Il tempo nei 35mm (Claudio Gajo) - Liceo Marconi Conegliano
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Il tempo nei 35mm (Claudio Gajo) Il cinema, la settima arte, forse il linguaggio più articolato e complesso che l’uomo sia mai riuscito a sviluppare. Già definendolo come una fusione tra parole, immagini e musica, si opera una vera e propria mutilazione di quello che è in realtà il mezzo cinematografico. Eppure, fin da questa vergognosa semplificazione, si può cogliere una potenzialità comunicativa impressionante. Essendo una forma di linguaggio, esso d’altronde costituisce anche una forma di pensiero. Come direbbe Martin Heidegger infatti “Die Sprache spricht”, il che significa che il linguaggio utilizzato non è solo un mezzo per veicolare un pensiero, ma esso stesso costituisce il nostro modo di ragionare. Non sorprendono a questo punto le parole di Sergio Leone, quando sosteneva di “rivedere il cinema in qualunque cosa”. Molti artisti del settore hanno mostrato come questa articolata forma di comunicazione sia entrata a far parte integrante del loro modo di pensare. Un regista in particolare si soffermò molto a riflettere sul cinema, proponendo visioni interessanti, in particolare sul tema del tempo. Andrej Tarkovskij fu un importantissimo regista russo, che incise il proprio nome nella storia del cinema con capolavori come “Andrej Rublëv” del 1966 o “Stalker” del 1979. Ciò che più ci interessa però, è una sua intervista in cui espose una suggestiva visione sul tema del tempo. In quest’occasione Tarkovskij si chiese: “Dal momento in cui un regista dice “action” al momento in cui dice “cut”, che cosa avviene? Avviene la materializzazione del tempo”. Il regista russo sosteneva che imprimendo un avvenimento sui 35 mm della pellicola, si operasse una vera e propria materializzazione del tempo. Ma cosa significa quest’espressione? Che Tarkovskij ritenesse che il tempo esista al di fuori dell’uomo? O che il cinema sia in grado di materializzare concetti impalpabili? È qui dunque che inizia il nostro viaggio nella speranza di trovare un significato alle suggestive parole di Andrej Tarkovskij. Ci muoveremo attraverso due affascinanti pellicole illuminando il nostro cammino con la lanterna della filosofia, per cogliere a pieno le riflessioni nascoste tra i fotogrammi. Il nostro percorso inizia attraverso “Risvegli”, film del 1990 diretto da Penny Marshall, in cui uno straordinario Robert De Niro affianca un ottimo Robin Williams per trattare la vicenda realmente avvenuta del dottor Malcolm Sayer. Il dottor Sayer fu un neurologo che nel 1969 si distinse per aver ottenuto un risultato insperato. Egli riuscì a risvegliare temporaneamente alcuni suoi pazienti caduti in stato di catatonia. Questi soggetti si trovarono in quella condizione a causa di un’encefalite letargica che li colse interi decenni prima del loro risveglio, attorno agli anni Venti. I malati apparivano come vere e proprie statue, incapaci di eseguire alcun tipo di movimento o di rispondere agli stimoli. Ciò che più ci interessa è però l’esatto istante del loro risveglio. In quel momento infatti, i medici si resero conto che queste persone non percepirono minimamente il passare del tempo durante il periodo di malattia. Provando a materializzare la condizione psicologica di questi personaggi possiamo immaginare una cinepresa a pellicola che, proprio come una persona fa esperienza del mondo esterno, esegue delle riprese di ciò che le sta attorno. Sulla pellicola imprime le immagini di ciò che le si para innanzi, cogliendo i mutamenti esterni. D’un tratto però la cinepresa si inceppa. Essa non è più in grado di far scorrere la pellicola e perciò non è in grado né di accumulare nuovo girato né di recuperare immagini già impresse nei fotogrammi accumulati, proprio come i pazienti del dottor Sayer non erano in grado di percepire i mutamenti esterni o di causarne di psicologici. I personaggi di “Risvegli” non erano dunque in grado di percepire il divenire. Rammentando ciò che abbiamo detto poco fa, potremmo cadere nell’errore di formulare un’analogia alquanto scorretta. Abbiamo visto come i personaggi del film non fossero in grado di percepire o causare il
divenire, abbiamo altresì detto che una volta risvegliati questi soggetti avevano mostrato di non aver percepito il passare del tempo. Abbiamo quindi dimostrato che tempo e divenire sono la stessa cosa? No, decisamente no, però abbiamo evidenziato un profondo legame tra i due concetti. Legame non sfuggito al filosofo e Santo cristiano Agostino che già nel quarto secolo d.C. scriveva “Un tempo che fosse stabile non sarebbe tempo” (Confessioni, XI, 14). Egli stesso si espresse in modo più esplicito sul tema, in un celebre passo in cui fa riferimento a Dio infatti, scrive “Mi comandi forse di approvare chi sostiene che il tempo è il movimento di un corpo? No, non mi comandi questo. Ammetto che nessun corpo si muove se non nel tempo: sei tu a dirlo. Non ammetto invece che sia il movimento stesso del corpo a costituire il tempo: non sei tu a dirlo. Quando infatti un corpo si muove è con il tempo che misuro la durata del suo movimento” (Confessioni, XI, 24). Proprio da queste parole possiamo evincere quale sia il legame tra divenire e tempo. Potremmo infatti indicare il tempo come l’unità di misura utilizzata dall’uomo per definire il divenire. A questo punto comprendiamo facilmente come sia stato possibile che i personaggi di “Risvegli” non abbiano avvertito il passare del tempo. Non potendo far esperienza di alcun tipo di divenire, essi non potevano percepire il tempo, come in assenza di un oggetto non è possibile percepirne la lunghezza. Il filosofo cristiano inoltre approfondì la sua analisi sul tempo, concentrandosi sulla classica tripartizione in cui siamo abituati a intendere questo concetto. Agostino infatti, si soffermò nell’evidenziare quale potesse essere il legame tra l’uomo e le tre forme in cui siamo soliti dividere il tempo: passato, presente e futuro. Secondo il filosofo il problema si concentrava sulle forme del passato e del futuro, in quanto egli non poteva concepire come l’uomo potesse percepirsi in contatto con fatti che non sono più, in quanto passati, o con fatti che non sono ancora, in quanto futuri. Egli sosteneva che l’uomo fosse in contatto col tempo grazie alla propria anima. Essa infatti gli permetteva di concepire il passato grazie alla memoria, e il futuro grazie all’attesa. A questo punto il nostro viaggio può procedere. La nostra lanterna ci ha permesso di cogliere concetti nascosti nella pellicola, mostrandoci il profondo legame tra divenire e tempo. Inoltre abbiamo visto come il tempo sia un concetto prettamente soggettivo, vedendone il legame con la nostra psiche non solo grazie ad Agostino, ma anche grazie a “Risvegli”. La pellicola in cui ci stiamo per addentrare è una delle più interessanti del cinema moderno, essa porta l’indagine sul montaggio cinematografico su piani incredibilmente affascinanti. L’anno 2000 è stato un anno importante per tutti, per via dell’avvento del nuovo millennio, ma agli occhi dei cinefili è stato ulteriormente impreziosito dall’uscita di “Memento” di Christopher Nolan. La trama di questo film ruota attorno al personaggio di Leonard Shelby. Leonard soffre di una continua perdita di memoria anterograda (memoria a breve termine), a causa di un incidente durante il quale perse anche la moglie. Visto il profondissimo legame che univa i due coniugi, Leonard decise di intraprendere un’indagine in prima persona per ottenere una vendetta personale. Chiaramente, data la sua condizione psicologica, gestire un’indagine era un’impresa che rasentava l’impossibile e per portare avanti questo suo intento Leonard si appuntava continuamente ogni genere di informazione. Emblematiche sono le polaroid che scattava continuamente e che portava con sé, annotandosi sul loro retro le informazioni legate all’immagine scattata, ma ancor più affascinante è il modo in cui Leonard conservava le memorie più importanti. Egli infatti arrivava a tatuarsele addosso, di modo da non poterle perdere. Volendo trasporre la condizione psicologica di Leonard in un’immagine, potremmo sfruttare nuovamente quella della cinepresa a pellicola. Come Leonard ha fatto esperienza del mondo per anni, accumulando diversi ricordi, così la cinepresa ha accumulato diverso girato. Ad un certo punto però Leonard ha subito il fatidico incidente che gli ha causato la continua perdita di memoria. Allo stesso modo la cinepresa ha
iniziato a mostrare uno strano malfunzionamento. Essa ha continuato a far scorrere la pellicola, imprimendovi nuovi fotogrammi, ma riavvolgendo periodicamente il nastro sempre fino allo stesso punto e ricominciando a girare, sovrascrivendo sui vecchi fotogrammi nuove immagini, cancellando di fatto il girato recente. Ciò che più ci interessa è però una frase in particolare pronunciata da Leonard. Egli infatti ad un certo punto del film si trova a dire “Come può il tempo guarirmi se non posso percepirlo?”. La ferita a cui fa riferimento è chiaramente quella del lutto, egli sostiene di non essere in grado di superare il dolore per la perdita della moglie. L’immagine della morte della compagna è infatti l’ultimo ricordo della sua memoria a lungo termine. A questo punto ci troviamo in una condizione particolare. Notiamo infatti che l’unica differenza tra Leonard ed un osservatore comune è la continua perdita di memoria, questa quindi sembra causare la mancata percezione del tempo da parte del personaggio. Per districarci in questa selva oscura di concetti e fotogrammi, conviene affidare la nostra lanterna alle sapienti mani del filosofo francese Henri Bergson, che per l’occasione ricoprirà le funzioni virgiliane di cui necessitiamo. Prima di esplicitare il legame tra tempo e memoria ci conviene recuperare il modo in cui Bergson definiva la realtà. Egli infatti riteneva che esistessero due diverse realtà, una interna al nostro io ed una esterna ad esso. Nei suoi scritti infatti troviamo “Così, nel nostro io, vi è successione senza esteriorità reciproca; al di fuori dell’io, esteriorità reciproca senza successione” (Saggio sui dati immediati della coscienza, in Opere 1889-1896). Bergson definisce la realtà interna al nostro io come “successione senza esteriorità” intendendo una forma di coscienza che ancora non ha effettuato alcun tipo di esperienza, e che perciò non ha in sé alcun tipo di immagine o ricordo, ma appare come una pura durata. Al contrario Bergson descrive la realtà del mondo esterno come “esteriorità reciproca senza successione”, evidenziando come i vari oggetti del mondo esterno siano distinti gli uni dagli altri, e che non vi sia alcuna possibilità di porli autonomamente in una successione temporale. La percezione del passare del tempo secondo Bergson avviene nel momento in cui queste realtà si compenetrano e si influenzano vicendevolmente, e questo può avvenire solo in un osservatore. Quando un soggetto fa esperienza del mondo infatti, si assiste ad un “processo d’organizzazione o di mutua compenetrazione di fatti di coscienza” (Saggio sui dati immediati della coscienza, in Opere 1889-1896). Una persona, nel momento in cui fa esperienza del mondo esterno, mette in comunicazione la realtà di pura esteriorità che sta al di fuori di sé, con la realtà di pura successione della propria psiche, ed organizzando in sequenza i ricordi di ciò di cui fa esperienza, arriva a percepire il passare del tempo. Da ciò si può notare lo stretto legame tra tempo e memoria, infatti se noi perdessimo la capacità di ricordare le immagini del mondo esterno perderemmo la possibilità di percepire il passare del tempo, in quanto verrebbe meno la mutua compenetrazione delle due realtà, esterna e psicologica. In questo caso il parallelismo già portato tra psiche umana e cinepresa a pellicola si fa più adatto che mai. Come un essere umano fa esperienza della pura esteriorità, grazie alla pura successione della propria mente, così fa la cinepresa a pellicola. Infatti, prima che lo strumento venga messo in funzione, possiamo notare che in esso si trova un lungo filamento di pellicola ancora non suddiviso in fotogrammi, un nastro sempre identico a se stesso. Una volta attivato lo strumento però, la pellicola inizia a scorrere ed essa viene suddivisa in fotogrammi che ritraggono la realtà esterna. Così la pura esteriorità viene impressa sulla pura successione e, venendo organizzati i fotogrammi in sequenza l’uno dopo l’altro, si assiste esattamente al “processo d’organizzazione dei fatti di coscienza” di cui parlava Bergson. A questo punto siamo ormai prossimi alla conclusione, ma sul nostro cammino si trova ancora un curioso fiore che sarebbe un peccato non cogliere. Nolan infatti, nella realizzazione di “Memento”, ha messo in mostra le sue straordinarie doti di narratore che ci permettono di comprendere più a fondo e in modo più
umano la condizione di Leonard. Cogliamo dunque l’occasione ed addentriamoci nella struttura narrativa del film per poter affrontare la questione da una prospettiva più empatica. Innanzi tutto bisogna ricordare che lo stile di Nolan è caratterizzato da un utilizzo particolare del montaggio cinematografico, detto montaggio emotivo. Egli infatti sfrutta il montaggio cinematografico per generare un legame tra i propri personaggi e la platea, rappresentando emozioni, stati d’animo o condizioni psicologiche, proprio grazie a questo espediente cinematografico. A questo punto possiamo inoltrarci nella struttura narrativa di “Memento”. Ultimo evento Sequenza a colori FINE DEL FILM Primo evento Sequenza in bianco e nero L’arco sopra riportato è uno schema della struttura narrativa di “Memento”. Come si può vedere l’estremo inferiore dell’arco corrisponde al primo evento in termini cronologici, perciò, se seguissimo la curva fino a giungere all’altro capo, potremmo assistere ad una narrazione lineare, difatti all’altro estremo troviamo l’ultimo evento in termini cronologici. La cosa curiosa è che la fine del film si trova esattamente sul ripiegamento della curva. A questo punto bisogna notare che la parte superiore dell’arco rappresenta la sequenza a colori del film e in essa viene mostrata la trama vera e propria. La parte inferiore dell’arco invece rappresenta la sequenza in bianco e nero del film, attraverso la quale viene mostrato un lungo monologo in cui Leonard tratta del proprio incidente e della propria condizione psicologica. Come si può vedere dall’immagine, Nolan ha iniziato la narrazione di “Memento” prendendo le mosse dall’ultimo evento in termini cronologici, terminato il quale si assiste ad uno stacco, e si passa al primo evento in termini cronologici. Ciò che permette allo spettatore di percepire la distanza temporale tra i due momenti è proprio il cambio di tono. Il passaggio dalla sequenza a colori a quella in bianco e nero, permette allo spettatore di capire che un avvenimento è antecedente all’altro. Terminata la scena in cui viene mostrato il primo evento, sempre cronologicamente parlando, si assiste ad un ulteriore stacco che ci riporta alla sequenza a colori mostrandoci il penultimo evento in termini cronologici, terminato il quale vi è un ulteriore stacco, che porta al secondo evento in termini cronologici, e così via fino al termine del film. Giunti alla scena finale si assiste ad un importante evento comunicativo. Essa infatti inizia in bianco e nero, ma si ricollega alla sequenza a colori, e proprio la dissolvenza del bianco e nero che riporta la narrazione alle normali tonalità, permette allo spettatore di comprendere che le due sequenze sono in connessione l’una con l’altra. A questo punto una domanda sorge spontanea: perché Nolan ha voluto narrare in questo modo? Innanzi tutto bisogna ricordare quanto detto in precedenza riguardo al montaggio emotivo. Nolan ama utilizzare il montaggio cinematografico per generare un legame tra la platea e i suoi personaggi ed è proprio ciò che avviene in “Memento”. Successivamente bisogna notare che nella narrazione scelta da Nolan la trama del
film, corrispondente alla parte superiore dell’arco, viene mostrata esattamente a ritroso. Difatti, se eliminassimo le scene in bianco e nero, assisteremmo ad una narrazione che procede dall’ultimo evento della trama al primo. In questo modo Nolan impedisce allo spettatore di sapere quali avvenimenti abbiano portato agli eventi a cui sta assistendo, ponendo così lo spettatore nella stessa condizione di Leonard. Tanto la platea quanto il personaggio infatti, non sanno cosa sia avvenuto poco prima dell’evento in corso, Leonard perché l’ha dimenticato, lo spettatore perché ancora non l’ha visto, tutte le informazioni disponibili riguardo al recente passato di Leonard corrispondono di volta in volta agli appunti del personaggio. A questo punto la platea può comprendere a pieno il dramma di Leonard. Il pubblico si trova nella condizione di non riuscire a darsi un collocamento temporale, in quanto viene proiettato unicamente nel presente senza sapere nulla del passato, nemmeno quanto tempo sia passato dalla morte della moglie di Leonard, e grazie a questo disorientamento può pienamente comprendere il dolore del personaggio, il quale, non potendo percepire il passare del tempo, non è in grado di superare il dramma del lutto. A questo punto abbiamo visto che il divenire è un elemento imprescindibile per percepire il passare del tempo e con esso anche la memoria. Abbiamo inoltre evidenziato che il tempo è un concetto unicamente soggettivo, che si percepisce solo quando un osservatore fa esperienza del mondo esterno. E proprio come un osservatore fa esperienza, accumulando ricordi nella propria psiche, così fa una cinepresa a pellicola, che imprime immagini in sequenza sul nastro che scorre, organizzandole fotogramma per fotogramma. In questo modo la magia colta da Tarkovskij diviene realtà, in quanto la pellicola riesce a rappresentare con efficacia il modo in cui noi facciamo esperienza del mondo, esperienza in cui è necessariamente incluso il tempo. In questo senso allora si può effettivamente dire, che una cinepresa a pellicola materializza il tempo nei 35 mm.
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