LA CRISI ITALIANA E IL TEMPO - CHE STRINGE di Vadim Bottoni
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LA CRISI ITALIANA E IL TEMPO CHE STRINGE di Vadim Bottoni Il Consiglio europeo del 23 Aprile doveva pronunciarsi su un pacchetto di misure di sostegno alle economie dei paesi dell’UE che si trovano in piena emergenza sanitaria e di fronte alla più grave crisi economica del dopoguerra. Di queste misure sentirà di certo la mancanza il Regno Unito, novello ex paese membro, che gestirà l’emergenza senza pacchi (MES) e pacchetti (Sure, Bei, ed abbozzi vari) ma semplicemente attraverso la Bank of England che finanzierà direttamente e illimitatamente il Tesoro britannico, consentendogli di svincolarsi dai mercati per tutto il periodo della crisi. Nell’UE simili “eresie” sono escluse, anzi vietate dai Trattati, così stiamo navigando in un mare di incertezze in cui l’unico approdo a portata di fatto è il MES, il cosiddetto
fondo salva-stati che rappresenta una cura peggiore del male indipendentemente dalla versione, light o hard che sia. Infatti mentre nel pacchetto gli altri strumenti finanziari sono il Sure e la Bei, tutt’ora precari oltre ad essere inconsistenti, a cui aggiungiamo il Recovery Fund che allo stato attuale è solo una proposta di intenti, l’unica certezza che rimane è il MES, quel meccanismo le cui casse prima devono essere impinguate dai versamenti degli Stati e poi si attiva imponendo condizionalità, ovvero prescrizioni finanziarie vessatorie e recessive. Condizioni recessive in una crisi di tal portata significa distruggere capacità produttiva e possibilità di lavoro in modo non più recuperabili. La pillola del MES non può essere addolcita dalla formula che prevede la sospensione di condizionalità perché a norma dei Trattati (art. 136 TFUE) e dei Regolamenti (472/2013) UE, la mannaia delle condizionalità è parte integrante del meccanismo in cui rischiamo di finire. Il fatto che il MES sia allo stato attuale l’unica porta di accesso dell’eventuale intervento diretto della BCE, tramite specifiche operazioni (OMT), rafforza la tesi della pressione posta in atto per accedervi. Le altre voci di “solidarietà europea” relative alla cassa integrazione e agli investimenti dovrebbero essere ricoperte, rispettivamente, dal Sure e dalla Bei che per dirla in breve sono la classica partita di giro, di risorse da impegnare e garanzie da prestare, che per l’Italia, in qualità di contributore netto, alla fine del giro risulterebbe più l’impegno che la resa. Vista poi la bocciatura degli Eurobond, sempre debito ma almeno condiviso tra tutti i Paesi membri e che proprio per questo la Merkel ha definito “inadeguati”, si è abbozzato lo strumento del Recovery Fund, un intervento una tantum che non cambia le regole del gioco e ben inteso non consiste in una mutualizzazione del debito. Oltre a questo il problema del Recovery Fund è che la Commissione dovrà poi definire in una proposta in cui spiegare come collegare le obbligazioni emesse con il bilancio europeo: considerando che
l’Italia e Spagna vorrebbero prestiti perpetui mentre i Paesi nordici no, non stupirebbe che il processo si incanalasse in una, ormai ricorrente, inconcludenza di fatto. Alla luce di quanto detto, seppur sbrigativamente, l’entità a livello europeo di “complessivi” 500 miliardi circa prevista nel pacchetto è non solo inadeguata sulla carta, ma in buona parte destinata a rimanere sulla carta, eccezion fatta per il MES di cui invece dovremmo fare cartastraccia! In questo contesto la decantata sospensione del fiscal compact, ovvero la possibilità di fare deficit di bilancio, oltre ad essere solo temporanea apre lo scenario di un enorme e repentina offerta di titoli di Stato sul mercato che, senza l’intervento incondizionato della BCE, darebbe spazio a comportamenti speculativi e a una impennata degli spread. In tale scenario la sospensione dei vincoli di bilancio suona come un invito a poter correre liberamente, ma in un campo minato. Sembra quindi che niente possa salvarsi, ma cosa servirebbe allora? Il crollo attuale e previsto della produzione e dei redditi imporrebbe una monetizzazione del debito alla stregua di quanto prima descritto per il Regno Unito con la Bank of England, quindi un finanziamento diretto e non a debito allo Stato per attuare le manovre di sostegno ai redditi e di rilancio degli investimenti pubblici, misure ad oggi vitali e non procrastinabili. Nell’UE invece non si può prescindere dalla condizione del
debito, che oltretutto non può essere mutualizzato, ovvero condiviso, come più volte ribadito da Olanda e Germania e palesato nel rigetto degli Eurobond che avevano proprio questa caratteristica. Mutualizzare il debito significa condividere i rischi, e di questa condivisione non solo non c’è traccia nell’UE ma all’interno dell’eurozona la negazione della condivisione è diventata un elemento costitutivo, certificato dall’esistenza permanente dello spread: infatti una valuta che ha diversi costi del denaro (al Sud e al Nord) non è una valuta realmente condivisa. Tant’è che lo spread in diversi documenti delle istituzioni europee è trattato come una fisiologia mentre dovrebbe essere gestito come una patologia del sistema. Infatti è palese che questa discriminazione nel costo del denaro tra gli Stati altera la competitività degli stessi, visto che le rispettive imprese devono finanziare la loro produzione sostenendo oneri molto differenti. Ma la ragione per cui alcuni Stati beneficiano degli spread è la ragione per cui non accetterebbero mai la condivisione dei rischi, quindi la mutualizzazione dei debiti, ovvero Eurobond e tutti gli strumenti con nomi di fantasia ad essi assimilabili. I tavoli negoziali delle istituzioni europee riproducono semplicemente questi interessi acquisiti che, per quanto visto, sono la ragione stessa per cui quegli Stati in quei tavoli si siedono. Non è un caso quindi che ad oggi il MES è l’unico strumento già pronto, tra i quattro del pacchetto, e può intervenire fin dalle prossime settimane per sostenere una raccolta di fondi sul mercato che l’Italia avvierà con una inedita intensità per finanziare il fabbisogno necessari alla improcrastinabile manovra per la nostra sopravvivenza economica. In conclusione, la lezione da trarre della lenta e irrisoluta trattativa europea è che di strumenti finanziari accettabili
per noi non ce ne sono e non ce ne possono essere, di tempo ulteriore non ne abbiamo e se non iniziamo a fare da soli quello che dentro la gabbia dell’UE una banca centrale non può fare, da questa crisi epocale in piedi non ne usciamo.
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