LA CRISI ITALIANA E IL TEMPO - CHE STRINGE di Vadim Bottoni

Pagina creata da Francesca Graziani
 
CONTINUA A LEGGERE
LA CRISI ITALIANA E IL TEMPO - CHE STRINGE di Vadim Bottoni
LA CRISI ITALIANA E IL TEMPO
CHE STRINGE di Vadim Bottoni

Il Consiglio europeo del 23 Aprile doveva pronunciarsi su un
pacchetto di misure di sostegno alle economie dei paesi
dell’UE che si trovano in piena emergenza sanitaria e di
fronte alla più grave crisi economica del dopoguerra.

Di queste misure sentirà di certo la mancanza il Regno Unito,
novello ex paese membro, che gestirà l’emergenza senza pacchi
(MES) e pacchetti (Sure, Bei, ed abbozzi vari) ma
semplicemente attraverso la Bank of England che finanzierà
direttamente e illimitatamente il Tesoro britannico,
consentendogli di svincolarsi dai mercati per tutto il periodo
della crisi.

Nell’UE simili “eresie” sono escluse, anzi vietate dai
Trattati, così stiamo navigando in un mare di incertezze in
cui l’unico approdo a portata di fatto è il MES, il cosiddetto
fondo salva-stati che rappresenta una cura peggiore del male
indipendentemente dalla versione, light o hard che sia.
Infatti mentre nel pacchetto gli altri strumenti finanziari
sono il Sure e la Bei, tutt’ora precari oltre ad essere
inconsistenti, a cui aggiungiamo il Recovery Fund che allo
stato attuale è solo una proposta di intenti, l’unica certezza
che rimane è il MES, quel meccanismo le cui casse prima devono
essere impinguate dai versamenti degli Stati e poi si attiva
imponendo condizionalità, ovvero prescrizioni finanziarie
vessatorie e recessive. Condizioni recessive in una crisi di
tal portata significa distruggere capacità produttiva e
possibilità di lavoro in modo non più recuperabili. La pillola
del MES non può essere addolcita dalla formula che prevede la
sospensione di condizionalità perché a norma dei Trattati
(art. 136 TFUE) e dei Regolamenti (472/2013) UE, la mannaia
delle condizionalità è parte integrante del meccanismo in cui
rischiamo di finire. Il fatto che il MES sia allo stato
attuale l’unica porta di accesso dell’eventuale intervento
diretto della BCE, tramite specifiche operazioni (OMT),
rafforza la tesi della pressione posta in atto per accedervi.

Le altre voci di “solidarietà europea” relative alla cassa
integrazione e agli investimenti dovrebbero essere ricoperte,
rispettivamente, dal Sure e dalla Bei che per dirla in breve
sono la classica partita di giro, di risorse da impegnare e
garanzie da prestare, che per l’Italia, in qualità di
contributore netto, alla fine del giro risulterebbe più
l’impegno che la resa. Vista poi la bocciatura degli Eurobond,
sempre debito ma almeno condiviso tra tutti i Paesi membri e
che proprio per questo la Merkel ha definito “inadeguati”, si
è abbozzato lo strumento del Recovery Fund, un intervento una
tantum che non cambia le regole del gioco e ben inteso non
consiste in una mutualizzazione del debito. Oltre a questo il
problema del Recovery Fund è che la Commissione dovrà poi
definire in una proposta in cui spiegare come collegare le
obbligazioni emesse con il bilancio europeo: considerando che
l’Italia e Spagna vorrebbero prestiti perpetui mentre i Paesi
nordici no, non stupirebbe che il processo si incanalasse in
una, ormai ricorrente, inconcludenza di fatto.

Alla luce di quanto detto, seppur sbrigativamente, l’entità a
livello europeo di “complessivi” 500 miliardi circa prevista
nel pacchetto è non solo inadeguata sulla carta, ma in buona
parte destinata a rimanere sulla carta, eccezion fatta per il
MES di cui invece dovremmo fare cartastraccia!

In questo contesto la decantata sospensione del fiscal
compact, ovvero la possibilità di fare deficit di bilancio,
oltre ad essere solo temporanea apre lo scenario di un enorme
e repentina offerta di titoli di Stato sul mercato che, senza
l’intervento incondizionato della BCE, darebbe spazio a
comportamenti speculativi e a una impennata degli spread. In
tale scenario la sospensione dei vincoli di bilancio suona
come un invito a poter correre liberamente, ma in un campo
minato.

Sembra quindi che niente possa salvarsi, ma cosa servirebbe
allora?

Il crollo attuale e previsto della produzione e dei redditi
imporrebbe una monetizzazione del debito alla stregua di
quanto prima descritto per il Regno Unito con la Bank of
England, quindi un finanziamento diretto e non a debito allo
Stato per attuare le manovre di sostegno ai redditi e di
rilancio degli investimenti pubblici, misure ad oggi vitali e
non procrastinabili.

Nell’UE invece non si può prescindere dalla condizione del
debito, che oltretutto non può essere mutualizzato, ovvero
condiviso, come più volte ribadito da Olanda e Germania e
palesato nel rigetto degli Eurobond che avevano proprio questa
caratteristica. Mutualizzare il debito significa condividere i
rischi, e di questa condivisione non solo non c’è traccia
nell’UE ma all’interno dell’eurozona la negazione della
condivisione è diventata un elemento costitutivo, certificato
dall’esistenza permanente dello spread: infatti una valuta che
ha diversi costi del denaro (al Sud e al Nord) non è una
valuta realmente condivisa. Tant’è che lo spread in diversi
documenti delle istituzioni europee è trattato come una
fisiologia mentre dovrebbe essere gestito come una patologia
del sistema. Infatti è palese che questa discriminazione nel
costo del denaro tra gli Stati altera la competitività degli
stessi, visto che le rispettive imprese devono finanziare la
loro produzione sostenendo oneri molto differenti. Ma la
ragione per cui alcuni Stati beneficiano degli spread è la
ragione per cui non accetterebbero mai la condivisione dei
rischi, quindi la mutualizzazione dei debiti, ovvero Eurobond
e tutti gli strumenti      con   nomi   di   fantasia   ad   essi
assimilabili.

I tavoli negoziali delle istituzioni europee riproducono
semplicemente questi interessi acquisiti che, per quanto
visto, sono la ragione stessa per cui quegli Stati in quei
tavoli si siedono. Non è un caso quindi che ad oggi il MES è
l’unico strumento già pronto, tra i quattro del pacchetto, e
può intervenire fin dalle prossime settimane per sostenere una
raccolta di fondi sul mercato che l’Italia avvierà con una
inedita intensità per finanziare il fabbisogno necessari alla
improcrastinabile manovra per la nostra sopravvivenza
economica.

In conclusione, la lezione da trarre della lenta e irrisoluta
trattativa europea è che di strumenti finanziari accettabili
per noi non ce ne sono e non ce ne possono essere, di tempo
ulteriore non ne abbiamo e se non iniziamo a fare da soli
quello che dentro la gabbia dell’UE una banca centrale non può
fare, da questa crisi epocale in piedi non ne usciamo.
Puoi anche leggere