I vaccini anti-COVID: perché ci attende un futuro pieno di incognite

Pagina creata da Emanuele Colella
 
CONTINUA A LEGGERE
I vaccini anti-COVID: perché ci attende un futuro pieno di incognite
I vaccini anti-COVID: perché
ci attende un futuro pieno di
incognite
written by Mario Menichella | 10 Marzo 2021
Essendo il comunicatore scientifico l’interfaccia, il trait
d’union, fra gli scienziati e il mondo politico, la
divulgazione scientifica ha fra i suoi compiti principali
quello – assai elevato ma spesso disatteso – di informare la
classica “casalinga di Voghera” e, soprattutto, il politico di
turno di quel che davvero si pensa nel mondo internazionale
della ricerca su temi di attualità, affinché i singoli
individui, ma principalmente i decisori politici, possano
adottare a ragion veduta misure e comportamenti quanto più
consoni e lungimiranti possibile, non limitandosi ad
“inseguire gli eventi” come è finora accaduto nella gestione
italiana della pandemia di COVID-19. Perché stanno nascendo
nuove e preoccupanti varianti del virus SARS-CoV-2? Quali sono
i rischi conseguenti per una campagna multi-vaccinale ed, a
cascata, per la nostra società sempre più stremata dal punto
di vista economico e sociale? Quali sono gli scenari futuri
che dobbiamo aspettarci nel caso migliore e in quello
peggiore? Questo articolo cerca di rispondere in modo chiaro e
documentato a tutte queste domande, o quanto meno di fornire
al lettore gli elementi fattuali e gli strumenti culturali
affinché possa arrivare da solo a una facile risposta.

Se non venissero usati vaccini per cercare di indurre
un’immunità protettiva, la pandemia di COVID-19 – secondo i
maggiori esperti mondiali – si attenuerebbe lentamente nel
tempo fino a diventare una malattia endemica, come
l’influenza. Quest’ultima famiglia di virus ha mostrato lo
stesso andamento almeno quattro volte negli ultimi 100 anni,
così come i coronavirus stagionali. Ma nonostante la maggior
parte dei vaccini anti-COVID provochino una reazione
I vaccini anti-COVID: perché ci attende un futuro pieno di incognite
immunitaria molto più forte dell’infezione naturale con il
virus, senza i vaccini anti-COVID e senza un piano di
prevenzione e cura domiciliare precoce vi sarebbero nel
frattempo (cioè fino alla svilupparsi di un’immunità naturale
nella popolazione) molti morti in poco tempo fra gli over 70
e/o si sarebbe costretti, in Paesi come l’Italia che non sono
stati in grado di implementare alcuna misura alternativa, a
frequenti lockdown per non saturare terapie intensive e
ospedali.

          Immagine ottenuta mediante microscopio
          elettronico a trasmissione (MET) di
          particelle del virus SARS-CoV-2 (in
          rosso), isolate da un paziente affetto da
          COVID-19, mentre attaccano le cellule del
          tessuto polmonare circostante. (fonte:
          NIAID Integrated Research Facility in Fort
          Detrick, Maryland).

Ora, sebbene la pressione di selezione operi raramente durante
una pandemia, poiché l’infezione di solito si risolve
rapidamente (anche prima che la produzione di anticorpi sia
completa), durante la fase endemica la situazione è diversa,
poiché la presenza di anticorpi in individui già guariti e in
persone che ricevono un’immunità passiva sotto forma di plasma
convalescente, o anticorpi monoclonali terapeutici, esercita
I vaccini anti-COVID: perché ci attende un futuro pieno di incognite
una pressione selettiva sul virus. Ciò determinerà quindi la
selezione di varianti virali con la capacità di eludere questi
anticorpi. Negli individui, nel tempo possono emergere diverse
varianti dello stesso virus, dando origine a quasi-specie che
possono soppiantare le versioni preesistenti [1].

I vaccini tentano di contrastare questo problema, ma possono
introdurre anch’essi una pressione selettiva. L’impiego di
vaccini, dunque, non è neutrale rispetto a un virus, ma in
generale ne può influenzare l’evoluzione, come del resto
possono farlo anche altri tipi di misure di sanità pubblica.
Ciò può portare all’emergere di mutazioni nel genoma virale,
per cui il ceppo endemico può eludere la risposta immunitaria
provocata da ceppi precedenti dello stesso virus, complicando
potenzialmente la vita sia ai ricercatori (che devono
monitorare l’efficacia dei vaccini ed eventualmente adattarli
alle nuove varianti) sia alle persone (cui potrebbero essere
date nei prossimi mesi o anni “terze” dosi e forse anche
“quarte” o “quinte”).

L’importanza della “teoria evolutiva della virulenza” nel
controllo delle epidemie

L’opinione che la maggior parte dei medici e degli autori di
testi di medicina aveva, fino a non molti anni fa,
sull’evoluzione della “virulenza” – cioè, in pratica, del
grado di aggressività per l’ospite umano – di un agente
patogeno (virus, batterio o altro parassita), era che, quando
la nostra specie e il parassita coevolvono per un lungo
periodo di tempo, quest’ultimo tende a diventare meno
virulento, evolvendo in definitiva verso una forma più benigna
per l’uomo. Quest’idea era peraltro supportata da esempi
famosi come quello del virus della mixomatosi, in cui un
“nuovo” virus introdotto dall’uomo fra i conigli australiani
si era evoluto, nel giro di pochi anni, in un germe assai meno
virulento [2].

Sin dalla fine degli anni Settanta, tuttavia, alcuni biologi
I vaccini anti-COVID: perché ci attende un futuro pieno di incognite
evoluzionisti, tra cui il prof. Paul W. Ewald dell’Università
di Louisville (USA), hanno proposto un modo completamente
nuovo di vedere le cose, che ha permesso di giungere a una
vera e propria “teoria evolutiva della virulenza”, ben
illustrata dallo stesso Ewald nel suo bel libro Evolution of
Infectious Disease [3], che ebbi modo di studiare poco dopo la
sua pubblicazione, quasi 25 anni fa. Secondo questi
scienziati, la coevoluzione tra un agente patogeno e l’ospite
umano – e, più in generale tra un parassita e una specie
ospite – non evolve necessariamente verso una coesistenza
benigna, bensì può rendere il germe più o meno virulento.

     Il biologo evolutivo Paul Ewald e il suo libro in
     cui illustra la “teoria evolutiva della virulenza”.

Difatti, secondo la teoria evolutiva della virulenza, che ha
reso ormai superata la vecchia teoria dei medici (basata
sull’idea che i parassiti arrecanti poco o nessun danno ai
loro ospiti hanno, come specie, la massima probabilità di
sopravvivere sul lungo termine: essi prosperano – si pensava –
perché anche gli organismi loro ospiti prosperano, per cui la
selezione naturale deve favorirne una minore virulenza), in
realtà la selezione naturale premia i parassiti che hanno la
massima probabilità di sopravvivere sul lungo termine non come
specie, bensì come singoli individui, secondo una visione
I vaccini anti-COVID: perché ci attende un futuro pieno di incognite
darwiniana dell’evoluzione applicabile perfettamente non solo
agli animali e alle piante ma anche ai microrganismi (e di cui
il recente sviluppo della resistenza dei batteri agli
antibiotici non è altro che l’ennesima conferma) [28].

Ma è proprio questo il punto, secondo gli evoluzionisti. Un
patogeno resta innocuo o poco virulento finché le probabilità
di contagio sono basse. Se però quel parassita “scopre” che
passare da un individuo all’altro è diventato facile (come
avvenne ad es. all’influenza “Spagnola” durante la Prima
guerra mondiale, quando l’infezione poteva trasmettersi
facilmente fra i soldati nelle trincee), allora può avere
tutto l’interesse a riprodursi – e quindi a diffondersi – più
rapidamente, anche a costo di uccidere il suo ospite.
Viceversa, se nel caso di un patogeno altamente virulento il
contagio di altre persone diventa per qualche ragione più
difficoltoso, il germe avrà interesse a diventare meno
virulento, per permettere all’ospite di restare attivo e
assicurare al parassita la possibilità di entrare in contatto
con altri potenziali ospiti.

Pertanto, la virulenza di un agente patogeno può diminuire o
aumentare nel tempo, a seconda di quale opzione sia più
vantaggiosa per i suoi geni, e ciò dipende dalla complessa
influenza e interazione reciproca di vari: (1) fattori
biologici, come la modalità e capacità di trasmissione del
parassita, la sua capacità di sopravvivere per lunghi periodi
di tempo al di fuori di un organismo ospite e la resistenza
opposta dal sistema immunitario dell’ospite stesso; (2)
fattori sociali, quali la densità di popolazione di una
comunità umana, l’ambiente di vita e il comportamento delle
persone (quest’ultimo, in particolare, determina la via e il
momento della trasmissione del patogeno tra gli individui)
[3].

Più della modalità di trasmissione e degli altri fattori
biologici, comunque, è il comportamento dell’uomo a giocare,
insieme agli altri fattori sociali, un ruolo fondamentale
I vaccini anti-COVID: perché ci attende un futuro pieno di incognite
nell’evoluzione della virulenza di un agente patogeno che
affligga la nostra specie. Certe scelte comportamentali delle
singole persone nella vita di tutti i giorni, e quelle
collettive in tema di sanità pubblica, oltre a preservare
direttamente i singoli individui dal contrarre una determinata
infezione, hanno un effetto meno immediato, ma fondamentale,
nel ridurre il grado di virulenza del patogeno associato. In
questo senso, il distanziamento sociale ed i lockdown con il
COVID hanno avuto un’utilità accessoria: tenere sotto
controllo la virulenza.

La letteratura medica offre ampie prove a favore di tali
effetti, prodotti per lo più ostacolando la trasmissione degli
agenti patogeni per via “culturale”: cioè, nel caso di molte
malattie batteriche, informando sulla necessità di migliorare
le condizioni igieniche (personali, delle fonti idriche,
ospedaliere, eccetera); nel caso dell’AIDS, spingendo i
soggetti delle categorie a rischio a usare siringhe non
contaminate e ad adottare pratiche sessuali sicure (uso di
preservativi, diminuzione della promiscuità e dei
comportamenti ad alto rischio), e così via. Non è un caso,
secondo Ewald, che del virus HIV si sia prodotta, in Africa,
una variante molto più virulenta di quella che circola in
Europa. [3]

L’applicazione sistematica alla medicina dell’approccio
darwiniano alla virulenza costituisce, insomma, una nuova
strada assai utile per contrastare i nuovi agenti patogeni,
soprattutto virali, compresi quelli che attaccheranno in
futuro l’uomo – per i quali non saranno disponibili subito
vaccini – e per tenere sotto controllo quelli che già ci
affliggono, sempre più difficilmente contrastabili dai
trattamenti tradizionali con antibiotici o con altri farmaci.
Infatti, esaminando i vari fattori biologici e sociali che
influenzano la virulenza di un determinato patogeno, i biologi
evoluzionisti possono prevedere i suoi decorsi evolutivi,
scoprire ciò che più ci rende vulnerabili ad esso, e mettere a
punto le terapie e i comportamenti sociali più adeguati per
trasformare un pericoloso parassita in un germe meno temibile
[2].

La “resistenza ai vaccini”: un pericolo legato a certi nuovi
tipi di vaccini

La maggior parte delle persone ha sentito parlare di
“resistenza agli antibiotici”, ma difficilmente di resistenza
ai vaccini. Questo perché la resistenza agli antibiotici è un
enorme problema globale che uccide ogni anno quasi 25.000
persone in Europa e egli Stati Uniti, e più del doppio in
India. Invece, la maggior parte dei programmi di vaccinazione
in tutto il mondo hanno avuto – e continuano ad avere – un
enorme successo nel prevenire le infezioni e nel salvare vite
umane. Addirittura, grazie ai vaccini il virus del vaiolo è
stato del tutto eliminato dalla faccia della Terra, sebbene
ciò abbia richiesto molto tempo.

Ma l’immunizzazione vaccinale sta anche rendendo più diffuse
varianti genetiche di patogeni una volta rare o inesistenti,
presumibilmente perché gli anticorpi sviluppati dai vaccinati
non possono riconoscere e attaccare facilmente i ceppi mutanti
che sembrano diversi dai ceppi vaccinali. Ed i vaccini in fase
di sviluppo contro alcuni dei patogeni peggiori del mondo – ad
esempio, malaria, antrace, etc. – si basano su strategie che
potrebbero potenzialmente, secondo modelli evolutivi ed
esperimenti di laboratorio, incoraggiare i patogeni a
diventare ancora più pericolosi [4]; e, come vedremo, lo
stesso potrebbe in linea teorica accadere con i vaccini anti-
COVID, o almeno con alcuni di essi, dato che in realtà ne sono
in corso di sviluppo nel mondo davvero moltissimi: circa 200.

I biologi evolutivi, in realtà, non sono sorpresi che ciò stia
accadendo. Si tratta, infatti, di un ennesimo esempio della
teoria evolutiva della virulenza al lavoro. Un vaccino
rappresenta una nuova pressione selettiva esercitata su un
agente patogeno e, se il vaccino non sradica completamente il
suo bersaglio, i patogeni rimanenti maggiormente adattatisi –
quelli in grado di sopravvivere, in qualche modo, in un mondo
immunizzato – diventeranno più comuni. Questi agenti patogeni,
insomma, si evolvono in risposta ai vaccini per il processo di
selezione naturale applicata ai microrganismi.

La scienza dei vaccini è incredibilmente complicata, ma il
meccanismo sottostante è in realtà molto semplice. Un vaccino
espone il tuo corpo a dei patogeni vivi ma indeboliti o
uccisi, o anche solo a determinati frammenti di essi (come nel
caso della maggior parte dei vaccini anti-COVID, che
utilizzano quale antigene, o bersaglio, la famosa proteina
“spike”, una sorta di uncino che aggancia le cellule
dell’ospite, in particolare – inizialmente – quelle delle vie
respiratorie superiori). Questa esposizione incita il tuo
sistema immunitario a creare degli eserciti di cellule
immunitarie, alcune delle quali secernono proteine ​
anticorpali per riconoscere e combattere i patogeni, se mai
invadono di nuovo il corpo.

         Questa immagine è un modello generato dal
         computer della proteina “spike” di una
         cellula SARS-CoV-2 (COVID-19), che si lega
         al recettore della proteina ACE-2 di una
cellula   umana.   Attraverso   questa
         connessione, le cellule virali sono in
         grado di trasferire il loro DNA e
         riprodursi.

Anche l’immunità indotta dai vaccini può variare, diminuendo
nel tempo. Dopo aver ricevuto il vaccino per il tifo, ad
esempio, i livelli di anticorpi protettivi di una persona
diminuiscono nel corso di diversi anni, motivo per cui le
agenzie di sanità pubblica consigliano richiami periodici per
coloro che vivono o visitano regioni in cui il tifo è
endemico. La ricerca suggerisce che un simile calo della
protezione nel tempo si verifica anche con il vaccino contro
la parotite. E ci aspettiamo che lo stesso accada con i
vaccini anti-COVID, che quindi verosimilmente richiederanno
dei richiami, con cadenze ancora non ben chiare.
I fallimenti dei vaccini causati dall’evoluzione indotta dal
vaccino, invece, sono di natura diversa. Questi cali
dell’efficacia del vaccino sono stimolati dai cambiamenti
nelle popolazioni di patogeni che certi vaccini stessi causano
direttamente. Gli scienziati hanno di recente iniziato a
studiare in parte il fenomeno perché oggi possono farlo: i
progressi nel sequenziamento genetico, infatti, hanno reso più
facile vedere come i patogeni cambiano nel tempo. E molti di
questi nuovi vaccini – come vedremo – hanno rafforzato la
velocità con cui i patogeni mutano e si evolvono in risposta
ai segnali ambientali.
Si può pensare alla vaccinazione come a una specie di
setaccio, che impedisce a molti agenti patogeni di passare e
sopravvivere. Ma se ne passano alcuni, quelli in quel campione
non casuale che sopravviveranno preferenzialmente si
replicheranno e, alla fine, cambieranno la composizione della
popolazione patogena. I “quelli” citati potrebbero essere: (1)
“ceppi mutanti di fuga” con differenze genetiche che
consentono loro di sfuggire agli anticorpi innescati dal
vaccino, o (2) semplicemente sierotipi che non sono stati
presi di mira dal vaccino. In entrambi i casi, il vaccino
altera il profilo genetico della popolazione patogena.

Alcuni esempi di evoluzione non desiderabile indotta da
vaccini

I batteri che causano la pertosse illustrano molto bene come
ciò possa accadere. Nel 1997, negli Stati Uniti le
raccomandazioni [5] dei Centers for Disease Control and
Prevention (CDC) iniziarono a promuovere l’adozione di un
nuovo vaccino per prevenire l’infezione di questi batteri.
Mentre il vecchio vaccino era realizzato utilizzando dei
batteri interi uccisi, che stimolavano una risposta
immunitaria efficace ma anche rari effetti collaterali, come
convulsioni, la nuova versione – nota come vaccino
“acellulare” – conteneva solo da due a cinque proteine ​​della
membrana esterna isolate dal patogeno.

Gli effetti collaterali indesiderati sono così scomparsi, ma
sono stati sostituiti da nuovi problemi inaspettati. In primo
luogo, per ragioni non chiare, nel corso del tempo la
protezione conferita dal vaccino acellulare è diminuita. Di
conseguenza, le epidemie hanno cominciato a scoppiare in tutto
il mondo. Nel 2001, degli scienziati nei Paesi Bassi [6] hanno
proposto un motivo aggiuntivo per l’indesiderata rinascita:
forse la vaccinazione stava stimolando l’evoluzione, facendo
sì che ceppi di batteri privi delle proteine​-bersaglio, o che
ne avevano versioni     diverse,   sopravvivessero       in   modo
preferenziale.

Da allora gli studi hanno confermato questa idea. In un
articolo del 2014 [7] pubblicato su Emerging Infectious
Diseases, dei ricercatori australiani, guidati dal medico e
microbiologo Ruiting Lan, presso l’Università del New South
Wales hanno raccolto e sequenziato campioni del batterio della
pertosse da 320 pazienti tra il 2008 e il 2012. La percentuale
di batteri che non hanno espresso la pertactina, una proteina
bersaglio del vaccino acellulare, è balzata dal 5% nel 2008 al
78% nel 2012, il che suggerisce che la pressione di selezione
del vaccino stava consentendo ai ceppi privi di pertactina di
diventare più comuni.

Anche il virus dell’epatite B, che causa danni al fegato,
racconta una storia simile. L’attuale vaccino, che prende di
mira principalmente una parte del virus noto come “antigene di
superficie” dell’epatite B (l’antigene è una molecola in grado
di essere riconosciuta dal sistema immunitario come estranea),
è stato introdotto negli Stati Uniti nel 1989. Un anno dopo,
in un articolo pubblicato su Lancet [8], i ricercatori hanno
descritto strani risultati di una sperimentazione su un
vaccino in Italia. Avevano rilevato virus dell’epatite B
circolanti in 44 soggetti vaccinati, ma in alcuni di essi al
virus mancava una parte di quell’antigene bersaglio. Si erano,
dunque, sviluppati i già citati “ceppi mutanti di fuga”.

Negli Stati Uniti Andrew Read, professore di biologia alla
Penn State University ed esperto di genetica evolutiva delle
malattie infettive, sta studiando con i suoi collaboratori
come l’herpesvirus che causa la cosiddetta “malattia di Marek”
– un disturbo altamente contagioso, paralizzante e in
definitiva mortale che costa all’industria dei polli più di 2
miliardi di dollari all’anno – potrebbe evolversi in risposta
al suo vaccino. La malattia di Marek sta colpendo i polli in
tutto il mondo da oltre un secolo; gli uccelli la prendono
inalando polvere carica di particelle virali versate nelle
penne di altri uccelli.

Questa malattia fornisce l’esempio meglio documentato
dell’evoluzione della resistenza ai vaccini [9]. Il primo
vaccino è stato introdotto nel 1970, quando la malattia stava
uccidendo interi stormi. Funzionò bene, ma nel giro di un
decennio iniziò misteriosamente a fallire; focolai di Marek
hanno iniziato a scoppiare in stormi di polli vaccinati. Un
secondo vaccino è stato autorizzato nel 1983 nella speranza di
risolvere il problema, ma anch’esso ha gradualmente smesso di
funzionare. Oggi, l’industria del pollame è al suo terzo
vaccino. Funziona ancora, ma Read e altri temono che anch’esso
un giorno possa fallire e non c’è un quarto vaccino in attesa.
Peggio ancora, negli ultimi decenni il virus è diventato più
letale.

       La   malattia   di   Marek,   una   patologia   che
       colpisce i polli, ci fornisce l’esempio meglio
       documentato del fenomeno della resistenza ai
       vaccini. Nella foto, un pulcino viene vaccinato
       contro di essa.

In un articolo del 2015 apparso su PLOS Biology [10], Read e
colleghi hanno vaccinato 100 polli, lasciandone altri 100 non
vaccinati. Hanno poi infettato tutti gli uccelli con ceppi di
Marek che variavano per virulenza – cioè in quanto erano
pericolosi e contagiosi. Il team ha scoperto che, nel corso
della loro vita, gli uccelli non vaccinati immettono molto più
ceppi meno virulenti nell’ambiente, mentre gli uccelli
vaccinati immettono molto più ceppi più virulenti. I risultati
suggeriscono quindi che il vaccino di Marek incoraggia la
proliferazione di virus più pericolosi, che di conseguenza
supererebbero le risposte immunitarie degli uccelli innescate
dal vaccino e quelle degli stormi vaccinati ammalati.

I vaccini non sterilizzanti ed i potenziali rischi connessi
Proprio come gli agenti patogeni hanno modi diversi di
infettarci e influenzarci, i vaccini che gli scienziati
sviluppano impiegano strategie immunologiche diverse. La
maggior parte dei vaccini che riceviamo durante l’infanzia (ad
es. contro il morbillo) impediscono agli agenti patogeni di
replicarsi dentro di noi e quindi ci impediscono anche di
trasmettere le infezioni ad altri: sono, cioè, i cosiddetti
vaccini “sterilizzanti”. E l’immunità sterilizzante è stata un
fattore chiave per eliminare il vaiolo, eradicato
ufficialmente nel 1980.

Ma finora gli scienziati non sono stati in grado di produrre
questo tipo di vaccini sterilizzanti per patogeni complicati,
come ad esempio la malaria e l’antrace. Per sconfiggere queste
malattie, alcuni ricercatori hanno quindi sviluppato dei
vaccini immunizzanti che prevengono le malattie senza
effettivamente prevenire le infezioni: sono i cosiddetti
vaccini “leaky”. E questi nuovi vaccini possono provocare un
tipo di evoluzione microbica diversa e potenzialmente più
spaventosa, di cui occorre tenere conto soprattutto nello
scenario attuale dei molteplici vaccini anti-COVID già
autorizzati o candidati (come detto, sono oltre 200 quelli in
corso di sviluppo, e spesso molto diversi l’uno dall’altro per
tecnologia usata).

La virulenza, come tratto di un patogeno, è direttamente
correlata alla replicazione: più agenti patogeni ospita il
corpo di una persona, e generalmente più malata diventa quella
persona. Di conseguenza, la virulenza è definita come “la
capacità di un agente patogeno di creare danni a un ospite”.
Un alto tasso di replicazione fornisce però vantaggi
evolutivi: più microbi nel corpo portano a più microbi nel
moccio, nel sangue o nelle feci, il che offre ai microbi
maggiori possibilità di infettare gli altri, ma ha anche dei
costi, poiché può uccidere gli ospiti prima che abbiano la
possibilità trasmettere la loro infezione.

Se un vaccino è completamente sterilizzante, il virus non può
entrare nelle cellule, quindi non può evolvere perché non ha
mai una possibilità di farlo. Ma se entra e si replica, c’è
una pressione selettiva perché eviti gli anticorpi generati
dal vaccino inefficiente. E in questa situazione non si sa mai
quale sarà il risultato, che potrebbe trasmettersi in seguito
ad altri contagiati. Il problema con i vaccini leaky è che
consentono agli agenti patogeni di replicarsi senza controllo
proteggendo allo stesso tempo gli ospiti da malattie e morte,
eliminando così i costi associati all’aumento della virulenza.

Nel tempo, quindi, in un mondo di vaccinazioni fatte con
vaccini leaky – come è quello in cui siamo entrati per
prevenire il COVID-19 – l’agente patogeno potrebbe evolversi
fino a diventare più mortale per gli ospiti non vaccinati,
perché può raccogliere i benefici della virulenza senza,
appunto, i costi, proprio come la malattia di Marek è
diventata lentamente più letale per i polli non vaccinati [4].
E questa maggiore virulenza può anche far sì che il vaccino
inizi a fallire, causando malattie negli ospiti vaccinati. Si
tratta di due rischi molto importanti che dobbiamo
potenzialmente aspettarci anche con i vaccini anti-COVID.

In un articolo del 2012 pubblicato su PLOS Biology [11],
Andrew Read e Victoria Barclay hanno inoculato nei topi un
vaccino anti-malaria leaky, usando questi topi infetti ma non
malati per infettare altri topi vaccinati. Dopo che i
parassiti sono circolati attraverso 21 cicli di topi
vaccinati, Barclay e Read li hanno studiati e confrontati con
quelli circolati attraverso 21 cicli di topi non vaccinati.
Hanno così scoperto che i ceppi dei topi vaccinati erano
diventati molto più virulenti, in quanto si erano replicati
più velocemente e avevano ucciso più globuli rossi, rimanendo
gli unici parassiti mortali alla fine dei 21 cicli di
infezione.

Nel marzo 2017, Read e il suo collega David Kennedy della Penn
State University hanno pubblicato, negli Atti della Royal
Society B [9], un importante articolo scientifico in cui hanno
delineato diverse strategie che gli sviluppatori di vaccini
potrebbero utilizzare per garantire che i vaccini futuri non
vengano puniti dalle forze evolutive. Una raccomandazione
generale è che i vaccini dovrebbero indurre risposte
immunitarie contro più bersagli. In una situazione del genere,
diventa infatti molto più difficile per un agente patogeno
accumulare tutti i cambiamenti necessari per sopravvivere.

Aiuta anche se i vaccini prendono di mira tutte le varianti o
sottopopolazioni conosciute di un particolare patogeno, non
solo quelle più comuni o pericolose. I vaccini dovrebbero pure
impedire agli agenti patogeni di replicarsi e trasmettersi
all’interno degli ospiti inoculati. Uno dei motivi per cui con
i vaccini sterilizzanti la resistenza ai vaccini è meno
problematica della resistenza agli antibiotici, è che essi
vengono somministrati prima dell’infezione e limitano la
replicazione, il che riduce al minimo le opportunità
evolutive. Mentre questo non è vero, evidentemente, per i
vaccini leaky. E se virus e batteri cambiano rapidamente in
parte è proprio perché si replicano come matti all’interno
dell’ospite.

Il materiale genetico di tutti i virus, infatti, è codificato
in DNA o RNA; una caratteristica interessante dei virus a RNA
è che cambiano molto più rapidamente dei virus a DNA. Ogni
volta che fanno una copia dei loro geni commettono uno o pochi
errori. Quando un virus a RNA si replica, il processo di copia
genera un nuovo errore, o mutazione, per 10.000 nucleotidi, un
tasso di mutazione fino a 100.000 volte maggiore di quello
riscontrato nel DNA umano. Proprio come le persone – ad
eccezione dei gemelli identici – hanno tutte genomi
distintivi, le popolazioni di un virus tendono ad essere
composte da una miriade di varianti genetiche, alcune delle
quali se la cavano meglio di altre durante le battaglie con
anticorpi addestrati al vaccino. I vincitori seminano la
popolazione patogena del futuro.

I vaccini contro il SARS-CoV-2 sono sterilizzanti o vaccini
“leaky”?

Il virus SARS-CoV-2 che produce il COVID-19 è un
betacoronavirus, appartenente alla famiglia dei coronavirus
(CoV), che comprende sia il virus della SARS che quello della
MERS. Questi sono virus a RNA con genomi molto grandi, di
circa 30 kb di lunghezza. La famiglia prende il nome dalla
caratteristica “corona” di proteine, o ​​spike, che sporge
dalla superficie del virus. L’accumulo di molteplici
cambiamenti nella proteina spike ha portato, negli scorsi
mesi, alla nascita di alcune varianti del SARS-CoV-2, come la
variante inglese (nota come B.1.1.7), la variante sudafricana
(nota come B.1.351) e la variante brasiliana (nota come
B.11.28).

I primi vaccini contro l’attuale coronavirus (SARS-CoV-2) ad
essere autorizzati si sono dimostrati variamente efficaci nel
ridurre la malattia da COVID-19 nel ceppo originale, il Wuhan-
Hu-1. Nonostante ciò, non sappiamo ancora se questi vaccini –
e tantomeno, eventualmente, quali e in che misura – possano
indurre l’immunità sterilizzante. Si prevede che i dati che
affrontano queste fondamentali domande saranno presto
disponibili dagli studi clinici sui vaccini in corso. Intanto
sappiamo che la variante sudafricana (B.1.351) può sfuggire
agli anticorpi nel sangue di persone precedentemente infette
[27], il che evidenzia la prospettiva di una reinfezione con
varianti antigenicamente distinte e può prefigurare una
ridotta efficacia degli attuali vaccini basati sulla proteina
spike. Ma anche se l’immunità sterilizzante – che, ripeto, con
questi primi vaccini è tutta da dimostrare! – venisse indotta
inizialmente, essa potrebbe comunque cambiare nel tempo con il
diminuire delle risposte immunitarie e con l’evoluzione
virale.

Per l’immunità sterilizzante occorre un particolare tipo di
anticorpo noto come “anticorpo neutralizzante”. Questi
anticorpi bloccano l’ingresso del virus nelle cellule e ne
impediscono la replicazione. Il virus infettante dovrebbe
essere identico al virus del vaccino per indurre l’anticorpo
perfetto. Non a caso, molti vaccini virali tradizionali
presentano l’intero virus in un forma viva attenuata
(morbillo, parotite, rosolia, varicella, rotavirus, poliovirus
orale Sabin, febbre gialla e alcuni vaccini antinfluenzali) o
in una forma inattivata (polio virus Salk, epatite A, rabbia e
altri vaccini antinfluenzali), portando a una risposta
multipla, diretta non solo verso un’unica proteine virale, ma
verso numerose proteine ​​virali contemporaneamente.

Questa molteplicità di risposte anticorpali, probabilmente,
spiega perché per questi vaccini non sono stati documentati
“ceppi di fuga” del virus dal vaccino. L’eccezione è
rappresentata dal virus dell’influenza, in cui la cosiddetta
“deriva virale antigenica” (ovvero le mutazioni che si
accumulano nel tempo nelle due proteine ​​bersaglio) e lo
spostamento o riassortimento antigenico (ricombinazione dei
segmenti proteici che porta a una diversa combinazione nelle
due proteine) significano che la risposta immunitaria a
precedenti ceppi influenzali (o vaccini) non è più efficace
nel prevenire l’infezione dai nuovi ceppi.

Tuttavia, la lunghezza della proteina spike usata dai vaccini
autorizzati contro il SARS-CoV-2 è relativamente breve (circa
1270 aminoacidi) e un articolo in forma di preprint [12] ha
indicato che la risposta anticorpale naturale alle infezioni
(e presumibilmente anche a un vaccino basato sulla proteina
spike) è concentrata in sole due sezioni della proteina. Dato
che la risposta anticorpale alla proteina spike è così
concentrata, occorre domandarsi, come hanno fatto T. Williams
& W. Burgers su Lancet [13]: “potrebbero delle semplici
mutazioni in queste sequenze limitate portare a un vaccino
meno efficace, se la risposta immunitaria umana è così
specifica a causa della sequenza ridotta usata dal vaccino?”.
I geni nel genoma di SARS-CoV-2 che contengono
   istruzioni per costruire parti del virus sono mostrati
   in colori diversi. Ad esempio, la sezione marrone
   nell’immagine contiene istruzioni genetiche per
   costruire la proteina “Spike”, che consente al virus di
   attaccarsi alle cellule umane durante l’infezione.
   Questa sezione del genoma funge da regione chiave per il
   monitoraggio delle mutazioni.

Ora, è vero che il SARS-CoV-2 non è un virus “segmentato” come
quelli dell’influenza e che il suo tasso di mutazione risulta
essere inferiore a quello di altri virus a RNA. Tuttavia, i
risultati di un preprint del 2020 [14], esaminando il plasma
convalescente per altri coronavirus umani – come il
coronavirus umano 229E – suggeriscono che, come per
l’influenza, le naturali mutazioni nell’uomo del coronavirus
229E con il tempo potrebbero rendere gli individui meno in
grado di neutralizzare i nuovi ceppi. Dunque, qualcosa del
genere potrebbe succedere anche per il SARS-CoV-2, e portare
alla fine a un vaccino meno efficace.

Oggi è in uso un numero minore di vaccini virali ricombinanti,
più simili nell’approccio a quelli recentemente concessi in
licenza per il SARS-CoV-2. Essi sono fatti tramite
l’ingegneria genetica: il gene che crea la proteina per il
virus viene isolato e posizionato all’interno dei geni di
un’altra cellula; quando quella cellula si riproduce, produce
proteine vaccinali, il che significa che il sistema
immunitario riconoscerà la proteina e proteggerà il corpo da
essa. Uno di questi vaccini è quello per il virus dell’epatite
B, che usa una delle proteine ​​dell’involucro virale, la
superficie dell’antigene HBV. Gli anticorpi neutralizzanti
sono mirati principalmente a una sequenza di 25 amminoacidi,
dal 124 al 149. Ebbene, mutazioni puntiformi che provocano
un’arginina rispetto al residuo di glicina nella posizione 145
in questa sequenza portano a un fallimento degli anticorpi
neutralizzanti indotti dal vaccino e ad infezioni negli
individui vaccinati [15].

I vaccini contro l’influenza, in genere, inducono protezione
dalle malattie, ma non necessariamente protezione dalle
infezioni. Ciò è in gran parte dovuto ai diversi ceppi di
influenza che circolano, una situazione che può verificarsi
anche con il SARS-CoV-2. Un fattore protettivo è il tasso di
mutazione relativamente basso del SARS-CoV-2, ma l’infezione
prolungata negli ospiti immunocompromessi potrebbe accelerare
la mutazione, tant’è che nei pazienti affetti da HIV la
resistenza agli antivirali si sviluppa rapidamente [9] (per
tale ragione i pazienti con HIV non sono stati inclusi nei
trial sui vaccini anti-COVID). Ed il fatto che esistano così
tanti diversi vaccini anti-COVID in uso o in sperimentazione
sulla popolazione facilita, con la pressione selettiva
esercitata, il crearsi di “ceppi di fuga”.

Gli esperimenti con gli anticorpi monoclonali e lo sviluppo di
una resistenza

Nei vaccini anti-COVID, queste mutazioni indesiderate
potrebbero essere guidate da (1) deriva antigenica, o (2) per
selezione, durante l’infezione naturale oppure a causa del
vaccino stesso. Quando un virus viene coltivato sotto la
pressione selettiva di un singolo anticorpo monoclonale che
prende di mira un singolo epitopo (la piccola parte
dell’antigene che lega l’anticorpo specifico) su una proteina
virale, le mutazioni in quella sequenza proteica porteranno
alla perdita di neutralizzazione, e alla generazione di “ceppi
di fuga”. Questa sequenza di eventi è stata mostrata in
laboratorio per la polio, il morbillo e il virus respiratorio
sinciziale [16], e nel 2020 anche per il SARS-CoV-2 [17].

Un’altra scoperta importante è che il SARS-CoV-2, anche in
presenza di anticorpi policlonali (nella forma dei sieri di
convalescenti), può mutare e sfuggire alla neutralizzazione da
parte degli anticorpi multipli del plasma di altre persone.
Infatti, in una serie di esperimenti in vitro descritti in un
preprint del 2020, il SARS-CoV-2 è stato coltivato in presenza
di plasma neutralizzante di un convalescente [18]. Dopo alcuni
passaggi seriali, erano state generate tre mutazioni nelle due
sezioni-bersaglio della proteina spike che hanno permesso la
formazione di una nuova variante del tutto resistente alla
neutralizzazione del plasma. Quando questo virus è cresciuto
in presenza di plasma convalescente di altri 20 pazienti,
tutti i campioni hanno mostrato una riduzione dell’attività di
neutralizzazione.

La sostituzione di amminoacidi osservata in questo esperimento
si trova – guarda caso – nella stessa posizione delle
mutazioni riportate in un preprint che descrive esperimenti di
selezione di anticorpi monoclonali (con le varianti mutanti
che sfuggono alla neutralizzazione di sieri umani
convalescenti) [19] e di quella trovata nella famosa “variante
sudafricana” del SARS-CoV-2 che si sta diffondendo rapidamente
in Sud Africa e che ha mostrato di essere meno suscettibile
alla neutralizzazione da parte di plasma convalescente di
individui esposti alle precedenti varianti del coronavirus. E,
sempre guarda caso, le varianti inglese, sudafricana e
brasiliana sono emerse in Paesi dove erano in corso trial di
vaccini anti-COVID.

In linea di principio, questi risultati suggeriscono che le
varianti di SARS-CoV-2 potrebbe evolversi, in alcune persone,
sviluppando una resistenza all’immunità indotta da vaccini
ricombinanti diretti alla proteina spike (che sono basati
sulla sequenza originale, la Wuhan-Hu-1). Ma solo gli studi
clinici in corso mostreranno se gli individui vaccinati
riconoscono le varianti SARS-CoV-2 in modo diverso, e se le
mutazioni riducono la protezione del vaccino in alcuni
individui vaccinati. La sperimentazione di fase 3 in corso di
un vaccino a base di spike con vettore di adenovirus (Johnson
& Johnson) in Sud Africa, dove la variante sudafricana sta
sostituendo le varianti preesistenti, può fornire
un’opportunità per esaminare questa domanda.

A causa dell’efficiente apparato di correzione di bozze del
SARS-CoV-2, il tasso di sostituzione dei nucleotidi è più
lento rispetto ad altri virus a RNA. Ciò ha portato alla
speranza che l’antigene spike sarebbe rimasto stabile e che
tutti i ceppi attualmente in circolazione sarebbero stati
quindi suscettibili agli anticorpi neutralizzanti sviluppati
in risposta ai primi vaccini. Uno studio di McCarthy et al.
[20] riporta, tuttavia, che il coronavirus si sta adattando
alla presenza di immunità – come segnalato da mutazioni di
delezione ripetute in siti specifici della proteina spike –
causando la rapida evoluzione della diversità antigenica, e
soprattutto questa “mutazione di fuga” viene trasmessa anche
ad altri individui. La spiegazione più ovvia è che questa
delezione sia sorta in risposta a una forte e comune pressione
selettiva.

In definitiva, la maggior parte dei vaccini anti-COVID
addestrano il sistema immunitario a rilevare gli antigeni
sulla superficie del SARS-CoV-2 e l’antigene più usato è la
proteina spike, che viene vista come il bersaglio vaccinale
più efficace. Quindi, ora che sta emergendo la prova che
quelle particolari varianti sembrano influenzare l’efficacia
del vaccino, dovrebbe essere necessario riformulare
periodicamente i vaccini così che si adattino meglio ai ceppi
circolanti. Per questa ragione, Moderna (e probabilmente anche
altri produttori) stanno considerando due strategie “booster”,
cioè di potenziamento dell’immunità nei vaccinati: (1) una
terza dose dello stesso vaccino odierno; (2) in alternativa,
una terza dose con un mRNA in cui sono state opportunamente
incorporate le mutazioni della nuova variante sudafricana
[21].

La struttura del virus SARS-CoV-2, con alcune importanti
proteine superficiali e interne.

Le mutazioni nella proteina spike sono alla base delle
principali varianti che destano preoccupazione. Dunque, i
vaccini anti-COVID che prendono di mira questa proteina sul
breve termine risolvono un problema ma dall’altro possono
crearne di nuovi, soprattutto nel tempo e guardando quindi al
futuro. Inoltre, anche i vaccini che usano due dosi potrebbero
favorire la creazione di “ceppi mutanti di fuga”, dato che
dopo la prima dose l’immunizzazione è solo parziale. Anche la
lenta introduzione delle vaccinazioni in alcuni Paesi può dare
il tempo al virus di mutare la sua proteina spike e sfuggire
al vaccino (donde l’importanza di una politica globale di
vaccinazione e della fornitura di vaccini ai Paesi che non
possono permettersi di pagarli). Con il passare del tempo,
alcuni vaccini potrebbero persino iniziare ad esacerbare le
infezioni da COVID-19 attraverso un fenomeno noto come
“potenziamento dipendente dall’anticorpo”, dove alcuni
anticorpi si attaccano al virus in modo errato e finiscono per
contribuire all’infezione [26].

Conclusione: verso un futuro davvero pieno di incognite

Sebbene l’immunità sterilizzante sia spesso l’obiettivo finale
della progettazione del vaccino, raramente viene raggiunto.
Fortunatamente, ciò non ha impedito in passato a molti vaccini
diversi di ridurre sostanzialmente il numero di casi di
infezioni da virus. Riducendo i livelli di malattia negli
individui, si riduce anche la diffusione del virus attraverso
le popolazioni. Pertanto, essa potrebbe essere stata un
obiettivo troppo elevato per i produttori di vaccini COVID-19,
ma secondo molti esperti potrebbe non essere necessaria per
frenare la malattia e portare l’attuale pandemia sotto
controllo [22].

Il caso del rotavirus, che causa vomito grave e diarrea
acquosa ed è particolarmente pericoloso per neonati e bambini
piccoli, è abbastanza semplice in questo senso. La
vaccinazione limita, ma non ferma, la replicazione dell’agente
patogeno. In quanto tale, non protegge da malattie lievi.
Riducendo la carica virale di una persona infetta, tuttavia,
diminuisce la trasmissione, fornendo una protezione indiretta
sostanziale. Secondo i Centers for Disease Control (CDC)
statunitensi, 10 anni dopo l’introduzione nel 2006 di un
vaccino contro il rotavirus negli USA, il numero di positivi
ai test per la malattia è sceso del 90% [22]. Quindi, anche
con i vaccini anti-COVID si potrebbero avere nuovi infetti
asintomatici o paucisintomatici.

Tuttavia gli imprevisti sono dietro l’angolo, come abbiamo
visto essere successo con vaccini non sterilizzanti che
prendevano di mira una sola o poche proteine virali. E quando,
l’anno scorso, più di 1.000 scienziati del vaccino si sono
riuniti a Washington D.C. (USA), al World Vaccine Congress, la
questione    dell’evoluzione      indotta   dal   vaccino    –
incredibilmente – non è stata al centro di nessuna sessione
scientifica. I ricercatori sono nervosi nel parlare e
richiamare l’attenzione sui potenziali effetti evolutivi
perché temono che, così facendo, potrebbero alimentare più
paura e sfiducia nei confronti dei vaccini da parte del
pubblico, anche se l’obiettivo è, ovviamente, garantire il
successo del vaccino a lungo termine.

Al contrario, alcuni degli esperti di virus a cui non sfuggono
i potenziali effetti evolutivi si sono espressi preoccupati
del fatto che l’aggiunta di una “pressione evolutiva”
all’agente patogeno mediante l’applicazione di quello che
potrebbe non essere un vaccino completamente protettivo – come
uno dei tanti vaccini sperimentali anti-COVID – possa alla
fine peggiorare le cose. “Una protezione meno che completa
potrebbe fornire una pressione selettiva che spinga il virus a
eludere l’anticorpo presente, creando ceppi che poi eludono
tutte le risposte ai vaccini”, secondo Ian Jones, professore
di virologia presso la Reading University (UK). “In questo
senso, un cattivo vaccino è peggio di nessun vaccino!” [23,
4]. Tuttavia, va sottolineato che al momento si tratta di un
“peggior scenario” teorico, e che comunque – sia ben chiaro –
non mette in discussione l’importanza della vaccinazione di
massa.

Se quello appena illustrato è uno degli scenari peggiori, lo
scenario migliore non lo è poi tanto di più, visto che, come
ritiene Alexandre Le Vert, CEO e co-fondatore della casa di
vaccini francese Osivax, “dovremmo aspettarci che più varianti
appaiano periodicamente e molto probabilmente raggiungeremo
una situazione simile all’influenza, dove più varianti
circoleranno ogni stagione invernale” [26]. Dunque, si
prospettano vaccinazioni a go-go per la popolazione e un
business multi-miliardario per le case farmaceutiche. Un modo
per aggirare la “corsa agli armamenti” del vaccino è lo
sviluppo di un vaccino universale che sia a prova di futuro
contro il coronavirus in evoluzione. Per capire come un tale
vaccino potrebbe funzionare, un indizio chiave sta
nell’esaminare – come abbiamo fatto in precedenza – i vaccini
per altre infezioni virali che sono rimasti efficaci per
decenni: stiamo parlando dei già citati vaccini sterilizzanti.

Poche aziende stanno sviluppando vaccini vivi attenuati per il
COVID-19, anche se questi possono fornire una protezione molto
forte: sono difficili da trasportare e potrebbero non essere
sicuri per le persone con sistemi immunitari indeboliti. La
maggior parte degli sviluppatori ha quindi optato per altri
approcci, come vaccini inattivati (Sinovac, Novovax, etc.),
vettori virali (Astrazeneca, Johnson & Johnson, Sputnik, etc.)
e vaccini a mRNA (Pfizer, Moderna, CureVac, etc.). Nel caso
del SARS-CoV-2, non ci sono ancora dati di efficacia dei
vaccini inattivati in fase 3, ed i dati parziali apparsi sulla
stampa mostrano al momento risultati controversi. Bisogna
inoltre tener presente che la produzione dei vaccini
inattivati richiede bioreattori per la crescita di virus vivo
in alte condizioni di contenimento. Al contrario, i vaccini a
mRNA e quelli a vettore virale sono fra i più semplici e
veloci da realizzare.

Se i vaccini vivi attenuati sono fuori dal tavolo, come
possono altri tipi di vaccini ottenere una protezione
duratura? Emergex è uno dei numerosi sviluppatori di vaccini
che si concentrano sui cosiddetti “linfociti T” – una parte
fondamentale della nostra “memoria” immunitaria per infezioni
future – e sugli antigeni interni del SARS-CoV-2. Come ha
spiegato il suo CEO, Thomas Rademacher: “I nostri risultati
suggeriscono che prendere di mira le proteine ​​di superficie,
e in particolare la proteina spike, potrebbe non produrre una
risposta immunitaria altrettanto sicura, efficace e di lunga
durata rispetto a quella osservata con i vaccini vivi
attenuati” [26]. Osivax sta usando un approccio simile,
sviluppando un vaccino che consiste in nanoparticelle che
trasportano copie di antigeni COVID-19 interni. Va detto,
comunque, che anche per gli altri tipi di vaccini si è
riscontrata la capacità di indurre la citata “risposta T”,
come illustrato ad esempio, per il vaccino Pfizer, dal lavoro
di Prendecki et al. [29].

Credo che al lettore risulterà a questo punto chiaro come la
corsa ai vaccini sia in realtà soltanto all’inizio, mentre le
nostre economie e il tessuto sociale sono sempre più provati.
Pertanto, negli altri Paesi molti esperti si chiedono se
saremo in grado di stare dietro – come progettazione e
produzione dei vaccini, nonché accettazione degli stessi da
parte della popolazione – alle ulteriori future varianti di
SARS-CoV-2 che molto verosimilmente sorgeranno, indotte in
molti casi dai vaccini medesimi [24]. In Italia questo
dibattito non è mai partito, nonostante la conoscenza di
questi temi e dei relativi risvolti dovrebbe essere portata
anche all’attenzione della politica già in questa fase, non
certo “a babbo morto”, al fine di prendere le decisioni
migliori e di effettuare la pianificazione conseguente,
uscendo dalla logica dell’inseguire gli eventi che ha guidato
finora la gestione della pandemia nel nostro Paese.

In Italia, invece, i medici che in televisione informano il
grande pubblico si limitano a ripetere il mantra “che un calo
della velocità di trasmissione significa meno infezioni; una
minore replicazione del virus porta a minori opportunità di
evoluzione del virus negli esseri umani; e con meno
possibilità di mutare, l’evoluzione del virus rallenta e c’è
un minor rischio di nuove varianti”. Ma, come purtroppo
abbiamo visto in dettaglio, se i vaccini anti-COVID utilizzati
nei trial o approvati sono “leaky” – o se anche solo alcuni di
essi lo sono – pure una vaccinazione di massa degli italiani /
europei lascerebbe al virus ampie opportunità di creare nuovi
“ceppi di fuga” (da noi o nei Paesi poveri) e, qualora questi
ultimi eludessero i vaccini da noi usati, ciò rischierebbe di
farci tornare, da un momento all’altro, quasi alla casella di
partenza.

Proprio per tutte queste ragioni è – a mio modesto parere –
importante, per la politica sanitaria anti-COVID, non solo
riflettere con molta più obiettività e lungimiranza su tutta
la faccenda, ma soprattutto implementare contemporaneamente un
“piano B” che sia del tutto svincolato dai vaccini e mirato a
risolvere il problema (saturazione delle terapie intensive e
dei reparti di cure a bassa intensità degli ospedali) alla
radice, ovvero facendo in modo che meno persone ricorrano
all’ospedale, grazie: (1) alla prevenzione tramite opportune
campagne di informazione che invitino almeno la popolazione
più a rischio a compensare i bassi livelli di vitamina D
(questione chiave già illustrata in un mio articolo [25]), e
comunque non per ridurre il rischio di infezione bensì la
gravità della stessa; e (2) alla cura ai primi sintomi
attraverso un serio ed efficace protocollo di cura
domiciliare, oggi di fatto assente.

Desidero ringraziare, per la lettura critica del manoscritto e
gli utili suggerimenti forniti, il dr. Piergiuseppe De
Berardinis (direttore del Laboratorio di immunologia presso
l’Istituto di Biochimica e Biologia Cellulare del CNR), che in
questi anni si è occupato di studiare la risposta immunitaria
e la problematica dei vaccini sia dal punto di vista
sperimentale che divulgativo. Naturalmente, la responsabilità
di eventuali inesattezze o errori residui è solo ed
esclusivamente dell’Autore.

Riferimenti bibliografici

[1] Thomas L., “SARS-CoV-2 spike deletion mutations may evade
current vaccine candidates, study finds”, News Medical Life
Sciences, 23 novembre 2020.

[2] Menichella M., “Mondi futuri. Viaggio fra i possibili
scenari”, SciBooks Edizioni, Pisa, 2005.

[3] Ewald P.W., “Evolution of Infectious Disease”, Oxford
University Press, New York, 1994.

[4] Boots M., “The Need for Evolutionarily Rational Disease
Interventions: Vaccination Can Select for Higher Virulence”,
PLoS Biology, 2015.

[5] No author listed, “Pertussis vaccination: use of acellular
pertussis vaccines among infants and young children.
Recommendations of the Advisory Committee on Immunization
Practices (ACIP)”, CDC Recommendations and Reports, 1997.

[6] Van Gent M., “Studies on Prn Variation in the Mouse Model
and Comparison with Epidemiological Data”, PLoS ONE, 2011.

[7] Lam C., Lan R. et al., “Rapid increase in pertactin-
deficient Bordetella pertussis isolates, Australia”, Emerging
Infectious Diseases, 2014.

[8] Carman W.F. et al., “Vaccine-induced escape mutant of
hepatitis B virus”, The Lancet, 1990.

[9] Kennedy D.A., Read A.F., “Why does drug resistance readily
evolve but vaccine resistance does not?”, Royal Society Acta
B, 2017.

[10] Read A.F., “Imperfect Vaccination Can Enhance the
Transmission of Highly Virulent Pathogens”, PLoS Biology,
2015.

[11] Barclay V.C. et al., “The Evolutionary Consequences of
Blood-Stage Vaccination on the Rodent Malaria Plasmodium
chabaudi”, PLoS Biology, 2012.

[12] Greaney A.J., “Comprehensive mapping of mutations to the
SARS-CoV-2 receptor-binding domain that affect recognition by
polyclonal human serum antibodies”, preprint, BioRxiv, 2021.
[13] Williams T.C., Burgers W.A., “SARS-CoV-2 evolution and
vaccines: cause for concern?”, Lancet Respir. Med., 29 gennaio
2021.

[14] Eguia R.D. et al., “A human coronavirus evolves
antigenically to escape antibody immunity”, preprint, BioRxiv,
18 dicembre 2020.

[15] Romanò L. et al., “Hepatitis B vaccination”, Human
Vaccines & Immunotherapeutics, 2015.

[16] Mas V. et al., “Antigenic and sequence variability of the
human respiratory syncytial virus F glycoprotein compared to
related viruses in a comprehensive dataset”, Vaccine, 2018.

[17] Weisblum Y., “Escape from neutralizing antibodies by
SARS-CoV-2 spike protein variants”, eLife, 2020.

[18] Andreano E. et al., “SARS-CoV-2 escape in vitro from a
highly neutralizing COVID-19 convalescent plasma”, preprint,
bioRxiv, 2020.

[19] Liu Z. et al., “Landscape analysis of escape variants
identifies SARS-CoV-2 spike mutations that attenuate
monoclonal and serum antibody neutralization”, bioRxiv, 2021.

[20] McCarthy K.R. et al., “Recurrent deletions in the SARS-
CoV-2 spike glycoprotein drive antibody escape”, preprint,
BioRxiv, 19 gennaio 2021.

[21] Kupferschmidt K., “Vaccine 2.0: Moderna and other
companies plan tweaks that would protect against new
coronavirus mutations”, Science, 26 gennaio 2021.

[22] McKenna S., “Vaccines Need Not Completely Stop COVID
Transmission to Curb the Pandemic”, Scientific American, 18
gennaio 2021.

[23] Kelland K., “Russia vaccine roll-out plan prompts virus
mutation worries”, Reuters, 21 agosto 2020.
[24] Kuhn R., “Coronavirus variants, viral mutation and
COVID-19 vaccines: The science you need to understand”, The
Conversation, 2 febbraio 2021.

[25] Menichella M., “Vitamina D e minore mortalità per
COVID-19: le evidenze e il suo uso per prevenzione e cura,
Fondazione David Hume, 23 febbraio 2021.

[26] Smith J., “Can Covid-19 Vaccines Keep up with an Evolving
Virus?”, Labiotech, 11 febbraio 2021.

[27] Wang P. et al., “Increased Resistance of SARS-CoV-2
Variants B.1.351 and B.1.1.7 to Antibody Neutralization”,
preprint, bioRxiv, 26 gennaio 2021.

[28] Ewald, P.W., “Evolution of virulence”, Infectious Disease
Clinics of North America, 2004.

[29] Prendecki et al., “Effect of previous SARS-CoV-2
infection on humoral and T-cell responses to single-dose
BNT162b2 vaccine”, The Lancet, 25 febbraio 2021.
Puoi anche leggere