Il Tema - Pastorale Giovanile di Cagliari
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Il Tema «La cura e la disciplina del corpo, la dinamica di squadra che esalta la collaborazione, il valore della correttezza e del rispetto delle regole, l’importanza dello spirito di sacrificio, generosità, senso di appartenenza, passione, creatività, fanno dello sport una occasione educativa promettente per percorrere un vero cammino di unificazione personale». (XV ASSEMBLEA GENERALE DEL SINODO DEI VESCOVI, I giovani, la fede e il discernimento vocazionale, Instrumentum laboris, n. 164) Mens sana in corpore sano, recita un celebre adagio latino, il quale recupera un punto di vista già diffuso e centrale nell'antica Grecia, circa l'idea dell'unità psicofisica dell'individuo, ripresa poi nel XX secolo per studiare e comprendere ogni processo di educazione, istruzione e formazione che riguarda il soggetto. Ma è nel periodo del Rinascimento e in particolare dall'Umanesimo che il corpo il corpo comincia ad essere riconosciuto davvero come un canale espressivo, ricco di emozioni, capace di instaurare relazioni e dall'enorme potere comunicativo. Basti pensare ai numerosi esempi che ci provengono dall’arte, in particolar modo dalla pittura, dalla scultura e dalla letteratura del XV secolo. Ognuno di questi campi artistici può testimoniare la crescente importanza che la corporeità gradualmente ha assunto, quale componente fondamentale per studiare, rappresentare e comprendere l'uomo: dai quadri di Leonardo e di Raffaello, alle sculture di Michelangelo, passando per testi letterari di autori quali Rabelais. Tutto questo ben si concilia con la prospettiva cattolica di una educazione integrale dell’uomo, essere unitario e inscindibile nelle sue componenti psico-fisiche. Infatti: «la persona umana, creata a immagine di Dio, è un essere insieme corporeo e spirituale. Il racconto biblico esprime questa realtà con un linguaggio simbolico, quando dice: «Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita, e l'uomo divenne un essere vivente» (Gn 2,7). L'uomo tutto intero è quindi voluto da Dio»1. 1 CCC, n. 362.
Di fronte alla completezza e unitarietà dell’uomo, fatto di spirito certamente, ma anche di corpo, siamo chiamati a «riflettere sui mezzi e sui fini dell'educare l'uomo anche a partire dalla sua dimensione corporea, che deve essere necessariamente considerata e valorizzata nell'educare, istruire e formare»2. Il filosofo dell'educazione Raffaele Mantegazza, nel suo volume «Con la maglia numero sette», citando la ben nota canzone di Francesco De Gregori «La leva calcistica della classe '68», sottolinea mediante tre caratteristiche gli aspetti pedagogici insiti nell'attività sportiva, vedendo nello sport un potenziale vettore di educazione, istruzione e formazione per il soggetto: «a) Materialità: la pratica sportiva si attua in un mondo popolato di cose e di oggetti ed è prevalentemente una pratica corporea: [...] è segno della forza dell'educazione il fatto che essa tramuti gli oggetti materiali, permettendo loro di distaccarsi dalla consuetudine e dalla quotidianità: e proprio per questo educazione ed esperienza sportiva condividono il loro appartenere alla dimensione del rito. b) Ritualità: lo sport è un rito e si nutre della sua propria ritualità: lo sanno bene i frequentatori degli stadi e dei Palazzi dello sport, lo vivono sulla pro pria pelle tutti coloro che praticano o hanno praticato una disciplina sportiva. [...] siamo nell'ambito di quella "finalità senza scopo" che è tipica del bello artistico [...]. c) Emotività: [...] L'esperienza sportiva mobilita le emozioni positive (la conferma, la soddisfazione, la gioia) ma anche la paura prima della prova, l'ansia da prestazione, l'amaro sentimento della sconfitta»3. Che lo sport, con le sue dimensioni di movimento, di ludicità, di competizione e di regole abbia in sé elementi valoriali universalmente riconosciuti nei confronti del sé, degli altri e della natura umana (dinamiche di gruppo, lotta contro la discriminazione e la disabilità, costanza, perseveranza, determinazione, talento, impegno, salute, alimentazione, benessere corporale e spirituale, igiene mentale, autodominio, socialità, emulazione, disciplina, libertà, creatività, soddisfazione, divertimento, gioia, catarsi, etc.), è una realtà assodata. Tuttavia manca ancora qualcosa. Siamo infatti ancora fermi ad un livello prettamente sociale, ma «socializzare» per noi cristiani non basta, non è ancora sufficiente. È necessario un passaggio ulteriore: occorre educare in modo compiuto. Come tutte le realtà umane, anche lo sport possiede delle caratteristiche ambivalenti: può essere infatti eticamente autenticato o svilito, a seconda di come venga attualizzato al servizio dell’uomo. Ecco perché è importante relativizzare prestazionalità e agonismo, soprattutto tra i più piccoli. Prima che la ricerca di abilità tecniche (pure necessarie per poter fare attività sportiva) necessarie a costruire il “campione”, il “fenomeno”, l’obbiettivo per ogni formatore o allenatore dovrebbe essere quello di realizzare “l’uomo-atleta” lo “sportivo-umanizzato”. Far crescere insomma la persona, alla quale le stesse categorie della “vittoria”, della “sconfitta”, della “tecnica” e della “regola” sono subordinate. Puntare non tanto sulla quantità dei gesti, dei movimenti e delle azioni, ma sulla 2 DI BARI C., Pedagogia del corpo e dello sport, in CAMBI F. - MARIANI A. – GIOSI M. - SARSINI D., Pedagogia generale. Identità, percorsi, funzione, Carrocci Editore, Roma, 2017, p. 204. 3 MANTEGAZZA R., Con la maglia numero sette, Unicopli, Milano, 1999, pp. 15-22.
qualità, consapevoli che non importa tanto se si è vinto o si è perso, ma piuttosto come si è giocato, come si è agito durante la gara. Concentrarsi più sul piacere del “fare” che sulla voglia incontrollata di vincere o sulla paura di perdere. «Ciò non significa abolire un certo “agonismo”, ma accentuare la cosiddetta competizione indiretta che dà più ampie possibilità di apprendere educativamente l’alfabeto della vera cooperazione sociale, anche attraverso l’attività sportiva, che è un fatto di tutti e per tutti e a tutte le età»4. Infatti «il vero campione è quello che sa mettere a frutto tutte le sue qualità al servizio degli altri, e che sa quando tirare o quando passare la palla»5. Proprio per questo lo sport è un «grande ambito di crescita e di confronto per i giovani, nel quale la Chiesa sta investendo in molte parti del mondo».6 Uno straordinario strumento di maturazione, da valorizzare e custodire dentro una logica che sa promuovere il singolo a partire dai suoi carismi, dalle sue competenze e dalle sue passioni. Di qui la necessità di offrire ai giovani «esperienze di sana competizione, che sfuggano al desiderio di successo a tutti i costi, e che permettano di trasformare la fatica dell’allenamento in una occasione di maturazione interiore»7. Infatti «attraverso la pratica sportiva si incoraggia un giovane a dare il meglio di sé, a porsi un obiettivo da raggiungere, a non scoraggiarsi, a collaborare in un gruppo. È un’occasione bellissima per condividere il piacere della vittoria, l’amarezza di una sconfitta, per mettersi insieme e dare il meglio di sé» 8. Lo sport, vera e propria palestra di vita e di discernimento, anche a partire dal semplice rispetto delle regole, spesso fin troppo sottovalutate: «La prima regola è che quando si gioca si può vincere e si può perdere, che la delusione per la sconfitta è un sentimento normale che, però, non cancella quanto di buono è stato fatto per arrivare a quella prova. Anzi, a volte aiuta a capire cosa è mancato, cosa si poteva fare di più per avvicinarsi alla vittoria, oppure se gli altri erano effettivamente così forti da non poter essere raggiunti. Le altre disposizioni sono, invece, scritte e il fatto di rispettarle è una delle migliori basi per diventare buoni cittadini, ovvero persone che sanno come non si possa convivere senza rispettare quelle norme necessarie per garantire a tutti il bene comune nella città degli uomini»9. Inoltre, lo sport «è anche una palestra di convivenza a tutti i livelli: ormai le squadre sono composte da atleti di diversa nazionalità, e solo se all’interno dello spogliatoio si accende il dialogo e l’integrazione la squadra riuscirà a dialogare anche in campo. […] Questo saper parlarsi senza conoscere perfettamente la lingua è anche un vettore di speranza, perché è un esempio di come ci si possa intendere quando si ha un obiettivo comune e si è pronti a rinunciare o a mettere a disposizione degli altri un qualcosa di proprio per raggiungerlo. È l’esatto contrario della Torre di Babele»10. In questa prospettiva i nostri ambienti potrebbero davvero offrire «conoscenza di sé e 4 PRELLEZO J.M. - MALIZIA G. – NANNI C, Dizionario di Scienze dell’Educazione, Università Pontificia Salesiana, Facoltà di Scienze dell’Educazione, LAS, Roma, 2008, p. 1127. 5 ZUPPI M., Il gioco di Dio è un gioco di squadra, in «Note di Pastorale Giovanile» 55 (4/2021), p. 15. 6 XV ASSEMBLEA GENERALE DEL SINODO DEI VESCOVI, I giovani, la fede e il discernimento vocazionale, Instrumentum laboris, n. 39. 7 Ibid., n. 164. 8 FRANCESCO (con P. Bergonzi), Ibid., p. 5. 9 ZUPPI M., Ibid. 10 Ibid.
del proprio corpo, relazioni di gruppo, rispetto delle regole, dialogo con le famiglie, esperienza di abitudine alla sconfitta e alla vittoria come dimensioni di vita. C'è molto vangelo, in un'umanità che cresce attraverso esperienze come queste»11. D’altronde già «alcuni Padri della Chiesa hanno utilizzato l’esempio delle pratiche sportive per invitare i giovani a crescere in termini di forza e a padroneggiare la sonnolenza o la comodità. San Basilio Magno, rivolgendosi ai giovani, prendeva l’esempio dello sforzo richiesto dallo sport e così inculcava in loro la capacità di sacrificarsi per crescere nelle virtù»12. In realtà ben prima già San Paolo utilizzò la metafora della battaglia e della corsa per indicare il cammino della vita cristiana (cfr. 2 Tim 4,6-7, Ef 6, 10-17, Fil 3, 12-14): «Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile. Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l'aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato». (1 Cor 9, 24-27); Il 2 gennaio 2021, con un Inserto nella Gazzetta dello Sport dal titolo «Lo sport secondo Papa Francesco», il Santo Padre ha rilasciato una lunga intervista a Pier Bergonzi intitolata «Chi vince non sa cosa si perde», seguita da una postfazione di don Marco Pozza intitolata «La cultura della “pelota de trapo”», considerata come una sorta di quarta “Enciclica laica” sullo sport, dimostrando che l’evangelizzazione può e deve passare anche attraverso la pratica sportiva, vissuta secondo il Vangelo. Infatti non è una semplice attività di "complemento" o di "pre-evangelizzazione", come spesso è stata definita, ma un circuito altro che valorizza l'espressione di ciascuno e del gruppo. Pertanto non dobbiamo dar per scontato che le nuove generazioni sappiano dire maggiormente di sé solo perché sono più social. È necessario porsi sempre in ascolto delle esigenze dei più giovani, per farle diventare luoghi di incontro e di relazione. Infatti «Offrire loro dei luoghi concreti di espressione, dove sperimentano e approfondiscono i linguaggi che più li appassionano è un modo gratuito e prezioso per accompagnarli durante la loro crescita»13. In questa intervista Papa Francesco utilizza sette parole-chiave sullo sport: lealtà, impegno, sacrificio, inclusione, spirito di gruppo, ascesi, riscatto. Come afferma Rossano Sala (docente di Pastorale Giovanile presso l’Università Pontificia Salesiana, direttore della rivista Note di Pastorale Giovanile e Segretario speciale del Sinodo dei Vescovi 2018 su «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale»), «è evidente che questi sette termini non riguardano semplicemente il mondo dello sport, ma fanno parte della nostra vita di tutti i giorni. Bisogna essere leali nei contratti di lavoro, nella parola data e nelle relazioni quotidiane, non solo nel rispetto del regolamento sportivo; l’impegno ci va nello studio e nel lavoro, tanto quanto in una gara sportiva; il sacrifico rimanda addirittura a quello di Cristo sulla croce, e non si esaurisce certo nella temperanza di un atleta che 11 SERVIZIO NAZIONALE PER LA PASTORALE GIOVILE (CEI), Dare casa al futuro. Linee progettuali per la pastorale giovanile italiana, Mimep Docete, Roma, 2019, p. 64. 12 FRANCESCO, Esortazione Apostolica post-sinodale Christus vivit, n. 227. 13 SERVIZIO NAZIONALE PER LA PASTORALE GIOVILE (CEI), Ibid.
rinuncia a tante cose per prepararsi alle olimpiadi; l’inclusione riguarda tutti i campi della nostra vita sociale e familiare, dai migranti ai compagni di classe, e non certo solo alla partecipazione di tutti, nessuno escluso, ad una pratica sportiva; lo spirito di gruppo è affare sportivo quanto dinamica aziendale e profezia ecclesiale; l’ascesi, che si applica con naturalezza allo sport, è un concetto che nasce in ambito religioso e spirituale; infine il riscatto, che arriva a riconoscere la dignità di ogni persona, si addice allo sport tanto quanto a molti altri campi dell’esistenza»14. Per fare questo occorreranno allora buoni allenatori, ovvero validi educatori che ci mettano la faccia, che si spendano gratuitamente, con slancio, entusiasmo e competenza nei confronti dei più giovani. Infatti «in qualche modo allenare è come educare. Nel momento della vittoria di un atleta non si vede quasi mai il suo allenatore: sul podio non sale, la medaglia non la indossa, le telecamere raramente lo inquadrano. Eppure, senza allenatore, non nasce un campione: occorre qualcuno che scommetta su di lui, che ci investa del tempo, che sappia intravedere possibilità che nemmeno lui immaginerebbe. Che sia un po’ visionario, oserei dire. Non basta, però, allenare il fisico: occorre sapere parlare al cuore, motivare, correggere senza umiliare. Più l’atleta è geniale, più è delicato da trattare: il vero allenatore, il vero educatore sa parlare al cuore di chi nasce fuoriclasse. Poi, nel momento della competizione, saprà farsi da parte: accetterà di dipendere dal suo atleta. Tornerà in caso di sconfitta, per metterci la faccia"»15. L’obbiettivo allora sarà quello di imparare a fare squadra, per essere sempre più autenticamente Chiesa, comunità cristiana, nella consapevolezza che nessuno si salva da solo. Lo sport infatti «è proprio questo fare fatica insieme per arrivare ad un obiettivo. Non si vince mai da soli, ma c’è sempre un altro che vince con te, anche nelle discipline singole. C’è sempre un allenatore, un massaggiatore, un professionista che ha faticato insieme all’atleta»16. Verrebbe insomma quasi da dire che possiamo «salvare solamente come squadra. Lo sport ha questo di bello: che tutto funziona avendo una squadra come cabina di regia. Gli sport di squadra assomigliano ad un’orchestra: ciascuno dà il meglio di sé per quanto gli compete sotto la sapiente direzione del maestro d’orchestra. O si gioca insieme, oppure si rischia di schiantare. È così che piccoli gruppi, capaci però di restare uniti, riescono a battere squadroni incapaci di collaborare assieme. C’è un proverbio d’Africa che dice che se una squadra di formiche si mette d’accordo è capace di spostare un elefante. Non funziona solamente nello sport questo»17. Funziona anche nella vita dei nostri ragazzi. 14 SALA R., La quarta enciclica, in «Note di Pastorale Giovanile» 55 (4/2021), p. 8. 15 FRANCESCO (con P. Bergonzi), Ibid. p. 2. 16 ZUPPI M., Ibid. 17 FRANCESCO (con P. Bergonzi), Ibid.
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