IL PRESIDENTE ALDO MORO NON ERA IN VIA FANI

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IL PRESIDENTE ALDO MORO NON ERA IN VIA FANI

IL PRESIDENTE ALDO MORO NON ERA IN VIA FANI
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articolo pubblicato la prima volta a marzo 2020

«Benché non sappia nulla né del modo né di quanto accaduto dopo il
mio prelevamento, è fuori discussione – mi è stato detto con tutta
chiarezza – che sono considerato un prigioniero politico…» E più avanti
continua, riferendosi a questo brano: «Soprattutto questa ragione di

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Stato nel mio caso significa, riprendendo lo spunto accennato innanzi
sulla mia attuale condizione, che io mi trovo sotto un dominio pieno e
incontrollato…»

Il Presidente Aldo Moro non fu rapito in via Fani, il 16 marzo 1978, alle ore
09.02, com’è raccontato da uomini dello Stato, da investigatori, magistrati,
politici, stampa e tivvù. Ce lo assicura lo stesso presidente Aldo Moro
nella sua lettera alla sua diletta moglie, Noretta. Lo fa col suo
inconfondibile stile. Vediamo come.
In via Fani furono rinvenuti 93 bossoli, 49 dei quali d’una sola arma, d’un tiratore mai
identificato, d’altissima perizia, peculiare alle forze speciali, «un gioiello di perfezione»,
secondo un testimone, intervistato da “Repubblica” il 18 marzo 1978.
93 bossoli, 44 dei quali sparati dai rimanenti sei brigatisti. A detta di Valerio Morucci,
«l’unica prova dell’azione era stata compiuta nella villa di Velletri». Ammesso che abbiano
sparato, impossibile che abbiano acquisito perizia da tiratori, neppure lontanamente
accostabile a quella del professionista. I brigatisti sono assassini che sparano alle spalle
di vittime inermi a brevissima distanza, niente di più.
Il presidente Aldo Moro, come si sa, sarebbe uscito indenne dalla tempesta di fuoco,
quindi rapito e trasportato sull’auto che l’avrebbe poi portato alla “prigione del popolo”. I
suoi assassini potevano permettersi un ostaggio ferito? No, perché sarebbe diventato un
problema logistico d’asperrima gestione.

Gli indizi
I suoi assassini potevano permettersi di uccidere, sia pure casualmente, il presidente
Aldo Moro? No, perché tutta la finzione successiva, ruotata intorno a una “trattativa” –
una turpe finzione – non sarebbe rimasta in piedi. Aldo Moro doveva dunque essere
rapito incolume. La sua incolumità, affinché fosse certa, impose di tenerlo lontano dalla
scena della strage.
Supponete di impugnare una pistola, mirando a un bersaglio posto a 2 metri e mezzo da
voi. Sparate dal fianco, senza mirare, confidando proprio sulla prossimità del bersaglio,
esattamente come fecero i sette assassini. Se la vostra pistola o la mitraglietta, nel
momento in cui sparate, devia di solo 4 centimetri, il colpo sul bersaglio è deviato di
mezzo metro. Quattro centimetri sono nulla per un tiratore non addestrato. Se poi i
centimetri fossero sei, solo due in più, perché il primo colpo vi ha spostato la mano, la
deviazione finale sarebbe di 75 centimetri. D’altronde anche il precisissimo tiratore
professionista – spara senza minima dispersione – nulla potrebbe se l’ostaggio, come
sarebbe naturale, si muovesse scompostamente e improvvisamente, ponendosi sulla
traiettoria dei suoi colpi. Ancor meno egli potrebbe se uno o più colpi fossero deviati a
causa di impatto su materiale duro o trapassando l’autista e il maresciallo Oreste
Leonardi, seduti sui sedili anteriori. Insomma, l’incolumità del presidente Aldo Moro non
poteva essere garantita a via Fani, a lume di logica. Questa, sinora, è tuttavia nient’altro
che una congettura.
L’obiezione più immediata: ci sono testimonianze d’un uomo trascinato verso l’auto che
poi di dilegua. Vi è anche la testimonianza secondo la quale il rapito viene trascinato dai
rapitori mentre reca con sé due borse. Questa testimonianza potrebbe essere più

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veritiera di quanto si possa presumere. Non di meno sull’attendibilità delle testimonianze
“oculari” vi è una montagna di studi a metterci in guardia. Nel caso in esame, vi sono
almeno due risposte possibili, una un po’ più perfida dell’altra. La prima. I brigatisti,
dovendo simulare la presenza di Moro (che come dimostreremo non c’era) prepararono
un figuro che ne fece le parti (e addirittura portava con sé le borse). I testimoni,
traumatizzati com’è naturale che fossero, scombussolati dalla strage, “videro” Aldo Moro
trasbordato sull’auto dei rapitori: era lui o un commediante, com’è più verosimile. La
seconda. Far dire a un testimone d’aver visto ciò che non ha visto non è impossibile.
Comunque sia, ai fini del nostro discorso questo dettaglio è secondario, perché Aldo
Moro non c’era, ce lo assicura egli stesso, col suo lessico, come vedremo.

La Prova – Che cosa dice Aldo Moro
Da tutte le lettere scritte da Aldo Moro, quelle fatteci ritrovare, risalta la totale assenza di
interesse per la sorte della scorta. Non una sillaba è spesa da Aldo Moro per le vittime
della strage. Tale dettaglio, utilizzato da eminenti esperti per garantire la scrittura sotto
dettatura delle lettere di Aldo Moro, svela invece un buco nella ricostruzione ufficiale –
mediata dai brigatisti postini – proprio gabellando la totale assenza di interesse per la
morte dei cinque sventurati. Chi ha conosciuto Aldo Moro, un cattolico profondamente
credente, d’assoluta bontà, compassionevole come un vero cattolico deve essere, sa che
tale distorsione non è accettabile. Aldo Moro non sapeva nulla della sorte della sua
scorta. Aldo Moro d’altronde non doveva essere informato dai suoi rapitori circa la sorte
della scorta, altrimenti mai avrebbe accettato di proporre la sua liberazione coi toni ben
noti.
Aldo Moro, riferendosi alla scorta, la descrisse solo “inadeguata“, nient’altro. Aveva
ragione di scrivere così. Egli era – lo ripetiamo – ignaro della sorte della scorta, sebbene
fosse del tutto consapevole che essi s’erano lasciati ingannare da chi lo aveva
“prelevato”.
Nel libro “Aldo Moro, Ultimi Scritti, 16 marzo – 9 maggio 1978”, a cura di Eugenio Tassini,
ed. Piemme, 1998, a pagina 13, nella lettera a Francesco Cossiga, diffusa il 29 marzo
1978, Aldo Moro scrive:
«Benché non sappia nulla né del modo né di quanto accaduto dopo il mio prelevamento,
è fuori discussione – mi è stato detto con tutta chiarezza – che sono considerato un
prigioniero politico…» E più avanti continua, riferendosi a questo brano: «Soprattutto
questa ragione di Stato nel mio caso significa, riprendendo lo spunto accennato innanzi
sulla mia attuale condizione, che io mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato…»
Aldo Moro scrive “prelevamento” solo in due lettere. Nelle altre scriverà sempre
“rapimento”. Egli non usava le parole a caso, tutt’altro, le distillava con estrema
precisione. Qui correla il “prelevamento” alla ragione di Stato, dunque allo Stato e al
“dominio pieno e incontrollato”.
A pagina 159 dello stesso libro, Aldo Moro fornisce la prova di quanto accaduto, con un
messaggio tanto inequivocabile quanto terribile, non di meno in una forma del tutto
morbida, com’è nel suo stile.

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Quando conclude la lunga lettera, scritta all’adorata moglie, nel giorno della Santa
Pasqua, il 27 marzo 1978, butta lì alcune raccomandazioni, apparentemente inoffensive:
«Ed ora alcune cose pratiche. Ho lasciato lo stipendio al solito posto. C’è da ritirare una
camicia in lavanderia.
Data la gravidanza e il misero stipendio del marito, aiuta un po’ Anna. Puoi prelevare per
questa necessità da qualche assegno firmato e non riscosso che Rana potrà aiutarti a
realizzare. Spero che, mancando io, Anna ti porti i fiori di giunchiglie per il giorno delle
nozze» e poi arriva il punto esplosivo «Sempre tramite Rana, bisognerebbe cercare di
raccogliere cinque borse che erano in macchina. Niente di politico ma tutte attività
correnti, rimaste a giacere nel corso della crisi. C’erano anche vari indumenti di viaggio».
Aldo Moro ci sta comunicando che l’auto su cui avrebbe viaggiato quel mattino conteneva
le sue cinque borse. Se egli fosse stato presente alla strage di via Fani egli avrebbe
saputo che almeno due borse furono prelevate dagli assassini (addirittura le avrebbe
trasportate egli stesso, secondo un testimone). D’altronde, da fine giurista, era
sicuramente consapevole che le borse, quali e quante fossero rimaste sulla scena del
delitto, sarebbero state sequestrate dalla magistratura. Non erano quindi recuperabili da

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un segretario sia pure fidato come Rana. Quanto scrive Aldo Moro fornisce la prova che
egli non ha viaggiato sull’auto poi bersagliata dai terroristi. Egli teneva inoltre con sé una
delle borse, da cui non si distaccava mai. Aldo Moro, menzionando “cinque borse”, dà
così il messaggio, criptico eppure chiaro a chi voglia intenderlo: non ho viaggiato con le
borse. Le domande da porsi sono quindi: con chi ha viaggiato il Presidente Aldo
Moro verso la prigione? Chi ha davvero rapito il Presidente Aldo Moro? Chi ha
ordinato alla scorta di transitare per via Fani? E dove lo ha condotto? Il Presidente
Aldo Moro non è in via Fani quando alla scorta è inflitto il colpo di grazia. La scorta
deve essere annientata affinché non si sappia che cos’è accaduto prima, al
Presidente Aldo Moro, dal momento in cui esce di casa.

Fin qui i fatti. Ora andiamo alle deduzioni.
Aldo Moro è stato allontanato dalla sua scorta. Questo può essere avvenuto solo per
opera d’un drappello di carabinieri o poliziotti (finti o veri non sta a noi dirlo) comandati da
un ufficiale, costui ben vero e ben noto al capo scorta, Oreste Leonardi, il quale mai
avrebbe abbandonato il suo Presidente in mani sconosciute se non per ordine di un
ufficiale a lui noto e direttamente sovrordinato nella linea di comando.
«Signor Presidente, mezz’ora fa Radio Città futura ha annunciato il suo rapimento»
rivolgendosi anche a Leonardi, il delinquente in uniforme avrebbe potuto aggiungere:
«Abbiamo quindi pensato a un piano diversivo. Lei, signor Presidente, potrebbe venire
con noi con auto blindata e scorta adeguata. Tu, Leonardi, fa’ il tragitto per via Fani.
All’incrocio fra via Fani e via Stresa troverai dei nostri in uniforme dell’Alitalia. Rallentate e
fatevi riconoscere. Anzi, per evitare equivoci, perché non so bene da quale reparto
arrivino, mettete le mitragliette nel portabagagli per evitare errori, caso mai le tirate fuori
dopo. Ci vediamo in Parlamento». Già in Parlamento, dove Aldo Moro pensava che la
sua scorta fosse giunta indenne e con le sue borse; invece inadeguata e gabbata dai
rapitori veri, quelli che lo avevano “prelevato”, com’egli scrive a Cossiga. Una scorta
inadeguata, dopo tutto, ha proprio ragione Aldo Moro di lamentarsene. Come dite?
Potevano telefonare al comando per sincerarsi che tutto fosse regolare? Non c’erano
cellulari e quel mattino la SIP ebbe un’avaria; tutte le comunicazioni telefoniche erano
bloccate. Perché altrimenti bloccarle? Il resto è noto? Non è detto. Aldo Moro non poteva
tornare vivo dalla prigionia, altrimenti avrebbe testimoniato, e sarebbero saltati tutti a
cominciare dai fautori della linea intransigente della DC e del PCI, oltre ai fedeli servitori
dello Stato prestatisi a questa porcheria. La trattativa aveva dunque un unico sbocco
possibile: la morte di Aldo Moro. I suoi assassini, i pochi individuati, fanno una vita agiata.
Il colpo di grazia agli uomini della scorta è una conferma.

Quel terribile brano della lettera alla signora Moro non lascia scampo e conviene
richiamarlo alla memoria: «Sempre tramite Rana, bisognerebbe cercare di raccogliere
cinque borse che erano in macchina. Niente di politico ma tutte attività correnti, rimaste
a giacere nel corso della crisi. C’erano anche vari indumenti di viaggio». E’ perentorio: “…
cinque borse che erano in macchina…” quando lo hanno “prelevato”. Il Presidente Aldo
Moro soppesava le virgole. Ripetiamolo: Aldo Moro, se fosse stato sull’auto che
recava le sue borse, avrebbe avuto perfetta consapevolezza che esse erano state
portate via dai suoi carcerieri oppure sequestrate dall’autorità giudiziaria. Non c’è
una terza possibilità. Non era dunque affare del segretario Rana, recuperare

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“cinque borse”.
Dov’è avvenuta la separazione di Aldo Moro dalla sua scorta? Non è affar mio stabilirlo.
Ho un’idea precisa, ma non mi perdo in congetture.
Non c’è dubbio quindi che le borse sono andate da una parte, insieme alla scorta, mentre
Aldo Moro è andato verso il carcere dei sicari, mentre immaginava la sua scorta
transitare indenne in via Fani, come da ordini da essa ricevuti.

Perché massacrare la scorta, se avevano già rapito Aldo Moro?
Ovvio, perché non testimoniassero l’antefatto. Per comprendere quanto sia importante
questo nodo si legga quanto riferisce il magistrato Gianfranco Donadio, il 4 marzo 2017,
alla Commissione parlamentare d’inchiesta.
Perché una forza oscura si muove per uccidere Aldo Moro quando sembra a un passo
dalla liberazione? Perché a buona parte delle autorità politiche e all’opinione pubblica si
dette a bere la commedia di via Fani. Dimostrazione di “geometrica potenza” definì il
massacro di via Fani, un Franco Piperno amico e sodale di Bettino Craxi. Se Aldo Moro
fosse tornato quindi vivo dalla prigionia, si sarebbe svelata la turpe commedia della
“geometrica potenza”, delle finte linee umanitarie, degli ordini ai dirigenti di partito dalle
centrali internazionali ed eseguiti fedelmente. Se Aldo Moro fosse tornato vivo i vertici dei
partiti italiani, tutti, e delle cancellerie internazionali avrebbero dovuto dare risposte che
non potevano e non volevano dare. In altre parole, Aldo Moro doveva morire e ciò fu
deciso a un livello superiore ai vertici dello Stato e ai partiti italiani, gran parte dei quali
consapevoli e codardi.
Ribadisco che non ho alcuna certezza sugli antefatti (quindi sui moventi), ma i fatti sin qui
appurati certificano una complicità internazionale che supera le contrapposizioni ufficiali
fra Nato e Patto di Varsavia.

Almeno dal 1973, anno della guerra dello Yom Kippur, preceduta dall’attentato a
Enrico Berlinguer a Sofia, il 3 ottobre, c’è un gioco delle parti dei servizi segreti italiani,
statunitensi, francesi, inglesi, tedeschi, israeliani e sovietici, insieme ai politici loro servi.
Chi ha tenuto segreto l’attentato a Berlinguer sino al 1991, poi non ha spiegato perché
quell’attentato fu compiuto. Il compromesso storico? Non diciamo sciocchezze. Alexander
Dubček prese solo qualche ceffone sebbene, solo cinque anni prima, ad agosto del 1968,
avesse messo sossopra la Cecoslovacchia e il Patto di Varsavia. Perché Berlinguer ha
taciuto? Che cosa aveva fatto per meritare la morte? Che cosa dette in cambio per
sopravvivere? Nessun approfondimento è mai stato fatto inoltre sulla presenza a Roma,
in via degli Orti d’Alibert, d’un capitano del GRU[1], messo alle costole di Aldo Moro. Il
figuro poi riapparirà nell’attentato a san Giovanni Paolo II. Ah, dimenticavo, costui abitava
in un appartamento di proprietà del Vaticano. E qui entra in ballo un altro servizio segreto,
quello vaticano, il quale evidentemente trovò non pochi ostacoli entro le Sacre Mura.
Via Caetani, dove ritrovarono il corpo di Aldo Moro, prendeva il nome dal palazzo nel
quale era di casa Igor Markevitch, direttore d’orchestra ucraino, in forza al Kgb. Durante
la Seconda guerra mondiale fu agente di collegamento coi servizi inglesi per conto dei
sovietici, si infiltrò nella Resistenza italiana e nel 1948 divenne cittadino italiano,
sposando la duchessa Topazia Caetani. Si imparentò pure con Hubert Howard, agente
britannico, questi avendo sposato Lelia Caetani, cugina di Topazia. Secondo Ferdinando
Imposimato, Markevitch fu “l’anfitrione di Firenze” durante il rapimento Moro.

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I rapporti fra Igor e BR sono in un rapporto del Ros Carabinieri, secondo i quali Giovanni
Senzani, ritenuto dagli americani vicino ai servizi francesi, presentò Markevitch a Mario
Moretti. Un rapporto del Sismi, nel 1980, descriveva Igor agente con un passato con MI6,
Kgb e Mossad.
Come si può capire, la vicenda di Aldo Moro è un maleodorante verminaio, nel quale io
mi limito ad additare una scollatura tecnica, un granello di sabbia di colore differente,
sfuggito per 40 anni. Vogliamo indagare sul passato? Difficile dire se sia ancora utile. La
storia è maestra di vita; non ha tuttavia scolari, aggiungeva Antonio Gramsci. Allora
dobbiamo tornare indietro per guardare avanti. Possiamo fare ipotesi, per quello che
valgono, puntando sempre su denaro e potere, colonne di tutti i peggiori misfatti.

Se consideriamo quanto è avvenuto dalla morte di Aldo Moro ai giorni correnti, con la
spinta oramai palese a sottomettere popoli ed economie al potere finanziario, di certo è
importante ricordare che Aldo Moro, aggirando i limiti imposti da Fondo Monetario
Internazionale (aumentando la massa di denaro circolante e finanziando gli investimenti)
sostenne l’emissione delle banconote da 500 Lire, serie “Mercurio alato”, stampate dallo
Stato italiano e non dalla Banca d’Italia.
Dopo il 16 marzo 1978, terminò l’emissione del biglietto di Stato che avrebbe finanziato il
Belpaese senza aumentare il debito pubblico. Oggi possiamo comprendere quanto
sgradite fossero tali manovre ai poteri “storti”.
Un’altra chiave di lettura la si può trovare nelle connessioni fra Stato, Pci, Dc e mafia,
cominciate nel 1977, per la costruzione della base missilistica di Comiso, un crogiolo di
corruzione, nel quale furono inghiottite le esistenze di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di Pio
La Torre.
Aldo Moro non avrebbe consentito quelle sconcezze né alla DC, né al Pci né ad altri.
L’ostilità per il compromesso storico di Mosca e di Henry Kissinger sono quindi importanti,
entrando tuttavia in un poliedro criminale che salda ulteriori complicità.
Ripeto, al di là dei fatti reali, non si può, è persino inutile cercare moventi.
Dico moventi, al plurale, perché – di questo possiamo essere certi – fu una consorteria
trasversale, interna ed esterna all’arco costituzionale e agli schieramenti NATO e Patto di
Varsavia, ad assicurare l’impunità ad assassini sedicenti comunisti, garantendo i
depistaggi fino ai giorni correnti e la vita agiata agli assassini.
Quanti si dicono indifferenti alla sorte di Aldo Moro a causa dei cedimenti alla Jugoslavia,
sono ingenerosi e non tengono conto dei fatti oggettivi. Quando si perde una guerra tutto

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finisce nelle mani del vincitore: economia, industria, servizi segreti, diplomazia,
magistratura e forze armate. Per recuperare la sovranità tanto Alcide De Gasperi quanto
Aldo Moro dovettero cedere dei pezzi. La Jugoslavia era divenuta importante per la
NATO in caso di guerra col Patto di Varsavia. Aldo Moro non era responsabile di questo e
neppure si può ascrivergli l’irresponsabile fuga dalle proprie responsabilità dell’alta
borghesia lombardo piemontese, dei coté romano, milanese, fiorentino, bolognese e
persino napoletano, A questi si sommò una porzione importante della Chiesa. Da qui
trasse forza il Pci, per poi perdere la propria identità. Oggi è evidente quanto
l’accattocomunismo sia trascolorato in accattoglobalismo.
Aldo Moro teneva botta agli attacchi ma doveva cedere in alcuni settori – la Jugoslavia,
per esempio – ben sapendo che al suo fianco operavano servi degli statunitensi, degli
inglesi, dei francesi, dei tedeschi e dei sovietici. Uno di costoro, poi arrivato ai vertici dello
Stato, servì almeno tre padroni.
D’altronde Aldo Moro non ebbe, su Osimo, alcun aiuto da parte di Enrico Berlinguer,
l’unico al quale non ha indirizzato alcuna lettera dalla prigionia, né menzionato nel
memoriale.
La storia non si fa coi se e i ma. Dobbiamo tuttavia chiederci se sarebbe stato così facile
sottomettere l’Italia – dal 1981, quando Beniamino Andreatta e Mario Monti privatizzarono
Banca d’Italia con una letterina – fino ai tragici giorni correnti, mentre l’Europa e il mondo
si prendono gioco di noi. La storia non si fa con i se e i ma. Proprio per questo motivo si
uccide chi può tradurre in realtà politiche e di fatto tanto i ”se” quanto i ”ma”. Lo si uccide
e se ne distrugge la memoria. Questo hanno fatto dal primo momento con Aldo Moro, lo
hanno diffamato per 40 anni e ancora insistono.
In conclusione Aldo Moro ha condiviso la sorte con Abraham Lincoln, coi fratelli Kennedy
e con tanti altri poveri disgraziati – penso alle vittime del terrorismo, a tutte le vittime
senza distinzione di schieramento – che hanno perso la vita per fare il bene comune o
perché troppo giovani e troppo ingenui per non farsi ingannare dagli squali della politica.
La sua scorta non poteva sopravvivergli, lasciando tracce che potevano portare sino ai
mandanti, quelli veri.
Solo per questo penso sia importante continuare a scavare sulla morte di Aldo Moro. Per
quanto mi riguarda, non ho alcun interesse personale, se non il ricordo dello sguardo di
Aldo Moro che incrociò casualmente il mio, ad agosto 1968, durante una sua visita a San
Giovanni Rotondo. Era un uomo profondamente buono e pulito, lo pensai allora, quando
non avevo alcuna simpatia per la DC, ne sono ancora più convinto oggi, grazie alle
lezioni che la vita mi ha dato. Dio abbracci Aldo Moro e aiuti l’Italia.

Perché non hanno ucciso subito Aldo Moro?
Per rispondere occorre partire da un dato di fatto tanto banale quanto vero: non lo hanno
ucciso subito. A meno che non si voglia affermare che i brigatisti, trovandoselo vivo
nonostante la tempesta di fuoco, hanno deciso di risparmiarlo e portarselo vivo. Questa
assurdità smonta qualsiasi obiezione, a prescindere che Aldo Moro fosse o non in via
Fani. Era quindi interesse strategico dei mandanti che Aldo Moro fosse rapito vivo. In altri
termini, il potere di vita o di morte su Aldo Moro era nelle mani di chi aveva ordinato il
rapimento (o il “prelevamento”, come disse Aldo Moro). Costoro hanno deciso di
inscenare la commedia della trattativa; tale era infatti in forza degli eventi sotto i nostri
occhi, cioé la strage della scorta. Da quel momento in avanti la sorte di Aldo Moro era

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segnata.
Può apparire banale? Non lo è affatto. Aldo Moro è, come scrive nella lettera a Cossiga:
«Sotto un dominio pieno e incontrollato». Potevano quindi ucciderlo subito, semmai fosse
rimasto vivo per errore (ma non è così, come abbiamo già scritto nei precedenti articoli),
potevano sparargli un colpo in testa in via Fani, oppure ucciderlo immediatamente dopo
essersi allontanati, se si fossero sentiti incalzati dallo stranissimo accorrere del capo della
Digos, giunto in via Fani mentre i rapitori si allontanavano. Un tempismo tanto singolare
quanto sospetto, anche per quanto accade immediatamente dopo l’arrivo del capo della
Digos, come certifica la relazione del magistrato Gianfranco Donadio, il 4 marzo 2017,
alla Commissione parlamentare d’inchiesta.
Possiamo scervellarci sulle ragioni di questa apparente incongruenza – perché non lo
hanno ucciso subito? – ma fin quando non agguanteremo uno di coloro che erano alla
testa dell’organizzazione – evento oramai alquanto improbabile – non lo sapremo mai
con certezza. Aggrappiamoci dunque ai documenti e alle logiche deduzioni da essi
scaturenti.
È lo stesso Aldo Moro, ancora una volta, a guidarci.
La prima lettera a Benigno Zaccagnini (pag. 15 op. cit.) è introdotta dal curatore del libro,
E. Tassini, con queste importanti osservazioni: «Scritta il 31 marzo. Recapitata il 4 aprile
a Nicola Rana e, in fotocopia, alle redazioni di La Repubblica, L’Avvenire e Il Settimanale.
Pubblicata dai giornali il 5 aprile. In via Monte Nevoso è stata trovata la minuta (con frasi
più forti e definitive. In particolare Moro scrive di essere “già condannato”) una prima
stesura.»
Non è dato sapere se questo testo sia stato rinvenuto in via Monte Nevoso 8, a Milano, il
1°ottobre 1978, per mano del Reparto speciale antiterrorismo dei Carabinieri, diretto dal
Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Poco dopo il generale Dalla Chiesa fu trasferito al
comando della Divisione Pastrengo e il suo reparto antiterrorismo fu disperso. Oppure il
testo, chiosato da Tassini, fu rinvenuto nel 1990, durante una ristrutturazione. Neppure
posso escludere che il testo fosse rinvenuto in entrambe le occasioni.
Sarebbe oltremodo grave se il testo, rinvenuto nel 1978, non fosse stato valorizzato a
dovere. È altrettanto grave che non sia stato valorizzato dopo il 1990. D’altronde non
possiamo sapere se tale testo originario qualcuno lo abbia reimmesso in copia in via
Monte Nevoso proprio affinché non scomparisse dagli atti. Non di meno, com’è evidente,
esso è stato insabbiato sinora. Perché?
Aldo Moro, persona di intelligenza superlativa, dimostra con pochissime parole d’avere
ben compreso che la sua sorte è segnata. Egli afferma di essere «già condannato». I
suoi carcerieri lo censurano, ovvio, altrimenti la commedia della trattativa si sbriciola.
Riflettiamo. Uno degli obiettivi della “trattativa” è certamente quello di individuare gli amici
fidati di Aldo Moro e metterli sulla lista nera, dalla quale espungerli a tempo e modo
opportuni, per smontare un sistema di potere e sostituirlo con un altro. Aldo Moro è ben
consapevole che è in atto la manovra per la sua successione politica. La lettera di Aldo
Moro è scritta il 31 marzo, è pubblicata il 5 aprile. Occhio alle date. Il giorno successivo
Giorgio Napolitano parte per gli Usa, ottenendo un visto negato da Henry Kissinger e dal
Dipartimento di Stato tre anni prima. Il mediatore con gli Usa per questo visto è Giulio
Andreotti. Non era un viaggio improvvisato. Leggete con attenzione: «Il “primo viaggio” di
un dirigente del Pci negli Stati Uniti era stato predisposto già da alcuni mesi – in risposta

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all’invito dell’Università di Princeton e di altre prestigiose Università e centri di ricerca –
sulla base di un programma di conferenze e seminari, e quindi di una precisa
caratterizzazione politico-culturale.» Scrive Giorgio Napolitano, su 30Giorni, diretto da
Giulio Andreotti. Era maggio del 2006, mentre la commissione Mitrokhin indagava sul
terrorismo, nonostante lo scarso entusiasmo di Silvio Berlusconi. La figura di Napolitano
e i suoi rapporti “trilaterali” con Mosca, Washington e di “fratellanza” con Silvio Berlusconi
sono ampiamente noti, grazie a Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara “I Segreti di
Napolitano”, Micromega online, 4 dic. 2013
Aldo Moro non sa del viaggio di Napolitano negli Usa. Ha tuttavia perfettamente chiare le
conseguenze che si delineano con la sua prossima morte. Scrive nella stessa lettera
(pag.16, op.cit.):
«Tener duro può apparire più appropriato, ma una qualche concessione è non solo equa,
ma anche politicamente utile. Come ho ricordato in questo modo civile si comportano
moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la D.C. che, nella sua
sensibilità ha il pregio di indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili. Se così
non sarà, l’avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno
sul partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza
sbocco.»
La caccia agli amici di Aldo Moro è intanto già cominciata. Il libro calunnioso di Camilla
Cederna, “Giovanni Leone La Carriera di un Presidente”, è finito di stampare dalla
editrice Feltrinelli il 16 marzo 1978, giorno della strage. Trent’anni dopo Giorgio
Napolitano chiederà scusa per quelle calunnie. Dimenticherà di ricordare che quelle
calunnie consentirono di espugnare e controllare il Quirinale sino ai giorni correnti.
Dimenticherà di ricordare che il Partito Comunista Italiano fu il più accanito calunniatore
di Giovanni Leone e di Aldo Moro, insieme al Partito Radicale.
Difficile negare, guardandoci intorno, quanto Aldo Moro abbia visto giusto sulla sua sorte
e sulle conseguenze: egli doveva morire, i suoi amici dovevano essere uccisi o dispersi,
la Democrazia Cristiana doveva sparire, l’Italia doveva sottomettersi. Gli ex comunisti e
gli accattocomunisti sono tutti accattoglobalisti. Il resto è noto.

[1] GRU (Glavnoe razvedyvatel’noe upravlenie – Direttorato dell’intelligence generale) è
tuttora il servizio segreto militare russo, la cui missione è rimuovere gli impedimenti che
ostacolano i piani militari strategici. Opera al di fuori dei confini della Russia (allora
dell’URSS) e ha totale indipendenza dal KGB. Fu creato da Lenin e ha ramificazioni e
residenture in tutto il mondo. Quella che a quel tempo “curava” l’Italia, era in Svizzera
nella villa d’un noto magnate italiano, padrone di pezzi importanti della stampa. Per
intenderci, Pietro Secchia e Sergei Antonov, il capo scalo della Balkan Air, mentore di Ali
Agca, rispondevano al GRU.

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