EUROPA 2020 Follow-up della conferenza - Milano, Palazzo Clerici - 18 ottobre 2010
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Follow-up della conferenza EUROPA 2020 STATI E REGIONI PER L’INNOVAZIONE E LA CRESCITA Milano, Palazzo Clerici – 18 ottobre 2010
Ricerca ISPI – Dicembre 2010 VERSO EUROPA 2020 a cura di Carlo Altomonte, Stefano Riela e Antonio Villafranca (ricercatori e docenti presso ISPI e Università Bocconi) Indice Introduzione ........................................................................................................................ p. 3 Parte Prima La crisi dell’Eurozona e le proposte di riforma ......................................................... » 4 1.1 La nascita, il funzionamento e il “peccato originale” dell’euro ............................... » 4 1.2 L’euro e la divergenza delle economie europee ...................................................... » 5 1.3 Le proposte di riforma ............................................................................................. » 7 1.4 La riforma tra rigore e flessibilità ............................................................................ » 8 1.5 2011: l’anno delle decisioni ..................................................................................... » 9 Parte Seconda “Europa 2020”: l’impegno per la competitività e la crescita .................................... » 10 2.1 Dalla Strategia di Lisbona a “Europa 2020”: quali presupposti per un successo? .. » 10 2.1.1 Una valutazione dopo dieci anni ........................................................................... » 11 2.1.2 La governance della Strategia di Lisbona ............................................................. » 12 2.1.3 I paesi hanno economie diverse… ........................................................................ » 13 2.1.4 … e diversi orientamenti politici… ...................................................................... » 14 2.1.5 … che riducono anche l’efficienza del metodo comunitario ................................ » 15 2.1.6 Il livello regionale ................................................................................................. » 16 2.2 “Europa 2020”: le iniziative per rilanciare la crescita in Europa ............................ » 17 2.2.1 Gli obiettivi .......................................................................................................... » 18 2.2.2 Le sette “iniziative faro” ...................................................................................... » 19 2.2.3 L’integrazione della strategia “Europa 2020” nel contesto delle politiche dell’UE ..................................................................... » 20 2.3.4 La governance di “Europa 2020” ......................................................................... » 21 2.3.5 Il potenziale di “Europa 2020” ............................................................................ » 22 Parte Terza - Approfondimento L’Europa e la nuova governance del climate change ................................................ » 24 3.1 Introduzione ............................................................................................................ » 24 3.2 La necessità di una nuova governance mondiale .................................................... » 25 3.3 Un modello di governance “orizzontale” ................................................................ » 27 3.4 Il ruolo dell’Unione europea e delle regioni ........................................................... » 29 2
INTRODUZIONE La crisi economica ha trasformato radicalmente lo scenario internazionale, ridefinendo i rapporti di forza tra le varie aree del mondo. In questo contesto appare quanto mai importante indagare sulla capacità dell’Unione europea, dei suoi paesi membri e delle articolazioni territoriali di questi ultimi di competere efficacemente a livello internazionale nel prossimo decennio, garantendo così tassi di crescita, livelli occupazionali e di protezione sociale adeguati. Il presente studio – che trae spunto da quanto discusso nella conferenza “Europa 2020: Stati e Regioni per l’innovazione e la crescita”, promossa dall’ISPI il 18 ottobre scorso, con il supporto della Regione Lombardia – intende indagare sulle grandi decisioni che l’Unione europea dovrà porre in essere nei prossimi anni in termini di nuova governance economica e rilancio della competitività e della crescita (inclusi i vincoli e le opportunità offerte dallo sviluppo della green economy) per poter ancora giocare un ruolo di primo piano a livello internazionale anche tra dieci anni. Nello specifico, la prima parte propone un’analisi relativa alle cause della crisi del debito sovrano di alcuni paesi membri (i “PIGS”, ovvero Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna), ripercorrendo le tappe che hanno portato alla creazione della moneta unica ed evidenziandone i limiti. Specifica attenzione verrà riservata alle proposte attualmente in discussione per risolvere la crisi dei PIGS ed evitare che situazioni analoghe possano ripetersi in futuro. La seconda parte è invece dedicata alla capacità dell’Unione europea di generare nuova crescita nel prossimo decennio. Nessuna modifica della governance europea potrà infatti risultare efficace qualora non venisse inserita in un quadro di rinnovata crescita economica. La stessa sostenibilità delle misure di austerità imposte alla Grecia e all’Irlanda (ma presenti anche in molti altri paesi membri per riportare in ordine i conti pubblici) dipende dalla capacità di stimolare la crescita. In quest’ambito, particolare attenzione verrà assegnata al lancio della Strategia “Europa 2020”, che ha sostituito la fallimentare esperienza della Strategia di Lisbona. Uno specifico approfondimento (terza parte) è infine focalizzato sul perseguimento degli obiettivi ambientali (anch’essi rientranti all’interno di “Europa 2020”), al fine di verificare la loro compatibilità con le riforme della governance economica attualmente in discussione e, soprattutto, con le prospettive di crescita dell’Unione europea nel suo complesso e dei singoli Stati membri. Questi temi risultano di estrema importanza per la Regione Lombardia, che rappresenta una delle Regioni economicamente più dinamiche dell’intera Unione europea. Le decisioni che verranno prese nei prossimi mesi potranno infatti avere forti ripercussioni sul sistema economico lombardo, anche in considerazione del fatto che molto spesso i livelli locali di governo – pur non essendo coinvolti ex ante nelle procedure decisionali – svolgono un ruolo fondamentale nell’implemen- tazione delle relative politiche. Anche alla luce delle prossime modifiche alla governance econo- mica europea, esistono comunque spazi per un intervento diretto degli attori regionali nel processo decisionale europeo, quanto meno attraverso un intervento presso i rispettivi governi nazionali, affinché gli obiettivi fissati risultino credibili e, in uno stadio successivo, concretamente perseguibili dagli attori regionali stessi. 3
Parte Prima LA CRISI DELL’EUROZONA E LE PROPOSTE DI RIFORMA 1.1 La nascita, il funzionamento e il “peccato originale” dell’euro Fin dall’avvio dell’Unione Monetaria, l’Europa ha visto al suo interno il confrontarsi di diverse posizioni riguardanti il ruolo della moneta unica e la creazione di un set di regole che potessero garantire la stabilità e la crescita dell’Unione. Il primo passo fu l’istituzione della Commissione Delors che nel 1989 stabilì la Road Map che avrebbe portato verso un’integrazione monetaria. • La libera circolazione dei capitali. • La fondazione dell’Istituto Monetario Europeo (il precursore della Banca Centrale Europea). • La fissazione dei tassi di cambio della valute nazionali e l’introduzione di una valuta comune di riferimento. Nel 1991 gli Stati membri inserirono all’interno del Trattato di Maastricht i requisiti minimi di budget richiesti ai paesi che avrebbero adottato la moneta unica. Tali regole sarebbero state incluse nel 1997 1 all’interno del Patto di Stabilità e Crescita (PSC), allo scopo di garantire regole comuni che permettessero al contempo la crescita economica dei paesi aderenti alla moneta unica in un contesto di stabilità e sostenibilità dei conti pubblici. In particolare, il PSC prevedeva le seguenti misure: • Gli Stati membri devono presentare un Programma di Stabilità e Convergenza contenente un documento che stabilisca gli Obiettivi economici a Medio Termine (OMT) del paese in questione. Gli OMT, una volta aggiustati per gli effetti del ciclo economico e delle misure temporanee, devono collocarsi in un intervallo previsto fra il pareggio/avanzo di bilancio e il -1% del PIL. Uno scostamento dagli OMT è consentito fino a un massimo pari allo 0,5% del PIL. • Il debito degli Stati membri non deve superare il 60% del PIL. • Gli Stati membri non devono avere un deficit annuo superiore al 3% del PIL. Questa misura prevede un sistema di enforcement tale per cui lo stato che non rispetti tale limite e che non si adegui alle raccomandazioni della Commissione europea, andrà incontro a una Procedura per Deficit Eccessivo e in ultima istanza a una ammenda pari allo 0,5% del PIL. Tale sanzione non viene deliberata automaticamente, ma previa decisione del Consiglio. Va sottolineato che nessuna sanzione è stata mai imposta a un paese membro nonostante l’alto numero di procedure d’infrazione avviate dall’entrata in vigore del PSC. Il Patto di Stabilità e Crescita così formulato è stato il frutto del negoziato politico fra diversi paesi membri. Da una parte la Germania, con alle spalle una tradizione fiscale di rigore e alle prese con un’opinione pubblica avversa all’abbandono del marco, chiedeva che l’adozione della moneta unica si basasse su solidi e inderogabili principi macroeconomici. Come evidenziato da Sebastian Dullen 2, già nei primi anni ’90 la Germania pretendeva: • regole ferree su deficit e debito; • un sistema di applicazione automatico delle sanzioni in caso di procedura per deficit eccessivo allo scopo di dare all’opinione pubblica l’impressione che l’euro sarebbe sorto sotto i principi ispiratori della Bundesbank. 1 Si veda Council Regulation (EC) n. 1466/97 e 1467/97 e successive modifiche. 2 Si veda S. DULLEN, Don’t Judge Germany Negotiation Outcome Yet, ISPI Dossier, 2010. 4
I paesi “mediterranei”, il cui ingresso nell’Eurozona risultava particolarmente difficile, avevano un approccio meno rigoroso. In particolare, la situazione italiana preoccupava i tedeschi a causa sia di un’inflazione considerevole sia di politiche di cambio e di bilancio che avevano già ricevuto aspre critiche durante il funzionamento del Sistema Monetario Europeo (il debito pubblico italiano salì dal 58% del PIL nel 1980 al 98% nel 1990, per poi giungere al 121% nel 1995, quando erano già in corso le trattative sul PSC e sui criteri per l’adozione della moneta unica). Il criterio che stabiliva un tetto massimo del 60% del debito in rapporto al PIL appariva difficile se non impossibile da raggiungere per l’Italia. La ferma decisione dell’Italia di entrare a far parte dell’euro sin dall’inizio, unita a una politica di austerity portata avanti dal governo Ciampi ha convinto in extremis la Germania, giungendo così a una decisione dal profondo significato politico oltre che economico: avviare la moneta unica con 11 paesi membri fra cui l’Italia, la Spagna e il Portogallo (la Grecia rientrò nei parametri economici e fu pronta per l’ammissione solo un anno dopo). 1.2 L’euro e la divergenza delle economie europee L’unione monetaria di basava sul presupposto che gli squilibri delle partite correnti nei vari paesi dell’Eurozona sarebbero stati temporanei e di natura benigna. In effetti, nei primi 10 anni dall’adozione dell’euro, alcuni indicatori sembravano mostrare una tendenza alla convergenza economica. • Nel 2003, lo spread tra i tassi d’interesse dei bond a 10 anni dei paesi più indebitati (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, Irlanda) era del 2,1% rispetto a quelli di Francia e Germania, contro il 12,1% nel 1995 3. • I prezzi, se comparati sia a livello internazionale che a livello di serie storiche, mostravano un andamento particolarmente positivo: l’inflazione nell’Eurozona dal 2000 al 2010 era cresciuta solo del 2,3%. Si riteneva quindi erroneamente sufficiente un controllo sui conti pubblici e, nello specifico, su deficit e debito pubblico. La recente crisi economica ha portato alla luce questo “peccato originale” del Trattato di Maastricht, dato che gli squilibri macroeconomici sono lungi dall’essere temporanei e benigni. Figura 1 - Trade imbalances in EMU (Economic and Monetary Union), 1999-2009 % of GDP Current account as a % of GDP 10,00% 8,00% 6,00% 4,00% Germany 2,00% PIIGS 0,00% ‐2,00% 1999 2004 2009 ‐4,00% ‐6,00% ‐8,00% Fonte: C. Altomonte e B. Marzinotto, Monitoring Macroeconomics Imbalances in Europe: Proposal for a Refined Analytical Framework, 2010 3 Eurostat Database. Si veda A. VILLAFRANCA, Piggybacking Pigs. The future of Euroland after the Greek crisis, Ispi Policy Brief n. 179, marzo 2010. 5
La figura 1 4 mostra il trend divergente fra la bilancia delle partite correnti della Germania e quella dei paesi più indebitati: i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna). Queste dinamiche sono legate al diverso grado di competitività che i vari paesi hanno saputo esprimere negli ultimi 10 anni. Se dal 2000 al 2008 la produttività della Germania (fatta 100 la media europea) è stata pari al 109 rispetto a quella Europea, la Grecia ha mostrato un risultato pari solo a 68,9. Tali trend non sono stati compensati da adeguate politiche di moderazione salariale nei paesi che mostravano un calo della produttività del lavoro, anzi tali politiche hanno avuto luogo soprattutto in Germania. Queste performance divergenti hanno dunque avuto un impatto inevitabile su competitività e tassi di crescita: la Germania è infatti passata da un deficit delle partite correnti pari a -35,2 miliardi di euro nel 2000 a un ingente surplus pari a 165,4 miliari di euro nel 2008. Grecia, Spagna, Portogallo e Italia, al contrario, hanno mostrato deficit sempre maggiori e/o bassi potenziali di crescita 5. Tali divergenze hanno peraltro enfatizzato i limiti del “one-fits-all model” legati alla politica monetaria comune. La crisi globale ha quindi messo in luce le debolezze della costruzione della moneta unica, evidenziandone inoltre gli specifici squilibri nazionali. Se, infatti, da un lato la crisi di Grecia e Portogallo è riconducibile a una cattiva gestione delle finanze pubbliche, all’utilizzo sistematico del debito per finanziare consumi e spesa pubblica, nel caso di Spagna e Irlanda le cause sono piuttosto legate a un ridotto livello di competitività a cui si sommano bolle immobiliari e creditizie. La crisi dei PIGS dimostra quindi che il PSC non ha raggiunto gli obiettivi sperati in quanto caratterizzato dai seguenti principali difetti: • focalizzandosi sugli aspetti fiscali e tralasciando la necessità di un coordinamento delle politiche macroeconomiche, non è riuscito a tener conto della mancata convergenza delle economie europee; • il controllo relativo alla struttura del debito complessivo (non solo del debito pubblico) degli Stati membri; • non era presente un valido sistema di enforcement che promuovesse la trasparenza delle rendicontazioni nazionali. Ciò ha permesso a paesi come la Grecia di nascondere la reale gravità dei propri conti pubblici; • alla rigidità dei criteri stabiliti si contrapponeva un’eccessiva flessibilità nell’applicazione della procedura d’infrazione, soprattutto a seguito della revisione del PSC del 2005 su iniziativa di Francia e Germania (che aveva da poco oltrepassato il limite imposto sul rapporto deficit/PIL) e con il supporto, fra gli altri, dell’Italia. Ciò ha portato a meccanismi di sorveglianza e correzione troppo spesso votati a un’eccessiva prudenza “politica” e alla volontà di non “creare il precedente”. Tabella 1 - Struttura del debito dei PIIGS (2008 - percentuale del PIL) Irlanda Grecia Spagna Italia Portogallo Indebitamento delle imprese 344,3 108,5 331,7 212,7 391,5 Indebitamento delle famiglie 113,4 61,7 88,0 53,3 102,3 Indebitamento del settore pubblico 51,6 110,3 39,8 106,3 85,2 Fonte: Eurostat, Financial Accounts/Balance Sheets/Liabilities. Vale la pena inoltre sottolineare come sia la struttura dell’indebitamento complessivo degli stati a destare preoccupazione e ad aumentare l’effetto della crisi (tabella 1). Già nel 2008 la Spagna e, in misura ancora più preoccupante, l’Irlanda mostravano un indebitamento del settore finanziario e 4 Si veda C. ALTOMONTE e B. MARZINOTTO, Monitoring Macroeconomics Imbalances in Europe: Proposal for a Refined Analytical Framework, Bruegel Policy Brief, Settembre 2010. 5 Eurostat 2009. 6
delle imprese non finanziarie sproporzionato rispetto al dato sull’indebitamento pubblico. Tutto ciò, come sopra evidenziato, in un contesto in cui venivano alimentate le bolle finanziarie e immobiliari. Per uscire dalla crisi dei PIGS è dunque apparsa necessaria non solo una profonda revisione del PSC, che avrebbe provveduto a un più stretto controllo del deficit e del debito dei paesi dell’Eurozona, ma anche un maggior controllo degli squilibri macroeconomici e uno stretto collegamento con le politiche nazionali legate alla concorrenza, all’innovazione e alla crescita, nell’ambito della strategia “Europa 2020” (che comprende 5 macro-obiettivi nell’ambito del lavoro, della ricerca, dello sviluppo economico, dell’educazione, dell’ambiente e della lotta alla povertà), che ha sostituito la fallimentare esperienza della strategia di Lisbona. 1.3 Le proposte di riforma La crisi, stimolando un’analisi approfondita della governance europea, ha portato a una proposta di riforma da parte della Commissione europea comprendente la revisione del Patto di Stabilità e Crescita, oltre che strumenti per l’individuazione tempestiva e la correzione di dinamiche nazionali divergenti. L’obiettivo dichiarato è quello di un maggiore coordinamento fra esigenze di bilancio, controllo degli squilibri macroeconomici e delle potenzialità d’innovazione e crescita allo scopo di conciliare la necessità di una politica fiscale sostenibile con gli obiettivi a lungo termine contenuti nella strategia Europa 2020. Per tale ragione gli Stati membri sono chiamati a presentare congiuntamente nell’ultimo trimestre dell’anno il Programma di Riforma Razionalizzata, previsto dalla strategia Europa 2020, e il Programma Annuale di Stabilità e Convergenza, previsto dal Patto di Stabilità. Il risultato sarà la creazione del Semestre europeo nel quale tali documenti consuntivi e programmatici (seppur mantenuti distinti) verranno congiuntamente analizzati e attraverso i quali la Commissione potrà valutare la presenza di eventuali squilibri. Ciò sarà corredato da un set di indicatori inseriti all’interno di un “scoreboard”, sulla base dei quali la Commissione potrà mettere lo Stato membro sotto inchiesta attivando una Excessive Imbalance Procedure (EIP), fino alla possibile imposizione di sanzioni pari allo 0,1% del PIL. All’interno di questo quadro si inserisce la proposta di riforma del PSC in senso stretto ossia la modifica dei criteri di convergenza e degli strumenti di sorveglianza, prevenzione e correzione. Il nuovo Patto, così come formulato nella proposta della Commissione, prevede che: • gli stati dell’Eurozona procedano all’abbattimento del debito pubblico eccedente la soglia del 60% del PIL al ritmo di un ventesimo l’anno, allo scopo di evitare la creazione di un deposito pari allo 0,2% del PIL; • gli Obiettivi a Medio Termine siano resi operativi. Ciò in pratica significa porre un freno all’espansione della spesa pubblica e utilizzare eventuali proventi imprevisti e straordinari per la riduzione del debito; • le sanzioni relative allo sforamento dei criteri per debito e deficit siano di fatto automatiche: la decisione spetterà alla Commissione. Il Consiglio potrà contrastare la decisione della Commissione con un voto contrario preso a maggioranza (“reverse voting”). Lo stesso meccanismo è previsto per la EIP. La Germania, fautrice di una politica fiscale restrittiva, così come lo fu di una politica monetaria altrettanto restrittiva e focalizzata sulla prevenzione dell’inflazione, sostiene la linea della severità. La locomotiva europea, forte com’è di un avanzo delle partite correnti e della necessità di far riacquistare credibilità al Patto di Stabilità propone che: • il Patto di Stabilità e Crescita venga approvato mantenendo i riferimenti legislativi del 3% del PIL per il deficit e del 60% del PIL per il debito (rendendo anche questo secondo un limite 7
operativo). Un principio ancora più stringente è contenuto nella Costituzione tedesca che prevede che il deficit del paese non sfori il tetto massimo del 0,35% del PIL a partire dal 2015; • i paesi che non rispettino il Patto di Stabilità siano privati temporaneamente del diritto di voto in seno al Consiglio. Ciò richiederebbe una modifica dei trattati con la conseguente ratifica di tutti gli Stati membri; • non vengano previste sanzioni per i paesi con una bilancia delle partite correnti positiva; • venga istituito un meccanismo di gestione del default che non fomenti i problemi legati al “moral hazard”. Decisione questa quanto mai importante alla luce del “no-bail out-principle” stabilito dai Trattati (inoltre lo European Financial Stability Facility ha natura temporanea e potrà operare solo fino al 2013). L’incontro Merkel-Sarkozy dello scorso ottobre ha di fatti messo in evidenza il relativo automatismo delle sanzioni (legato al “reserve voting”) permettendo tuttavia agli Stati membri di fornire risposte adeguate entro 6 mesi. Si è inoltre sottolineato che una rinegoziazione parziale e guidata del debito dei paesi in difficoltà non è da escludere (la cancelliera Merkel ha peraltro dovuto recentemente rassicurare i mercati che ciò riguarderebbe solo il nuovo debito emesso dai paesi membri dopo l’avvio del meccanismo di gestione del default, ovvero dopo il 2013. Queste nuove proposte franco tedesche non hanno mancato di suscitare aspre critiche anche all’interno dell’ECOFIN, soprattutto nella parte riguardante la revisione dei Trattati. Il Consiglio europeo di dicembre ha chiarito che le decisioni riguardanti la riforma della governance economica europea andranno prese entro giugno 2011. 1.4 La riforma tra rigore e flessibilità La crisi ha evidenziato l’importanza degli squilibri macroeconomici oltre che dei deficit di bilancio nazionali. Solo il tempo ci dirà se la riforma della governance europea sarà stata in grado di sfruttare appieno l’opportunità data dalla crisi. In casi così complessi, come quello legato alle proposte di riforma sopra esposte, i dettagli tecnici contano molto. Alla luce delle posizioni espresse dagli Stati membri e della negoziazione in corso, si configurano due possibili scenari. Se la proposta della Commissione di rendere operativo il criterio relativo al rapporto debito/PIL venisse approvata senza riserve e se le richieste della Germania relative all’automatismo e all’inasprimento delle sanzioni venissero accolte ci troveremmo di fronte a un’Europa all’insegna del rigore e con le seguenti caratteristiche: • prenderebbe forma un “governo economico” dell’Eurozona tanto auspicato sia da Tommaso Padoa Schioppa che da alcuni “detrattori” dell’euro quali Krugman e Soros 6, i quali sostengono che l’unione monetaria sia deleteria se non affiancata a un’unione economica che coordini le economie nazionali; • l’applicazione tout-court delle sanzioni e delle stringenti tempistiche relative al rientro sul debito pubblico comporterebbe costi aggiuntivi per gli stati i quali, non potendo svalutare la moneta in un regime d’integrazione monetaria, potranno raggiungere tali obiettivi solo attraverso rigorose politiche di taglio alle spese e aumento della pressione fiscale. In mancanza di un meccanismo di tipo “federale” di redistribuzione della ricchezza, le politiche di austerity 6 P. KRUGMAN, The Making of a Euromess, in «The New York Times», 14 Febbraio 2010; G. SOROS, The euro will Face Bigger Tests than Greece, in «Financial Times», 21 Febbraio 2010; O. ISSING, Europe Cannot Afford to Rescue Greece, in «Financial Times», 15 Febbraio 2010; T. PADOA SCHIOPPA, Europe Cannot Leave Athens on Its Own, in «Financial Times», 18 Febbraio 2010. 8
potrebbero risultare insostenibili, da un punto di vista sociale, soprattutto nei paesi più deboli dell’Eurozona). Se invece si propendesse per una maggiore flessibilità: • ci sarebbe un ridotto automatismo delle sanzioni. La loro applicazione sarebbe quindi subordinata a un’ analisi economica e politica più approfondita attraverso l’identificazione di altri “fattori economici rilevanti”; • verrebbe stabilita una dilazione nei tempi della loro imposizione (il periodo di sei mesi proposto dalla Francia); • pur mantenendo operativo il vincolo del 60% relativo al rapporto debito/PIL, altri indicatori (tra cui la composizione del debito pubblico e il risparmio privato) sarebbero presi in seria considerazione; • pur permanendo il rischio che si ricreino le condizioni che hanno portato alla crisi rendendo i PIGS ancora una volta vulnerabili agli attacchi speculativi, una riduzione dell’austerità darebbe la possibilità ai paesi più deboli di uscire dalla crisi più velocemente e con meno sacrifici per i ceti più deboli. La crisi che ha colpito l’Eurozona dimostra che il “peccato originale” dell’EMU non può semplicemente essere perdonato, ma deve essere rimosso. Punto fondamentale della riforma è la credibilità che la stessa avrà, una volta approvata dal Consiglio, agli occhi degli Stati membri e dei mercati internazionali. Va infine considerato che molte delle misure presentate in questo scritto potrebbero condurre a costi aggiuntivi e risultare, di conseguenza, difficilmente sostenibili da un punto di vista sociale, soprattutto nei paesi più colpiti dalla crisi. Ciò potrebbe tradursi nei vari Stati membri in risultati elettorali inattesi (con peso crescente degli estremismi). Rigore ma anche grande attenzione alla valutazione dell’impatto socio-politico delle misure da intraprendere devono dunque rappresentare il cuore della nuova governance economica europea, altrimenti una ondata di Euro- scetticismo rischia di rendere inutile qualsiasi riforma. 1.5 2011: l’anno delle decisioni Il 2011 sarà un anno cruciale per la conclusione degli accordi in merito ai nuovi meccanismi di governance economica dell’Unione europea e dell’Eurozona in particolare. Nell’ultimo Consiglio europeo di dicembre i capi di Stato e di Governo si sono accordati non solo per apportare delle modifiche al Trattato di Lisbona capaci di rendere permanente – dal 2013 – un meccanismo di salvataggio dei paesi in difficoltà, ma anche per chiudere entro il prossimo giugno la questione della nuova governance economica europea. L’agenda è dunque fissata e i prossimi mesi dovranno essere utilizzati per presentare e vagliare varie proposte nella consapevolezza che scelte sbagliate o comunque ritenute inadeguate dai mercati internazionali potrebbero avere conseguenze drammatiche per l’Unione europea e, soprattutto, per la moneta unica. Appare ormai chiara a tutti l’esigenza di superare il “peccato originale” dell’euro, con una riforma della governance economica europea. Ciò va però inserito in un piano di rilancio della crescita economica che, in ultima analisi, rappresenta l’obiettivo più importante da perseguire nel prossimo decennio. A questo tema è dedicata la seconda parte del presente lavoro. 9
Parte Seconda “EUROPA 2020”: L’IMPEGNO PER LA COMPETITIVITÀ E LA CRESCITA 2.1 Dalla Strategia di Lisbona a “Europa 2020”: quali presupposti per un successo? Il nuovo millennio si apriva all’insegna della globalizzazione e della new economy, i due fenomeni che avrebbero appiattito il mondo disegnando lo scenario della concorrenza tanto per le imprese quanto per i territori 7. I territori più importanti dell’economia mondiale si fronteggiavano sulle due sponde dell’Atlantico: la crescita degli Stati Uniti spinta da una nuova produttività, sbocciata nella Silicon Valley californiana, e il consolidamento del mercato interno europeo grazie a una stabilità macroeconomica che aveva permesso l’adozione dell’euro e la pianificazione del più grande allargamento di sempre 8. Nonostante queste condizioni favorevoli, la competitività dell’Unione europea (UE) tardava a raggiungere il livello di quella degli americani. La crescita della concorrenza internazionale aveva bisogno di un intervento strumentale per la salvaguardia del modello di sviluppo dell’UE coerente con l’economia sociale di mercato9 che coniuga efficienza economica ed equità sociale sulla base dei principi di libertà individuale, solidarietà e sussidiarietà. Si trattava in particolare di incrementare la produttività per sfruttare le opportunità offerte dai cambiamenti tecnologici e per fronteggiare l’invecchiamento della popolazione. Si arrivava quindi a un impegno preciso da parte degli allora quindici paesi membri che, durante la presidenza portoghese, convocando un Consiglio europeo straordinario nel marzo 2000, si sono posti l’obiettivo di fare dell’UE «l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale, nel rispetto dell’ambiente» 10. Obiettivo politicamente rilevante da realizzarsi entro il 2010, al quale ha fatto seguito la predisposizione di un set completo di riforme sinergiche afferenti a differenti politiche e ad altrettanto differenti basi giuridiche; nasce la “Strategia di Lisbona”. Il programma di riforme della Strategia non poteva essere perseguito soltanto a livello dell’UE con il metodo comunitario (e quindi con la codecisione prevista nelle materie relative al mercato unico) in quanto molti degli ambiti d’intervento erano, e sono tuttora, di competenza degli Stati membri. Nonostante la sovranità dei singoli paesi membri su alcune politiche, la proposta di un approccio coordinato tra i governi nazionali era coerente con il principio secondo il quale gli interventi di un singolo stato sarebbero apparsi ancora più efficaci se sostenuti dall’azione collettiva degli altri membri, grazie agli effetti virtuosi di una peer pressure. Una cooperazione necessaria considerando inoltre che, per effetto delle interdipendenze nel mercato interno, ciascun paese è interessato dagli spill-over tanto positivi (es. istruzione e innovazione) quanto negativi (ritardo di sviluppo) degli altri membri. La recente crisi ha inoltre posto chiaramente in luce come le economie degli Stati 7 Messaggio che guida il fortunato libro di T.L. FRIEDMAN, The World Is Flat, Farrar, Straus & Giroux, 2005. 8 Nel 1997 la Commissione presenta un set di riforme per adeguare politiche importanti – quali quella agricola e quella di coesione – al grande allargamento dell’UE a Est del 2004. Tali riforme, raccolte in un unico pacchetto denominato “Agenda 2000” saranno adottate dal Consiglio europeo di Berlino del 26 marzo 1999. 9 Il riferimento al modello di Soziale Marktwirtschaft, sviluppato dalla scuola di Friburgo nel secondo dopoguerra, sarebbe diventato esplicito nel testo del Trattato Costituzionale, e lo è diventato con quello di Lisbona (art. 3 par. 3 del Trattato sul Funzionamento dell’UE). 10 Conclusioni della presidenza del Consiglio europeo di Lisbona del 23 e 24 marzo 2000, par. 5. 10
membri siano intrinsecamente legate tra loro e come l’azione (o inazione) di uno stato potrebbe avere notevoli conseguenze sul sistema economico europeo nel suo complesso. La Strategia di Lisbona ha concluso nel 2010 il suo ciclo fisiologico. Non si esaurisce tuttavia l’impegno dell’UE per una maggiore competitività considerando che le condizioni strutturali del sistema economico (es. invecchiamento) non si sono modificate, che la crisi economica sta richiedendo uno sforzo maggiore per poter garantire una qualità della vita almeno in linea con i livelli pre-2008 e considerando che, rispetto al 2000, oggi la sfida internazionale non arriva principalmente dagli Stati Uniti ma sempre più dalle nuove potenze guidate dai quattro paesi BRIC. 2.1.1 Una valutazione dopo dieci anni Si procede di seguito a una valutazione della Strategia di Lisbona 11, ovvero ai primi dieci anni di una strategia ad hoc dell’UE dedicata alla competitività. Questo per verificare se e come la nuova strategia “Europa 2020” s’inserisce nel percorso con coerenza e con le innovazioni adeguate per superare i limiti evidenziati dall’impostazione della strategia precedente. Analizzare i risultati non è tuttavia semplice; occorre infatti tener conto del ruolo svolto dal ciclo economico, dagli eventi esogeni, dalle politiche pubbliche non strettamente legate alla Strategia nonché dal cambio di governance avvenuto nel 2005 12. Gli ultimi dieci anni non possono definirsi fortunati se si ricorda l’esplosione della bolla della new economy, il fallimento del Millenium Round del WTO 13, le conseguenze economiche degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 e la crisi esplosa negli ultimi mesi del 2008. Proprio gli ultimi due anni hanno annullato i progressi realizzati dall’UE nell’ultimo decennio in termini di crescita economica e creazione di posti di lavoro. Il PIL è crollato del 4% nel 2009, la produzione industriale è tornata ai livelli degli anni Novanta e la disoccupazione è arrivata al 10%. Le finanze pubbliche hanno subito un forte deterioramento (addirittura drammatico in alcuni paesi), con aumenti del deficit ben oltre il livello del Patto di Stabilità e Crescita (PSC) e conseguenti aumenti del debito pubblico: nell’UE-27 siamo passati dal 58,8% del PIL del 2007 al 74% del 2009. Se consideriamo i principali indicatori che forniscono una rappresentazione del concetto di competitività (tabella 2), gli ultimi dati disponibili dimostrano che la crescita reale dell’UE viaggiava poco sotto quella statunitense prima della crisi ma i principali obiettivi – tasso di occupazione al 70% e 3% del PIL destinato alla Ricerca e Sviluppo (R&S) – sono lungi dall’essere stati raggiunti. In particolare, la spesa in R&S nell’UE è aumentata solo marginalmente e la produttività del lavoro, espressa in ricchezza prodotta per ora lavorata, è ancora inferiore a quella americana. Nonostante il mancato raggiungimento degli obiettivi quantitativi, bisogna tuttavia riconoscere che con la Strategia di Lisbona, i paesi dell’UE sono riusciti innanzitutto a individuare gli ambiti nei quali concentrare le riforme strutturali – in particolare formazione, lavoro e R&S – inserendole organicamente in un unico quadro coerente e, in secondo luogo, a lavorare per ottenere un consenso tra gli stakeholder nazionali sul programma degli impegni da perseguire. Si tratta di una base di 11 Si terranno in considerazione anche i contenuti del Documento di valutazione della Strategia di Lisbona redatto dai servizi della Commissione Europea. SEC (2010) 114 del 2 febbraio 2010. 12 In occasione del Consiglio europeo di primavera 2005, gli allora 25 capi di stato e di governo hanno svolto una valutazione dei primi cinque anni della Strategia di Lisbona, anche sulla base del rapporto presentato il 3 novembre 2004 e realizzato da un gruppo di alto livello incaricato dalla Commissione e presieduto da Wim Kok. In quella occasione, il Consiglio europeo ha accolto le modifiche alla Strategia di Lisbona proposte dalla Commissione che, tra le altre, l’ha ridenominata “Crescita e Occupazione”. 13 Dopo il fallimento dell’incontro intergovernativo di Seattle del World Trade Organisation (novembre 1999) per procedere alla liberalizzazione del commercio internazionale, veniva avviato il Development Round a Doha (novembre 2001) il quale, a oggi, dopo cinque incontri intergovernativi, non ha ancora portato i risultati previsti. 11
partenza consolidata sulla quale, come vedremo di seguito, “Europa 2020” potrebbe svilupparsi con successo. Tabella 2 - Principali indicatori per UE e Stati Uniti UE-27 / USA UE-27 / USA Tasso di crescita del PIL reale 2,4 / 2,6 media 2000-2007 -0,6 / 0 media 2008-2010 Tasso di occupazione 14 66,6 / 76,9 2000 69,1 / 71,3 2009 Spesa in R&S (% PIL) 1,85 / 2,69 2000 1,9 / 2,76 2008 15 Laureati MST 10,1 / 9,7 2000 13,9 / 10,1 2008 Produttività del lavoro 16 25,5 / 41,9 2000 27,9 / 50 2009 Fonte: Eurostat. 2.1.2 La governance della Strategia di Lisbona La complessità disegnata dai diversi ambiti d’intervento richiesti da una strategia per la competitività, ha portato a considerare le diverse interazioni sinergiche tra gli obiettivi, nonché i trade-off di breve periodo, e le differenti competenze distribuite tra UE e Stati membri in funzione delle politiche interessate. L’UE ha pertanto predisposto una governance specifica che ha dovuto necessariamente auto-correggersi in fieri per accrescere la sua efficacia. Dietro la sintesi offerta dall’andamento del PIL, nell’UE si nascondono strutture economiche e sociali la cui differenza si è ulteriormente accentuata con gli allargamenti del 2004 e del 2007. Tale eterogeneità ha portato nel 2005 al deciso abbandono di obiettivi comuni, da raggiungere principal- mente con il metodo di coordinamento aperto, che hanno caratterizzato la prima metà della Strate- gia di Lisbona. Nonostante l’attività di coordinamento e di monitoraggio della Commissione, con valutazioni basate su un numero esteso di indicatori – già disponibili in Eurostat e costruiti ad hoc – l’applicazione di tale metodo, sostanzialmente di natura intergovernativa, non ha sortito gli auspicati effetti. Il mancato successo può essere attribuito all’insufficiente pressione reciproca (tra paesi membri) e interna (proveniente dalle istituzioni e dalle varie parti della società) nonché all’assenza di strumenti coercitivi (es. sanzioni come, per esempio, nel Patto di Stabilità e Crescita) o di incentivi politici (individuazione chiara dei paesi migliori, ma anche di quelli peggiori). Con la riforma del 2005, la Strategia di Lisbona (modificando ufficialmente il suo nome in “Crescita e Occupazione”) adotta una nuova governance per le politiche nazionali, lasciando sostanzialmente inalterato il metodo comunitario. Abbandonando la logica degli obiettivi comuni, viene rafforzato il principio di sussidiarietà permettendo a ciascun paese di stabilire il proprio percorso di avvicinamento a delle linee guida generali definite nel documento degli “Orientamenti Integrati per la Crescita e l’Occupazione” 17. A partire dal 2005, ogni paese ha quindi dovuto redigere i cosiddetti Programmi Nazionali di Riforma (PNR) per descrivere i propri obiettivi e le modalità delle riforme nazionali necessarie per perseguire quanto indicato negli Orientamenti 14 Il tasso di occupazione è calcolato dividendo il numero delle persone (20-64 anni) occupate sul totale della popola- zione della stessa fascia di età. 15 Laureati – International Standard Classification of Education (ISCED) 5-6 – in Matematica, Scienza e Tecnologia per 1000 abitanti (20-29 anni). 16 PIL reale per ora lavorata. 17 La Commissione, seguendo l’invito del Consiglio europeo del 2005, redige un documento per tradurre le priorità della crescita e dell’occupazione in indirizzi di massima per le politiche economiche (ai sensi dell’art. 99 dell’allora Trattato CE) e in nuovi orientamenti per l’occupazione (ai sensi dell’art. 128 del TCE). Questi due strumenti si sarebbero così trovati allineati agli obiettivi della nuova Strategia di Lisbona. 12
Integrati, promuovendo strategie di crescita con maggiori collegamenti tra le politiche microeconomiche, macroeconomiche e occupazionali. Per permettere di seguire le diverse fasi delle riforme strutturali necessarie, i PNR, come gli Orientamenti che ne definiscono il quadro di riferimento, hanno un’estensione triennale, all’interno della quale s’inserisce un ciclo annuale di aggiornamento (da parte del governo nazionale) e di controllo (da parte della Commissione) per realizzare i necessari aggiustamenti in funzione delle modificate condizioni socio-economiche. La nuova governance introdotta nel 2005 ha reso più chiara la ripartizione delle responsabilità tra le istituzioni dell’UE e gli Stati membri. La Commissione ha potuto fornire agli Stati membri suggerimenti circa le opzioni politiche, spesso giovandosi della propria esperienza maturata in altri settori dell’UE, mentre gli Stati membri hanno offerto una prospettiva nazionale, più rispondente alle specifiche opportunità di riforma nonché alle limitazioni esistenti. Le raccomandazioni che la Commissione ha rivolto specificamente ai singoli paesi hanno avuto, in alcuni casi, effetti sostanziali. Alcuni paesi hanno fatto sorgere al proprio interno un’esigenza di riforma con l’intento d’inserire le proprie politiche nazionali in una dimensione europea e mostrando che altri paesi stavano affrontando le stesse questioni. Un PNR che prima dell’adozione finale da parte del governo è stato dibattuto nel Parlamento e ha richiesto il coinvolgimento da parte della società civile, ha avuto maggiori possibilità di essere politicamente vincolante e condiviso dalla popolazione. Si tratta di una condizione fondamentale considerando che le riforme, propriamente dette, sono tali da avere un impatto negativo su alcune parti della società. Tuttavia, se da un lato gli Orientamenti Integrati introdotti nel 2005 hanno contribuito a imprimere la direzione delle politiche economiche e occupazionali nazionali, il loro carattere generico e la mancanza di una gerarchizzazione interna degli obiettivi hanno limitato gli effetti di questo strumento sul processo di elaborazione delle politiche a livello nazionale. L’approccio ai PNR è stato infatti notevolmente diverso tra uno Stato membro e l’altro, con programmi di riforma ambiziosi e coerenti in alcuni paesi e programmi vaghi e descrittivi in altri che non avevano l’appoggio dei governi e dei parlamenti nazionali (e regionali). Gli obiettivi a livello di UE erano troppo numerosi e non riflettevano sufficientemente le differenze esistenti tra i punti di partenza dei diversi Stati membri, soprattutto dopo l’allargamento. La situazione di alcuni Stati membri, per esempio, si poneva già oltre l’obiettivo fissato, mentre per altri Stati membri gli obiettivi non erano realisticamente raggiungibili nell’arco di tempo stabilito. 2.1.3 I paesi hanno economie molto diverse… L’impegno comune stabilito al Consiglio europeo del 2000 ha prodotto alcuni dei risultati auspicati a livello UE (tabella 2), ma si è declinato in performance molto differenti a livello nazionale: gli Stati membri con risultati migliori hanno accelerato il ritmo e hanno portato avanti riforme più ambiziose, mentre altri hanno gradualmente accumulato un divario di attuazione. Il comportamento diversificato dei paesi si evince se consideriamo separatamente il trend 2000- 2009 delle due componenti che determinano il PIL: occupazione e produttività. Limitando la nostra analisi ai principali paesi dell’UE, la figura 2 dimostra come, in linea di massima, i governi nazionali siano riusciti ad aumentare l’occupazione, introducendo riforme volte a sostenere l’adozione di forme contrattuali di lavoro part-time e a tempo determinato, avvicinandosi all’obiettivo posto per il 2010 (Italia, Spagna, Francia) e addirittura a quello più ambizioso posto dalla nuova strategia “Europa 2020” (Germania), e mantenendo livelli già relativamente elevati (Regno Unito). Tuttavia soltanto il 63% delle donne lavora contro il 76% degli uomini. Solo il 46% dei lavoratori più anziani (55-64 anni) è ancora in attività, contro più del 62% negli Stati Uniti e in Giappone. Inoltre, le ore lavorative degli europei sono inferiori del 10%, in media, a quelle dei loro omologhi statunitensi o giapponesi. 13
Rimane aperto il problema della produttività che mostra la variabilità dei paesi considerati rispetto alla media UE e il ritardo crescente rispetto agli Stati Uniti. La produttività del lavoro, componente principale per la crescita di lungo periodo, dipende dalla qualità del capitale fisico e umano, dal miglioramento delle competenze e della manodopera, dai progressi tecnologici e dalle nuove forme di organizzazione capaci di garantire un’efficiente allocazione delle risorse. Il problema europeo si può individuare nelle differenze dimensionali tra imprese, a cui si aggiungono investimenti di minore entità nella R&S e nell’innovazione, un uso insufficiente delle Information and Communication Technologies (ICT) (che soprattutto nelle regioni periferiche si ripercuote negativamente sulla diffusione delle conoscenze, sulla capacità di innovare e sulla distribuzione online di beni e servizi), un ambiente imprenditoriale meno dinamico e un mercato interno non ancora del tutto integrato. Ma, soprattutto, nell’economia della conoscenza un quarto degli studenti ha scarse capacità di lettura, un giovane su sette abbandona troppo presto la scuola e la formazione, circa il 50% raggiunge un livello di qualificazione medio (che potrebbe non corrispondere alle esigenze del mercato del lavoro) e meno di una persona su tre (di età compresa tra 25 e 34 anni) ha una laurea, contro il 40% negli Stati Uniti e oltre il 50% in Giappone. Figura 2 - Tasso di occupazione (asse orizzontale) e produttività (asse verticale) 2000-2009 Fonte: Eurostat. 2.1.4 … e diversi orientamenti politici… Come visto sopra con riferimento a occupazione e produttività, i paesi membri hanno cominciato a impegnarsi per realizzare gli obiettivi comuni della Strategia di Lisbona partendo da situazioni differenti; divari che non sempre si sono attenuati nel corso del tempo. La diversità va anche oltre i dati statistici ed emerge anche dai differenti modi con cui i singoli paesi perseguono strategie competitive. Consideriamo per semplicità un altro indicatore di competitività, ovvero la facilità di svolgere un’attività economica rilevata ogni anno dalla Banca Mondiale con il suo rapporto “Doing Business”. La valutazione complessiva (ease of doing business, nella tabella 3 che indica la posizione nella classifica dei 183 paesi del mondo considerati) è il risultato di dieci punteggi ottenuti da ciascun paese in altrettanti ambiti che descrivono le attività principali di impresa: dall’avvio fino alla sua chiusura. Tra queste attività focalizziamo la nostra attenzione sulle regole del mercato del lavoro (employing workers) e su quelle fiscali (paying taxes); due ambiti nei quali è ancora decisiva la sovranità dei singoli paesi. 14
È possibile notare come ci siano paesi competitivi con mercati del lavoro sia rigidi (es. Finlandia e Germania) che flessibili (Irlanda, Danimarca e Regno Unito), e con sistemi fiscali onerosi (Austria e Germania) e meno onerosi (ancora Irlanda, Danimarca e Regno Unito). Ovviamente queste due attività non esauriscono le attività d’impresa, ma la classifica dimostra come paesi egualmente competitivi abbiano – più storicamente che congiunturalmente – modelli diversi e spiega come mai è difficile trovare un coordinamento, seppur aperto, per condividere processi di riforma verso una direzione univoca (quale mercato del lavoro e quale modello fiscale per essere competitivi?). A dimostrazione di questo interrogativo ancora aperto, vi è l’introduzione del concetto di “flessicurezza”, definito come una strategia integrata volta a migliorare al tempo stesso la flessibilità e la sicurezza sul mercato del lavoro 18. Conciliazione possibile nel lungo periodo, trade- off nel breve periodo che esalta tutta l’ambiguità del neologismo. Tabella 3 – Classifica dei paesi 19 dell’UE (su 183 paesi) Ease of doing business Employing workers Paying taxes Austria 28 60 102 Belgio 22 48 73 Bulgaria 44 53 95 Cipro 40 93 37 Danimarca 6 9 13 Estonia 24 161 38 Finlandia 16 132 71 Francia 31 155 59 Germania 25 158 71 Grecia 109 147 76 Irlanda 7 27 6 Italia 78 99 135 Lettonia 27 128 45 Lituania 26 119 51 Lussemburgo 64 170 15 Paesi Bassi 30 123 33 Polonia 72 76 151 Portogallo 48 171 80 Regno Unito 5 35 16 Rep. Ceca 74 25 121 Romania 55 113 149 Slovacchia 42 81 120 Slovenia 53 162 84 Spagna 62 157 78 Svezia 18 117 42 Ungheria 47 77 122 Fonte: Banca Mondiale, Doing Business 2010. 2.1.5 … che riducono anche l’efficienza del metodo comunitario Tornando sul fronte degli strumenti e della governance, per quanto riguarda gli interventi legati al completamento del mercato interno, l’UE ha potuto operare con l’efficienza del metodo comunita- rio grazie al ruolo propositivo della Commissione e alla maggioranza qualificata in sede di 18 Vedere in proposito la Comunicazione della Commissione europea, Verso principi comuni di flessicurezza: Posti di lavoro più numerosi e migliori grazie alla flessibilità e alla sicurezza. Documento COM(2007)359 del 27 giugno 2007. 19 Malta non è presente nel report della Banca Mondiale. 15
Consiglio dell’UE. Nei primi dieci anni della Strategia di Lisbona, se sul fronte comunitario la Commissione ha fatto sentire il suo ruolo propulsivo nel completamento del mercato interno, i singoli partecipanti ai Consigli europei di primavera 20 non sembrano aver dato seguito ai loro propositi. La legislazione che regola il funzionamento del mercato interno è composta principalmente da direttive, strumento che impone agli Stati membri di adattare l’ordinamento nazionale attraverso l’applicazione di misure di trasposizione che permettano l’attuazione della direttiva. Con questo strumento gli Stati membri godono (almeno nelle intenzioni) della flessibilità necessaria per tenere conto delle loro diverse tecniche legislative. Ma gli Stati membri devono garantire, e la Commissione deve controllare, che il recepimento delle direttive avvenga in tempo e corrisponda realmente agli obiettivi previsti. Malgrado secondo gli ultimi dati disponibili 21 in media lo 0,9% delle direttive del mercato interno, i cui termini di attuazione sono scaduti, non è attualmente recepito nei 27 diritti nazionali, permane soprattutto il problema delle direttive non correttamente recepite e quindi non correttamente attuate. In diverse occasioni, quindi, gli Stati membri, nonostante l’adozione delle direttive in sede di Con- siglio per realizzare le auspicate riforme, sembrano non dare seguito correttamente agli impegni presi. 2.1.6 Il livello regionale Sebbene la governance della Strategia di Lisbona sia stata affidata prevalentemente ai governi nazionali, è indubbia la rilevanza del livello regionale, considerando i Trattati (principio di sussidiarietà e obiettivo di coesione territoriale) la loro implementazione (il 70% della legislazione dell’UE viene applicata a livello regionale e locale), le responsabilità in capo ai governi locali (es. politica attiva del mercato del lavoro, istruzione, sviluppo delle infrastrutture, ambiente imprenditoriale) e i relativi aspetti economici (gli enti regionali e locali rappresentano il 16% del PIL dell’UE e il 56% del pubblico impiego). Con riferimento a questi ultimi, come evidenziato dalla figura 3, per i principali paesi dell’UE la spesa pubblica regionale e locale rappresenta una parte rilevante della spesa pubblica complessiva (Germania e Spagna) e risulta crescente in alcuni paesi (Francia Italia e Spagna). Tale rilevanza si è tradotta nel ruolo formale del Comitato delle Regioni svolto nel processo di sostegno alla Strategia e nel ruolo sostanziale delle autorità regionali e locali in alcuni Stati membri. Nella maggior parte dei paesi, le autorità regionali e locali non sono state però coinvolte in modo significativo. Il coinvolgimento degli attori locali s’inquadra nell’obiettivo della coesione: oltre all’eterogeneità tra Paesi membri, vi è quella tra regioni e gli effetti della concorrenza nel mercato interno determinano un’azione centripeta delle risorse produttive e della ricchezza escludendo i territori periferici. La figura 4 evidenzia i progressi realizzati dall’UE e dai suoi principali paesi con la sua politica di coesione 22 riducendo nel periodo 2000-2007 il divario del PIL procapite tra le regioni 23 di un paese (21 in Italia, considerando le due province autonome). Tuttavia le differenze all’interno dei paesi persistono e, dietro l’indicatore della ricchezza, si nascondono con altrettanti divari le variabili-chiave quali l’occupazione e la produttività. 20 Dal marzo 2000, il Consiglio europeo dedicherà un Vertice, solitamente nella terza settimana di marzo, prevalentemente alle questioni della competitività e garantirà il follow-up alla Strategia. 21 Commissione europea, Internal market scoreboard, n. 21, 23 settembre 2010. 22 Per maggiori informazioni, consultare la Quinta relazione sulla coesione economica e territoriale, pubblicata dalla Commissione europea il 10 novembre 2010. 23 I 27 paesi dell’UE sono suddivisi in 268 territori NUTS (Nomenclature d’Unités Territoriales Statistiques) 2 che, in Italia, corrispondono alle Regioni. 16
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