Il dolore osteoarticolare: esperienza quotidiana per oltre 5 milioni di italiani - MSD Italia
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Marco Matucci Cerinic Ordinario di Reumatologia, Università degli Studi di Firenze Direttore S.C. di Reumatologia, A.O.U. Careggi, Firenze Il dolore osteoarticolare: esperienza quotidiana per oltre 5 milioni di italiani Quali sono le più importanti patologie osteoarticolari e qual è attualmente la loro diffusione? Le patologie osteoarticolari, definite più comunemente malattie reumatiche o “reumatismi”, colpiscono il 10% circa della popolazione mondiale e si distinguono in forme infiammatorie e forme degenerative. Di solito le malattie reumatiche infiammatorie sono caratterizzate da un’evoluzione cronica che, se non trattata, può portare all’instaurarsi di danni irreversibili alle strutture articolari con grave disabilità e invalidità. In Italia sono almeno 5 milioni e mezzo le persone colpite da una forma osteoarticolare. Le patologie osteoarticolari più diffuse sono l’artrosi, l’artrite reumatoide, l’artrite psoriasica e la spondilite anchilosante. L’artrosi è la patologia osteoarticolare più frequente: ne soffre il 10% della popolazione generale di 60 anni e oltre. Almeno l’80% degli artrosici ha una limitazione funzionale di grado diverso, il 25% non può svolgere le attività quotidiane normali. L’artrosi è caratterizzata da una degenerazione del tessuto cartilagineo articolare. Sono colpiti un po’ tutti i distretti, ma in particolare quelli degli arti inferiori: ginocchia, anche, piedi, colonna vertebrale, mani. Il sintomo principale è il dolore articolare al quale segue la disabilità funzionale dell’arto. L’artrite reumatoide colpisce in Italia circa mezzo milione di persone, in prevalenza donne. Si tratta di una malattia autoimmune caratterizzata da un’infiammazione intra e periarticolare. La sintomatologia è tipicamente a carattere infiammatorio: gonfiore articolare, difficoltà nei movimenti e dolore. Sono colpite più frequentemente le mani e i piedi. È fondamentale diagnosticare precocemente questa malattia per rallentare la sua evoluzione ed evitare i danni: purtroppo ancora oggi la diagnosi è spesso tardiva. Più frequente dell’artrite reumatoide è l’artrite psoriasica che colpisce quasi l’1% della popolazione generale e comprende forme molto eterogenee. I distretti interessati dal processo infiammatorio sono la cute, le unghie e le articolazioni. Infine la spondilite anchilosante meno frequente, colpisce infatti tra lo 0,1 e lo 0,4% della popolazione mondiale, predilige il sesso maschile essendo tre volte superiore in questo rispetto al sesso femminile, ed è caratterizzata da un coinvolgimento della colonna vertebrale alla quale si associa un’artrite progressiva e molto dolorosa e l’infiammazione delle articolazioni sacroiliache. Tra le malattie osteoarticolari l’artrosi è quella più diffusa: in che misura il dolore, che è il sintomo principale di questa patologia, condiziona la vita dei pazienti impedendo loro di svolgere le normali attività quotidiane e limitandone le opportunità di lavoro? Il dolore è pesantissimo, inizia con un dolore sordo intermittente che alla fine si esprime con la perdita funzionale. All’origine della sintomatologia dolorosa vi è il processo degenerativo che porta nel tempo al cedimento della cartilagine e all’impossibilità di muovere l’articolazione. Il dolore, moltissimi studi lo dimostrano, può essere esso stesso invalidante e siccome tende a cronicizzare ha un impatto a volte devastante sulla vita lavorativa e di relazione del paziente.
Silvano Adami Ordinario di Reumatologia, Università degli Studi di Verona, Direttore U.O. di Reumatologia, A.O.U.I. Verona Etoricoxib: un “pain killer” che può diventare terapia d’elezione nel dolore Etoricoxib è utilizzato da quasi dieci anni per il trattamento del dolore osteoarticolare: quale è in generale il bilancio dell’uso di questo farmaco e quali sono le sue caratteristiche specifiche rispetto ad altri antinfiammatori? La storia di etoricoxib sintetizza un concetto di terapia iniziato verso i primi anni novanta, quando attraverso una serie di studi sperimentali si comprese che gli antinfiammatori non steroidei tradizionali, i FANS, agivano su due target enzimatici: Cox-1 (Cicloossigenasi-1) e Cox-2 (Cicloossigenasi-2). Conseguenza dell’inibizione di Cox-1 erano gli effetti collaterali che si manifestavano a carico dell’apparato gastroenterico (gastriti, ulcere, sanguinamenti, perforazioni). La necessità di trovare una soluzione al problema degli effetti gastrointestinali associati ai FANS condusse i ricercatori allo sviluppo di una nuova famiglia di molecole, chiamate appunto Coxib, capaci di bloccare l’enzima Cox-2 senza interferire troppo con Cox-1. La necessità di capire meglio i benefici di queste molecole rispetto ai FANS tradizionali nel trattamento dell’infiammazione e del dolore osteoarticolare e di conoscere in maniera più approfondita il livello di tollerabilità nella pratica clinica ha determinato negli anni un fiorire di trials clinici su importanti numeri di pazienti. Si è così resa disponibile come mai prima una grande quantità di studi e dati sulla tossicologia, farmacologia, maneggevolezza ed epidemiologia di questi farmaci. Questo ha permesso di rivalutare le avvertenze e le precauzioni d’uso. Etoricoxib si è inserito in questo scenario conquistando gradualmente il suo spazio, grazie agli studi che ne hanno dimostrato l’elevata selettività per Cox-2, l’irrilevante interferenza con Cox-1 e un buon profilo di safety a livello gastrico. Etoricoxib viene indicato a dosaggi inferiori eppure efficaci dal momento che la sua emivita nel sangue è molto lunga, superiore alle 24 ore. Le evidenze dimostrano che un’unica somministrazione quotidiana è sufficiente per raggiungere il goal antinfiammatorio e analgesico. Su queste basi etoricoxib è stato registrato prima per l’artrosi, poi per l’artrite reumatoide, la spondilite, anchilosante e l’artrite gottosa. Le indicazione terapeutiche di etoricoxib sono state ora estese al trattamento del dolore acuto post chirurgia dentale: quali sono le evidenze cliniche che supportano questa nuova indicazione? È la prima volta che viene condotto uno studio controllato sul dolore acuto, in questo caso quello conseguente a estrazione dentale, su un numero congruo di pazienti per capire l’efficacia e la sicurezza di un farmaco antinfiammatorio della famiglia dei coxib; l’efficacia di questo farmaco era già stabilita su base empirica nella pratica clinica. Adesso sappiamo che un’unica somministrazione di etoricoxib da 90 mg è in grado di controllare il dolore da estrazione dentale oltre le prime sei ore dall’assunzione della dose. Il dolore associato alla chirurgia dentale rappresenta un modello di dolore acuto standardizzato per la valutazione della potenza antalgica di un trattamento farmacologico Lo studio clinico ha permesso di definire meglio le indicazioni e le modalità di impiego di questo farmaco che oltre a svolgere un’azione antinfiammatoria è un ottimo antidolorifico. È auspicabile che etoricoxib possa diventare terapia d’elezione per il dolore acuto.
Cesare Bonezzi Consulente Unità di Terapia del Dolore, IRCCS Fondazione Salvatore Maugeri, Pavia Un giorno questo dolore non sarà necessario: misurarlo, comprenderlo, combatterlo Come viene misurato e controllato il dolore nelle situazioni in cui è coinvolto il terapista del dolore? La misura del dolore acuto si basa su una valutazione numerica che fa riferimento alla scala da 0 a 10: 0 rappresenta l'assenza di dolore e 10 il maggior dolore provato. La legge 38 del 15 marzo 2010 offre una precisa indicazione sulla necessità di registrare il dolore nella cartella clinica, di segnalare la terapia utilizzata per sedarlo e il risultato ottenuto, sempre in termini numerici. Per verificare se e quanto un trattamento antidolorifico è efficace si valuta la riduzione o meno del valore numerico che il paziente attribuisce al suo dolore prima e dopo il trattamento. La misurazione del dolore cronico invece si effettua su valutazioni più complesse, basate sull'impatto che il dolore ha nella vita quotidiana e sulle capacità funzionali, psicologiche e lavorative della persona. Riguardo al dolore acuto, la valutazione della sua intensità non ha un valore diagnostico ma serve solo a dare un’indicazione quantitativa della sofferenza per quel determinato paziente in quel preciso momento. Tuttavia la valutazione può essere utilizzata quale indicatore per scegliere in modo appropriato la dose di farmaco analgesico. In un certo senso, più forte è il dolore più potente dovrebbe essere il farmaco impiegato e più elevato il dosaggio. Nella pratica clinica non è affatto così. Un terapista del dolore prima di scegliere un farmaco deve capire i meccanismi patogenetici che sono all’origine del dolore, la dose viene definita basandosi sulle condizioni cliniche del paziente, sulla durata del trattamento previsto, sulle possibili interazioni farmacologiche. L'intensità può aiutare nella scelta della dose ma non è affatto determinante perché si corre il rischio, fuorviati dalla forte intensità del dolore dichiarata dal paziente, di prescrivere un elevato dosaggio con insorgenza di effetti collaterali devastanti che indurrebbero il soggetto a interrompere la terapia e persino la relazione terapeutica. Quali sono le aspettative dei pazienti rispetto alla gestione del dolore? Qual è la soglia di tollerabilità? Che importanza svolge il controllo del dolore ai fini del recupero del paziente? Il paziente in generale vorrebbe lasciare il dolore nello studio del medico e tornare a casa senza alcun disturbo. È questo il desiderio maggiore. Purtroppo non avviene. Il malato sovente è deluso per le continue visite spesso senza risultato, il medico non ha le armi per attuare il miracolo però in molti casi la situazione può essere affrontata e risolta con una visita accurata, con un piano terapeutico convincente e con l’instaurarsi di una relazione d'aiuto che molte volte va ben oltre i farmaci. Un’altra importante aspettativa del paziente è di essere creduto quando dice di sentire dolore. Infatti molte volte le cause del dolore non sono visibili o dimostrabili e il paziente ha paura di non essere creduto non potendo dimostrare quanto soffre. Questo spiega anche l'enorme numero di esami clinici e di indagini strumentali ai quali è sottoposto il paziente. Purtroppo nessun esame è in grado di rappresentare il dolore. Una visita accurata dell’area corporea interessata dal dolore può dare importanti indicazioni e permettere qualche volta di documentare il dolore e quindi di trattarlo al meglio. Oggi sappiamo che la cura adeguata del dolore riduce l'incidenza di complicanze e inoltre vi sono studi che dimostrano come il dolore mal curato diventi più intenso, più esteso e più difficilmente controllabile. Ma soprattutto è eticamente inaccettabile e senza alcuna utilità lasciare che il paziente soffra senza cercare di trattare il dolore con le opzioni terapeutiche di cui disponiamo.
Paolo Cherubino Presidente SIOT, Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia, Direttore U.O. Ortopedia e Traumatologia, A.O. Ospedale di Circolo e Fondazione Macchi, Varese La gestione del dolore in ortopedia Qual è la tipologia di dolore che impegna maggiormente l’ortopedico? Quali sono i tipi d’intervento più impegnativi dal punto di vista della sintomatologia dolorosa post-operatoria? Le tipologie di dolore che l’ortopedia si trova ad affrontare più frequentemente sono rappresentate dal dolore cronico associato a patologie degenerative osteoarticolari che colpiscono i pazienti anziani, e dal dolore acuto post-traumatico (distorsioni, contusioni, fratture) che può essere più o meno intenso a seconda della gravità del trauma (la frattura è molto dolorosa così come gli strappi muscolari). In generale il dolore acuto si riscontra più frequentemente nel soggetto giovane e adulto, di solito più attivo. Il dolore post-operatorio è discretamente frequente in ortopedia ma piuttosto che al tipo di intervento è strettamente correlato alla qualità di farmaci anestetici che vengono somministrati al paziente per l’intervento chirurgico. Un paziente operato in anestesia generale con chirurgia protesica del ginocchio, trattato nell’immediato post-operatorio con oppioidi può avere un dolore meno controllato rispetto a un altro paziente tenuto in una situazione di controllo del dolore con farmaci riforniti attraverso un catetere posizionato localmente con effetto sul nervo periferico. Almeno il 30% delle persone non risponde alla somministrazione dei farmaci oppioidi. Tutti gli interventi ortopedici maggiori danno dolore. Non è un problema di ossa quanto piuttosto delle strutture vicine, quali: capsule articolari, periostio, muscoli, fasce muscolari, ricche di terminazioni nervose; in particolare, i corpi vertebrali e i dischi intervertebrali nella parte anteriore della schiena e le articolazioni della parte posteriore sono ricchissimi di terminazioni nervose, per questo motivo una sciatica può bloccare per giorni con un dolore acutissimo. Con quali strategie terapeutiche viene gestito il dolore cronico osteoarticolare in ortopedia? Diverse sono le opzioni terapeutiche a disposizione dell’ortopedico nella gestione del dolore osteoarticolare. La scelta deve ovviamente essere basata sulle caratteristiche del paziente in termini del rischio di effetti collaterali (rischio gastrointestinale, rischio cardiovascolare, interazioni con terapie concomitanti ecc.) ma non può non tener conto anche della necessità di efficacia. I farmaci maggiormenti utilizzati per il trattamento del dolore osteoarticolare sono gli antiinfiammatori non steroidei (FANS). Il meccanismo d’azione, comune a tutti i FANS, consiste nell’inibizione della ciclossigenasi (COX). L’efficacia antinfiammatoria dei FANS dipende dall’inibizione della Cox-2, che catalizza la sintesi di PGE2, principale mediatore della flogosi. Tutte le molecole della classe, tuttavia, inibiscono anche la Cox-1, l’isoforma costitutiva che interviene nella biosintesi di prostanoidi protettivi per la mucosa gastrica. La selettività di inibizione per la COX 1 e la COX 2 differenzia i vari FANS. Etoricoxib è il coxib che presenta la massima selettività per la COX-2, ciò si traduce in un’elevata azione analgesica e antiinfiammatoria e buon profilo di tollerabilità gastrointestinale. La disponibilità di dati che ne documentano, oggi, la potenza antalgica anche su modelli di dolore acuto associato a chirurgia dentale, forniscono conferme importanti e rendono etoricoxib una opzione terapeutica di riferimento nel trattamento cronico del dolore e dell’infiammazione associati alle patologie ostearticolari più frequentemente gestite in ambito ortopedico.
Ovidio Brignoli Medico di Medicina Generale, Vice Presidente SIMG, Società Italiana di Medicina Generale Comprendere e trattare il dolore: il ruolo del medico di famiglia Il medico di famiglia è spesso il primo interlocutore dei pazienti in presenza di sintomatologia da dolore acuto: quale tipo di percorso diagnostico viene seguito per capirne la natura e le cause? La regola fondamentale è fare una diagnosi corretta. Si procede prima con un attento esame anamnestico che comprende la storia del paziente e la storia del suo dolore. Il medico lascia che il paziente racconti quello che sente, quindi inizia a porre una serie di domande: sede del dolore, durata, caratteristiche (se è un dolore che “batte”, “stringe”, che “brucia”, “lancinante”, etc…), modalità di comparsa (di notte, di giorno, col movimento, etc…), irradiazione, ossia dove si proietta il dolore, se il paziente ha assunto già farmaci o altro, e così via. Terminata questa sorta di intervista approfondita, si passa alla visita medica, sempre importante specialmente se il dolore è in sede addominale o toracica, che va fatta con un certo rigore partendo da un punto lontano dalla sede del dolore con una palpazione leggera poi più profonda fatta di manovre che possono anche evocare il sintomo doloroso. Anamnesi e visita definiscono il tipo di dolore: viscerale (quello di una peritonite), infiammatorio (estrazione dentale), centrale (lesione del sistema nervoso). Ogni tipologia di dolore prevede farmaci diversi. Gli antinfiammatori non steroidei, FANS e Coxib, sono elettivi per il dolore periferico, infiammatorio. Prima di prescrivere il farmaco, la dose e la durata del trattamento, si chiedono sempre diverse informazioni al paziente specialmente quando la terapia deve prolungarsi nel tempo. Per arrivare ad una diagnosi corretta non c’è bisogno di ricorrere ad esami di laboratorio, radiografici o di “imaging”. Un’ecografia, una Tac si chiedono solo in presenza di sospetti importanti. Nell’esperienza del medico di famiglia che importanza ha la possibilità di diversificare e ampliare l’armamentario terapeutico per il trattamento del dolore acuto e cronico? La possibilità di un armamentario farmacologico diversificato da utilizzare per i diversi tipi di dolore è fondamentale per i medici di medicina generale. Avere a disposizione un numero sempre maggiore di farmaci efficaci e ben tollerati è importantissimo, dal momento che su cento pazienti presenti in uno studio medico, il 50% chiede di essere visitato e curato per una sintomatologia dolorosa. Il dolore più frequente è il mal di schiena che tuttavia può avere origine da cause molto diverse tra loro. Negli ultimi anni sono stati compiuti grandi passi avanti sia nella comprensione dei meccanismi patogenetici che sottendono al sintomo dolore spesso vera e propria malattia, sia nell’acquisizione di molecole che permettono di agire sulla genesi stessa del dolore con efficacia e in sicurezza. In tal senso tra i FANS di recente introduzione si pone etoricoxib, molecola della quale si conosce molto bene il meccanismo d’azione marcatamente selettivo per COX-2, da oggi autorizzato anche per il trattamento a breve termine del dolore moderato associato alla chirurgia dentale
Gabriella Voltan Presidente ANMAR, Associazione Nazionale Malati Reumatici “Vivrai con dolore”: la ribellione dei pazienti reumatici contro una condanna evitabile Dal punto di vista del paziente che impatto ha sulla qualità di vita il dolore associato a una malattia osteoarticolare? Il dolore che deve sopportare la persona colpita da una malattia osteoarticolare è paragonabile a una gabbia che ti obbliga a fare i conti con la tua vita, con la quotidianità, con quello che puoi o non puoi fare più. Purtroppo il sintomo dolore nelle malattie osteoarticolari, sia autoimmuni che degenerative, è sempre presente, è una costante, a volte può essere più o meno acuto, ma non scompare mai e nel tempo rende davvero difficile la vita perché limita, talvolta in modo pesante, tutte le attività: da quella lavorativa e familiare a quella personale e sociale. In un’indagine condotta da ANMAR lo scorso anno, in media l’80% dei pazienti dichiarava di “convivere con il dolore cronico” (il 65% dei pazienti con meno di 40 anni, l’84% di quelli tra i 40 e i 60 anni e l’82% degli over 60). A questo aggiungiamo il sottotrattamento del dolore, infatti il 40% dei pazienti non usa farmaci specifici sebbene la media del dolore dichiarato secondo una scala numerica da 0 a 10 si posizioni a 6,2. Di solito il dolore cronicizza con picchi di riacutizzazione ricorrenti. Naturalmente con il dolore acuto che diventa cronico e non ti lascia mai non si vive bene. Il punto è che mentre la malattia osteoarticolare è curata, in anni recenti con ottimi farmaci, il dolore che l’accompagna nella maggior parte dei casi non viene considerato e nemmeno trattato. I farmaci che agiscono sull’infiammazione non sempre funzionano sul dolore a volte perché non sono adatti o non sufficienti come dosaggio. Nonostante la qualità di vita dei pazienti con malattie reumatiche sia molto cambiata, il dolore è radicato con i suoi picchi e la sua cronicizzazione e, a quanto pare, il solo modo per difendersi è mettere in atto qualche banale strategia salva-vita. Chi soffre di un dolore cronico come quello osteoarticolare non è per questo meno esposto al dolore acuto, legato sia alle fasi di riacutizzazione delle patologie osteoarticolari che ad altre cause: come ci si regola in questi casi? Come cambiano – se cambiano – le esigenze e le priorità? La sfera della quotidianità è quella che risente maggiormente in caso di dolore acuto, severo. A volte diventa impossibile afferrare un bicchiere, guidare, scrivere al computer, addirittura mangiare. Per le piccole azioni possono essere d’aiuto gli ausili articolari, ma sul posto di lavoro il problema diventa importante in quanto la concentrazione e la performance produttiva si riducono al punto che se lavorare in ufficio diventa difficile, fare un lavoro manuale diventa addirittura impossibile. Secondo un dato europeo metà di tutte le assenze dal lavoro sono attribuibili ai malati reumatici; in Italia, l’Osservatorio Sanità e Salute evidenzia che 287 mila pazienti reumatici in età lavorativa fanno perdere 1 miliardo 739 milioni di euro l’anno e le giornate lavorative perse sono 23 milioni. Spesso quando il dolore è troppo forte il paziente è costretto a dire basta, in certe situazioni “il rimedio” è quello di chiudersi in una stanza, isolarsi dal mondo, finché non passa, finché non si allenta lo stress e si recuperano le forze. La legge 38/10 negli ultimi tre anni ha riportato l’attenzione sul dolore, in particolare quello oncologico; adesso bisogna cominciare a trattare questo sintomo anche nelle malattie osteoarticolari dal momento che purtroppo i farmaci, in particolare i FANS che all’attività antiflogistica associano quella antalgica, non vengono somministrati a sufficienza. Un’indagine di ANMAR in pazienti con artrite reumatoide e spondiloartrite, ha rilevato che il paracetamolo è prescritto nell’11% dei pazienti, i cortisonici (che non hanno azione antalgica) nel 16% e i FANS solo nel 7% dei pazienti, quasi fosse questo dolore una condizione inevitabile della vita e della malattia osteoarticolare. Non è così, ovviamente. Bisogna parlare del dolore, farlo emergere, descriverlo e trovare soluzioni perché esso è parte integrante della malattia e al pari di questa deve essere curato.
___________________________________________________________________________ Il dolore: tipi, cause, costi La prima e più completa definizione del termine dolore è dell’International Association for the Study of Pain (IASP) che nel 1986 così descrive il problema: “un’esperienza sensoriale ed emotivamente spiacevole associata ad un effettivo o potenziale danno tissutale, o descritta come tale”. Il dolore, e la sofferenza che ne deriva, è una sensazione soggettiva alla quale ognuno risponde in maniera individuale, influenzata da molteplici fattori interni ed esterni. Come nasce il dolore: fisiopatologia Il dolore qualunque sia la tipologia, acuto o cronico, qualunque sia la durata, l’intensità e la causa, è il risultato di un medesimo meccanismo fisiopatologico: partenza di uno stimolo doloroso dai recettori per il dolore (ad esempio, i nocicettori); trasmissione del messaggio doloroso al midollo spinale fino al cervello (corteccia somatosensitiva); modulazione-elaborazione del messaggio; percezione del dolore. Il danno tessutale che è all’origine del dolore innesca una “cascata” di reazioni che portano alla produzione di sostanze infiammatorie (tra cui le prostaglandine), all’aumento dell’infiammazione e del dolore. Dolore acuto e dolore cronico Il dolore è definito acuto quando dura non più di 12 settimane; diventa cronico quando si protrae oltre il normale decorso della malattia o del tempo previsto di guarigione (per più di sei mesi) e può continuare all'infinito. Il dolore acuto più frequente è quello post-traumatico, post-chirurgico e quello che accompagna patologie acute (colica renale, cefalea, malattie osteoarticolari, frattura, appendicite, traumi di varia entità, etc…). Un volta cronico, da sintomo il dolore diventa malattia. Oltre a incidere negativamente sulla patologia di base, può determinare modificazioni affettive e comportamentali, può condurre a invalidità o disabilità, determinando un deterioramento della qualità di vita e limitando le performance lavorative. Il dolore cronico può essere di due tipi, che possono combinarsi insieme: nocicettivo, cioè associato a un danno tissutale (ferite, fratture, scottature, etc.) e neuropatico, che può essere causato da lesioni o disfunzioni dei sistemi preposti alla percezione o alla trasmissione della sensazione dolorosa, provocate da malattie che colpiscono il sistema nervoso centrale o periferico. Le cause più comuni del dolore muscolo-scheletrico sono i processi infiammatori articolari o periarticolari, le patologie articolari degenerative e le patologie muscolo- tendinee, oltre ai traumi e alle patologie ossee da frattura. Epidemiologia Pain in Europe, la più ampia indagine mai condotta sul dolore cronico che ha coinvolto oltre 46.000 persone, ha rilevato che 1 adulto su 5 in Europa soffre di dolore cronico da moderato a severo per un totale di 500 milioni di giornate
lavorative perse che ai governi costano all’incirca 34 miliardi di euro ogni anno; il 5% degli europei con dolore cronico severo è trattato in modo inadeguato o insufficiente. La Norvegia è il paese europeo a più alta incidenza di dolore (30%), 1 cittadino su tre soffre di dolore cronico, seguita dalla Polonia (27%) e dall’Italia dove 1 adulto su 4 ha un dolore cronico (26% della popolazione, circa 15 milioni di abitanti), il 50% di genere femminile. Il 26% dei pazienti attende più di 3 mesi prima di rivolgersi al medico, un quinto convive col dolore per oltre 20 anni. Costi Il costo totale del dolore cronico per i sistemi sanitari è di circa 300 miliardi di euro e rappresenta un carico notevole per l’economia e la società europea. Si stima che il 90% della spesa siano attribuibili a costi indiretti, quali la perdita di produttività e di reddito. La spesa per la “malattia dolore” rappresenta il 2% del PIL dei Paesi europei e corrisponde a: costo dei servizi sanitari e farmaceutici; assenteismo dal lavoro; perdita di reddito; assenza di produttività in ambito economico e domestico; aumento del carico finanziario per famigliari e il datore di lavoro; costi per il risarcimento ai lavoratori e assistenza3. Sociale. In Europa si perdono 34 miliardi di euro l’anno per assenteismo da dolore cronico. In Gran Bretagna il costo totale da mal di schiena è pari a 12,3 miliardi di sterline l’anno contro i 7,06 della cardiopatia ischemica. Il dolore acuto non controllato non solo implica costi maggiorati per degenze più lunghe ma anche perdita di produttività; evolve inoltre in una disabilità parziale o totale: le evidenze suggeriscono che un dolore acuto post-operatorio non gestito è causa di dolore cronico. KEY FACTS SUL DOLORE IN EUROPA E IN ITALIA DATI TRATTI DA The Painful Truth Survey Sono i dolori muscolari e ossei (5.5 ore alla settimana), l’artrite e il dolore di schiena (5.2 ore alla settimana) ad essere i principali responsabili della perdita di tempo produttivo. 1 un adulto su 5 soffre di dolore cronico, cioè 95 milioni di persone: una popolazione più numerosa dei diabetici, che sono 60 milioni. Le persone convivono con il dolore cronico mediamente per circa sette anni. Circa un quinto del campione ne ha sofferto per più di 20 anni. 4 persone su 10 affrontano notevoli difficoltà nella gestione dei figli a causa del dolore cronico e il 5% non è in grado di accudirli. L’impatto del dolore cronico implica una riduzione media del 24% delle entrate annuali delle famiglie. Solo il 29% dei pazienti con dolore cronico (la percentuale europea più bassa) ha incontrato medici che hanno avuto considerazione della loro condizione e hanno preso delle misure per contrastarla. 2
___________________________________________________________________________ Etoricoxib nel dolore acuto post operatorio da chirurgia dentale: prove di efficacia e sicurezza Spiccata selettività nei confronti di COX-2 (cicloossigenasi-2) enzima responsabile della cascata infiammatoria e del dolore, scarsa interferenza con la COX-1 (cicloossigenasi-1), alla quale si attribuisce l’effetto protettivo sulla mucosa gastrica, buon profilo di sicurezza gastrointestinale: grazie a queste caratteristiche confermate dagli studi clinici, etoricoxib (Arcoxia), già collaudato nel trattamento del dolore cronico delle più comuni patologie osteoarticolari, si candida a diventare terapia di riferimento anche nel trattamento del dolore acuto da chirurgia dentale. Etoricoxib è oggi l'unico coxib ad aver ottenuto l'estensione delle indicazioni terapeutiche al trattamento del dolore associato alla chirurgia dentale, che rappresenta un modello di dolore acuto particolarmente impattante e generalmente utilizzato per valutare la potenza antalgica di un farmaco. Efficacia nel dolore acuto post-chirurgia dentale Uno studio in doppio cieco placebo-controllato, condotto su 588 pazienti sottoposti ad estrazione di 2 o più terzi molari, di cui almeno 1 incluso, ha confrontato l’effetto analgesico di etoricoxib, alla dose di 90 e 120 mg in monosomministrazione giornaliera, con quello di ibuprofene, 600 mg ogni 6 ore, e di paracetamolo, 600 mg/codeina 60 mg (A/C) ogni 6 ore. I risultati hanno dimostrato che l’efficacia di etoricoxib nell’alleviare il dolore a distanza di 6 ore dalla somministrazione singola era superiore rispetto a paracetamolo/codeina 600/60 milligrammi e paragonabile a ibuprofene, 600 mg. Inoltre, le differenze dei punteggi della valutazione globale del paziente sul farmaco in studio sono risultate significativamente a favore di etoricoxib versus placebo (p
___________________________________________________________________________ Le patologie osteoarticolari Le malattie osteoarticolari più comunemente definite reumatiche, sono più di 100 e molto diverse tra loro. Colpiscono il 10% della popolazione mondiale ed evolvono verso la cronicità nel 20% dei casi. Il dolore, acuto e cronico, è il sintomo più frequente. Nell’ultimo decennio l’incidenza della malattie osteoarticolari è aumentata di quasi il 25%. In Europa sono 150 milioni le persone che soffrono di un problema reumatico di varia entità: il 40% dei pazienti è in età lavorativa e il costo globale annuo viene stimato in circa 240 miliardi di euro. Secondo i dati dell’indagine Fit for Work Europe, i disturbi osteoarticolari sono responsabili del 49,9% di tutte le assenze dal lavoro superiori ai tre giorni e del 60% dei casi di disabilità. L’Artrite Reumatoide (AR) da sola sarebbe responsabile di una riduzione della produttività pari a 40 giorni l’anno per singolo lavoratore. In Italia interessano più dell’1% della popolazione generale. Artrosi L’artrosi è la patologia articolare più diffusa, soprattutto tra gli anziani. Infatti se il 10% della popolazione mondiale sotto i 60 anni ha problemi attribuibili a questa artropatia, la percentuale sale in maniera esponenziale dopo i 75 anni di età, quando più o meno tutti accusano alterazioni artrosiche ad almeno un’articolazione. In Italia dei 5 milioni e mezzo di malati reumatici, quasi 4 milioni (il 69%) soffrono di artrosi, di questi l’80% lamenta una limitazione funzionale di diverso grado mentre il 25% non riesce a svolgere le principali attività quotidiane. L’artrosi è caratterizzata da una degenerazione delle cartilagini articolari. Le sedi più colpite sono ginocchia e anche, seguite da colonna vertebrale e dita di mani e piedi. Il danno alla cartilagine induce attrito tra i capi ossei articolari durante il movimento con conseguente dolore, sintomo principale della patologia artrosica associato talvolta a tumefazione e, nel tempo, a rigidità articolare con ridotta mobilità. Le cause dell’artrosi non sono note sebbene siano considerati fattori di rischio l’età avanzata, il genere femminile, l’anamnesi positiva per trauma articolare e/o microtraumi ripetuti, l’obesità, disordini del metabolismo o endocrinopatie, difetti congeniti o acquisiti, pregressa artropatia infiammatoria. La diagnosi di artrosi è clinica, basata cioè sui caratteristici segni e sintomi: calore e tumefazione dell’articolazione colpita, dolore che peggiora col movimento, rigidità mattutina o dopo un periodo di inattività, limitazione della mobilità articolare che nel tempo può andare incontro a “blocco” articolare. L’esame radiografico evidenzia restringimento degli spazi articolari e la formazione degli “speroni”, proliferazioni ossee a livello cervicale o lombare. La terapia ha come obiettivo la riduzione del dolore e dell’infiammazione, nonché il mantenimento della funzionalità articolare e il differimento dell’intervento chirurgico. L’approccio terapeutico prevede una combinazione di interventi non farmacologici (perdita di peso, esercizio fisico, strategie mirate antidolore e antirigidità) e farmacologici
(solitamente farmaci antinfiammatori non steroidei non selettivi, FANS o selettivi, inibitori della COX-2). Artrite Reumatoide (Ar) L’artrite reumatoide è una malattia autoimmune caratterizzata da un’infiammazione intra e periarticolare. Il sistema immunitario che costituisce la prima linea di difesa dell’organismo verso gli agenti patogeni (batteri, virus, parassiti), nel caso dell’artrite reumatoide riconosce come estranee o “non-self” le componenti dell’organismo e le attacca, provocando una progressiva distruzione tessutale oltre a un cronico stato infiammatorio. La sintomatologia conseguente all’infiammazione cronica è caratterizzata da dolore, dolenzia, tumefazione, fino alla deformazione con perdita della mobilità e funzionalità articolare. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ritiene che l’artrite reumatoide colpisca circa 165 milioni di persone nel mondo e prevede per l’Europa un aumento costante dei nuovi casi entro i prossimi 10 anni in conseguenza dell’invecchiamento della popolazione. In Italia le persone con artrite reumatoide sono circa 400 mila: questa malattia rappresenta circa il 6% del totale della frequenza delle patologie reumatiche. I costi a livello nazionale sono stimati tra i 3,3 miliardi e i 4 miliardi di euro all’anno. La malattia è da due a quattro volte più frequente nelle donne rispetto agli uomini, solitamente si manifesta tra la quarta e la sesta decade (35-55 anni) di vita anche se non è infrequente la sua comparsa in giovane età e nella popolazione pediatrica. L’artrite reumatoide è considerata una patologia poliarticolare e simmetrica in quanto interessa quasi sempre le medesime aree articolari di entrambi i lati del corpo. Mani, polsi, gomiti, ginocchia, caviglie e piedi sono le localizzazioni predilette dalle lesioni. Se non riconosciuta in fase precoce e curata adeguatamente, l’artrite reumatoide può esitare nel 70-80% dei casi in gravi deformità delle articolazioni: nel tempo può condurre a pesanti forme di disabilità, influenzando negativamente la vita quotidiana e rendendo di ardua esecuzione anche azioni semplici come vestirsi o fare il bagno. Una corretta diagnosi attualmente prevede oltre all’esame clinico esami radiografici e di laboratorio (test per il fattore reumatoide). Le terapie mirano ad attenuare la sintomatologia dolorosa e a ridurre l’infiammazione. Oltre alla somministrazione di corticosteroidi e farmaci antinfiammatori non steroidei non selettivi, FANS o selettivi, inibitori della COX-2, si ricorre ai cosiddetti Disease-Modifying AntiRheumatic Drugs, DMARDs, farmaci antireumatici che modificano l’evoluzione della malattia, come il metotrexato; più recentemente l’armamentario terapeutico si è arricchito dei farmaci “biologici”, anticorpi monoclonali che inibiscono l’azione del Fattore di Necrosi Tumorale alfa (Tumor Necrosis Factor alpha, TNF-), la proteina prodotta dal sistema immunitario che svolge un ruolo centrale nel processo infiammatorio associato alla malattia. Spondilite anchilosante La spondilite anchilosante, nota come “malattia di Bechterew”, rientra nel gruppo delle cosiddette spondiloartropatie (SA), patologie autoimmuni spesso associate a psoriasi o a Malattia Infiammatoria Cronica Intestinale (MICI). Si tratta di una malattia reumatica progressiva che determina l’insorgenza di artrite a carico della colonna vertebrale e delle articolazioni sacroiliache, che nei casi più gravi vanno incontro a grave rigidità, perdita della mobilità e deformità provocate dalla fusione delle articolazioni. Talvolta si associa un processo infiammatorio che colpisce le articolazioni periferiche, gli occhi, i polmoni e le valvole cardiache. 2
La prevalenza della spondilite anchilosante a livello mondiale oscilla tra 0,1-0,4%; in Europa è lievemente maggiore tra 0,2 e 1% della popolazione generale. Questa forma di artrite colpisce gli uomini in misura tre volte superiore rispetto alle donne, l’età media di insorgenza è attorno ai 25 anni. L’eziologia della malattia è sconosciuta. Tuttavia le spondiloartropatie (che colpiscono la colonna vertebrale) hanno in comune un marcatore genetico, l’antigene di istocompatibilità HLA-B27, riscontrato nel 70-90% dei pazienti. I sintomi caratteristici della spondilite anchilosante sono rappresentati dal dolore graduale e sempre più intenso e dalla rigidità, che si attenuano durante il giorno con il movimento o con una doccia calda e persistono in genere per più di tre mesi. Possono occorrere anche 10 anni per arrivare a una diagnosi corretta di spondilite anchilosante, in quanto questa patologia può essere scambiata per un mal di schiena e l’esame radiografico non evidenzia le alterazioni vertebrali o della pelvi se non dopo molto tempo dalla comparsa iniziale dei sintomi. Il test per l’individuazione dell’antigene HLA-B27 (presente nel 5% della popolazione) può essere utile nei casi di difficile diagnosi. Nel trattamento della spondilite anchilosante, oltre ai farmaci antinfiammatori non steroidei non selettivi, FANS o selettivi, inibitori della COX-2, e all’utilizzo dei farmaci “biologici” che inibiscono l’azione del Fattore di Necrosi Tumorale alfa (Tumor Necrosis Factor alpha, TNF-) la proteina sintetizzata dal sistema immunitario che ha un ruolo centrale nel processo infiammatorio associato alla patologia, ha un ruolo di primo piano la riabilitazione fisica che ha lo scopo di rinforzare la muscolatura della schiena e dell’addome, migliorare la postura e adottare tecniche respiratorie che ottimizzino la funzionalità polmonare. Artrite gottosa acuta L’artrite gottosa acuta è una delle condizioni dolorose più gravi note all’uomo. In Italia rappresenta all’incirca il 2% del totale della frequenza delle malattie reumatiche, è nove volte più frequente negli uomini rispetto alle donne che, pare, sarebbero protette dagli estrogeni fino alla menopausa quando le probabilità di un attacco gottoso aumentano notevolmente. La gotta è un’artropatia correlata ad una iperproduzione di acido urico o ad una sua ridotta escrezione urinaria. L’acido urico, prodotto finale dell’attività fisiologica cellulare, di norma viene eliminato attraverso i reni. Nella gotta acuta i suoi livelli sono elevati poiché l’acido urico satura il sangue e precipita nei tessuti sotto forma di cristalli aghiformi di urato. Quando i cristalli si depositano a livello delle articolazioni attivano le cellule dell’infiammazione (citochine) che innescano una reazione infiammatoria importante caratterizzata da dolore improvviso e intenso, tumefazione, calore e arrossamento dell’articolazione colpita. Di solito i primi attacchi gottosi si risolvono in pochi giorni mentre i successivi se non curati persistono per settimane. Un paziente può avere anche diversi attacchi all’anno. In almeno la metà dei casi il primo attacco si localizza all’alluce. Di norma l’attacco colpisce una sola articolazione, insorge di notte e scompare in una decina di giorni. Un trauma, un’infezione, l’abuso di alcolici o di alcuni farmaci, possono attivare la crisi acuta. Con il tempo alla sintomatologia acuta si associa una condizione di “gotta cronica” che evolve in un danno articolare progressivo e permanente. La diagnosi di artrite gottosa viene eseguita con un test che identifica la presenza di cristalli di acido urico nei tessuti. Nella gotta acuta si procede all’esame del liquido sinoviale ottenuto con un’artrocentesi o da materiale prelevato da noduli detti “tofi” (depositi sottocutanei di cristalli) o dal liquido di una borsite. Le radiografie 3
evidenziano di solito il danno osseo. L’obiettivo della terapia è alleviare il dolore acuto. Si utilizzano farmaci antinfiammatori non steroidei non selettivi, FANS o selettivi, inibitori della COX-2 e i corticosteroidi, mentre la colchicina, un alcaloide estratto dal Croco autunnale, può essere utilizzata solo se il paziente è strettamente monitorato. 4
___________________________________________________________________________ Arcoxia (etoricoxib): sicurezza e tollerabilità dal dolore cronico al dolore acuto Etoricoxib, molecola appartenente alla famiglia dei coxib, è un farmaco ad elevata azione antinfiammatoria e antalgica che agisce inibendo l’enzima cicloossigenasi-2 (COX-2) che catalizza la produzione di prostaglandine (PGE2) principali mediatori della flogosi e del dolore. Grazie alla sua spiccata azione analgesica e antinfiammatoria e al suo buon profilo di tollerabilità gastrointestinale etoricoxib si pone come di riferimento nel trattamento del dolore e dell'infiammazione associata alle più comuni patologie osteoarticolari. Etoricoxib si differenzia dai FANS tradizionali per la spiccata selettività nei confronti della COX-2 e per la trascurabile interferenza con un altro enzima, la cicloossigenasi-1 (COX-1) che ha un effetto protettivo sulla mucosa gastrica. Una singola dose giornaliera di etoricoxib determina un rapido sollievo dal dolore che comincia già in meno di mezz’ora dalla somministrazione e dura fino a 24 ore. Il rapido e prolungato sollievo dal dolore di etoricoxib può essere spiegato dalle caratteristiche farmacologiche uniche. Etoricoxib viene assorbito rapidamente e completamente nell’organismo ed ha un’emivita delle più lunghe (l’emivita è il periodo di tempo richiesto affinché la concentrazione del farmaco nell’organismo venga ridotta della metà rispetto alla sua concentrazione iniziale). Etoricoxib è approvato da anni in tutti i paesi europei per il trattamento del dolore cronico da artrosi (cp. 30-60 mg), artrite reumatoide (cp. 90 mg), spondilite anchilosante (cp. 90 mg) e per il dolore acuto dell’artrite gottosa (cp. 120 mg per un massimo di otto giorni di trattamento). È disponibile in compresse che ne garantiscono una pratica monosomministrazione giornaliera. La comprovata efficacia antinfiammatoria e antalgica di etoricoxib nelle patologie osteoarticolari più diffuse e l’elevato profilo di sicurezza gastrointestinale dimostrato in numerosi studi, hanno contribuito all’estensione delle indicazioni terapeutiche al trattamento del dolore associato alla chirurgia dentale, che rappresenta un modello di dolore acuto particolarmente impattante e generalmente utilizzato per valutare la potenza antalgica di un farmaco. Etoricoxib è a oggi l’unico coxib ad aver ottenuto l’estensione delle indicazioni al dolore acuto. Profilo di efficacia Osteoartrosi In uno studio clinico, etoricoxib 60 mg una volta al giorno ha determinato un sollievo dal dolore paragonabile a quello ottenuto con un elevato dosaggio di diclofenac (50 mg tre volte al giorno) e superiore al FANS tradizionale dopo quattro ore dall’assunzione della prima dose di farmaco (50 mg). Artrite reumatoide In uno studio clinico, etoricoxib 90 mg una volta al giorno ha determinato un significativo sollievo dal dolore simile a quello ottenuto con una dose elevata del FANS tradizionale naprossene (500 mg due volte al giorno).
Artrite gottosa acuta In due studi clinici, etoricoxib 120 mg una volta al giorno (per un periodo di trattamento di otto giorni), ha determinato un sollievo dal dolore di uguale grado rispetto a quello ottenuto con una dose elevata di indometacina (50 mg tre volte al giorno), un FANS tradizionale considerato la terapia standard in questa patologia. Il sollievo dal dolore è stato osservato già quattro ore dopo l’inizio del trattamento. Spondilite anchilosante In uno studio clinico, etoricoxib 90 mg una volta al giorno ha mostrato di fornire miglioramenti significativi sul dolore a livello della colonna vertebrale, sull‘infiammazione, sulla rigidità e sulla funzionalità. Etoricoxib 90 mg ha mostrato di essere significativamente più efficace del massimo dosaggio raccomandato per l'uso nel lungo termine di naprossene (500 mg due volte al giorno) (p
___________________________________________________________________________ MSD Primary Care Leader nelle malattie osteoarticolari Le artropatie sono patologie invalidanti al mondo che causano danni permanenti e disabilità. Da più di sessanta anni i prodotti MSD Primary Care hanno aiutato milioni di persone a condurre una vita più sana e indipendente. Fin dagli anni Trenta abbiamo sviluppato terapie all'avanguardia: dal primo corticosteroide agli antinfiammatori, fino ad arrivare ai farmaci non steroidei di ultima generazione. In tutti questi anni siamo riusciti a mettere a punto terapie per la gestione del dolore sia nelle malattie croniche che in acuto. L’attenzione di MSD Primary Care ai bisogni dei pazienti ha consentito di sviluppare molecole più efficaci contro il dolore, oltre che di più facile assunzione grazie alla monosomministrazione giornaliera. L’altro importante filone dell’impegno di MSD Primary Care nella lotta contro le malattie osteoarticolari è quello dell’osteoporosi, una malattia che colpisce oltre 200 milioni di donne nel mondo. La scoperta nei laboratori MSD del primo farmaco appartenente alla classe dei bisfosfonati ha coronato un importante progetto di ricerca. Per rispondere alle esigenze dei pazienti, MSD Primary Care ha sviluppato un farmaco di comprovata efficacia in grado di ridurre sensibilmente il rischio di fratture vertebrali e dell'anca nei pazienti affetti da osteoporosi, una patologia che, se trascurata, può determinare conseguenze drammaticamente più serie rispetto a una forma tumorale diagnosticata e presa per tempo. La ricerca MSD si è poi indirizzata verso la messa a punto di farmaco per il trattamento dell’osteoporosi postmenopausale nei pazienti che non sono in terapia con integratori di vitamina D e che sono a rischio di insufficienza di vitamina: quindi un unica compressa che contenesse alendronato e colecalciferolo (vitamina D3). Sono poi nate formulazioni in grado di facilitare l'aderenza alla terapia come per esempio la monosomministrazione settimanale particolarmente utile per questa tipologia di pazienti anziani, spesso costretti ad assumere più di un farmaco. Oggi MSD Primary Care è in grado di offrire al medico e al paziente soluzioni complementari e integrate nella gestione delle malattie osteoarticolari. La ricerca MSD va avanti investigando nuove promettenti molecole e anche in futuro saremo in grado di fornire al medico soluzioni terapeutiche innovative.
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