Il parere consultivo della Corte internazionale di giustizia sulla dichiarazione di indipendenza del Kosovo: qualche istruzione per l'uso
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Il parere consultivo della Corte internazionale di giustizia sulla dichiarazione di indipendenza del Kosovo: qualche istruzione per l’uso di Enrico Milano∗ Il 22 luglio 2010 la Corte internazionale di giustizia ha emanato il parere consultivo riguardante la dichiarazione di indipendenza del Kosovo del 17 febbraio 2008. Come noto, la richiesta era stata sottoposta alla Corte dall’Assemblea generale nell’ottobre 2008 a fronte del pressing diplomatico portato dalla Serbia in Assemblea per fare sì che la Corte potesse pronunciarsi su una delle principali questioni giuridiche legate alla controversia sullo status della ex provincia iugoslava. L’utilizzo delle “vie legali” era, secondo la strategia del governo serbo, la strada privilegiata per difendere la sovranità della Repubblica di Serbia sulla provincia. Il quesito posto dall’Assemblea con la risoluzione 63/3 era se la dichiarazione di indipendenza delle “autorità provvisorie di auto-governo” del Kosovo (Provisional Institutions of Self-Government - PISG) fosse conforme al diritto internazionale (testo inglese: “in accordance with international law”; testo francese: “conforme au droit international”). Il presente, breve commento descrive il parere della Corte nella parte inerente al diritto internazionale materiale e presenta alcuni spunti di analisi, peraltro non esaustivi rispetto ad un documento che si presta a molteplici chiavi di lettura. Esso tralascia di esaminare i profili giurisdizionali e relativi alla “appropriatezza” (propriety) di fornire una risposta al quesito dell’Assemblea (propriety che ha visto il voto contrario di cinque giudici e che meriterebbe un approfondimento a parte). Come anticipato da molti addetti ai lavori nei mesi precedenti, la Corte, nel decidere come interpretare il quesito e come impostare il proprio parere, doveva scegliere tra due strade alternative: una ampia - ma non priva di ostacoli dal punto di vista di un difficile bilanciamento tra valori talora contrapposti - in cui considerare la dichiarazione di indipendenza del Kosovo nel contesto del regime territoriale creato dalla risoluzione 1244 e delle norme sulla formazione degli Stati, compresi i principi dell’autodeterminazione e dell’integrità territoriale, ed il ruolo degli Stati terzi, anche attraverso il riconoscimento, nel promuovere l’emergere di nuove entità statali; l’altra, invero angusta, ma, a torto o a ragione, considerata più “sicura” da un punto di vista dei risvolti politici del parere, in cui focalizzarsi sulla legittimità dell’atto stricto sensu secondo i parametri della risoluzione 1244 e del diritto internazionale generale (indicata invece da Gran Bretagna, Stati Uniti e Kosovo stesso). La Corte ha deciso di intraprendere la seconda via svolgendo un tour de force argomentativo che rende la portata del parere ancor più angusta rispetto ai già esigui spazi disponibili in conseguenza di tale scelta (cfr. par. 10 dichiarazione Simma). Per quanto riguarda il significato e la portata da attribuire al quesito posto dall’Assemblea generale, la Corte stabilisce tre premesse che condizioneranno tutto il parere nello svolgimento successivo. Primo, secondo la Corte il quesito posto dall’Assemblea Generale è “narrow and specific”, richiedendo semplicemente un parere sulla conformità della dichiarazione di indipendenza del 17 febbraio 2008 al diritto internazionale. In tale prospettiva, ristretta e specifica, non è dunque necessario valutare le conseguenze giuridiche dell’atto, se il Kosovo sia diventato uno Stato, o decidere della validità e degli effetti degli atti di riconoscimento da parte di Stati terzi (par. 51). ∗ Ricercatore presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Verona. 1
Secondo, sempre a parere della Corte, il riferimento alle “Provisional Institutions of Self- Government” nel quesito sottoposto dall’Assemblea non la vincola nella determinazione della natura di quelle autorità e della qualità nella quale avevano operato nell’adozione dell’atto, restando essa (Corte) libera di effettuare una propria valutazione e determinazione al riguardo (paragrafi 52-54). Questa premessa diventa elemento fondante rispetto alla valutazione della dichiarazione di indipendenza secondo il quadro costituzionale UNMIK di cui parleremo più avanti. Infine (par. 56), come terza premessa, la Corte “prende le distanze” dal parere della Corte Suprema canadese sulla secessione del Quebec, presentato da molti Stati durante le udienze come il precedente di giurisprudenza più rilevante, precisando che la domanda posta alla Corte Suprema canadese riguardava l’esistenza di un diritto alla secessione, dovendo invece essa ricostruire l’eventuale esistenza di un divieto applicabile e, quindi, se la dichiarazione di indipendenza fosse stata adottata in violazione del diritto internazionale (non se tale dichiarazione fosse legittimata dal diritto internazionale). In questo modo, la Corte, pur avendo precedentemente dichiarato di non volere modificare il quesito ad essa sottoposto (par. 51), di fatto lo trasforma in maniera surrettizia, spostandosi dal piano della conformità al diritto internazionale, a quello della violazione. A nostro modo di vedere, tale “spostamento”, reso esplicito nel dispositivo del parere, non è affatto privo di conseguenze e risulta determinante nel rendere inadeguato l’espletamento della funzione consultiva da parte della Corte . La Corte innanzitutto si chiede se la dichiarazione di indipendenza violi il diritto internazionale generale. Riferendosi alla prassi più datata e a quella più recente, essa valuta che durante il periodo coloniale il diritto alla auto-determinazione aveva portato all’emergere di un “diritto all’indipendenza”, mentre per quanto riguarda i contesti extra coloniali nulla indicherebbe l’emergere di una regola di interdizione di tali atti (par. 79). Per quanto concerne invece la prassi del Consiglio di sicurezza di condanna di alcune dichiarazioni di indipendenza, come quella della Rodesia del Sud nel 1970 e di Cipro del Nord nel 1983, esse riguarderebbero determinazioni effettuate dal Consiglio nel contesto di violazioni del diritto internazionale di più ampia portata, in particolare violazioni di norme di ius cogens. Nel caso del Kosovo, la Corte sottolinea come tale condanna non sia intervenuta, oltre al fatto che tale prassi rivestirebbe un carattere di eccezionalità (par. 81). La Corte esamina anche l’incidenza del principio dell’integrità territoriale, definendolo, con specifico riferimento all’art. 2, par. 4 della Carta, alla Dichiarazione del 1970 sulle relazioni amichevoli tra Stati e all’Atto finale della Conferenza di Helsinki del 1975, come “an important part of the international legal order”, ma la cui portata si esaurirebbe all’ambito delle relazioni tra Stati (par. 80). Infine, la Corte menziona l’argomento della remedial secession avanzato da molti Stati nella procedura, valutando tuttavia che tale argomento riguarderebbe il diritto alla secessione e alla creazione di un nuovo Stato e, quindi, ai sensi delle premesse sopra illustrate, resterebbe al di fuori della portata “ristretta” del parere (paragrafi 82-83). In conclusione, secondo la Corte, non esisterebbe nessun divieto applicabile alla promulgazione di dichiarazioni di indipendenza, con la conseguenza chela dichiarazione del 17 febbraio 2008 non sarebbe in violazione del diritto internazionale generale. Ad una analisi preliminare, l’esercizio della Corte di valutare la dichiarazione di indipendenza dal punto di vista del diritto internazionale generale secondo una tale impostazione e sulla base delle premesse sopra esposte ci sembra futile, così come osservato dai giudici Bennouna (par. 40) e Skotnikov (par. 17) nelle rispettive opinioni dissidenti. Chiedersi nei termini generali e astratti sopra descritti se esista un divieto alla promulgazione di questi atti è, da un punto di vista della logica giuridica, equivalente a chiedersi se esista nel diritto internazionale una regola specifica che vieti la costruzione di muri. Ci pare evidente che una regola specifica che interdica le dichiarazioni di indipendenza non esista e si fa offesa all’ “intelligenza” dell’Assemblea generale pensare che la Corte dovesse sciogliere dei dubbi su questo punto. Il problema era invece se le 2
dichiarazioni di indipendenza, atti rispetto ai quali, in linea di principio, il diritto internazionale generale mantiene un atteggiamento agnostico, possano in talune circostanze costituire delle violazioni di norme di diritto internazionale, quali quelle relative ai principi di integrità territoriale, di auto-determinazione, di non-discriminazione, o quali quelle applicabili a regimi territoriali stabiliti da un atto di diritto internazionale: nello specifico, se la dichiarazione del 17 febbraio avesse violato una norma o più norme di diritto internazionale generale. Ma già porsi sul piano del principio dell’integrità territoriale avrebbe richiesto, oltre all’analisi generica della valenza di tale principio proposta dalla Corte (che perviene alla conclusione, alquanto discutibile ed inutilmente perentoria, secondo cui il principio si applicherebbe solamente alle relazioni tra Stati), una disamina di come la dichiarazione di indipendenza avesse inciso sull’integrità territoriale della Serbia, valutando, ad esempio, se essa costituisse un atto di secessione o, semplicemente, l’ultimo atto del lungo processo di smembramento della ex Repubblica Socialista Federale di Iugoslavia iniziato nel 1991, così come suggerito nel preambolo della dichiarazione. Una tale, però, che avrebbe riguardato anche il profilo della creazione dello Stato, la Corte se la era preclusa con la premessa adottata precedentemente, A maggior ragione, come esplicitamente affermato dalla stessa Corte, rimaneva fuori dalla portata della sua analisi il c.d. diritto alla remedial secession, intimamente connesso alla creazione dello Stato e rispetto al quale il bilanciamento avrebbe dovuto essere effettuato, sia in astratto, che in concreto, tra i due principi cardine dell’integrità territoriale e dell’auto- determinazione. Infine, la valutazione della prassi del Consiglio di sicurezza di dichiarare l’illegittimità di alcune dichiarazioni di indipendenza, in quanto legate a presunte violazioni gravi di norme di ius cogens, è poco convincente. In uno dei tre casi citati, quello di Cipro del Nord, la violazione del diritto internazionale, determinata dal Consiglio nel preambolo della risoluzione 541, riguardava un trattato costitutivo di un regime territoriale e costituzionale per l’isola di Cipro, il Trattato di Garanzia del 1960, non una norma di diritto imperativo. In un altro, la risoluzione 787 riguardante la Bosnia-Erzegovina, il Consiglio richiamava tutte le parti interessate al rigoroso rispetto dell’integrità territoriale della Bosnia e ammoniva che “any entitities unilaterally declared” non sarebbero state riconosciute: ammesso e non concesso che si possa parlare di “determinazione” preventiva di illiceità, la norma richiamata, il diritto all’integrità territoriale, non è parte del diritto imperativo. In conclusione, il profilo di violazione grave della norma di ius cogens, laddove accertato, può incidere sugli obblighi dei terzi ai sensi degli articoli 40 e 41 dell’Articolato della CDI sulla responsabilità degli Stati per illecito internazionale, ma non è condizione necessaria affinché una dichiarazione di indipendenza si ponga in contrasto al diritto internazionale. Il secondo e terzo parametro attraverso cui sindacare la compatibilità della dichiarazione di indipendenza al diritto internazionale vengono poi individuati nella risoluzione 1244, adottata dal Consiglio di sicurezza il 10 giugno 1999, e nel quadro costituzionale stabilito nel 2001 attraverso il regolamento UNMIK 2001/9. A proposito di quest’ultimo, la Corte, a nostro modo di vedere correttamente, stabilisce che il regolamento costituzionale del 2001 è una fonte derivata dalla risoluzione 1244 e, quindi, costituisce parte della disciplina del diritto internazionale sulla cui base “testare” l’atto (par. 88). Una ulteriore determinazione condivisibile riguarda l’interpretazione della risoluzione 1244 nella sua portata complessiva: secondo la Corte, la risoluzione stabilisce un regime transitorio in cui operano diversi attori internazionali, in cui la sovranità serba sulla provincia è stata “sospesa” ed in cui viene assicurato l’auto-governo della provincia pur nel mantenimento dell’integrità territoriale della Serbia (paragrafi 95-100). Ma la questione centrale su cui poggia il fulcro del parere della Corte è la seguente: l’identità dei soggetti che hanno dichiarato l’indipendenza, rispetto alla quale, già nella premessa sopra esposta, la Corte aveva dichiarato di non sentirsi vincolata dalla caratterizzazione dell’Assemblea generale. Secondo la Corte, i dichiaranti non avrebbero agito nella loro qualità di organo/i previsti dal quadro costituzionale, ma avrebbero operato come autorità costituenti un nuovo Stato, per l’appunto al di fuori di tale quadro costituzionale che un tale potere non prevedeva. 3
Questo risulterebbe evidente dal contesto storico-politico complessivo in cui l’atto veniva adottato (par. 104), dall’intenzione dei dichiaranti di porsi al di là e al di fuori del regolamento UNMIK creando uno Stato sovrano ed indipendente (par. 105), nonché da una serie di altri indizi tra cui: l’irrituale procedura seguita ed il coinvolgimento congiunto di assemblea, governo e presidenza (par. 107); il fatto che essi, attraverso la dichiarazione, avessero ribadito gli obblighi internazionali del Kosovo, prerogativa esclusiva del rappresentante speciale del Segretario generale ai sensi del regolamento UNMIK (par. 106); il mancato annullamento della dichiarazione da parte del rappresentante speciale, a differenza di altri atti adottati dall’assemblea kosovara nel periodo 2002- 2005 (par. 108). Di qui la conclusione che “the authors of the declaration of independence of 17 February 2008 did not act as one of the Provisional Institutions of Self-Government within the Constitutional Framework, but rather as persons who acted together in their capacity as representatives of the people of Kosovo outside the framework of interim administration” (par. 109). E’ questa determinazione dello status dei dichiaranti che conduce in un momento successivo la Corte a ritenere che la dichiarazione non è stata adottata dalle “autorità provvisorie di auto- governo” e che essa non era volta a produrre effetti, né li ha prodotti, nell’ordinamento giuridico in cui le autorità provvisorie operavano. In questa misura, la dichiarazione non avrebbe violato il quadro costituzionale (par. 121). Sotto questo profilo sembra condivisibile la critica espressa dal giudice Tomka (dichiarazione, par. 12), secondo cui l’argomentazione e conclusione della Corte non sarebbe altro che un “costrutto intellettuale” creato a posteriori. La Corte sostanzialmente arguisce che le autorità del Kosovo avrebbero agito nella funzione di “costituenti” al di fuori delle prerogative delle autorità provvisorie di auto-governo. In un parere concernente una valutazione di legalità di un atto, l’agire ultra vires assume la qualità di indizio volto a comprovare l’identità estranea al sistema di chi ha posto in essere tale atto. La Corte rifiuta invece di porsi nell’ottica ordinaria di valutazione degli atti ultra vires: quella dell’attribuzione. Di fatto, spostarsi dal piano dell’atto a quello dell’autore, è un escamotage per evitare di trattare il vero punto della questione, appunto l’attribuzione dell’atto ultra vires, senza argomenti convincenti per provare la manifesta assenza di nesso tra presunto soggetto (perlomeno presunto tale dall’Assemblea generale) e atto. A ben vedere, la norma applicabile per analogia, codificata all’art. 7 dell’Articolato della CDI sulla responsabilità degli Stati per illecito internazionale, prevede che l’atto ultra vires venga attribuito qualora l’organo agisca nell’esercizio della propria funzione (“acts in that capacity”) e che, quindi, la “qualità” in cui l’organo agisce debba essere tenuta in conto. Tuttavia, l’attribuzione degli atti ultra vires ha una sfera di applicazione ampia nel senso che, come espresso dalla stessa CDI (UN doc. A/56/10, p. 46), non opera solo laddove la condotta “is so removed from the scope of their official functions that it should be assimilated to that of private individuals.” Che l’atto in questione non fosse “so removed” dall’esercizio delle proprie funzioni pubbliche è testimoniato dal fatto che l’attribuzione dello stesso alle autorità provvisorie di auto-governo fosse stata effettuata dal Segretario generale (attribuzione privata dalla Corte di valore giuridico, a differenza dei “silenzi” del rappresentante speciale), dall’Assemblea generale e, in parte, dagli stessi Presidente e Primo Ministro del Kosovo, durante l’apertura della sessione di lavoro del parlamento. Con un bilanciamento tra fattori analogo a quello effettivamente elaborato nell’operazione di identificazione, la Corte avrebbe contribuito in maniera esplicita a diminuire la portata del meccanismo di attribuzione previsto dall’art. 7, di fatto escludendo dal suo ambito di applicazione gran parte degli atti ultra vires. Essendo questa via preclusa per ragioni di politica giudiziaria, essa ha optato per il “costrutto intellettuale” dell’identità degli autori: che essi siano stati descritti principalmente per quello che non sono, appunto le autorità provvisorie di auto-governo, con l’unica identificazione finale di “persons who acted together in their capacity as representatives of the people of Kosovo” mostra come l’operazione della Corte non sia stata tanto di “identificazione”, quanto piuttosto di “non attribuzione”. 4
Ma l’identificazione “residuale” della Corte ci porta a sottolineare un ulteriore punto. Secondo la Corte, è l’agire in qualità di rappresentanti del popolo del Kosovo ed il porre in essere un atto volto a creare uno Stato sovrano ed indipendente che permette ai dichiaranti di sottrarsi al diritto internazionale del quadro costituzionale UNMIK. Voilà, autodeterminazione del popolo kosovaro attraverso i propri rappresentanti (evidentemente, non comprendente i serbi del Kosovo, i cui rappresentanti non erano presenti) e intento di creazione dello Stato, diventano cruciali ai fini della conclusione che la dichiarazione non è contraria al regolamento UNMIK, in quanto “au-delà” del quadro costituzionale. La premessa, portata avanti nella parte sul diritto internazionale generale, di estromettere autodeterminazione, creazione dello Stato, conseguenze ed effetti della dichiarazione dal proprio sindacato continua ad operare. Effetti e conseguenze della dichiarazione, secondo un processo inverso, in cui, invero, percezioni soggettive delle autorità kosovare e percezioni della Corte si confondono, diventano, infatti, l’assioma su cui qualificare l’atto e da cui dedurne la conformità al diritto internazionale. E’ dunque vero che la Corte non esamina gli effetti e le conseguenze della dichiarazione, l’esercizio dell’autodeterminazione e la creazione dello Stato; li dà per dati acquisiti, da cui si forma il “nocciolo duro” del suo parere. L’effetto di legittimazione non potrebbe essere più potente. In ultimo, la Corte affronta la compatibilità della dichiarazione di indipendenza con la risoluzione 1244. Essa non rileva alcuna disposizione del testo della risoluzione che imponga un divieto di dichiarare unilateralmente l’indipendenza. Gli obblighi imposti sugli albanesi del Kosovo sono residuali e riguardano la cessazione delle ostilità e la cooperazione con il Tribunale penale internazionale per la ex Iugoslavia (par. 115). Inoltre, le questioni relative allo status finale sarebbero, secondo la Corte, impregiudicate dalla risoluzione, che, come già stabilito, disciplina il periodo transitorio: il riferimento al raggiungimento di un “political settlement” è inserito in un paragrafo relativo ai poteri e alle competenze dell’amministrazione civile internazionale ed il termine “political settlement” sarebbe suscettibile di diverse interpretazioni (par. 118). La Corte, quindi, conclude che anche rispetto alla risoluzione 1244 la dichiarazione non presenterebbe profili di non conformità (par. 119). La critica principale riguarda proprio le modalità usate dalla Corte nell’interpretazione della 1244. Da un lato, la Corte sembra dare prevalenza agli elementi testuali, non rilevando quindi un divieto di dichiarare unilateralmente l’indipendenza dopo un’analisi attenta della risoluzione stessa e delle risoluzioni precedenti; dall’altro, laddove il testo, in via peraltro residuale, ma, a nostro modo di vedere, decisivo, affronta la determinazione dello status finale, essa laconicamente conclude che il termine “political settlement is subject to various interpretations” (par. 118), non offrendo il minimo spunto per chiarirne il significato. Le dichiarazioni effettuate dagli Stati all’atto dell’approvazione della risoluzione, precedentemente valorizzate in astratto come strumento interpretativo tipico delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza (par. 94), non vengono prese in considerazione, per esempio, quella del Regno Unito che aveva dichiarato che la risoluzione 1244 si applicava “in full” agli albanesi del Kosovo (UN doc. S/PV.4011, cit. in opinione dissidente Skotnikov, par. 13); né vengono prese in considerazione le prassi successive degli organi rilevanti, in particolare il Segretario generale e l’UNMIK, e degli Stati membri del Consiglio di sicurezza (dichiarazione Tomka, paragrafi 27-30). Ancora una volta, la Corte si pone alla ricerca affannosa di qualche divieto espresso, senza sforzarsi di valutare la conformità complessiva della dichiarazione di indipendenza al testo, oggetto e scopo della risoluzione 1244. Infine, il dispositivo del parere, adottato con il voto contrario dei quattro giudici, Tomka, Skotnikov, Bennouna e Koroma e secondo cui “the declaration of indipendence adopted on 17 February 2008 did not violate international law”, ci porta a due ulteriori considerazioni. La riformulazione surrettizia della domanda posta dall’Assemblea diventa evidente nella risposta; così come l’inadeguatezza del parere rispetto alla richiesta dell’Assemblea generale. E’ la concezione di 5
legalità internazionale l’aspetto più “inquietante” (prendendo a prestito un’espressione usata dal giudice Simma nella propria dichiarazione) nel parere della Corte: dal 1927 ad oggi l’uomo è volato sulla Luna, ha imparato a comunicare audio-visivamente in maniera istantanea a decine di migliaia di chilometri di distanza, gli individui sono diventati detentori di diritti sul piano internazionale, il diritto internazionale ha assunto una valenza sempre più pubblicistica, ma, secondo la Corte, Anno 2010, vale ancora il vecchio adagio Lotus, per cui tutto ciò che non è espressamente proibito è, ipso facto, permesso. Valutare la conformità di un atto o di un fatto al diritto internazionale non equivale ad accertarne la legittimità esaminando diritti ed obblighi ad esso connessi, o esplicitamente, o in relazione a principi e norme ad esso rilevanti (così come avevamo inteso con i due precedenti pareri sul Muro e sulle Armi nucleari): per la Corte, significa semplicemente accertare l’esistenza di un divieto specifico e l’eventuale violazione dello stesso. In assenza di un divieto, anything goes. Non solo. La Corte ci dice anche che se un organo è destinatario di obblighi internazionali specifici, ma si pone nell’ottica di “andare oltre” l’ordinamento giuridico in cui si trova, suo malgrado, ad operare (“the Court considers that the authors of that declaration…set out to adopt a measure the significance and effects of which would lie outside that order”), non compie un atto ultra vires, da esaminare secondo le regole sulla responsabilità, ma si sottrae a quegli obblighi, mutando, addirittura, la natura e la funzione in cui opera. In altre parole, l’atto volitivo di agire al di fuori del sistema lo proietta fuori dallo stesso, mettendolo al riparo dalle conseguenze. Con il parere del 22 luglio 2010, i “volontaristi” del diritto internazionale, oltre a vedere insperatamente il principale organo giudiziario internazionale riaffermare il principio Lotus, hanno aggiunto un'altra freccia al proprio arco. 6
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