LA CONOSCIBILITÀ DI DIO E IN GIOVANNI CALVINO - IN SAN TOMMASO D'AQUINO - Chris Beretta IV A

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LA CONOSCIBILITÀ DI DIO
  IN SAN TOMMASO D'AQUINO

      E IN GIOVANNI CALVINO

Chris Beretta IV A
Anno scolastico 2012/2013
Liceo di Bellinzona
Lavoro di maturità di Religione
Docenti responsabili: Rolando Leo, Paolo de Petris
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Chris Beretta 4°A                     Lam Religione   2012

Indice

Introduzione

Capitolo 1

La vita di San Tommaso d'Aquino

Contesto culturale

Capitolo 2

Dottrina delle cinque vie

Capitolo 3

L'ente e l'essenza

Gli attributi di Dio

Capitolo 4

La vita di Giovanni Calvino

Contesto culturale

Capitolo 5

La conoscenza di Dio e di se stessi

Capitolo 6

Dottrina del Sensus Divinitatis

Conclusioni

Raffronti fra i personaggi

Bibliografia

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Introduzione

Il tema di Dio è un aspetto da sempre molto percorso non solo per la cultura occidentale, ma in
generale per ogni essere razionale che si sia interrogato sulla propria esistenza. Si chiama religione
infatti il rapporto che cerchiamo disperatamente di intessere tra la nostra esistenza mortale e una
presenza, la divinità appunto, che l’uomo ha cercato di identificare per millenni, allo scopo di
spiegare i fenomeni della natura, ma ancora più importante per rispondere a delle assillanti
domande: perché sono qui? Qual'è il mio ruolo? Cosa c’è dopo la morte?
Sono domande che anch'io mi sono posto, senza trovare risposte, e quindi ho pensato di cercare
pensatori che come me hanno rivolto l’attenzione in questa direzione e li ho trovati in Tommaso
d'Aquino e in Giovanni Calvino: il loro percorso mi ha affascinato, come avrò modo di chiarire più
tardi. Questi teologi hanno per l'appunto affrontato la via che porta alla consapevolezza
dell'esistenza di Dio, o per meglio dire la conoscibilità della divinità cristiana. Ho deciso di basarmi
sulle loro dottrine per addentrarmi in questo tema, ma non è stata una decisione facile, dato che
tantissimi uomini di cultura si sono interrogati su queste questioni; sono arrivato a questa
conclusione perché in questo modo avrò l’opportunità di confrontarmi con il mondo cattolico e
quello protestante, e potrà essere molto interessante in quanto anche i docenti provengono da queste
due diverse letture della dottrina di Gesù.
Io non mi schiero da nessuna delle due parti; spero che questo lavoro permetterà di delucidare
alcune zone ombrose della mia mente, più specificatamente quelle che propengono verso la
religione.
Gli obiettivi che mi sono prefissato si possono scorgere dando una rapida lettura all'indice: in un
primo momento esporrò una breve biografia dei personaggi, per poi addentrarmi nella loro dottrina;
in seguito ci sarà spazio per una conclusione unitamente ad una modesta esegesi.

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Capitolo 1

La vita di Tommaso d'Aquino

Tommaso nasce in seno alla famiglia dei conti d'Aquino, modesti latifondisti, attorno al 1225 d.C.
La data di nascita è stata frutto di molte controversie, ma al momento si è abbastanza convinti che
sia morto all’età di 49 anni (la data di morte è certa, e risale al 1274), come scrive il biografo
ufficiale Guglielmo di Tocco1.
Egli era l'ultimo di una progenie di quattro femmine e quattro maschi, questi ultimi tutti uomini
d'arme, in quanto Roccasecca, capoluogo del feudo governato dal padre Landolfo e luogo di nascita
di Tommaso, fu una regione di aspri combattimenti tra lo stato pontificio e il Regno di Sicilia, che
allora apparteneva all'impero di Federico II.
Per questo la famiglia lo vuole religioso, e all'età di cinque anni lo invia come oblato2 all'abbazia di
Montecassino, con il non troppo celato intento di vederlo un giorno abate; si tratta infatti di un
demanio molto ricco e posto in una posizione strategica, tanto che l'imperatore volle farne un
baluardo militare3 nel 1239 d. C. A causa di ciò il padre preferisce evitare di mettere a repentaglio la
vita del figlio e lo invia all'università di Napoli, da poco fondata dall'imperatore stesso; nonostante
la precipitevole fuga, che gli impedirà evidentemente una carriera nel clero regolare, Tommaso ha
modo di ricevere l'istruzione elementare e media e di indossare per la prima volta un saio, quello
benedettino4.
Alla giovane età di 14 anni (può sembrare presto, ma bisogna ricordare che ha passato ben nove
primavere in un monastero), entra dunque alla facoltà di Arti di Napoli; in questa città ha la
possibilità di leggere traduzioni dei commenti di Averroè sui testi di Aristotele, nonché una vasta
collezione in traduzione latina dei libri naturales dello Stagirita, che all'epoca erano reperibili
solamente in lingua originale e a caro prezzo.
A Napoli conosce l'Ordine dei Frati Predicatori fondato da san Domenico, un'istituzione diversa da
quella benedettina, anche solo per il fatto che i conventi dei primi erano svincolati dall'economia
feudale; infatti "il loro centro d'azione non è nelle campagne, ma nelle città, e della città il centro
intellettuale è l'Università"5. Questa nuova concezione di ordine religioso attira Tommaso che nel
1244 entra a far parte della comunità mendicante; si crea un forte dissenso da parte della madre e

1
  Cfr. VANNI ROVIGHI Sofia, Introduzione a Tommaso d'Aquino, editori Laterza, Bari, 1981 (prima edizione 1973), p.7.
2
  Membro laico di un ordine religioso, che osserva la regola monastica.
3
  Cfr. Centro di studi filosofici di Gallarate, Enciclopedia Filosofica, Bompiani, Milano, 2006, p.11656.
4
  Cfr. ibid.
5
  Cfr. VANNI ROVIGHI, op. cit., p.9.
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dei fratelli (il padre era già deceduto), che tentano in tutti i modi di dissuaderlo, arrivando pure a
rinchiuderlo per alcuni mesi nel castello di famiglia a Roccasecca6.
La famiglia agisce in tal modo perché "i nuovi Ordini non promettevano nulla di simile ad un
abbaziato benedettino, erano un'avventura"7; in ogni caso nessun sistema, seppur risoluto, riesce a
far desistere il giovane dalla sua idea, e quindi Tommaso ritorna a Napoli per poi partire, un anno
più tardi, verso la tedesca Colonia, dove segue le lezioni di Alberto Magno, grande studioso di
Aristotele e Avicenna, fino al 1252.
Visto il grande valore del suo discepolo, Alberto lo manda a Parigi rispondendo all'appello del
Maestro generale dell'Ordine, che cercava un baccelliere8 con carisma di magister. In questi anni il
suo compito consiste nel leggere, ovvero nel commentare dei libri proposti dal magister: tale
compito è affidato al baccalaureus sententiarius (il baccelliere appunto). Svolge questa mansione
sino al 1256, anno in cui ottiene la carica di Maestro Reggente di teologia, sempre a Parigi. Teneva
le sue lezioni nel convento dei Domenicani, ma i suoi insegnamenti erano di grado universitario,
dato che nel medioevo l'Università non era uno stabile, bensì una comunità9. Regge la cattedra
parigina per il triennio, ed è in questo periodo che inizia la stesura della Summa contra Gentiles,
una volta terminato il De ente et Essentia. Nel 1259 si trasferisce in Italia: era consuetudine, infatti,
che un magister facesse spazio ad un altro membro dell'Ordine10.
Nella terra natia segue perlopiù il papa nelle sue residenze, insegnando non nelle università locali,
ma nei conventi e nelle scuole dell'Ordine. Grazie alla sua accresciuta fama, diviene Predicatore
generale dell'Ordine domenicano, titolo che gli permette di avere a disposizione ben due aiutanti ai
quali dettava; la carica gli consente anche di presiedere ogni disputa intorno alla fede domenicana, a
proposito delle quali scrive gli Opuscola, testi ad uso dei discepoli come lo possono essere le
dispense consegnate agli studenti al giorno d'oggi. In favore della scuola scrive anche la prima parte
della monumentale Summa theologiae.
Il periodo italiano dunque è veramente il più fecondo dal punto di vista della produzione letteraria;
sarebbe lungo elencare qui di seguito tutti i testi scritti in questo frangente; ci limitiamo dunque a
riportare i titoli più importanti: le Questiones disputatae de potentia, il De articulis fidei, la Contra
errores graecorum, unitamente alla già citata Summa e a vari commenti a Aristotele ed alla Bibbia.

6
  Cfr. ibid., pp. 9-10.
7
  Cfr. ibid., p. 9.
8
   "Il baccelliere corrisponde un po' all’assistente o all’aggregato delle nostre Università: era un docente che insegnava
sotto la responsabilità di un magister". Cfr. ibid., p. 15.
9
  Cfr. ibid., p.19.
10
    Cfr. ibid., p.28.
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Nel 1268 è di ritorno a Parigi, e vi svolge il suo secondo triennio dal 1269 al 1272: anche questo è
un periodo molto proficuo per la stesura, redige infatti la seconda parte della Summa e compone
vari Opuscola.
Alla fine del triennio è chiamato a dirigere lo Studium generale dell'Ordine11, a Napoli, sollecitato
da Carlo d'Angiò, che lo voleva alla sua corte.
Scrive ancora vari commenti alla Bibbia e inizia la stesura della terza e ultima parte della Summa,
opera che però non riesce a terminare, in quanto la sua salute peggiora fino alla morte che lo coglie
nell'abbazia di Fossanova il 7 marzo 1274.

11
     Cfr. ibid., p.37.
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Il contesto culturale

Fino al XII secolo il pensiero religioso e filosofico medievale si basa prevalentemente sulla corrente
neoplatonica e sulle auctoritates, in particolare le Scritture, i Padri della chiesa e i filosofi greci,
soprattutto Platone e Aristotele1. Il neoplatonismo si inserisce bene nella concezione cristiana
cattolica del tempo, in quanto l'esistenza di Dio è radicata e di rado messa in discussione; la
"domanda sull'esistenza di Dio non appartiene alla cultura greca"2.
Il "platonismo cristiano", dunque, domina lo scenario forte degli influssi dei pensatori musulmani
come Avicenna, e degli ebrei sui quali Avicebron prevale; ma questi ultimi si inseriscono in un
filone molto vasto di menti che ribadiscono l'importanza del platonismo per la religione cristiana,
come Agostino d'Ippona e Anselmo d'Aosta3.
Tra l'XI e il XII secolo i "dialettici"4 e Boezio riscoprono le considerazioni di Aristotele, in
particolare la sua logica: questa prima riscoperta5 apre grandi possibilità di riflessione sullo
Stagirita, che porteranno ad una seconda riscoperta, più importante, ed è su di questa che Tommaso
si inserisce.
La nuova riscoperta, che si apre nel XIII secolo, verte su temi ancora sconosciuti in Europa, quali
l'etica e la metafisica, che vengono immessi in Occidente in una versione commentata da Averroè:
filosofo, medico e giurista ebreo del XII secolo che criticava le tesi di Avicenna legate alla
tradizione neoplatonica6. Tommaso viene introdotto a questi scritti dal maestro Pietro d'Irlanda, "già
durante gli studi giovanili compiuti presso lo studium di Napoli"7.
L'Aquinate dunque entra in scena in un periodo molto fecondo per la storia della filosofia; si colloca
ad un bivio che da una parte lo condurrebbe a seguire il platonismo cristiano, e dall'altra ad
intraprendere la nuova strada improntata sulle riflessioni aristoteliche: Tommaso riesce a unire i due
fronti. Segue la pista del suo grande maestro Alberto Magno, fondatore della corrente che oggi
chiamiamo scolastica, e la porta al suo apice di valore arricchendone il pensiero con le concezioni

1
  Cfr. TROMBINO Mario, Filosofia. Testi e Percorsi. Per le Scuole superiori v. 2, a c. di PANCALDI M., PORCARELLI A.,
VILLANI M., Poseidonia, Bologna, 1997, p. 359.
2
  Cfr. ibid., p. 358.
3
  Cfr. D'AQUINO Tommaso, La potenza di Dio, questioni I-III, a c. di CAMPODONICO Angelo, traduzione di TUNINETTI
Luca, Nardini editore, Firenze, 1991, p. 8.
4
  Cfr. per approfondire la dialettica e il suoi principali temi di discussione http://www3.unisi.it/ricerca/prog/fil-med-
online/temi/htm/dialettica.htm.
5
  Cfr. ibid.
6
  HAYOUN Maurice-Ruben, DE LIBERA Alain, Averroè e l'averroismo (Averroès et l’averroisme, Presses Universitaires
de France, Paris, 1991), trad. di MASPERO Costanza, ed. Jaca Book Spa, Milano, 2005, p. 11.
7
  Cfr. D'AQUINO Tommaso, op. cit., p. 9.
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di filosofia e teologia naturale dello Stagirita, definite una "visione competa e scientifica della
realtà"8.
Alcuni pensatori dell'epoca accettano in toto la nuova versione aristotelica, mentre altri la rifiutano
e continuano a propugnare il neoplatonismo: i primi scombussolano la situazione portando la netta
distinzione tra fede e ragione, mentre i secondi seguono Agostino, e sono i più numerosi9 (basti
pensare ai vari Bonaventura e Duns Scoto, e anche gli scolastici, sebbene intercorrano delle
differenze tra i precedenti).

8
    Cfr. ibid.
9
    Cfr. ibid., p. 10.
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Capitolo 2

La dottrina delle cinque vie

L'esistenza di Dio è la prima questione a cui Tommaso mette mano nella Summa Theologiae, dopo
aver disquisito su come egli intenda la teologia. In quest'opera, come nella Contra Gentiles, è lo
scrittore a decidere come impostare il discorso, in quanto non ha uno schema prestabilito e non deve
rispondere a delle domande: è l'autore quindi che si pone il problema, e il fatto che sia la prima ad
essere trattata in un'opera così importante ne denota lo spessore. L'Aquinate, come tutti i cristiani,
non ha bisogno di prove per credere, gli basta infatti la fede. Ma Tommaso si chiede come sia
possibile giustificarla, come portarla sullo stesso piano della ragione e della logica, secondo gli
insegnamenti di Aristotele; il Filosofo avrà una grande importanza nelle cinque vie, alcune delle
quali partono proprio da sue speculazioni sulla natura. Quest'ultimo termine è la chiave di volta di
tutta la teologia di Tommaso (chiamata appunto teologia naturale), poiché tutte le sue riflessioni
partono dalle cose sensibili, ovvero da quelle di cui abbiamo esperienza: per arrivare a Dio dunque
il Doctor Angelicus riflette utilizzando proprio i corpi e le sostanze naturali. Nelle prime pagine di
questa questione, si puntualizza sull'esistenza di due tipi di dimostrazione: "l'una procede dalla
cognizione della causa, ed è chiamata propter quid, ed essa muove da ciò che è assolutamente
primo (est per priora simpliciter). L'altra parte dagli effetti ed è chiamata dimostrazione quia, e
muove da cose che hanno una priorità soltanto rispetto a noi (sunt priora quoad nos)"1. Come già
detto prima, Tommaso sceglie di scrivere in conformità alla seconda maniera: a causa di questa
scelta, si trova in contraddizione con il benedettino Anselmo d'Aosta, e respinge fortemente la sua
prova ontologica. L'arcivescovo di Canterbury, infatti, nell’XI secolo scrive due libri, nei quali
tratta dell'esistenza di Dio: il secondo, chiamato Proslogion (id est colloquio), è innovativo per
l'epoca, in quanto sembra conciliare fede e ragione con la suddetta prova. Anselmo infatti scrive che
un credente e un ateo, quando parlano di Dio, sono in opposizione solo sulla sua corrispondenza a
un essere reale: entrambi però ne hanno un’idea precisa nella mente, cioè che Dio sia l'essere più
grande che si possa immaginare. Ma una volta accettata questa definizione, Anselmo ritiene che "la
sua esistenza reale al di fuori della mente si debba necessariamente ammettere"2. Se infatti non
esistesse, non sarebbe possibile pensare ad un'altra entità più grande, e nello stesso tempo reale;
bisogna quindi ammettere che Dio esista anche solo perché se ne può parlare (ontologico in effetti

1
  Trad. ne MONDIN Battista, Dizionario enciclopedico del pensiero di San Tommaso d'Aquino, ed. Studio Domenicano,
Bologna, 1991 (sotto la voce Dimostrazione), p. 183 a D'AQUINO, I Summ., q. 2, a. 2.
2
  TROMBINO Mario, op. cit., p.360, il corsivo non è mio.
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deriva dal participio presente del verbo greco eimi, che appunto vuol dire essere). Tommaso
ribadisce che l'inglese utilizza il primo metodo descritto poc'anzi per la sua dimostrazione,
pretendendo quindi di arrivare a Dio partendo da esso stesso (dalla causa) invece che dagli effetti
del suo agire. Non si è dunque giunti, secondo Tommaso, ad una dimostrazione inconfutabile della
sua esistenza, e quindi non si è neanche arrivati alla conciliazione tra fede e ragione, o teologia e
filosofia, come le indica l'Aquinate; egli infatti cerca una prova che vada in questo senso, dato che
le ritiene vie diverse per arrivare all'unica verità, nella quale le due piste dovranno congiungersi. La
teologia però porta ad una conoscenza più estesa della verità, poiché ha come fondamento la
rivelazione, che travalica la ragione umana.
Tommaso quindi procede a posteriori per provare l'esistenza di Dio, analizzando i fenomeni che ci
circondano, ad esempio il movimento (chiamato anche il divenire) o la contingenza (la corruttibilità
di una sostanza, la deperibilità in parole moderne): come si vedrà più avanti questi fenomeni non
sono né primordiali né incausati. Negli esempi precedenti infatti si vede bene che ogni movimento è
causato da uno stimolo, ed ogni sostanza, se è degradabile, non può essere originaria (è bene
rendere attento il lettore moderno sul fatto che quando Tommaso parla di movimento, non si
riferisce solamente al movimento di un oggetto in seguito ad una spinta, ma più in generale al
passaggio dall'atto alla potenza: per approfondire questo tema si veda il capitolo tre di questo
trattato, alla voce gli attributi di Dio3).
Tutte le realtà esaminate da Tommaso si trovano in una condizione di dipendenza, come vedremo
più avanti; necessitano, quindi, di una causa, e dato che l'analisi non si propone di essere un
regressus ad infinitum4 è indispensabile che abbia in Dio il suo punto d'arrivo. La struttura della
dottrina delle cinque vie è coerente in tutte le sue opere (in effetti non è solamente nella Summa che
si discute a proposito di questa questione, ma se ne parla anche nella Summa contra Gentiles e in
molti altri libri), e fonda la sua chiarezza nella semplicità: dapprima si mette in luce il fenomeno
contingente che si vuole analizzare (nella Summa sono il divenire, la causalità subordinata o
strumentale, la possibilità, i gradi di perfezione e lo scopo). Secondariamente si mostra il carattere
dipendente dell'elemento scelto: si spiega quindi che ogni fenomeno è causato da qualcosa o da
qualcuno. In terzo luogo si evidenzia il fatto che non si può spiegare l'effetto preso in
considerazione con una serie interminabile di fenomeni dello stesso tipo (contingenti), si nega
quindi il regressus ad infinitum; si conclude infine affermando che la causa, il motore immobile o
l’ente perfetto si dirigono verso un'unica entità, Dio.

Segue ora la spiegazione di ogni singola via.
3
    Si veda anche MONDIN Battista, op. cit., p. 186, sotto la voce Dio.
4
    Cfr. ibid., p. 185.
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La prima via è quella che si desume dal moto delle cose materiali; al mondo infatti vi sono esseri
che sono in movimento. È chiaro, come diceva già Aristotele, che ogni sostanza si muove perché è
mossa da un altro corpo. Più in generale, come si diceva, Tommaso indica che muovere un corpo
significa farlo passare da una situazione di potenza ad una situazione che lo vede in atto, in
movimento dunque. L'Aquinate porta l'esempio del fuoco: "il fuoco che è caldo attualmente rende
caldo in atto il legno, che era caldo soltanto potenzialmente, e così lo muove e lo altera"5. Si capisce
che una cosa non può essere nello stesso momento in potenza e in atto, nella caratteristica che si sta
analizzando; quindi un essere non può muovere e contemporaneamente essere mosso, in quanto non
può muovere sé stesso. È necessario dunque che il movente sia mosso da un altro, e che
quest'ultimo sia mosso da un terzo e così via. Ma dato che non si può procedere all'infinito, "perché
altrimenti non vi sarebbe un primo motore"6, il Filosofo arriva alla conclusione che esiste un motore
immobile, che appunto non è mosso da alcunché. Tommaso ne conviene, e conclude che, se non ci
fosse, non vi sarebbero gli altri movimenti; ma di fatto si vede che le cose si muovono, occorre
dunque ammettere l’esistenza di colui che tutti chiamano Dio.
La seconda prova si riferisce alla causalità efficiente che si può e si deve ritrovare in tutto
l'universo. Con questo termine si intende che tutto ciò di cui si ha esperienza al mondo è l'effetto
della causa che lo ha generato. L'uomo non percepisce nulla con i sensi che "può originarsi da sé, in
quanto dovrebbe preesistere a se stesso"7. È necessario dunque che ogni effetto abbia una causa, la
quale anch'essa deve basare la sua esistenza su un'altra causa: ma in quanto non è possibile
procedere all'infinito, come per la prima via, perché allora si negherebbe l'esistenza di una causa
prima e non esisterebbe neppure la suddetta nozione (se si elimina la causa prima, infatti, si
annullano anche quelle successive e in conclusione anche gli effetti, che però sono reali e non si
possono rimuovere), bisogna ammettere l'esistenza di tale causa prima. Essa è la "causa incausata"8,
dalla quale dipendono tutte le altre, e alla quale gli uomini hanno dato il nome Dio.
La terza via si desume dall'osservazione delle cose possibili e indispensabili che si vedono al
mondo; le cose possibili sono anche chiamate contingenti, perché dato che non sono necessarie,
possono degradarsi e estinguersi. Ma non tutte le cose possono essere corruttibili, perché altrimenti
in un dato momento non ci fu niente di reale. Se quest'ultima affermazione fosse vera, anche oggi
non ci sarebbe niente, ma questo è chiaramente falso, poiché niente si genera da sé. Vi deve dunque
essere qualche cosa di necessario, cosicché possa generare le cose possibili senza esserlo; ma ogni

5
  Cfr. D'AQUINO Tommaso, La somma teologica, Salani, Firenze, 1964, vol. I, p. 180.
6
  Cfr. ibid.
7
  Cfr. WEISHEIPL James A., Tommaso d'Aquino vita, pensiero, opere (Friair Thomas d'Aquinos his life, thought and
work), trad. di PEDRAZZI Adria, a c. di BIFFI Inos e MARABELLI Costante, ed. Jaca Book spa, Milano, prima ed. 1974,
1994, p.231.
8
  Cfr. VANNI ROVIGHI Sofia, op. cit., p. 59.
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essere necessario "ha la causa della sua necessità in un altro essere oppure no"9. Dato che non si può
procedere a ritroso e all'infinito nelle cause, come si è dimostrato prima, deve esistere un ente
necessario a se stesso, da cui tutti gli esseri dipendono, che sia ragione di necessità agli altri: da tutti
questo è chiamato Dio.
La quarta prova deriva dai gradi che si riscontrano nelle cose, indici di perfezione come la bellezza,
la verità e tutti i valori esistenti. Ma se si parla di gradi di perfezione vuol dire che ogni corpo è
partecipe di una quota più o meno grande di vero, di bello o di qualsivoglia qualità, di un essere che
possiede interamente suddetta caratteristica. Di una cosa che è più calda, dunque, si dice che si
avvicina di più a ciò che è caldo al massimo grado. Vi deve essere quindi un’entità che è caldissima,
verissima eccetera, e di conseguenza, come dice Aristotele, "qualcosa che è in grado massimo"10,
poiché ciò che è verissimo è il suo essere. Ora, da ciò che si trova al massimo grado in una specifica
categoria (caldo, bello, vero eccetera), dipendono tutte quelle cose che si compongono di tale
qualità (il fuoco, un oggetto, un'affermazione eccetera). Lo stesso vale per l'essere11, è necessario
qualcosa che è causa dell'essere negli altri corpi, che lo conferisca a questi ultimi: tale essere
perfetto per essenza10 è comunemente chiamato Dio. Il concetto di essere è complesso e intricato
nella filosofia dell’Aquinate, e si distanzia dal pensiero contemporaneo: sarebbe quindi difficile,
lungo e poco comprensibile spiegarlo in questa sede.
Proseguiamo quindi con la quinta ed ultima via, che si ricava dall'osservazione dell'ordine delle
cose del mondo. Si vede chiaramente che nell'universo ogni corpo agisce in base ad un obiettivo
ben preciso: in generale il fine ultimo di ogni specie vivente è la riproduzione.
Ma lo scopo degli esseri inanimati non appare così immediato, anche se si può notare benissimo che
queste entità prive d'intelligenza conseguiscono degli scopi: Tommaso infatti dichiara che non ne
hanno uno preciso, legato alla propria natura, ma vengono orientati verso un fine da un altro corpo
munito di intelligenza. Per perorare questa affermazione l'Aquinate porta l’esempio della freccia e
dell'arciere: dato che il dardo in questione non può decidere da solo la direzione del lancio, deve
essere guidato da un corpo che possiede l'intelligenza necessaria, sarà sua premura quindi prendere
la mira e indirizzare la freccia verso il bersaglio. Ora, dato che il mondo non è composto solamente
da arcieri e dardi, è necessaria un'entità intelligente che guidi le cose naturali verso il suo scopo, che
conferisca un fine a quelle che non lo possiedono ancora, e che le aiuti a conseguirlo: tale essere
intelligentissimo è chiamato Dio dagli uomini.

9
  Cfr. D'AQUINO Tommaso, op. cit., p.182
10
   Cfr VANNI ROVIGHI Sofia, op. cit., p. 60, e quindi ARISTOTELE, Metafisica, 993b, il corsivo non è mio.
11
   Si veda per approfondire il capitolo terzo, alla voce l'ente e l'essenza, e si prosegua anche negli attributi di Dio.
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È importante notare che, sebbene si possa scorgere l'influenza del Filosofo, le cinque vie di
Tommaso "non sono legate a nessuna teoria cosmologica in particolare"12, ma si attengono
semplicemente ai princìpi primi della metafisica. Anche se Aristotele e Platone fanno largo uso di
questi concetti (come il principio di causalità o la negazione del regressus ad infinitum), non sono
unicamente patrimonio delle loro dottrine, ma soltanto una base logica dalla quale possono partire
strade molto diverse (sono pure e semplici applicazioni della logica aristotelica). Non si può dunque
affermare che Tommaso sia un filosofo del filone liceale solo perché fa uso di tali nozioni; non
bisogna dimenticare inoltre che l'Aquinate abbina i suddetti principi all'esperienza ordinaria, ai
fenomeni contingenti.
Un'altra osservazione importante è relativa alle frasi finali di ogni prova, che invito a leggere nella
versione latina, in quanto sia l'italiano sia la versione che state leggendo possono distorcere dalla
vera intenzione del Doctor Angelicus: ogni via in effetti termina con il postulato Et hoc omnes
intelligunt (nominant) Deum. Si può facilmente pensare che tale asserzione sia un po' precipitosa,
dato che "non basta affermare l'esistenza di un immutabile, causa prima, ente necessario per essere
arrivati a un Dio personale, a Dio quale lo concepisce la coscienza religiosa"13: nondimanco
Tommaso è consapevole di non aver risolto il problema della divinità limitandosi a dichiarare tale
affermazione; a complemento di essa infatti dedicherà molte questioni e svariati capitoli, sia della
Summa sia della Contra Gentiles, agli attributi di Dio e a disquisizioni sulla sua potenza14.
È dunque d'obbligo ritenere l'hoc omnes intelligunt Deum al futuro, e quindi: si vedrà che la causa
prima, l'ente necessario, l'immutabile combaciano nella persona di Dio.

12
   Cfr. MONDIN Battista, op. cit., p. 186.
13
   Cfr. VANNI ROVIGHI Sofia, op. cit., p. 62.
14
   Cfr. per approfondire D'AQUINO Tommaso, La potenza di Dio.
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Capitolo 3

L'ente e l'essenza

Nel dimostrare l'esistenza di Dio Tommaso si serve di termini tecnici come l'essenza, l'ente o la
quiddità, parole specifiche che non a tutti sono lampanti. Per chiarificare e proseguire il nostro
discorso conviene dunque soffermarsi un attimo sul De Ente et Essentia, un opuscolo filosofico
scritto dall'Aquinense proprio a scopi propedeutici, prevalentemente per i suoi alunni universitari e
dedicato ad frates socios1.
Nel primo capitolo di questo trattato si introduce la concezione di ente come ciò su cui si basa la
nostra esperienza sensoriale e che si può distinguere in ente reale ed ente logico2. Il primo è una
sostanza certa, poiché pone qualche cosa nella realtà3, ed è di diversi generi, in quanto si può essere
in molti modi diversi4: infatti dell'uomo è proprio sia il piede sia la mano, che esistono in quanto
reali, ma non nello stessa maniera. Secondo Aristotele5 esistono dieci modi di esistere, dieci
categorie secondo le quali l'essenza è definibile in un ente. L'ente logico invece corrisponde a tutto
ciò su cui è possibile affermare una proposizione positiva, anche non reale, quindi pure la
privazione e la negazione sono enti6 secondo questa definizione. Ma per determinare l'essenza non
ci si basa su quest'ultimo modo di intendere l'ente, è necessario avvalersi come punto di partenza di
un ente reale definibile, come abbiamo già visto, nei dieci modi aristotelici. Se l'ente è il concreto,
l'essenza è l'astratto, lo definisce, spiega "che cosa (quid) è un ente, perciò è detta anche quidditas
(quiddità)"7 da Avicenna e da Averroè. In termini aristotelici si può anche chiamare forma, dato che
determina la figura dell'ente, differente dalla materia che è indistinta, identica in tutti i corpi.
Secondo Boezio8 l'essenza si può intendere anche come natura, quando percepita dall'intelletto, ma
anche quando si considera come causa dell'azione di un ente (l'uomo parla ed il cane abbaia, perché
ciascuno agisce secondo la propria natura, cioè in conformità con la propria essenza, per cui
appartengono a due specie diverse9). Inoltre l'ente ha l'essere per mezzo dell'essenza e in essa: la
materia viene plasmata se si ha la forma che le si vuole attribuire.

1
  Si intendono i "confratelli che studiavano mentre egli era baccelliere" cfr. VANNI ROVIGHI Sofia, op. cit., p.41.
2
  Cfr. ibid., p.42.
3
   Cfr. D'AQUINO Tommaso, Opuscoli filosofici l'ente e l'essenza, l'unità dell’intelletto, le sostanze separate, a c. di
LOBATO Abelardo, ed. Città nuova, Roma, 1989.
4
  Cfr. VANNI ROVIGHI, op. cit., p. 42.
5
  Cfr. D'AQUINO Tommaso, op. cit., p. 49 nota 3 e quindi ARISTOTELE, Metaphysica, 5, 9 1017a 22-35.
6
  Cfr. ibid., p. 50.
7
  Cfr. VANNI ROVIGHI, op. cit., p. 44.
8
  Cfr. D'AQUINO Tommaso, op. cit., p. 49 nota 8.
9
  Cfr. http://www.filosofico.net/deeent327656439uerasentia.htm consultato il 30 ottobre 2012 alle ore 09.18.
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Se poi è semplice viene detta ente assoluto, ovvero una sostanza, un elemento in termini moderni;
se invece è composta da più enti, viene chiamato accidente, e l'essenza è più pura nelle sostanze
semplici o primarie. Dato che l'uomo ha esperienza di sostanze perlopiù complesse, è opportuno,
secondo Tommaso10, iniziare da queste per comprendere gli enti semplici e la loro essenza, che
sono causa delle altre sostanze composte.

10
     Cfr. D'AQUINO Tommaso, op. cit., p. 51.
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Gli attributi di Dio

Nel De Ente et Essentia Tommaso introduce un altro tema importante per il nostro percorso, quello
relativo alla potenza e all’atto: nel quarto capitolo dell'opuscolo si desume in effetti che ogni
oggetto o creatura che riceve qualcosa da altri, si trova in potenza rispetto al donatore, e ciò che si
ottiene rappresenta il suo atto1. Le creature composte dunque sono in potenza rispetto a quelle meno
composte o semplici, e anche la relativa essenza si trova in questa situazione, cioè "in potenza
rispetto all'atto di essere che riceve da Dio"2. Dato che al mondo non vi sono solamente creature
composte o sostanze semplici, si crea una sorta di gerarchia tra i corpi, secondo il grado della
potenza e dell'atto: più una sostanza è in una situazione di potenza (cioè più sostanze riceve da
altri), meno si avvicina a ciò che è definito solo dall'atto, e che quindi nulla prende da altri. L'unica
entità che ha questa caratteristica è Dio, che per questo prende il nome di Atto puro3. In quanto in
nessuna circostanzia si trova in potenza, Dio è l'unico essere semplice, è l'esse ipsum subsistens4,
esiste da sé, e dunque non è causato da nulla. La semplicità è il primo attributo che Tommaso
introduce nelle Questioni Disputate5: ma come fa Tommaso a definire un attributo?
Innanzitutto tutti gli attributi da lui trovati si giustificano mediante il concetto intensivo dell’essere,
caratteristico solo di Dio, che in definitiva è l’esse ipsum subsistens (il discorso è più complesso,
ma si può minimizzare in questi termini): in nessun'altra creatura, infatti, l'essere coincide con
l'essenza. Tommaso quindi confronta la perfezione (la qualità) che si vuole analizzare con l'essere:
essa potrebbe basarsi sull'essere stesso oppure ottenerlo "quando s'incarna in una determinata
essenza"6. La seconda è da scartare, poiché se "ottiene" l'essere vuol dire che si trova in potenza, e
quindi non potrà mai essere il caso di Dio, mentre se la prima possibilità è accertata, si è raggiunto
un attributo di Dio7.
Con questo procedimento il Doctor Angelicus8 trova molte caratteristiche riferibili a Dio; a noi
basta trattare la semplicità, la perfezione, l'infinità e l'immutabilità9.
La già anticipata semplicità è la più immediata, in quanto colui che conferisce l'essere a tutti gli
altri, non può dipendere da nessun altro. Inoltre Dio est suum esse, è il suo essere, quindi per

1
  Cfr. http://www.filosofico.net/deeent327656439uerasentia.htm consultato il 30 ottobre 2012 alle ore 09.18.
2
  Cfr. ibid.
3
  Cfr. D'AQUINO Tommaso, La potenza di Dio, questioni I-III, p. 19.
4
  Cfr. VANNI ROVIGHI Sofia, op. cit., p. 56.
5
  Cfr. D'AQUINO Tommaso, op. cit., pp.10-11.
6
  Cfr. MONDIN Battista, Dizionario enciclopedico del pensiero di San Tommaso d'Aquino, ed. Studio Domenicano,
Bologna, 1991 (sotto la voce Dio), p. 190.
7
  Cfr. ibid.
8
  Cfr. D'AQUINO Tommaso, Opuscoli filosofici l'ente e l'essenza, l'unità dell’intelletto, le sostanze separate,
p. 13.
9
  Gli ulteriori attributi trovati da Tommaso sono: eternità, onnipresenza, unicità, verità, bontà, bellezza e altri.
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definizione è semplice, perché l'essere delle sostanze composte dipende dai componenti e nessuno
dei componenti è l'essere stesso. Dunque Dio non è composto. Ciò deve essere ammesso
assolutamente10.
Il secondo attributo trovato da Tommaso è la perfezione; Dio è detto universaliter perfectus
(universalmente perfetto), perché in Lui si assommano le perfezioni di ogni cosa. Per spiegare tale
affermazione Tommaso avanza questo esempio: se un corpo caldo non possiede in toto la
perfezione del calore, è perché il calore gli viene infuso, e quindi non sarà mai partecipe di tutta la
perfezione; ma se il calore esistesse da sé, se fosse l'essenza del caldo, allora non gli potrebbe
mancare nessuna perfezione di tale caratteristica. Dato che si è già provato che Dio è "l'essere stesso
per se sussistente (ipsum esse per se subsistens) "11, ne consegue che possiede "tutta la perfezione
dell'essere (totam perfectionem essendi) "12.
Se una materia non è limitata, la si dice infinita. Nei corpi finiti, la materia viene limitata dalla
forma, e viceversa la forma viene limitata dalla materia. La materia è limitata poiché prima di essere
formata si trova in diversi aspetti, e in seguito viene delimitata dalla forma attribuitagli. La materia
per contro limita la forma, in quanto la forma può essere comune a molte cose, ma quando si
applica ad una materia specifica, diventa forma unicamente di quella cosa, e le conferisce la sua
perfezione. Ma una materia infinita non è perfetta, poiché se è infinita non può avere una forma.
Quest'ultima invece restringe la vastità della materia, ma non la perfeziona: può quindi esistere una
forma infinita e perfetta non limitata dalla materia. Tommaso avvicina molto la forma all'essere,
quando dice che "l'essere stesso tra tutte le cose è quanto di più formale si possa trovare (maxime
formale omnium est ipsum esse)"13. Dato che, come si è già visto, Dio è il suo proprio essere, risulta
chiaro che è infinito e perfetto14.
La caratteristica dell'immutabilità deriva direttamente dalla prima via; oltre alle spiegazioni relative
ad essa, Tommaso aggiunge che se qualcosa si sposta, arriva dove prima non si trovava. Ciò non si
può attribuire a Dio, poiché è infinito, e per questo non può estendersi di più15. Questa caratteristica
è immediatamente assimilabile all'onnipresenza: l'Aquinense approfondisce questa qualità nella
questione 8.

10
   Trad. ne MONDIN, op. cit., p. 190, a D'AQUINO, I Sent., d. 8, q. 4, a. 1.
11
   Cfr. ibid., p.191.
12
   Cfr. ibid., vedi inoltre D'AQUINO, I, q. 4, a. 2.
13
   Cfr. ibid.
14
   Cfr. ibid., vedi inoltre D'AQUINO, I, q. 7, a. 1.
15
   Cfr. ibid., vedi inoltre D'AQUINO, I, q. 9, a. 1.
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Capitolo 4

La vita di Giovanni Calvino

Nel piccolo borgo di Noyon, cittadina piccarda del nord della Francia, Jean Cauvin -latinizzato poi
in Calvinus- viene alla luce il 10 luglio del 1509. Nasce in seno ad una famiglia benestante; il padre
era notaio, molto legato al vescovo: questa amicizia gli consente di ottenere per tutti i figli una
rendita, un beneficio economico che permetterà a Giovanni di studiare, senza però l'obbligo di
prendere i voti. Jeanne Lefranc, la madre, gli dà tre fratelli e due sorelle; anche lei era molto legata
alla chiesa, quasi bigotta, e soffrirà molto a causa della scomunica del marito. Gerardo, infatti,
sceglie di discostarsi dalla curia, prendendo le parti del potere civile nell'atavica lotta contro
l'episcopato. Ma questo accade dopo che il padre, con l'idea di fare di Giovanni un ecclesiastico,
prefigurandolo vescovo di Noyon1 grazie ai contatti in seno alla corte pontificia, lo invia a Parigi
nel 1523, al collegio Montaigu (comunemente chiamato il collegium pauperum2 di Parigi). Non ci
sono pervenute dichiarazioni di Calvino in merito ad un istituto che potrebbe aver frequentato prima
del Montaigu, ma è molto probabile che abbia ricevuto lezioni di grammatica latina presso Cordier3.
Conclude gli studi di arti liberali (l'odierna filosofia) quattro anni dopo, nel 1527, anno in cui
Gerardo decide che il figlio farà il giurista, poiché "con l’avvocatura si guadagnava più danaro"4.
Lo manda quindi a Orléans a studiare diritto. Nel '32, poco prima di conseguire gli studi, il padre
muore, e Giovanni torna per breve tempo a Noyon, per poi andare a Bourges a conseguire la licenza
di dottore di diritto. Torna a Parigi per studiare teologia, e vi pubblica a proprie spese un commento
al De Clementia di Seneca, opera letteraria che non ha niente a che vedere con la teologia. Il primo
novembre del 1533 Nicolas Cop, figlio del primo medico del re e compagno di studi di Calvino al
Montaigu, dall'alto della sua carica di rettore dell'università di Parigi, pronuncia una prolusione
mostrando simpatie luterane. Il discorso è attribuito a Calvino5, che per sfuggire alle persecuzioni si
rifugia a Noyon; successivamente riceve l'invito da parte del canonico Luigi di Tillet di andare
presso di lui ad Angoulême ad insegnargli le lettere greche. Accetta, e parte alla fine del '33. L'anno
successivo, all’età di 25 anni, quando si tratta per lui di prendere i voti o rinunciare ai benefici

1
  Cfr. MC GRATH Alister E., Giovanni Calvino (A Life of John Calvin,. A Study in the Shaping of Western Culture,
Basil Blackwell Ltd, Oxford, 1990), Claudiana, Torino, 2009 (prima ed. 1991), p. 47.
2
  Cfr. ibid., p.42.
3
  Mathurin Cordier, umanista evangelico francese, cfr. ibid., p. 38 e anche GANGALE Giuseppe, Calvino, ed. Doxa,
Roma, 1927, p. 5. Quest’ultimo però sostiene che Calvino abbia frequentato il College de la Marche, sotto la guida del
Cordier, per poi proseguire gli studi al Montaigu.
4
  Cfr. MC GRATH, op. cit., p.47.
5
  Cfr. GANGALE Giuseppe, Calvino, ed. Doxa, Roma, 1927, p.8.
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economici, rinuncia e si rifugia a Basilea. Si è avanzata l’ipotesi che rimonti a questo periodo la sua
conversione alla Riforma. Il 23 agosto del '35 scrive una lettera al Re di Francia Francesco I, nella
quale difende la teologia riformata: quest'epistola aprirà anche la stesura dell'Institutio Christianae
Religionis, che verrà pubblicata a marzo dell'anno successivo a Ferrara: l'intenzione primaria di
Calvino è di scrivere un libro di pietà, ma esso diventa uno strumento di attacco e di difesa6, dopo
aver subito le persecuzioni e le fughe improvvise. Questo tomo, che con lo scorrere degli anni
subirà numerose variazioni e vasti ampliamenti, cambia profondamente il carattere di Calvino:
l'antico studioso umanista e pacifista, "confessatamente vile"7, che sognava una comoda vita da
letterato grazie alla rendita, si indurisce a causa delle esperienze passate. In una lettera del 15348 si
legge la sua coscienza di essere un predestinato, che si lascia guidare dalla Provvidenza. Dopo
Ferrara, per caso si trova a Ginevra, e Guglielmo Farel9 gli chiede di rimanere, nel '3610. A Ginevra
Calvino ha l'incarico di riorganizzare la chiesa dandole un'impronta protestante, dato che la città si
era staccata dalla cattolica Berna, e lo stesso Farel ne è testimonianza9. I dissidi con Berna però non
si acquietano, forse anche perché allora Calvino era un novizio per la politica, senza nessuna
esperienza pastorale per giunta; data la situazione, la capitale elvetica vorrebbe riportare Ginevra
sulla retta via, spingendo la città ad accettare 4 giorni di vacanza oltre alla canonica domenica. Ciò
non va di comune accordo con la morale del lavoro di Calvino, che si distacca da questa decisione:
viene dunque espulso nel '38 dalla città, e va in esilio a Strasburgo. Là cura "la chiesa dei profughi
di lingua francese"11, arricchendo così la sua scarsa esperienza di pastore. Mentre si trova colà, i
Ginevrini ricevono una lettera dal cardinal Sadoleto, nella quale vengono esortati a tornare all'antica
fede: una volta ricevuta la notizia, Calvino risponde nel settembre del 1539. A Strasburgo Calvino
fa la conoscenza di molte personalità di spicco per il panorama intellettuale dell'epoca: incontra
infatti Bucero12 e Melantone13, che saranno fondamentali per il suo orientamento. In seguito alla
sconfitta elettorale del partito delle persone che accettavano gli articoli proposti da Berna, Farel
riesce a richiamare Calvino: a Ginevra nel '41 non tornò un giovane inesperto e impetuoso, bensì un
"organizzatore ecclesiastico sperimentato e abile, ben attento alle vie del mondo"14. Nell'agosto
dello stesso anno il Riformatore sposa Idelette van Buren, che poi morirà nel 1549. Relativamente
alla sua morte il Gangale delinea un ritratto di Calvino molto illuminante: il Ginevrino in effetti
6
  Cfr. ibid., p. 9.
7
  Cfr. ibid.
8
  Cfr. ibid., p.10.
9
  Teologo e riformatore francese, predecessore di Calvino a Ginevra, con il quale collaborerà e stringerà amicizia.
10
   Cfr. MC GRATH, op. cit., p. 114 ss.
11
   Cfr. Centro di studi filosofici di Gallarate, Enciclopedia Filosofica, Bompiani, Milano, 2006, p. 1578.
12
   Martin Bucer, teologo dell’ordine dei Domenicani tedesco, convertitosi grazie alle letture su Lutero e su Erasmo alla
Riforma. Vedi per approfondire BUCERO Martin, La Riforma a Strasburgo, a cura di E. Genre, Claudiana, Torino, 1991.
13
   Philipp Schwarzerdt, grecizzato in Melantone, è stato umanista e teologo tedesco, molto amico di Lutero,
personaggio di spicco della RIforma. Cfr. MC GRATH, op. cit., pp. 119, 182 ss..
14
   Cfr. ibid., p. 123.
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scrive a Viret15 che cerca di frenare il suo dolore quanto può, e il Gangale scrive commentando
"non si preoccupa del dolore ma si preoccupa del freno al dolore. Sembra che si vergogni di
piangere."16
Rientrato a Ginevra, inizia una politica di universalizzazione della città: ospita tutti gli esuli
perseguitati a causa della religione, e a loro conferisce la cittadinanza: in questo modo si crea un
partito di protestanti, che sarà poi la "massa di manovra di Calvino"17. Con il passare degli anni, il
potere di Calvino sulla città si accresce; redige nel '41 le Ordonnances ecclésiastiques e l'anno
successivo fonda il Concistoro, formato da 12 anziani laici, scelti ogni anno dal governo civile della
città, e dai membri della Venerabile Compagnia dei pastori: mediante uno sforzo collegiale, il
concistoro aveva il compito di mantenere la disciplina ecclesiastica, anche se una delle sue
principali occupazioni erano i problemi matrimoniali18. Ma questo potere non piaceva a quelle
persone che rimpiangevano la vecchia Ginevra municipale e cattolica, i cosiddetti patriottardi,
guidati da Ami Perrin, da lui riuniti nel partito dei "perrinisti" appunto. Perrin viene eletto primo
sindaco nelle elezioni del febbraio del '52, e l'anno successivo il suo partito, chiamato anche dei
"libertini", deteneva il controllo del Petit Conseil, l'organo di governo composto dai cittadini19: la
nuova situazione politica consente ai perrinisti di sfidare Calvino, proponendo leggi contrarie a
quanto lui dichiarava, e introducendone di nuove per contrastare il suo operato. Il Riformatore
arriva al punto di rassegnare le sue dimissioni, anche se verranno rifiutate in quanto si prefigura una
questione che distoglierà l'attenzione di entrambe le parti sulla disputa in corso: si tratta del
problema di Serveto.
Michele Serveto, i cui ideali si avvicinano al pensiero anabattista20 (sebbene fosse un battitore
libero e non avesse mai vissuto in comunità), passa da Ginevra nel '53, durante il suo tentativo di
fuga dalla condanna a morte emanata dall’inquisizione cattolica a Vienne. Decide di fermarsi,
contando sull’appoggio dei nemici di Calvino, che come appena detto detenevano il potere sulla
città. Prima di fermarsi a Ginevra, Serveto era stato a Zurigo e a Basilea, dove aveva pubblicato un
libro, nel quale negava la Trinità e l'importanza del battesimo per i bambini.
Ma nella cittadina di lingua francese viene presto riconosciuto e accusato di eresia dallo stesso
Calvino, che non si esime dall'attaccarlo pubblicamente con dure parole; aveva infatti paura
dell'anabattismo, che aveva visto da vicino a Strasburgo e del quale conosceva quindi i rischi per la
sua città. Dopo l'accusa, è il Consiglio cittadino -fortemente perrinista- a prendere in mano la causa

15
   Pierre Viret, teologo calvinista francese, amico e compagno di studi di Calvino al Montaigu.
16
   Cfr. GANGALE, op. cit., p. 23.
17
   Cfr. ibid., p.12.
18
   Cfr. MC GRATH, op. cit., p. 132.
19
   Cfr. ibid., p. 128.
20
   Cfr. ibid., p. 141.
                                                          20
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ed ad arrestarlo il 13 agosto; la figura di Calvino, in questo procedimento penale, è quella di
"semplice consulente in teologia, e non di accusatore"21. Dopo essersi consultato con le chiese di
Basilea, Berna, Zurigo e Sciaffusa, il Consiglio sceglie di effettuare la condanna a morte, che verrà
eseguita mediante il rogo nell'ottobre dello stesso anno (probabilmente le autorità ginevrine non
volevano sembrare meno inflessibili dei rispettivi cattolici).
Ma questa decisione, e la successiva esecuzione, causano forti discussioni presso le città liberali
europee, come Basilea, che si dice sconvolta22, e costa a Calvino il titolo di "tiranno sanguinario"23.
Come si è visto però, il rogo è stato deciso dal Consiglio, con il quale Calvino non aveva niente a
che fare, se non quando si trovava in contrasto con esso: ma questi conflitti cominciano a scemare,
per dissiparsi completamente alle elezioni dell'aprile del '55, durante le quali Calvino ottiene la
stragrande maggioranza dei voti. Questo successo premia la politica di apertura di Calvino, perché
tutti gli esuli, ai quali ha aperto le porte della città, voteranno per lui.
Dopo questa data, nessuno metterà più in discussione la sua autorità su Ginevra; Calvino dunque
continua il suo lavoro di predicatore e regolatore della vita della sua chiesa, stipendiato dal governo.
Mantiene numerosi scambi epistolari con personalità importanti nello scenario europeo, e fonda il
Collegio calvinista24, che forma pastori adatti a professare la Riforma in tutto il continente. Ma per
lui la vita interiore diventa sempre più difficile: come anche Lutero (che battagliava di notte contro
il diavolo25), anche Calvino sente la pressione dell’ultraterreno. Scrive infatti di sentire "il braccio
di Dio inchiodarlo a Ginevra"26, che lo costringe a ultimare il lavoro iniziato, senza lasciare spazio
alla sua persona: "il suo io scompare. Egli diventa la sua opera"27.
Un lavoro per il quale si sente predestinato, a cui si dedica senza riposo fino alla morte, per
malattia, che giunge nel '64.

21
   Cfr. ibid.
22
   Cfr. ibid., p. 143.
23
   Cfr. ibid., p. 136.
24
   Cfr. GANGALE, op. cit., p. 13.
25
   Cfr. BAINTON Roland H., Lutero (Here I Stand. A Life of Martin Luther, Abingdon Press, Nashville), Einaudi, Torino,
1972 (prima ed. 1960), pp. 318-321.
26
   Cfr. GANGALE, op. cit., p. 10.
27
   Cfr. ibid., p. 23.
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Il contesto culturale

Durante gli anni della sua formazione, Calvino subisce notevoli influenze sia inerenti alla religione
sia riguardanti la teologia, dalla Riforma di Lutero allo scolastico Duns Scoto1. Dal lato religioso, il
luteranesimo penetra nella città di Parigi "a un punto tale da dominare le attività della città e
dell’università2": basti pensare che la Facoltà di teologia parigina si riunisce 101 volte nel 1523,
cifra molto più grande rispetto alla media di 30 incontri all’anno, proprio per trattare del tema della
Riforma3. Sviluppatasi in Germania con il famoso episodio dell’affissione di 95 tesi contro le
mollezze e la corruzione della chiesa romana del tempo, affisse sul portone della chiesa di
Wittenberg da Martin Lutero nel 1517, con particolare enfasi sul potere sbagliato e dissennato delle
indulgenze, la Riforma si diffonde a macchia d’olio nel fertile scenario di malcontento e di
indignazione europeo. Da subito le idee del pensatore tedesco vengono accolte positivamente dai
teologi europei, e anche a Parigi la dottrina della giustificazione per fede e la sua critica alla pratica
delle indulgenze raccolgono i consensi "della élite intellettuale parigina fin dal 1519"4; ma questo
apprezzamento dell’opera di Lutero non è per contro ben visto dall’Università, anticamente e
profondamente cattolica, centro del gallicanesimo5. Sebbene vi sia tale fondamento cattolico, la
Facoltà di teologia si scinde in approvatori umanisti e conservatori, anche se apparentemente la
Facoltà risulta sempre schierata come contraria alla Riforma: il re Francesco I, benché sia dapprima
incline a difendere i principi umanisti, in un secondo tempo vede il luteranesimo come pericolo alla
stabilità della Francia, e proprio negli anni in cui Calvino si trova a Parigi si prefigura la sua fede,
che diventerà poi "esecutiva" nel 1534 con l’Affaire des placards6. Ma Calvino se ne era già andato
da Parigi, sempre a causa delle persecuzioni (vedi per approfondire la sezione precedente, la vita di
Calvino), ma sarebbe impossibile studiare nella città senza respirare l’odore nuovo della Riforma;
senza dubbio è stato toccato da questi avvenimenti, e sebbene all’epoca fosse probabilmente ancora
cattolico, è possibile che seguisse l’evolversi della situazione e, da buon letterato, si informasse
sulle dottrine di Lutero.
Dal lato puramente teologico e formale, Calvino fa propri molti atteggiamenti filosofici
caratteristici del mondo medievale, con particolare interesse verso il pensiero scotista: anche lui

1
  Giovanni Duns Scoto, teologo e filosofo scolastico, vissuto a cavallo del '300; a lungo criticato dai suoi
contemporanei, sarà poi un grande esempio per San Tommaso, per il suo brillante pensiero filosofico. È venerato come
beato dalla chiesa cattolica.
2
  Cfr. MC GRATH, op. cit., p. 63.
3
  Cfr. ibid.
4
  Cfr. ibid., p. 64.
5
  Movimento che rivendica una totale o almeno parziale libertà della chiesa di Francia dall'autorità del papa.
6
  Iniziativa attribuita a Farel, che consisteva nell'affissione di manifesti contro la chiesa cattolica, svoltasi a Parigi nella
notte tra il 17 e il 18 ottobre 1534.
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però, come Tommaso (vedi per approfondire il capitolo 1), si trova ad un bivio, perché la via
moderna7, che era molto in voga nel XV secolo, si distanzia dalle posizioni scolastiche della via
antiqua8. Calvino riesce, come Tommaso, a captare le nozioni che gli si avvicinano maggiormente,
senza schierarsi per forza da una parte o dall’altra: per esempio le dottrine su Cristo di Duns Scoto,
sono parallele a quelle enunciate dal Riformatore nell'Institutio, e simmetricamente le "sette
caratteristiche fondamentali della schola augustiniana moderna"9, notamente allineate alla filosofia
della via moderna, sono ripercose ampiamente da Calvino.
Risulta però difficile tracciare una linea che intercorra fra la scolastica e Calvino senza alcun
contrasto, poiché il periodo rinascimentale contemporaneo al Riformatore nutre forti dubbi e
avversione verso i prodotti della scolastica, ritenuti troppo "voluminosi e densi di argomentazioni,
spesso basate su distinzioni esposte con pignoleria"10.
Ciononostante il libro scritto da Calvino pare proprio "voluminoso", e partiremo proprio da questo
per continuare il nostro percorso, lasciando sospesa questa contraddizione fino alle conclusioni, che
la renderanno meno fitta, per quanto sarà possibile.

7
  Chiamata anche nominalismo, si contrappone alla visione antiqua degli univesali, adottando una posizione appunto
nominalista: il precursore di questa via è Guiglielmo d'Occam.
8
  Forma di filosofia scolastica realista a proposito delle questioni sugli univesali: con questo sintagma si intendono
prevalentemente il tomismo e lo scotismo.
9
  Forma di scolastica che unisce gli insegnamenti di Agostino ad una visione nominalista, moderna, sulla questione
degli universali. Per approfondire tali nozioni molto specifiche, cfr. MC GRATH, op. cit., p. 56 ss.
10
   Cfr. ibid., p. 55.
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