L'anidride solforosa nel vino - Sintesi
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http://goo.gl/bTWB0D L’anidride solforosa nel vino Funzioni ed opportunità per la riduzione dei solfiti in enologia Sintesi L’anidride solforosa è il tema principale della seguente panoramica che descrive forme e rapporti di questo composto così indissolubilmente legato alle pratiche enologiche. Ne sono descritte le proprietà, le relazioni ed il legame con altri parametri fisico-chimici fondamentali del vino. Il processo di vinificazione è inoltre passato in rassegna per individuare strategie enologiche virtuose per una riduzione del tenore dei solfiti nel vino prodotto. Anidride solforosa L’anidride solforosa è un gas incolore non infiammabile, solubile in acqua, dal tipico odore pungente ed estremamente irritante. Organismo umano ed SO2 Esiste un livello massimo di assunzione giornaliera di SO2 da parte dell’uomo. Le proprietà antisettiche dell’anidride solforosa possono infatti dare origine a diverse forme di ipersensibilità, forme che possono coinvolgere il sistema immunitario e dare origine a reazioni allergiche. In alcuni soggetti si possono anche manifestare intolleranze legate a carenze di tipo enzimatico oppure fenomeni di disturbo dell’assorbimento intestinale. L’anidride solforosa è comunque largamente usata in molti settori dell’industria alimentare (grafico sottostante) al di sotto di specifici limiti consentiti ed è presente nell’ambiente sotto forma di inquinante. La somma di questi due fattori porta ad un accumulo di SO 2 nell’organismo umano rischiando di oltrepassare la dose giornaliera ammissibile, soprattutto negli individui con minor peso corporeo determinando spiacevoli effetti collaterali nei soggetti più sensibili. (Fonte: WineFolly)
http://goo.gl/bTWB0D Il suo impiego nel settore alimentare è tuttavia molto comune: dalla produzione di conserve e marmellate, al confezionamento di frutta secca, dal condizionamento delle verdure al trattamento di crostacei. L’anidride solforosa ha infatti importanti proprietà antisettiche ed è usata ampiamente anche nel settore enologico. Le proprietà antisettiche dell’anidride solforosa sono infatti note da moltissimo tempo ed il suo impiego in enologia risale verosimilmente al XVIII secolo. Fin dall’inizio l’opportunità di poterla usare come conservante ed antisettico ha reso possibile la produzione del vino, anche in epoche più antiche: i greci ed i romani sfruttavano infatti la combustione dello zolfo per effettuare la sanitizzazione dei vasi vinari. Azione dell’anidride solforosa in enologia L’anidride solforosa svolge molteplici attività all’interno del processo enologico in modo più o meno efficace a seconda delle condizioni del vino o del mosto: Antiossidante, per la protezione di colore ed aromi dalla degradazione ossidativa, legandosi all’ossigeno ed evitando che questo reagisca con i componenti del vino; Anti-ossidasica, poiché inibisce l’azione degli enzimi ossidasici (tirosinasi e laccasi); Antisettica, inibisce lo sviluppo dei microrganismi, con maggiore efficacia sui batteri rispetto ai lieviti, esercitando inoltre un’azione selettiva della popolazione dei lieviti nel corso della fermentazione alcolica; Solubilizzante, favorisce l’estrazione dei composti fenolici dalle bucce durante i processi di macerazione delle uve; Combinante, si lega fortemente all’aldeide acetica, responsabile dei sentori di “svanito” e determinando un miglioramento organolettico dei vini. Combinazione dell’anidride solforosa In soluzione nel vino e nel mosto l’anidride solforosa si ritrova sotto forma molecolare e di ione bisolfito: - SO2 (Anidride solforosa molecolare) + H2O H2SO3 H+ + HSO3 (Ione bisolfito) Questo è dovuto all’ equilibrio chimico che si stabilisce una volta che l’anidride solforosa si trova in soluzione in vino e mosto. L’ anidride solforosa si trova quindi sotto forma di ione bisolfito, che ha una un’azione unicamente antisettica, e in forma molecolare (SO2), che svolge invece azione antisettica ed antiossidante. Una volta aggiunta al mosto o al vino interagisce con molteplici composti presenti in essi e si combina. La si ritrova, pertanto, in forma libera e in forma combinata in proporzioni differenti. Tali proporzioni dipendono dalla composizione e dalle condizioni chimico-fisiche di vino o mosto. Una parte importante dell’anidride solforosa totale tende a legarsi con composti caratterizzati da una funzione carbonilica, sia essa aldeidica (aldeide acetica) o chetonica (acido piruvico o acido -chetoglutarico), oppure con zuccheri e antocianine (con i quali forma legami reversibili) oppure con acidi uronici. Tale frazione va a costituire l’anidride solforosa combinata che non è in grado di ossidarsi e quindi di proteggere il vino dall’ossigeno. La frazione rappresentata da ione bisolfito ed anidride solforosa molecolare costituisce l’anidride solforosa libera.
http://goo.gl/bTWB0D Fig. 1: L’anidride solforosa nel vino L’anidride solforosa e l’ aldeide acetica (acetaldeide o etanale) La molecola con la quale maggiormente l’anidride solforosa tende a combinarsi è l’aldeide acetica che combina circa l’80% della SO2 (il 10% è complessato dall’acido piruvico). L’anidride solforosa stabilisce con l’aldeide acetica un legame praticamente indissolubile: 70 ml di acetaldeide reagiscono con 100 ml di anidride solforosa libera in alcuni minuti o al massimo qualche ora. L’aldeide acetica deriva dall’ossidazione dell’alcol etilico ma i suoi livelli sono strettamente dipendenti dall’attività fermentativa dei lieviti. La sua produzione nelle prime fasi di fermentazione è massima, raggiungendo un picco nella fase di moltiplicazione. Successivamente si ha un riassorbimento della molecola da parte dei lieviti che la riducono ad alcol etilico. Il contenuto di anidride solforosa nel mosto determina un bloccaggio dell’aldeide acetica e l’impossibilità che questa possa essere riassorbita; inoltre i lieviti producono maggiori quantità di aldeide acetica per proteggersi quando si trovano a dovere fermentare in presenza di SO2. Generalmente aggiungere 50 mg/l di SO2 nella fase finale della fermentazione porta l’aldeide acetica a legare dai 15 ai 37 mg/ di l SO2. L’anidride solforosa e le muffe Lo sviluppo sulle uve di muffe, come la Botrytis cinerea, determina la produzione di composti che incrementano enormemente la combinazione dell’anidride solforosa. Le uve colpite da muffe presentano un elevatissimo contenuto di acido -chetoglutarico che raggiunge due volte e mezzo i livelli delle uve sane.
http://goo.gl/bTWB0D L’anidride solforosa ed i polifenoli L’anidride solforosa non è in grado di sostituirsi ai polifenoli nella loro reazione con l’ossigeno in quanto la sua reattività è più lenta. Questo è evidente se si considera le differenze tra vinificazione in rosso ed in bianco. Nella vinificazione in rosso l’efficacia dell’anidride solforosa è ridotta a causa della maggiore affinità dei componenti fenolici con l’ossigeno. Nella vinificazione in bianco invece la presenza dei composti fenolici è minima, quindi l’attività dell’anidride solforosa è decisamente più marcata e serve a proteggere il mosto dall’ossidazione. L’ossigeno molecolare è inoltre poco reattivo con l’anidride solforosa e l’ossigeno disciolto è consumato più rapidamente dai polifenoli (in particolar modo le catechine e le procianidine dimere e oligomere) che dall’anidride solforosa. Ecco perché l’anidride solforosa non modifica il livello di ossidazione dei vini rossi, ma diminuisce effettivamente il livello di ossidazione dei vini bianchi. L’anidride solforosa ed il pH Alle condizioni di pH caratteristiche del vino (3 - 4) la quota di anidride solforosa molecolare è minima. Il livello della SO2 molecolare in un vino è infatti estremamente dipendente dal pH dello stesso, diminuendo sensibilmente al suo aumentare, come mostra la Tabella 1. Qui si vede infatti come al pH acido del vino la quota di anidride solforosa che rimane allo stato molecolare è minima e si riduce così anche il suo potere protettivo. pH So2 molecolare Ione bisolfito 3,0 6,06 94,94 3,10 4,88 95,12 3,20 3,91 96,09 3,30 3,13 96,87 3,40 2,51 97,49 3,50 2,00 98,00 3,60 1,60 98,40 3,70 1,27 98,73 3,80 1,01 98,99 3,90 0,81 99,19 4,00 0,64 99,36 Tabella 1: Anidride solforosa molecolare nel vino in relazione al valore del pH. (Fonte: P. Ribéreau - Gayon et al. “Trattato di enologia” ) Nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un aumento dei valori del pH dei mosti (e quindi dei vini). Tra le cause di questo fenomeno: Il progressivo cambiamento climatico Una modificata gestione della parete verde La ricerca di ottimali maturità fenoliche Con il progressivo aumento del pH dei mosti l’efficacia dell’anidride solforosa ai fini del processo enologico è andata quindi diminuendo. Il potere protettivo dell’anidride solforosa è quindi
http://goo.gl/bTWB0D strettamente connesso al valore del pH: ciò implica un diverso atteggiamento nei confronti delle quantità di solforosa da impiegare durante il processo di vinificazione. L’abbattimento del tenore di anidride solforosa nel vino L’attività dell’anidride solforosa nel vino e nel mosto è influenzata dalle loro condizioni chimiche, fisiche e biologiche. L’azione antimicrobica dell’anidride solforosa in enologia riguarda infatti: La selezione dei microrganismi coinvolti nei processi fermentativi; Il regolamento del processo di fermentazione malo-lattica; La protezione del vino dallo sviluppo di microrganismi indesiderati. Oggi sappiamo però che gli effetti antisettici dell’anidride solforosa sono reali solo se si riescono a raggiungere 1 - 2 mg/l di anidride solforosa molecolare per il contenimento dell’attività di lievito e 0,5 - 1 mg/l per il contenimento dell’attività dei batteri lattici. In realtà tali proporzioni nel vino non si verificano quasi mai. Il concetto di “limite legale” Ad oggi i limiti legali imposti per l’impiego dell’anidride solforosa nel vino sono condivisi ed accettati. Tuttavia le nuove esigenze e la sensibilità dei consumatori e dei produttori richiedono spesso di andare ben al i sotto di questi limiti fino quasi all’annullamento della presenza di anidride solforosa. Sebbene sia possibile in taluni casi eliminare completamente l’impiego di solforosa va detto che anche i lieviti sono produttori diretti di anidride solforosa ed è pertanto possibile riscontrare tenori di SO2 totale anche pari a 30-50 mg/l su vini non solfitati a fine fermentazione alcolica. L’impiego di anidride solforosa in cantina è oggetto delle attenzioni della pubblica opinione e dei consumatori per i suoi evidenti effetti sulla salute del consumatore. L’abbattimento dei tenori di solforosa rappresenta un potenziale elemento di rischio per la produzione di vini di qualità. Tuttavia i progressi fatti in viticoltura ed enologia consentono di raggiungere un sostanziale abbattimento, in alcuni casi l’eliminazione, dell’utilizzo dell’anidride solforosa in cantina. Esistono diverse strategie, ma ognuna dovrebbe mirare a favorire i livelli di anidride solforosa molecolare in rapporto all’anidride solforosa totale. Nei prossimi paragrafi si passano in rassegna alcuni esempi di tali strategie nei diversi punti del processo di vinificazione. La sanitizzazione del vino dall’uva alla bottiglia La vendemmia Le uve alla vendemmia devono presentare uno stato sanitario ottimale, senza danneggiamenti né rotture e devono essere raccolte adottando precauzioni che ne consentano il trasporto e l’arrivo alla cantine in condizioni integre. La raccolta manuale e in cassette sono elementi che garantiscono questi requisiti. E’ inoltre molto importante la refrigerazione delle uve prima dell’inizio delle operazioni di vinificazione, perché non è raro che queste arrivino alla cantina con una temperatura di 30° C. Per la refrigerazione è molto utile impiegare il ghiaccio secco, aggiungendolo via via durante la diraspapigiatura. Infatti, pur non essendo la capacità refrigerante del ghiaccio secco sufficiente per un corretto ed omogeneo raffreddamento delle uve, la nebbia di anidride carbonica che si sviluppa dalla sublimazione del ghiaccio secco crea un’atmosfera inerte che circonda le uve e le protegge dall’ossigeno.
http://goo.gl/bTWB0D Sempre durante la fase di diraspatura è utile l’aggiunta di tannini proantocianidinici e/o gallici, dei quali è infatti ormai ampiamente dimostrata la superiorità di efficacia e reattività nei confronti dell’ossigeno, degli enzimi ossidasici e dei radicali liberi. La classica tecnica di aggiungere acido ascorbico al mosto è invece estremamente utile per consumare tutto l’ossigeno presente. Il mosto Aggiungere acido ascorbico al mosto per consumare tutto l’ossigeno presente è una tecnica classica ed estremamente utile. Tuttavia questa aggiunta non può prescindere dal suo abbinamento all’anidride solforosa per bloccare la formazione di perossido di idrogeno prodotto dalla sua reazione con l’ossigeno. Nei mosti ottenuti da uve bianche talvolta si effettua un “lavaggio” con azoto in serbatoio: questa pratica consente di allontanare l’eventuale ossigeno disciolto senza avere un’eccessiva volatilizzazione degli aromi che, in questa fase, si trovano ancora per la maggior parte sotto forma di precursori aromatici e quindi con una ridotta volatilità. Ossigenazione e pH Il contenimento del pH dei mosti, una corretta gestione degli apporti di ossigeno ed una corretta gestione della nutrizione dei lieviti (sia nella composizione che nella tempistica di integrazione) sono elementi essenziali di un’adeguata strategia enologica. Lo sono ancora di più se si desidera contenere i livelli di anidride solforosa nei vini. Fare attenzione agli interventi che influenzano il valore del pH consente di migliorare l’efficacia dell’SO2 e di ridurne i dosaggi oltre che rendere difficili e sfavorevoli le condizioni per la proliferazione dei microrganismi nocivi. L’opportunità di acidificare i mosti con acido tartarico, dove necessario, consente di ottenere una riduzione del pH nel corso della fermentazione per effetto della precipitazione del bitartrato di potassio. Per quanto riguarda il fenomeno dell’ossidazione è invece fondamentale l’ausilio di gas inerti anche durante la fase di chiarifica o defecazione dei mosti, condotte a basse temperature. Questo limita infatti la solubilizzazione dell’ossigeno. Una corretta strategia enologica può prevedere di fare in modo che il Saccharomices cerevisiae sia messo nelle condizioni di colonizzare rapidamente il mosto impedendo lo sviluppo di altri microorganismi nocivi, anche nel caso in cui si desideri condurre una fermentazione spontanea. Nel caso della fermentazione spontanea: è consigliabile preparare dei piedi di avviamento separando delle piccole parti di mosto nelle quali i lieviti indigeni abbiano il tempo di svilupparsi per avere la meglio sugli altri microrganismi. L’abbassamento della temperatura della massa in attesa dell’inoculo del piede di avviamento oppure la raccolta anticipata di una piccola quantità di prodotto per la preparazione del piede consentono di ottenere i tempi necessari per un corretto sviluppo. Nel caso della fermentazione con l’impiego di lieviti selezionati: la reidratazione dei lieviti selezionati ed il loro adattamento alle condizioni del mosto consentono che questi partano velocemente occupando tutto l’ambiente ed impedendo lo sviluppo di lieviti indigeni. Una volta raggiunto un terzo della fermentazione alcolica, quando le esigenze dei lieviti in fatto di ossigeno sono elevatissime, è possibile apportare ossigeno (con rimontaggi all’aria o macro ossigenatori) senza che ci sia alcun pericolo per l’ossidazione del mosto. In questa fase l’ossigeno viene pressoché istantaneamente consumato dai lieviti senza avere il tempo di andare a reagire con i componenti del vino. Tale ossigenazione è consigliabile anche nelle vinificazioni in
http://goo.gl/bTWB0D riduzione del Sauvignon blanc, dove gli aromi di tipo tiolico non subiscono danneggiamenti per un’ossigenazione in questa fase di fermentazione. Questo apporto di ossigeno è vivamente consigliabile anche per ridurre il rischio di produzioni indesiderate di idrogeno solforato, difficilmente eliminabile senza comprometterne il patrimonio aromatico di tipo tiolico. Fermentazione Seguendo gli accorgimenti sopra descritti si dovrebbero ottenere, alla fine della fermentazione alcolica, tenori di aldeide acetica limitati. I vini ottenuti con minori livelli di anidride solforosa presentano infatti una quantità complessivamente inferiore di molecole combinanti l’ SO2. Elementi fondamentali per arrivare a fine fermentazione con bassi livelli di molecole combinanti sono l’addizione di minime quantità di anidride solforosa ed un’ energica attività dei lieviti fermentanti. L’elevata presenza di anidride carbonica nel mosto garantisce una buona protezione nelle fasi successive alla fermentazione, pertanto l’aggiunta di modeste quantità di tannini ellagici alla svinatura è sufficiente per ottenere una buona protezione e favorire la stabilizzazione del colore, nel caso dei vini rossi. I vini con ridotti tenori di SO2 possono procedere alla fermentazione malolattica con condizioni più favorevoli allo sviluppo e all’attività dei batteri lattici. La prima modesta solfitazione può essere effettuata al termine della fermentazione malolattica. In questo caso avremmo un ampio margine per proteggere il vino senza andare a incrementare eccessivamente i tenori di SO2. Soprattutto nei casi in cui non si desideri effettuare eccessive integrazioni di anidride solforosa è consigliabile travasare i vini separandoli dalle loro fecce che difficilmente possono essere gestite con periodiche movimentazioni senza causare pericolose dissoluzioni di ossigeno nel vino. Un’altra soluzione potrebbe essere l’impiego di azoto per le sospensioni. Le ultime fasi del processo Se per i vini bianchi è meno complicato proseguire con l’affinamento in vasca a riparo dall’ossigeno per ridurre i tenori di anidride solforosa, mentre per i vini rossi il discorso è più complicato. Va detto infatti che l’ossigeno è un elemento indispensabile per favorire l’evoluzione del vino, la sua maturazione e la sua stabilizzazione. Per i vini rossi che fanno affinamento in botti, barriques, tonneaux o con microssigenazione in serbatoi è molto importante un attento monitoraggio dei livelli di aldeide acetica, limitando il processo di microssigenazione (sia essa naturale o ottenuta attraverso microssigenatori) a dosaggi tali da soddisfare la capacità di consumo dei composti fenolici (circa 0,083 mg/l al giorno). Durante la microssigenazione dei vini rossi la produzione di aldeide acetica aumenta ma successivamente viene consumata per reazioni di polimerizzazione tra antociani e tannini. E’ consigliabile anticipare quanto prima il processo di stabilizzazione del colore nei vini rossi per sfruttare la maggiore reattività dei composti fenolici, anche tra la fine della fermentazione alcolica e l’inizio della fermentazione malolattica. In questa fase è ovviamente importante anche controllare la presenza di contaminanti microbici e di metalli, come ferro e rame, in quanto potenti catalizzatori di ossidazioni. Il travaso di un vino in un serbatoio scolmo può portare il livello di ossigeno quasi alla saturazione (pari a circa 8 mg/L): 1 mg/l di ossigeno consuma dai 3 ai 5 mg/l di SO2 libera. Gestire tutte le operazioni che precedono l’imbottigliamento (travasi, chiarifiche, filtrazioni) tramite impiego di gas inerti, consente di ridurre al minimo la dissoluzione di ossigeno nel vino e di impedire non solo le ossidazioni accidentali ma anche quelle lente ed inesorabili che possono avvenire in bottiglia, soprattutto sui vini bianchi.
http://goo.gl/bTWB0D Nella Tabella 2 è riportato l’apporto di ossigeno corrispondente alla messa in atto delle diverse operazioni di affinamento. Operazione Ossigeno disciolto (mg/l) Pompaggio 2 Travaso da serbatoio a barrique 6 Travaso da serbatoio a serbatoio dal basso 4 Travaso da serbatoio a serbatoio dall’alto 6 Mescolamento (da superficie libera) 3 Filtrazione a strati 3-4 Filtrazione con farina fossile 5-7 Filtrazione tangenziale 2-5 Imbottigliamento 3 Colmatura barriques 0,25 Travaso con aerazione 5 Travaso senza aerazione 3 Elavage in barriques usate 9 (all’anno) Elevage in barriques nuove 30 - 40 (all’anno) Tabella 2: Operazioni di cantina e corrispondenti valore di ossigeno nel vino. (Fonte: N. Vivas, “Les oxydations et les réductions dans les moûts et les vins” - E. Eccli, “Vino e ossigeno: amici o nemici?”) I livelli di ossigeno che sono in equilibrio con il vino e con i suoi costituenti vanno da tracce a 0,08 mg/l: tutto l’ossigeno che eccede questa concentrazione dà origine a fenomeni di ossidazione non selettiva dei costituenti del vino. Nel caso di dissoluzioni accidentali di ossigeno nel vino è possibile intervenire effettuando un lavaggio del vino con azoto, una tecnica da utilizzare però con molta parsimonia perché determina una perdita per trascinamento di molecole aromatiche volatili. E’ sempre meglio ed auspicabile allontanare l’ossigeno dalle vie di passaggio del vino durante tutte le operazioni di cantina. Questo vale anche per l’imbottigliamento: adottare sistemi di chiusura, tappi di sughero o tappi a vite, dei quali si conosca la permeabilità all’ossigeno è un esempio per ridurre l’incidenza dell’ossigeno nel vino. Nel corso dei processi di imbottigliamento, a seconda delle precauzioni adottate, la dissoluzione di ossigeno nel vino va da un minimo di 0,2 mg/l fino a 6 mg/l. Fondamentale è la pre-evacuazione dell’ossigeno dalle bottiglie prima del loro riempimento. Spesso infatti si individua nel tappo la causa di eventuali ossidazioni o della ridotta longevità di una bottiglia di vino, senza considerare che l’ossigeno che si discioglie nel momento in cui il vino entra in bottiglia e crea un’emulsione con l’aria è in proporzione maggiore rispetto all’ossigeno che passa attraverso i sistemi di chiusura.
http://goo.gl/bTWB0D Conclusioni Durante questo più o meno lungo viaggio che parte dall’uva e arriva alla bottiglia è consigliabile individuare quali fasi sono ad elevato rischio e monitorarle nel modo più appropriato con analisi e degustazioni per non incorrere in problemi qualitativi. L’aspetto chimico-analitico e l’aspetto organolettico vanno quindi di pari passo per un corretto monitoraggio della qualità. Ogni forma di alterazione e di ossidazione che si può venire a creare all’interno del processo determina non solo un decadimento qualitativo ma ancor prima la perdita di quelle caratteristiche rappresentative dei territori, dei vitigni, delle tradizioni che tanto cerchiamo di valorizzare in ogni vino. Paolo Marchi Agronomo & Enologo
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