IN ITALIANO, PLEASE! Istigazione all'uso della nostra lingua all'università - Marco Cerase - Armando Editore

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Marco Cerase

                      IN ITALIANO, PLEASE!
                           Istigazione all’uso della nostra
                                 lingua all’università
                                                 Prefazione
                                            di Giovanni Solimine

                                                  Postfazioni
                                     di Valentina Aprea, Giuseppe Civati
                                             e Vincenzo Morreale

                                                 ARMANDO
                                                  EDITORE

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Sommario

             Prefazione                                             7
             Giovanni Solimine

             Prologo                                                11

             Capitolo primo
             Fatti                                                  12

             Capitolo secondo
             Le posizioni: un primo affresco                        14

             Capitolo terzo
             Ancora un passo indietro: la discussione nella legge
             Gelmini                                                18

             Capitolo quarto
             Il verdetto                                            24

             Capitolo quinto
             Le reazioni alle sentenze della Corte costituzionale   30
             e del Consiglio di Stato

             Capitolo sesto
             L’internazionalizzazione nel frattempo…                32

             Capitolo settimo
             Un nuovo “Sillabo”                                     43

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Capitolo ottavo
             Le forze in campo                                                   49

             Capitolo nono
             In difesa dell’italiano                                             51

             Capitolo decimo
             Due ultime parentesi                                                60

             Capitolo undicesimo
             Finale                                                              66

             Postfazione dissenziente (in forma epistolare) e replica dell’Autore 70
             Vincenzo Morreale

             Postfazioni                                                         75
             Valentina Aprea, Giuseppe civati

             Ringraziamenti                                                      80

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Prefazione
             Giovanni Solimine

                 Se volessi stare al gioco e adottare il medesimo tono scher-
             zoso che Marco Cerase ha usato in questo pamphlet, vi potrei
             raccontare che quando mi ha comunicato la sua intenzione di
             pubblicare una requisitoria contro la ricorrente e provinciale abi-
             tudine del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ri-
             cerca di eccedere nel ricorso alla lingua inglese, proponendomi
             anche di scrivere due parole di prefazione, ho accettato molto
             volentieri il suo invito e ho scritto of course, cioè “rapidamente”,
             queste paginette.
                 Ma non è andata così.
                 Cerase mi ha telefonato mentre stavo discutendo animatamen-
             te con il “manager didattico” della università presso la quale la-
             voro, che si ostinava a rimproverarmi per non aver predisposto i
             programmi per il prossimo anno accademico, adempimento che
             invece ricordavo benissimo di aver rispettato entro le scadenze
             stabilite: solo dopo un quarto d’ora di battibecchi ci eravamo in-
             tesi e avevo capito che l’appunto che mi veniva mosso era dovuto
             al fatto che avevo omesso di indicare anche in inglese le modalità
             di svolgimento della “prova di accertamento” prevista a fine cor-
             so. Ricorrendo al prezioso aiuto del traduttore di Google – con-
             fesso candidamente che le mie competenze linguistiche si limi-
             tano al napoletano, a un po’ di italiano e a antiche reminiscenze
             di greco e latino, retaggio di un buon liceo classico, frequentato

                                                                               7

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circa sessant’anni fa – ho digitato oral examination, acquietando
             così lo zelante funzionario amministrativo. Per dare un’idea della
             utilità di questa operazione (un funzionario che si autoproclama
             “manager didattico” dovrebbe essere molto attento al rapporto
             costi/benefici di quanto viene richiesto ai docenti), faccio pre-
             sente che in alcuni decenni di attività accademica ho esaminato
             – anzi, ho sottoposto a una oral examination – alcune migliaia di
             studenti italiani, una quindicina di spagnoli, tre o quattro ragazze
             rumene, due polacche, una francese, una bielorussa e una corea-
             na, la sola alla quale forse mi sarei potuto rivolgere in inglese, ma
             che per fortuna parlava italiano meglio di me.
                 Alla fine di questa ignobile farsa ho ritelefonato a Cerase, che
             avevo frettolosamente liquidato, e gli ho confermato che avrei
             scritto la breve prefazione che ora avete davanti agli occhi.
                 Tengo a precisare che non sono né sovranista né xenofobo e
             che non intendo approfittare di questa occasione per prendere le
             difese della lingua italiana. Lascio questo compito agli illustri
             storici della lingua dell’Accademia della Crusca e agli studiosi
             di varie discipline che già si sono pronunciati sulla questione,
             ricorrendo a solidi argomenti scientifici, come leggerete fra poco.
             Desidero solo proporre qualche considerazione che mi sembra
             animata da puro e semplice buon senso.
                 Credo che il grossolano equivoco in cui l’università italiana
             sia caduta e che ha dato luogo ad alcune discutibili decisioni –
             nelle pagine che seguono Cerase ricorda la decisione del Poli-
             tecnico di Milano di impartire esclusivamente (badate bene, non
             “anche”) in lingua inglese tutti gli insegnamenti dei corsi di lau-
             rea magistrale, l’improbabile lessico usato in certi provvedimenti
             di legge, l’obbligo di redigere in inglese le richieste per i progetti
             di finanziamento di rilevanza “nazionale” (badate bene, non “in-
             ternazionale”) – sia dovuto a un modo culturalmente sbagliato di
             intendere il sacrosanto bisogno di innovare e internazionalizzare
             le attività di ricerca e didattiche. Aprirsi alla dimensione inter-
             nazionale vuol dire essere informati sulle tendenze della ricerca
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nei paesi all’avanguardia in un determinato ambito disciplinare,
             saper dialogare con le altre culture e comprenderne il contesto, ri-
             uscire a fornire un contributo al dibattito internazionale. Significa
             anche – scendendo a un piano terra terra – incrementare l’importo
             delle borse Erasmus, per consentire davvero a tutti gli studenti
             che desiderano fare l’esperienza di un semestre o un anno di studi
             all’estero di poterlo fare senza gravare pesantemente sul bilancio
             familiare. Per muoversi in questa direzione è utile e forse indi-
             spensabile conoscere l’inglese e le lingue più rappresentative per
             la produzione scientifica nei vari campi: per esempio, per gli ar-
             cheologi e per i filologi forse sarà più importante conoscere il te-
             desco, ma lo lascerei decidere a loro, perché forse sia io che i fun-
             zionari di viale Trastevere non abbiamo le competenze necessarie
             per proporre l’utilizzo di una lingua piuttosto che di un’altra.
                 Viceversa, mi pare che da qualche anno “colà dove si puote”
             si ritiene che sia necessario non solo imparare l’inglese, cosa su
             cui è difficile non essere d’accordo, ma studiare e scrivere in in-
             glese, assumendo quindi l’habitus mentale (non me ne vogliate
             se non ho scritto mental dress) e la terminologia di chi si è for-
             mato altrove, inserendosi in una tradizione di studi sviluppatasi
             in un contesto culturale diverso dal nostro, mutuandone gli stili
             e i riferimenti ideali e concettuali. Se queste obiezioni sembrano
             irrilevanti e se l’inglese diventa il passe-partout (o master key, se
             non si potrà più usare un termine francese) per vedere approvato
             un progetto di ricerca o per percorrere più rapidamente i gradini
             della carriera accademica, non bisogna sorprendersi se in sede
             di valutazione dei risultati della ricerca scientifica risulta più ap-
             prezzato un articolo pubblicato su una sconosciuta rivista cilena
             o portoghese – con tutto il rispetto per gli studiosi che operano
             in quei paesi – purché il testo sia redatto in inglese, piuttosto che
             nella più prestigiosa rivista scientifica italiana. A meno che…
                 A meno che… l’obiettivo non sia quello di stimolare un mi-
             glioramento nella conoscenza dell’inglese da parte dei nostri
             studenti, in modo che poi possano più facilmente emigrare dopo
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aver conseguito la laurea. Dall’inizio di questo XXI secolo è qua-
             si triplicato il numero di neo-laureati che lascia l’Italia, azzeran-
             do così il possibile ritorno degli investimenti che lo Stato e la
             famiglia d’origine hanno sostenuto per mantenerli agli studi. E
             non ditemi che è solo effetto della globalizzazione: la mobilità
             è quasi a senso unico, visto che i giovani ricercatori italiani che
             vanno all’estero sono quasi quattro volte di più degli stranieri
             che vengono in Italia. Questo dato la dice lunga sulla qualità dei
             nostri atenei. L’elevato tasso di disoccupazione o di sottoccupa-
             zione intellettuale che si riscontra in Italia, pur in presenza di un
             numero di laureati molto inferiore a quello di altri paesi, non va
             interpretato come la prova della scarsa qualità della loro prepara-
             zione, ma dimostra purtroppo che il nostro apparato produttivo,
             che non investe in ricerca e sviluppo, non richiede personale con
             elevati livelli di istruzione. Sono le nostre imprese ad essere in ri-
             tardo, non le università: se la causa del mancato assorbimento dei
             nostri laureati dipendesse da una loro insufficiente preparazione,
             le aziende si dovrebbero affrettare a investire nella formazione
             e nell’aggiornamento dei propri dipendenti o potrebbero cercare
             manodopera qualificata all’estero, importando ingegneri, infor-
             matici, fisici e quant’altro, cosa che invece non avviene.
                 Emblematica la scarsa incidenza degli occupati nei settori
             ad alta densità di conoscenza: in Italia solo il 3,3 percento degli
             occupati lavora nei settori più innovativi, con un valore inferio-
             re alla media europea (solo Portogallo e Grecia fanno peggio di
             noi). Le nostre imprese sono poco presenti sulla rete e siamo al
             terzultimo posto anche nella graduatoria dell’uso del commercio
             elettronico, lasciandoci alle spalle solo Bulgaria e Romania.
                 Ma affrontare questioni di tale rilevanza richiederebbe un im-
             pegno serio: è molto più semplice predisporre un modulo (ap-
             plication form) in inglese per la richiesta di finanziamenti per la
             ricerca. Così ci sentiamo più moderni.
                 O tempora, o mores! (what times!).

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Prologo

                  Confesso: sono un advocate.
                 Non nel senso di avvocaticchio. Advocate non vuol dire avvo-
             cato, bensì colui (o colei) che sostiene una tesi, che parteggia, che
             si batte per ciò in cui crede. Sicché a questo vocabolo potrebbe
             persino capitare di essere il contrario di “avvocato”, il quale è
             spesso chiamato a difendere posizioni che non condivide. Infatti,
             in inglese, avvocato si dice counsel, lawyer o attorney. Il cassa-
             zionista in Inghilterra sarebbe barrister.
                 Intendiamoci: il titolo forense ce l’ho. E sto sfogliando un pe-
             riodico di diritto penale.
                 Mi imbatto in uno di quei sommarietti in inglese, che mol-
             te riviste impongono agli autori, che intendono pubblicare i loro
             contributi.
                 Leggo: Prescription of crime.
                 Caspita! Sarà un articolo sulla ricetta medica del delitto! Roba
             da Agatha Christie!
                 Azzardo: nelle prossime pagine troverò Arsenic and Old Lace!
                 Poi mi accorgo che l’articolo si riferisce alla “prescrizione”,
             vale a dire alla causa di estinzione del reato per il decorso del
             tempo, che in inglese si traduce con Statute of limitations o, più
             semplicemente, nel participio riferito al reato Time barred.
                 È, forse, questo l’inglese con cui una certa accademia italiana
             intende proporsi sul proscenio internazionale?
                 Per rispondere al quesito, bisogna tornare indietro di qualche
             anno.
                                                                               11

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