Introduzione alla Filosofia del Management - Caterina Galluccio

Pagina creata da Manuel Filippi
 
CONTINUA A LEGGERE
Caterina Galluccio

Introduzione alla Filosofia
     del Management
Copyright © MMIX
                ARACNE editrice S.r.l.

                www.aracneeditrice.it
               info@aracneeditrice.it

           via Raffaele Garofalo, 133 a/b
                    00173 Roma
                   (06) 93781065

              ISBN   978–88–548–2775–2

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
   di riproduzione e di adattamento anche parziale,
 con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

   Non sono assolutamente consentite le fotocopie
       senza il permesso scritto dell’Editore.

             I edizione: settembre 2009
Indice

7   Premessa

9   Capitolo I
    Ontologia dell’organizzazione

    1.1. Organizzare, 9 – 1.2. Organizzazioni, associazioni e i-
    stituzioni, 10 – 1.3. La divisione del lavoro, 13 – 1.4. Or-
    ganismi e organizzazioni in Ludwig von Mises, 13 – 1.5.
    Cosmos e Taxis in Friedrich von Hayek, 15 – 1.6. Ordini
    intenzionali e inintenzionali in Carl Menger, 16 – 1.7. Che
    cos’è un’organizzazione? Individualismo e collettivismo
    metodologico a confronto, 17

25 Capitolo II
   Teorie dell’organizzazione

    2.1. Organizzazioni e teorie scientifiche, 25 – 2.2. Il meto-
    do scientifico di Karl Popper, 27 – 2.3. Critica dell’induzio-
    ne e critica dell’osservativismo, 30 – 2.4. Problemi ed “e-
    sercizi”, 31 – 2.5. Il principio di falsificazione e la questio-
    ne metafisica, 33 – 2.6. Elogio dell’errore, 35 – 2.7. Razio-
    nalismo critico e “Società aperta”, 37 – 2.8. Teorie dell’or-
    ganizzazione, 39 – 2.9. Le teorie classiche, 40 – 2.9.1. Fre-
    derick W. Taylor, 40 – 2.9.2. Max Weber, 42 – 2.10. La
    scuola delle relazioni umane, 46 – 2.10.1 Elton Mayo, 47 –
    2.11. La scuola delle neo–relazioni umane, 49 – 2.12.
    L’analisi strategica, 50 – 2.12.1. Michel Crozier, 50 –
    2.12.2. Herbert Simon, 52 – 2.13. L’analisi culturale, 56 –
    2.13.1. Edgard Schein, 56

                                   5
6                                   Indice

     59 Capitolo III
        Organizzazioni burocratiche
         3.1. Burocratica–mente, 59 – 3.2. Le organizzazioni buro-
         cratiche, 61 – 3.3. Il pensiero di Karl Popper nella pubblica
         amministrazione, 69 – 3.3.1. Cospirazione o esiti ininten-
         zionali?, 70 – 3.3.2. Critico, chiaro, razionale, 72 – Critica
         del perfettismo, dell’estetismo e dell’utopismo, 74 – 3.4.
         Burocrazia e burocratizzazione: le conseguenze psicologi-
         che, 80

     83 Capitolo IV
        Rischi ed errori

         4.1. Il rischio nella prospettiva manageriale, 83 – 4.2. L’a-
         zione umana nella prasseologia di Ludwig von Mises, 84 –
         4.3. I teoremi fondamentali della prasseologia, 86 – 4.4. I-
         gnoranza e fallibilità, Incertezza sociale e conseguenze i-
         nintenzionali, 90 – 4.5. Perché anche manager e dirigenti
         bravi possono sbagliare?, 91 – 4.6. Errori umani e ambiente
         di lavoro, 92 – 4.7. Errori nei processi di valutazione delle
         risorse umane, 93 – 4.8. A caccia di errori, 96

     99 Capitolo V
        Il benessere organizzativo

         5.1. Il benessere dell’organizzazione, 99 – 5.2. Professioni-
         sti del benessere o utopisti?, 101 – 5.3. Fondamenti episte-
         mologici e gnoseologici del benessere organizzativo: igno-
         ranza e fallibilità, 103

    107 Bibliografia
Premessa

    Questo testo è dedicato agli studenti che dal 2001 ad oggi
hanno frequentato i miei corsi di Sociologia dell’organizzazio-
ne. In questi anni, grazie alle loro domande, ai loro commenti e,
in alcuni casi, alle esperienze che hanno portato in aula, ho avu-
to modo di riflettere su certi temi e di ripensarne il modo di pro-
porli. A loro dunque il mio ringraziamento.
    Il volume si presenta come uno “scaffale” all’interno del
quale lo studente può rintracciare letture e riferimenti sul tema
della filosofia del management.
    Perché questo titolo? Perché il testo si pone l’obiettivo di e-
saminare le organizzazioni e il management attraverso gli stru-
menti epistemologici dell’individualismo metodologico, nell’i-
dea che ciò consenta una comprensione più profonda del feno-
meno e ne fornisca una vera e propria analisi logica.
    Il concetto di organizzazione nelle sue differenti accezioni e
interpretazioni; la distinzione tra organizzazioni, associazioni e
istituzioni, tra tipologie organizzative: burocratiche e profit, tra
ordini costruiti e ordini spontanei attraverso i contributi di Ha-
yek, Menger e Mises. I concetti di razionalità individuale, di di-
spersione delle conoscenze e di conseguenze inintenzionali; la
divisone del lavoro e il paradosso delle organizzazioni. L’epi–
stemologia popperiana e l’idea che le organizzazioni possano
considerarsi ipotesi per la soluzione di problemi, frutto di scelte
e di strategie di individui; il concetto di fallibilità e di epistemo-
logia evoluzionistica; le teorie organizzative: il problema che si
pongono, le soluzioni che creano, gli errori in cui incorrono e le
conseguenze che producono. Le conseguenze di una interpreta-
zione individualistica o collettivistica delle organizzazioni, il
tema della responsabilità individuale. L’idea di burocrazia; il
rapporto tra regole e prassi e tra leggi e tendenze; gli effetti del-

                                  7
8                            Premessa

la mancata applicazione dei principi fallibilisti nella pubblica
amministrazione. I rischi, gli errori e il benessere nelle organiz-
zazioni. Questi gli argomenti sviluppati nel presente lavoro.

                                                              C.G.
Capitolo I

                                    Ontologia dell’organizzazione

1.1. Organizzare

    “Organizzare, nell’uso comune, significa disporre in un certo
ordine un insieme di risorse diverse” — risorse umane, risorse
finanziarie, risorse di tempo — “per farne un mezzo o uno
strumento al servizio di una volontà che persegue la realizza-
zione di un progetto”1. “Organizzare un gruppo di uomini per
farne un plotone di soldati significa istituire tra essi una gerar-
chia che li rende in grado di cooperare alla realizzazione di un
fine (…). In ogni organizzazione, si trovano simultaneamente il
problema della cooperazione e quello della gerarchia”2.
    “L’organizzazione può venire teorizzata come una struttura
sociale che si crea attraverso conflitti di potere, e che si esprime
attraverso una certa struttura fisica, una certa tecnologia e una
certa cultura” o come “una tecnologia costruita attraverso deci-
sioni che richiedono determinate condizioni strutturali, culturali
e fisiche”3.
    Con il termine organizzazione Simon intende il “complesso
schema di comunicazioni e di altre relazioni che viene a stabi-
lirsi in un gruppo di esseri umani. Questo schema fornisce ad
ogni appartenente al gruppo buona parte dell’informazione, del-
le premesse, degli obiettivi e degli atteggiamenti che influenza-
no le sue decisioni e, allo stesso tempo, crea in lui delle aspetta-

    1
      R. Boudon e F. Bourricaud, Dizionario critico di sociologia, Armando Editore,
1991, p. 345.
    2
      Ibidem.
    3
      M. Hatch, Teoria dell’organizzazione, Bologna, il Mulino, 1999, p. 12.

                                        9
10                                         Capitolo I

tive stabili e ragionevolmente sicure riguardo a ciò che gli altri
membri del gruppo stanno compiendo ed al modo in cui essi re-
agiranno a quanto egli dice o compie”4.
    “Le organizzazioni sono unità sociali (o raggruppamenti
umani) deliberatamente costruite e ricostruite per il raggiungi-
mento di fini specifici. Sono incluse in questa definizione socie-
tà per azioni, eserciti, scuole, ospedali, chiese, prigioni, mentre
tribù, classi, gruppi etnici, gruppi di amici e famiglie ne sono
esclusi. Le caratteristiche delle organizzazioni sono: 1) divisio-
ne del lavoro, del potere e delle comunicazioni, divisione che
non è dettata dal caso o dalla tradizione, ma deliberatamente
programmata per facilitare la realizzazione di determinati fini;
2) presenza di uno o più centri di potere che controllano gli
sforzi unitari dell’organizzazione e li dirigono verso il suo fine.
Questi centri di potere debbono anche sottoporre continuamente
ad analisi critica l’attività dell’organizzazione e rimodellarne, se
necessario, la struttura interna per aumentarne l’efficienza; 3)
sostituibilità del personale, vale a dire possibilità di sostituzione
di quelle persone la cui attività non soddisfa l’organizzazione e
l’assegnazione ad altri dei loro compiti; come pure l’introdu-
zione di nuove combinazioni di personale per mezzo di promo-
zioni e trasferimenti”5.

1.2. Organizzazioni, associazioni e istituzioni

    È opportuno distinguere tra organizzazioni e associazioni:
“l’organizzazione si distingue dall’associazione per il fatto che
la sopravvivenza della prima costituisce per i suoi membri un
obiettivo non unico e talvolta nemmeno prioritario, ma certa-
mente importante e significativo”6. Il carattere distintivo quindi
tra organizzazioni e associazioni risiede nell’attributo volontari-
stico delle seconde, nel senso che gli associati aderiscono auto-
      4
          H. Simon, Il comportamento amministrativo, Bologna, il Mulino, 1967, p.14.
      5
          E. Gross e A. Etzioni, Organizzazioni e società, Bologna, il Mulino, 1996, pp. 21–
22.
      6
          R. Boudon e F. Bourricaud, op. cit., p. 346.
Ontologia dell’organizzazione                           11

nomamente all’associazione condividendo un progetto comune.
Non così per le organizzazioni, nelle quali, come vedremo, non
è necessaria la condivisione degli scopi, infatti si può lavorare
in un’azienda o in un ministero senza sentire propri i valori o le
finalità per le quali sono stati costituiti. Se pertanto nelle asso-
ciazioni (chiese, partiti politici, sindacati, ecc.) gli individui co-
operano in vista del raggiungimento di un progetto comune, nel-
le organizzazioni la cooperazione non coincide con la condivi-
sione.
    Gross ed Etzioni mettono in luce che pur essendoci altre uni-
tà sociali che presentano una programmazione cosciente, centri
di potere e sostituibilità dei capi, ne sono un esempio i bilanci
delle famiglie, i capi di tribù o l’istituzione del divorzio, nessu-
na di esse raggiunge il grado di programmazione, strutturazione
e sostituibilità dei membri che si incontra nelle unità sociali in-
dicate come organizzazioni7.
    Ancora, non bisogna confondere l’organizzazione con la
“società” concetto che alcuni sociologi, per esempio Durkheim,
utilizzano per intendere un gruppo di individui legati da valori
comuni8, a cui ci si può riferire anche utilizzando il concetto di
organizzazione sociale o struttura sociale. L’organizzazione si
distingue da queste perché è costruita per realizzare un fine ben
definito.
    Va infine distinto tra organizzazione e istituzione. Gross ed
Etzioni mettono in luce che spesso si utilizza il termine istitu-
zione per indicare alcuni tipi di organizzazione9. In realtà,
rifacendoci al pensiero di Abbagnano nel saggio L’oggetto della
sociologia: atteggiamenti e istituzioni10, l’istituzione, in senso
sociologico, può essere intesa come un “atteggiamento ricorren-
te”, in quanto ogni atteggiamento “è, per definizione, ripetibile
e, in quanto progetta una soluzione valida, tende a comunicarsi,
a generalizzarsi e a diventare ricorrente. Perciò ogni atteggiamen-

    7
      Cfr. E. Gross e A. Etzioni, op. cit., p. 22.
    8
      Cfr. R. Boudon e F. Bourricaud, op. cit., p. 346.
    9
      E. Gross e A. Etzioni, op. cit., p. 22.
    10
       N. Abbagnano, “L’oggetto della sociologia”, in Problemi di sociologia, Taylor
Editore, Torino, 1959, p. 50.
12                                    Capitolo I

to è, più o meno, tendenzialmente istituzionale”11. Diverso da
questa accezione è il cosiddetto “organo istituzionale” che “in
un determinato gruppo, si pone quale agente della sua difesa o
propagazione”12 e diversa ancora è la cosiddetta “istituzione
giuridica” la quale “presuppone un agente particolare, cioè giu-
ridicamente organizzato, e si fonda, per la sua validità, sull’a-
zione di questo agente”13.

1.3. La divisone del lavoro

    “La divisione del lavoro è un principio fondamentale di tutte
le forme di vita. […]. Qualunque sia l’idea che possiamo farci
dell’origine, dell’evoluzione e del significato della divisione del
lavoro in campo fisiologico, essa evidentemente non ci fornisce
alcun lume sulla natura della divisone del lavoro in campo so-
ciologico. Il processo che differenzia e integra cellule organiche
omogenee è completamente diverso da quello che ha condotto
alla formazione della società umana a partire da individui auto-
nomi. Nel secondo la ragione e la volontà giocano un ruolo nel
produrre un’unione, in cui unità in precedenza indipendenti
formano una superiore unità e diventano parti di un tutto, men-
tre nel primo processo è inconcepibile l’intervento di tali for-
ze”14.
    “Storicamente la divisone del lavoro trae origine da due fatti
di natura: l’ineguaglianza delle capacità degli individui e la va-
rietà delle condizioni esterne della vita umana sulla terra. (…).
Giovani e vecchi, uomini e donne co–operano utilizzando in
modo appropriato le rispettive differenti abilità. Qui è anche la
spiegazione della divisione geografica del lavoro: l’uomo va a
caccia e la donna va a cercar acqua alla sorgente. Se le forze e
le capacità di tutti gli individui, come le condizioni esterne della
produzione, fossero state sempre e dappertutto identiche, l’idea
     11
        N. Abbagnano, op. cit., p. 59.
     12
        Ibidem.
     13
        N. Abbagnano, op. cit., pp. 59–60.
     14
        L. von Mises, Socialismo, Milano, Rusconi, 1990, p. 326.
Ontologia dell’organizzazione          13

stessa della divisione del lavoro non sarebbe mai sorta. Giam-
mai l’uomo si sarebbe imbattuto nell’idea di render più facile la
sua lotta per l’esistenza attraverso la co–operazione nella divi-
sione del lavoro. Nessuna vita sociale sarebbe potuta sorgere fra
uomini di eguale capacità naturale in un mondo geograficamen-
te uniforme”15. “Forse gli uomini si sarebbero uniti per affronta-
re insieme dei compiti che superavano le forze di individui iso-
lati, ma alleanze del genere non sono sufficienti per costituire
una società. Le relazioni che esse creano sono transitorie, e du-
rano solo per la circostanza che le causa”16. In ciò troviamo la
distinzione tra organizzazione e associazione di cui abbiamo
parlato in precedenza.
    “Grazie alla cooperazione sociale gli uomini sono in grado
di realizzare risultati che sorpassano le forze degli individui iso-
lati, e persino il lavoro che gli individui sono in grado di realiz-
zare da soli è reso più produttivo. (…). Chi collabora con indi-
vidui meno dotati, meno abili, meno attivi, si avvantaggia allo
stesso modo di che si associa con individui più dotati, più abili,
più attivi. Il vantaggio della divisione del lavoro è sempre reci-
proco; esso non si limita affatto al caso in cui si deve fare in
comune un lavoro che l’individuo isolato non avrebbe mai potu-
to eseguire. (…). La divisione del lavoro conduce gli uomini a
considerarsi l’un l’altro come associati in una battaglia comune
per il benessere, piuttosto che come concorrenti in una lotta per
la vita. Essa trasforma i nemici in amici, converte la guerra in
pace, dagli individui fa nascere la società”17.

1.4. Organismi e organizzazioni in Ludwig von Mises

    “L’organismo e l’organizzazione sono così nettamente di-
stinti tra loro come la vita da una macchina e un fiore naturale
da uno artificiale. In una pianta naturale ciascuna cellula vive

   15
      Ivi, pp. 328–329.
   16
      Ivi, p. 329.
   17
      Ivi, pp. 329–330.
14                           Capitolo I

una sua vita autonoma per sé mentre è in relazioni reciproche
con le altre. Ciò che noi chiamiamo vita è proprio questa autoe-
sistenza e autoconservazione. Nell’apparato artificiale, invece,
parti prima separate diventano elementi di un tutto solo nella
misura in cui ha agito la volontà esterna di chi le ha riunite. So-
lo in questa misura gli elementi componenti sono interconnessi
entro l’organizzazione. Ciascun elemento occupa soltanto il po-
sto che gli è dato, e lascia quel posto, per così dire, solo su co-
mando”18. Ciò indica che l’organizzazione è un ordine intenzio-
nale e consapevole, in altre parole, è frutto di “un’azione consa-
pevole” e pertanto “non può durare più a lungo di quanto si e-
serciti la volontà che la crea”19. I singoli elementi di un’organiz-
zazione danno vita a un tutto in quanto c’è la volontà o il pro-
getto del costruttore che si impone su di loro. Osserva Mises in
proposito che “gli elementi che compongono un’organizzazione
formano un tutto solo in quanto la volontà del creatore (c.n.)
s’impone loro, e nella misura in cui è riuscito a integrare la loro
vita nell’organizzazione. Nel battaglione schierato in parata c’è
solo una volontà, quella del comandante”20. “Una organizzazio-
ne non può fiorire senza essere fondata sulla volontà degli orga-
nizzati e per servire ai loro propositi”21.
    D’altro canto, sostiene Mises, “il tentativo di organizzare la
società è tanto chimerico quanto lo sarebbe il fare a pezzi una
pianta viva per ricavarne una nuova dalle sue parti morte”22.
    “Sforzarsi di realizzare insieme obiettivi che l’individuo da
solo non potrebbe affatto realizzare, o almeno non con uguale
efficacia: questa è l’essenza della società. La società, pertanto,
non è un fine ma un mezzo, il mezzo attraverso cui ogni singolo
membro cerca di perseguire i suoi propri fini. La società è pos-
sibile perché le volontà di individui diversi possono trovarsi
congiunte in un’impresa comune. (…) Se io posso ottenere ciò
che voglio solo se il mio concittadino ottiene ciò che vuole, la

     18
        Ivi, pp. 330–331.
     19
        Ibidem.
     20
        Ibidem.
     21
        Ibidem.
     22
        Ibidem.
Ontologia dell’organizzazione                            15

sua volontà e la sua azione divengono i mezzi attraverso cui io
posso conseguire il mio stesso fine. Poiché la mia volontà di-
venta inseparabile dalla sua volontà, non può essere mia inten-
zione e interesse frustrare la sua volontà. Su questo fatto fon-
damentale si è costruita tutta la vita sociale”23.
   È netta la differenza tra ordini costruiti e ordini spontanei
nell’affermazione che “può essere possibile creare un’organiz-
zazione che abbracci l’intero genere umano, ma sarebbe sempre
e solo un’organizzazione, parallelamente alla quale la vita so-
ciale continuerebbe ad esistere”24.

1.5. Cosmos e Taxis in Friedrich von Hayek

    “I Greci del periodo classico (…) possedevano due parole
distinte per i due diversi tipi di ordine, cioè taxis per un ordine
costruito, come per esempio l’ordine di uno schieramento di
battaglia, e cosmos per un ordine formatosi spontaneamente, e
che significava in origine ‘un ordine giusto all’interno di uno
stato o di una comunità. (…) L’ordine costruito, cui ci siamo ri-
feriti come ad un ordine ‘esogeno’, o una sistemazione, può an-
cora essere descritto come una costruzione, un ordine artificiale,
o, specialmente quando abbiamo a che fare con un ordine socia-
le diretto dall’alto, come un’organizzazione. L’ordine che si è
formato per evoluzione, d’altro lato, cui ci siamo riferiti come
ad un ordine che si autogenera o ‘endogeno’, può meglio essere
descritto (…) come ordine spontaneo”25.
    Ogni tipologia di ordine possiede alcune proprietà caratteri-
stiche: gli ordini costruiti sono semplici, “o almeno limitati a
quei moderati gradi di complessità che colui che li ha creati è in
grado di padroneggiare”; concreti, “la loro esistenza può essere
intuitivamente colta mediante l’osservazione; e, infine, essendo

   23
      L. von Mises, op. cit., pp. 333–334.
   24
      L. von Mises, op. cit., p. 332.
   25
      F.A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, il Saggiatore, 1994, p. 51.
16                                           Capitolo I

stati deliberatamente creati, essi servono gli scopi di colui che li
ha creati”26.
    “Nessuna di queste caratteristiche appartiene necessariamen-
te ad un ordine spontaneo, o cosmos. Il suo grado di complessità
non è limitato da quanto la mente umana è in grado di padro-
neggiare. La sua esistenza non ha bisogno di manifestarsi ai no-
stri sensi, ma può essere fondata su relazioni puramente astratte
che noi siamo solo in grado di ricostruire mentalmente. E non
essendo stato deliberatamente creato, non si può legittimamente
sostenere che esso ha uno scopo particolare, sebbene la nostra
consapevolezza della sua esistenza possa essere estremamente
importante perché noi possiamo perseguire con successo una
grande varietà di scopi differenti. Gli ordini spontanei non sono
necessariamente complessi, ma a differenza delle deliberate si-
stemazioni umane, essi possono possedere qualsiasi grado di
complessità”27.

1.6. Ordini intenzionali e inintenzionali in Carl Menger

    “Il problema forse più stupefacente delle scienze sociali:
Come possono mai sorgere istituzioni che servono il bene co-
mune e che hanno un’importanza fondamentale per il suo svi-
luppo senza una VOLONTA’ COMUNE orientata alla loro fon-
dazione? (…) Il linguaggio, la religione, il diritto, persino lo
Stato e, per menzionare alcuni fenomeni economici specifici, i
mercati, la concorrenza, il denaro e numerose altre formazioni
sociali, li incontriamo già in epoche storiche nelle quali non si
può ragionevolmente parlare di un’attività della comunità o dei
suoi capi consapevolmente orientata alla loro fondazione. (…)
Il diritto, il linguaggio, lo Stato, il denaro, i mercati sono in gran
parte formazioni sociali risultato irriflesso dello sviluppo socia-
le, pur nella differenza delle loro forme fenomenologiche e nel
loro continuo mutamento. I prezzi dei beni, gl’interessi, le ren-

     26
          F.A. von Hayek, op. cit., p. 53.
     27
          F.A. von Hayek, op. cit., p. 53.
Ontologia dell’organizzazione                                 17

dite fondiarie, i salari e migliaia di altri fenomeni della vita as-
sociata, e dell’economia in particolare, mostrano precisamente
la stessa particolarità”28.

1.7. Che cos’è un’organizzazione? Individualismo e colletti-
     vismo metodologico a confronto

    Il termine “organizzazione” così come ‘società’, ‘Stato’,
‘pubblica amministrazione’, ‘chiesa’, ‘partito’, ‘popolo’, ‘clas-
se’, e così via, appartiene ai cosiddetti “concetti collettivi” am-
piamente utilizzati nelle scienze sociali e intorno ai quali si con-
frontano due grandi paradigmi metodologici: individualismo e
collettivismo (o olismo). La disputa tra queste due correnti di
pensiero si snoda intorno a tre ordini di problema: ontologico,
metodologico e politico.
    Sul piano ontologico individualisti e collettivisti si scontrano
sul che cosa corrisponda nella realtà ai suddetti concetti collettivi.
    Per i primi — gli individualisti — a questi collectiva non
corrisponde nulla di autonomo, specifico e distinto dagli indivi-
dui e dunque queste realtà vanno interpretate in termini di indi-
vidui che agiscono in base alle proprie credenze e le cui azioni
producono effetti intenzionali e inintenzionali.
    Per Popper, la società non esiste, non esiste nemmeno la po-
lizia29 e neppure l’esercito («Uomini uccisi, uomini in divisa,
ecc. ecco ciò che è concreto»)30. E dunque lo Stato, la Patria, il
partito politico, la chiesa, il capitalismo, il fisco, la classe socia-
le non esistono? E “concetti come critica letteraria, struttura so-
ciale, sistema economico, imperialismo, elettorato sono solo
«concetti ausiliari»? Queste parole sono solo flatus vocis?”31.

      28
         C. Menger, Sul metodo delle scienze sociali, Macerata, Liberilibri, 1997, pp.
150–152.
      29
         K.R. Popper, La scienza e la storia sul filo dei ricordi, intervista di Giulio Ferra-
ri, Jaca Book – Edizioni Casagrande, Bellinzona, 1990, pp. 24–25.
      30
         K.R. Popper, Miseria dello storicismo, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 121.
      31
         D. Antiseri, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano, Soveria
Mannelli, Rubbettino Editore, 2003, pp. 71–72.
18                                    Capitolo I

    D’altra parte se ammettessimo che la società esiste ci do-
vremmo subito chiedere in che senso esiste? Chi l’ha mai incon-
trata?
    “La società non piange, non ride; non compra e non vende;
non passeggia, non prega e non impreca; non pensa e non sba-
glia e quindi non ha colpe. Quel che vale per il concetto di so-
cietà, vale per i concetti di Stato, di chiesa, di partito, di patria,
di classe sociale, di sistema economico, di elettorato, e così via:
vale cioè per tutti i concetti che costituiscono la nervatura delle
scienze sociali” 32.
    Per i collettivisti ai concetti collettivi corrispondono delle
“realtà effettive” che esistono “prima e al di fuori dell’indivi-
duo” e senza le quali l’individuo scomparirebbe.
    È Durkheim a dire che i fatti sociali sono “i modi di pensare,
di sentire e di agire esterni all’individuo e dotati di un potere di
coazione in virtù del quale essi si impongono ad esso”33. Per il
collettivista “esiste lo Stato, la cui volontà viene interpretata
dalla Giustizia nel tribunali, si manifesta negli atti della Pubbli-
ca Amministrazione, viene imposta dalla polizia. Chi può nega-
re che esiste il fisco? E un giovane diventa soldato quando entra
a far parte di quella realtà che è l’esercito. E una comunità ec-
clesiastica ha il potere di escludere il fedele da quella vivente
realtà che è la chiesa. E quante cose, nel bene e nel male, non
hanno fatto i partiti? Quante decisioni non hanno essi preso?
Quante lotte non ha fatto il sindacato? Ci è possibile dire che un
esercito che vince una guerra non ha esistenza? E non è forse
vero che individui che vivono in società diverse, in differenti
realtà sociali, sono individui differenti? Questo non giustifica
allora l’esistenza prioritaria ed esterna, nei confronti degli indi-
vidui, di quella realtà che è la società?”34.
    All’estremo opposto, come si è detto, gli individualisti o
nominalisti, per i quali esistono solo individui, individui che a-

     32
        D. Antiseri, op. cit., pp. 74–75.
     33
        E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Milano, Comunità, 1963, p. 26.
     34
        D. Antiseri, op. cit., p. 75.
Ontologia dell’organizzazione        19

giscono in base alle proprie credenze e le cui azioni producono
effetti intenzionali e inintenzionali.
    Sul piano metodologico la questione riguarda la procedura
attraverso cui spiegare la genesi e il mutamento di istituzioni
sociali quali lo Stato, la moneta, il linguaggio o il metodo con
cui studiare fenomeni sociali quali la scomparsa di una religio-
ne, la nascita di un partito politico, lo scoppio di una rivoluzio-
ne. Per il collettivista, per il quale le realtà collettive sono indi-
pendenti dagli individui la cui esistenza e le cui azioni sarebbe-
ro inesplicabili senza tali realtà collettive, bisognerà studiare la
genesi, lo sviluppo e il mutamento di tali realtà attraverso le
leggi sottostanti a tale mutamento. Per l’individualista metodo-
logico, per il quale esistono unicamente gli individui, invece,
spiegare qualsiasi fenomeno sociale significa spiegare l’azione
individuale, tentando in modo congetturale di ricostruire la si-
tuazione problematica in cui l’agente si è venuto a trovare e
rendendo in qualche misura la sua azione intelligibile.
    Essi ritengono dunque che i fenomeni sociali e le istituzioni
sociali “sono spiegabili unicamente in termini di individui che
hanno assorbito certe idee da altri individui o che hanno prodot-
to idee nuove in base a cui agire. E le azioni degli individui
hanno il più delle volte conseguenze non intenzionali”35.
    Sul piano etico–politico, la discussione riguarda il fine, se
detto fine sia la società, lo stato, la nazione e così via o l’indi-
viduo. Per un individualista il fine è sempre l’individuo e i dirit-
ti individuali non possono essere sacrificati in nome della “ra-
gion di Stato” o di altre entità collettive reificate. La questione,
a livello politico, investe, in altri termini, il tema della “respon-
sabilità individuale”: se esista una legge ineluttabile che guida
la storia umana e che si serve delle azioni degli uomini per rag-
giungere un fine supremo ad essi sconosciuto, come credono i
collettivisti, allora ne consegue che gli individui non saranno li-
beri di costruire il proprio futuro e senza libertà viene meno an-
che la responsabilità per le azioni compiute. Per l’individualista
invece, la responsabilità dell’azione è sempre dell’agente.

   35
        D. Antiseri, op. cit., p. 77.
20                                   Capitolo I

Tra gli individualisti:

    Carl Menger: “La collettività come tale non è un soggetto in
grande, che ha bisogni, lavora, traffica e concorre; quello che si
dice economia sociale non è quindi l’attività economica di una
società, nel senso proprio della parola. L’economia sociale non
è un fenomeno analogo alle economie individuali, cui appartie-
ne anche l’economia finanziaria, non è una cosa che si contrap-
ponga o sussista accanto alle economie individuali. Nella sua
forma fenomenica più generale essa è una molteplicità, tutta pe-
culiare, di economie individuali”36.
    Max Weber: “Anche la sociologia deve adottare metodi
strettamente individualistici”. “La sociologia deve guardare
all’individuo singolo e al suo agire come al proprio ‘atomo’
(…). Concetti come ‘stato’, ‘associazione’, ‘feudalesimo’ e si-
mili vengono a designare per la sociologia, in generale, catego-
rie di tipi determinati di agire umano in società”; ed è pertanto
suo compito di “riportarle all’agire ‘intellegibile’ e cioè, senza
eccezione, all’agire di individui partecipanti”37.
    Karl Popper: “Parlare di società è estremamente fuorviante
— osserva Karl Popper — naturalmente si può usare un concet-
to come la società o l’ordine sociale, ma non dobbiamo dimen-
ticare che si tratta solo di concetti ausiliari. Ciò che esiste vera-
mente sono gli uomini, quelli buoni e quelli cattivi — speriamo
non siano troppi questi ultimi, comunque gli esseri umani, in
parte dogmatici, critici, pigri, diligenti o altro. Questo è ciò che
esiste davvero”. E ancora “ciò che non esiste è la società. La
gente crede invece alla sua esistenza e di conseguenza dà la
colpa di tutto alla società o all’ordine sociale”38.
    Georg Simmel: “È certo che non esistono che individui, che i
prodotti umani hanno realtà all’infuori degli individui solo se
essi sono di natura materiale”39.

     36
       C. Menger, Il metodo nella scienza economica, Torino, UTET, 1937, pp. 69–70.
     37
       M. Weber, Alcune categorie della sociologia comprendente (1913), in M. Weber,
Il metodo delle scienze storico–sociali, Torino, Einaudi, 1958, pp. 256–257.
    38
       K.R. Popper, La scienza e la storia sul filo dei ricordi, cit., pp. 24–25.
    39
       G. Simmel, Il conflitto della cultura moderna, Roma, Bulzoni, 1976, pp. 43–44.
Ontologia dell’organizzazione                              21

    Friedrich A. von Hayek: Caratteristica del collettivismo
metodologico “è la sua tendenza a trattare certi ‘insiemi’ quali
‘società’ o ‘economia’ o ‘capitalismo’ (…) o una particolare
‘industria’ o ‘classe, o ‘nazione’ come oggetti dati, in se stessi
compiuti, le cui leggi possiamo scoprire osservando il loro
comportamento come ‘insiemi’. (…). L’errore implicito in
questo approccio collettivistico consiste nel considerare alla
stregua dei fatti quelle che non sono altro che teorie provviso-
rie, modelli costruiti dalla mente ingenua per spiegarsi la con-
nessione esistente tra alcuni dei fenomeni singoli che noi os-
serviamo”40.
    Raymond Boudon: “Qualunque sia la forma sociale a cui ci
si interessi, conviene (…) lasciare da parte i Kollectivbegriffe
(…) e ricondurre invece i fenomeni aggregati da spiegare ai
comportamenti individuali che li compongono. Questa affer-
mazione è valida sia che si tratti di analizzare le regole di de-
cisione collettiva in vigore nei ‘villaggi asiatici’ cari alla tradi-
zione marxista, sia del sottosviluppo dell’agricoltura nella
Francia pre–rivoluzionaria, sia della mobilità sociale nelle so-
cietà industriali, sia di qualunque altro argomento”41. Il muta-
mento sociale “va analizzato in termini di azioni di individui e
l’individualismo metodologico costituisce la sola base possibi-
le sulla quale si possa fondare un’analisi scientifica del muta-
mento sociale”42.
    Gaetano Salvemini: “L’uso dei nomi personali e concreti ci
ha così assuefatti a vedere dietro a ogni nome un’entità reale, che
noi finiamo molto spesso col personificare anche i nomi collettivi e
astratti. (…) Così trattiamo la Rivoluzione come qualcosa di esi-
stente all’infuori e al di sopra degli uomini che vissero nel periodo
rivoluzionario. (…). La Rivoluzione non è altro che un termine
collettivo astratto, mediante il quale noi denominiamo con grande
risparmio di tempo i nobili spogliati dai plebei dei diritti feudali, i

   40
      F.A. von Hayek, L’abuso della ragione, Firenze, Vallecchi, 1967, pp. 61–62.
   41
      R. Boudon, Il posto del disordine, Bologna, il Mulino, 1985, p. 73.
   42
      R. Boudon, Il posto del disordine, cit., p. 278.
22                                     Capitolo I

plebei proclamanti i diritti dell’uomo, il re destituito di ogni auto-
rità, e tutti gli altri avvenimenti del periodo rivoluzionario”43.

Tra i collettivisti:

    Auguste Comte, nel suo Discours sur l’esprit positif (1844)
scrive: “L’uomo propriamente detto non esiste, non può esistere
che l’Umanità, poiché tutto il nostro sviluppo è dovuto alla so-
cietà, sotto qualunque rapporto lo si consideri. Se l’idea di So-
cietà sembra ancora un’attrazione della nostra intelligenza, è
soprattutto in virtù dell’antico regime filosofico; giacché, a dire
il vero, è all’idea di individuo che appartiene un tale carattere,
almeno nella nostra specie”44. Per Comte, “gli uomini devono
essere pensati, non come altrettanti esseri separati, ma come i
diversi organi di un solo Grande Essere”45.
    Emile Durkheim sostiene che i fatti sociali sono gli stampi
nei quali gli individui versano le loro azioni, ritenendoli proprio
quei “modi di pensare, di sentire e di agire esterni all’individuo
e dotati di un potere di coazione in virtù del quale essi si im-
pongono ad esso”46.
    Georg Wilhelm Friedrich Hegel scrive che “Il grande conte-
nuto della storia del mondo è razionale, e razionale deve essere:
una volontà divina domina poderosa nel mondo, e la ragione
non è così impotente da non saperne determinare il grande con-
tenuto47. Per Hegel, quel che conta, è cercare nella storia uno
scopo universale, il fine ultimo del mondo, e non un fine parti-
colare dello spirito soggettivo o del sentimento.
    Karl Marx: “Non è la coscienza dagli uomini che determina
il loro essere sociale, ma è, al contrario, il loro essere sociale

     43
        G. Salvemini, La rivoluzione francese 1788–1792, a cura di F. Venturi, Milano,
Feltrinelli, 1989, p. 4.
     44
        A. Comte, Discorso sullo spirito positivo, ed. it. a cura di Antimo Negri, Laterza,
Roma–Bari, 1985, p. 87.
     45
        A. Comte, Sistème de politique positive, (t. VII dell’ed. Anthropos), 1851, p. 363.
     46
        E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Milano, Comunità, 1963, p. 26.
     47
        G.W.F. Hegel, Vorlesungen ueber die Philosophie der Wltgeschichte, ediz. Las-
son, Leipzig, 1917, p. 11.
Ontologia dell’organizzazione                             23

che determina la loro coscienza”48. La storia dell’uomo secondo
Marx è guidata da leggi ‘necessarie ed ineluttabili’ di sviluppo
(o meglio, di progresso), le quali annullano gli sforzi ideativi e
progettuali dei singoli individui.
    In questo saggio si intende sostenere la tesi che i concetti
fondamentali dell’individualismo metodologico — la ‘razionali-
tà soggettiva’, la ‘dispersione delle conoscenze’, le ‘conseguen-
ze inintenzionali’, la differenziazione tra ‘ordini costruiti’ e ‘or-
dini spontanei’ — possano contribuire ad arricchire di nuove
categorie concettuali lo studio delle organizzazioni che tradizio-
nalmente è stato segnato da un approccio collettivistico–si-
stemico.

       48
            K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Roma, Editori riuniti, 1971, pp.
3–5.
Puoi anche leggere