escludente arroccata a difesa del privilegio di pochi, ma di una includente che riconnetta le persone, ridia un senso del futuro collaborativo. Il Terzo settore può essere un attore, non l'unico, che sostiene una società ad andare in quella direzione. Come ci ricorda Stefano Zamagni “il Terzo Settore del dopo Riforma (L.106/2016) non può esimersi dal porre in cima ai propri compiti la rigenerazione della comunità, lo sforzo costante di “fare luogo” per creare quelle relazioni che scongiurano la minaccia dell’isolamento. Se questo è l’obiettivo, la strategia di lungo termine da perseguire è allora quella di dare ali a pratiche di organizzazione delle comunità (community organizing). È questo un modo alternativo di impegno “politico” che consente alle persone, la cui voce mai verrebbe udita, di contribuire al processo di inclusione sia sociale sia economica.”. Gli enti di Terzo settore svolgono una funzione sociale cruciale: creano condizioni e opportunità di partecipazione attiva per i cittadini volte a favorire processi inclusivi attraverso le più diverse modalità. Gli esempi sono i più diversi: dalla tutela dei diritti alle azioni di advocacy, dalla attivazione in prima persona per rispondere a particolari esigenze/bisogni di persone escluse alla tutela di beni comuni. Queste attività, si basano su un alto livello di relazionalità (all’interno di ciascun ente, fra gli operatori e i beneficiati) e sempre più spesso vengono realizzate agendo in partnership con altri soggetti (pubblici o privati) creando ulteriori reti di relazioni. Da tutto ciò deriva una fitta trama di rapporti che costituiscono i primi “prodotti” degli Enti del Terzo settore: la coesione e il capitale sociale, elementi 24
imprescindibili che stanno a monte di qualsiasi modello di sviluppo, a maggior ragione di uno sviluppo sostenibile dal punto di vista economico, sociale e ambientale. Gli enti di Terzo settore creano quello che gli economisti chiamano “esternalità positive”, assolvendo così ad una fondamentale funzione sociale. Va ricordato, infatti, che il sistema produttivo genera costi sociali (detti “esternalità negative”): dal consumo del suolo ai danni ambientali, alle tensioni o fratture sociali (insider Vs outsider), sino al consumo di beni relazionali e di capitale sociale. Oltre a portare avanti attività di denuncia ed advocacy dei danni prodotti, gli enti di Terzo settore hanno l’importante compito, da un lato, di rigenerare il capitale sociale, dall'altro, di sostenere e incalzare le iniziative imprenditoriali che, responsabilmente, internalizzano i costi sociali, facendosi anche carico delle esigenze della comunità dove operano. Il tutto a partire dalle esperienze della cooperazione sociale - e ora delle imprese sociali - che portano al massimo livello tale internalizzazione, perfino andando oltre e producendo esternalità positive tanto da essere annoverate parte integrante del Terzo settore. Un modello di produzione estremamente virtuoso che va esteso contaminando (o, come piace dire ora, ibridando) con i propri valori le imprese profit. Non un ruolo ancillare, quindi, per gli enti di Terzo settore, ma di continua vigilanza, supporto e stimolo. L’esigenza di infrastrutturazione sociale nel Meridione e il ruolo della formazione Quando il percorso formativo per i quadri ed i dirigenti del Terzo Settore meridionale è stato avviato per la prima volta, si è affacciato ad una realtà di TS fortemente frammentata, con scarse risorse a disposizione ed una bassa consapevolezza della propria dignità di parte sociale. Una realtà che seppure in forte crescita e con punte di eccellenza, non sembrava capace di cambiare il contesto meridionale caratterizzato da enormi sacche di povertà e di esclusione sociale. Le stesse rappresentanze territoriali stentavano a prendere piede, e la cooperazione tra enti del terzo settore era limitata a singole opportunità progettuali. Il rapporto con le istituzioni era spesso incentrato su relazioni asimmetriche e di carattere personale, quando non di natura clientelare, ben lungi da una reale capacità di confronto ed ancor meno di concertazione. 25
Nel corso degli ultimi 10 anni, anche grazie all’azione formativa di FQTS, abbiamo assistito ad una evoluzione positiva del Terzo Settore meridionale, che ha visto crescere la propria dimensione politica sui territori e l’accentuarsi di relazioni inter- associative e di forme di cooperazione più o meno strutturate. Sicuramente rilevante in tal senso è stata l’infrastrutturazione territoriale dei soggetti di rappresentanza unitaria, ottenuta attraverso il rafforzamento, e dove necessario la costituzione dei Forum Regionali e territoriali del Terzo Settore, percorsi che nella maggior parte dei casi sono stati sostenuti ed accompagnati anche dai Centri di Servizio al Volontariato. Ma evidentemente, nonostante tale crescita, ancora molte sono le contraddizioni e le debolezze, ed ancora forte è la frammentazione ed il personalismo. Così come le difficoltà soprattutto delle organizzazioni più piccole e periferiche, che si sommano alle notevoli differenze tra i diversi territori delle regioni meridionali. Ecco quindi che l’azione formativa rappresenta ancora una scelta imprescindibile per lo sviluppo degli ETS e delle stesse comunità dove sono chiamati ad operare. Si tratta quindi di facilitare, attraverso una specifica azione formativa di matrice unitaria, il processo di infrastrutturazione già avviato, garantendo da un lato la diffusione di una sempre maggiore consapevolezza del proprio ruolo di agenti di sviluppo tra le realtà del TS meridionale, e dall’altro l’acquisizione di competenze relazionali e progettuali capaci di accompagnare l’azione politica e garantire una reale implementazione del capitale sociale. La riforma del Terzo Settore, che proprio nel prossimo triennio determinerà i principali cambiamenti, riconosce un ruolo sempre più marcato agli ETS nella costruzione di percorsi partecipati di sviluppo sui territori. Un ruolo che, in particolare nel meridione, per riempirsi di contenuti concreti dovrà essere giocato sino in fondo, con responsabilità e competenza. FQTS in tal senso può rappresentare la principale risorsa in termini di cambiamento, culturale e sociale, per il TS meridionale. L’impianto formativo L’impianto formativo è composto da percorsi comuni, curriculum e percorsi 26
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