Elementi di geografia politica - Il territorio e il potere 2. Lo Stato e le sue funzioni 3. Cittadinanza, nazione e minornaze 4. Stato e territorio

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Elementi di geografia politica

1. Il territorio e il potere

2. Lo Stato e le sue funzioni

3. Cittadinanza, nazione e minornaze

4. Stato e territorio

5. Frontiere e confini

6. Glossario

                         Claudio Ferrata, LiLu2, marzo 2013

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Premessa

Si ritiene che la politica riguardi esclusivamente i partiti, i governi, gli
Stati, la guerra e la pace, ecc. Per Joe Painter e Alex Jeffrey, autori del
manuale Political Geography (2011), questa sarebbe la politica formale,
l’azione di un sistema di governo, una sfera che viene ritenuta separata
dalla vita di tutti i giorni. Per questo motivo molti dicono di non essere
interessati alla politica. Ma la politica ha un importante impatto sulle
nostre vite: ci accorda diritti, ci attribuisce doveri, crea le condizioni per il
nostro benessere, …
Ma vi è anche chi       afferma che “la politica è ovunque”: nell’ambito
domestico, nel consumo di cibo, nell’industria, nell’istruzione, nella TV, ecc.
È ciò che affermava il filosofo Michel Foucault il quale ritiene che il potere
(molto più visibile nelle società tradizionali mentre nelle società moderne
esso è più nascosto) è presente in modo capillare in tutte le relazioni
presenti nella vita quotidiana. Questo tipo di politica viene definito da
Painter e Jeffrey informale.
La geografia politica per lungo tempo si è concentrata sulla prima forma
di politica ma oggi ritiene, come Foucault, che le relazioni di potere siano
sempre presenti, in questo modo essa ha ampliato i suoi interessi e ha
iniziato ad occuparsi di nuovi temi che vanno oltre la politica dello Stato.

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Il territorio e il potere

Cosa è il territorio?

Il concetto di territorio, che ha avuto un grande successo mediatico, è
diventato uno dei concetti più importanti della geografia umana e delle
discipline affini. Quali sono le sue origini? Esso è stato utilizzato
dall’etologia dove è considerato come lo spazio delle risorse da difendere e
da utilizzare. In un ambito più vicino ai nostri interessi, esso si presenta
nell’epoca moderna con un significato essenzialmente giuridico. Nella
teoria politica il termine territorio viene impiegato nelle lingue europee sin
dal 1300: con territorio si intendeva definire inizialmente l’area di
giurisdizione o di influenza economica di organizzazioni politiche quali le
città libere, i feudi o i regni. Questa accezione lega il territorio alla presenza
di uno Stato. In seconda battuta pone poi anche la questione dei limiti
territoriali nelle loro varie forme (confine è il limite analizzato dalla
geografia politica).
Nella geografia il territorio viene messo in relazione con i gruppi umani: un
gruppo umano vive, cresce ed evolve grazie alle trasformazioni che imprime
all’ambiente nel quale è originariamente insediato. Lo spazio naturale,
dunque, grazie all’azione trasformativa, acquista un valore antropologico,
diventa un artefatto, si connota progressivamente come territorio. Dal canto
suo il territorio (…) è in piena evidenza un prodotto dell’azione umana; al
tempo stesso, tuttavia, esso è condizione dell’azione umana, una
configurazione del mondo, e più particolarmente della superficie terrestre,
che permette il pieno dispiegamento dell’agire umano (A. Turco, Paesaggio:
pratiche linguaggi mondi, 2002, p. 9).
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Il territorio viene poi considerato come il prodotto di una coevoluzione:
prodotto storico dei processi di coevoluzione di lunga durata fra
insediamento umano e ambiente, natura e cultura e, quindi, come esito della
trasformazione dell’ambiente a opera di successivi e stratificati cicli di
civilizzazione. (A. Magnaghi, Il progetto locale, 2000, p. 16)

Gli ordini di grandezza geografici

I fenomeni geografici coinvolgono ordini di grandezza differenti. Quali sono
gli ordini di grandezza degli spazi geografici? Si possono considerare 5
ordini di grandezza principali:

    -    primo ordine da 40.000 a 12.500 km (il Mondo)
    -    secondo ordine da 12.500 a 1250 km (gli Stati Uniti)
    -    terzo ordine da 1250 a 125 km (lo Stato di New York)
    -    quarto ordine da 125 a 12,5 km (la città di New York)
    -    quinto ordine da 12,5 a 1,25 km (il Central Park)

I geografi parlano anche di scala. Così come esiste una scala cartografica1,
dove la nozione di scala esprime un rapporto di riduzione, esiste anche una
scala geografica. La scala non rimanda solo a una tecnica cartografica ma
anche a un tipo di analisi di fenomeni geografici. Se cambia la scala cambia
la problematica: l’uso di una scala piuttosto che di un’altra permette di
mettere in evidenza aspetti diversi. Prendiamo l’esempio dell’allestimento
di una nuova infrastruttura autostradale o ferroviaria, in questo caso verrà
coinvolta: una scala europea, una scala nazionale, un scala regionale,
inserimento in una rete più vasta, un scala locale, poste in gioco politiche,
economici e sociali. A piccola scala un progetto può essere condiviso da
molti, a scala locale (grande) può essere oggetto di diversi conflitti. Leggere
il tracciato di una grande infrastruttura a scala locale (grande) permetterà
di vedere le condizioni specifiche del sito, di evidenziare conflitti sociali,
problemi tecnici (tracciato) specifici. La piccola scala permetterà di leggere
il problema in modo più ampio: scelta delle grandi direttrici del tracciato,
regioni urbane messe in collegamento, ecc.

1  Contrariamente al linguaggio corrente una grande scala rimanda a un
denominatore piccolo (per esempio 1:25.000), mentre una piccola scala si riferisce a
un denominatore grande (per esempio 1:100.000).
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Tempi e temporalità

L’analisi geografica deve considerare anche le temporalità. Tempo designa
l’insieme della durata e della successione delle parti della durata.
Protagonista nel dopoguerra della seconda stagione delle Annales, lo
storico Fernand Braudel (1892-1985) abbandonò un’idea di tempo
unilaterale a favore di temporalità diverse. Come dice lo stesso Braudel, la
marea, l’onda, la schiuma: quindi la lunga durata (della congiuntura), un
tempo intermedio, i tempi più brevi (Le Goff, La nuova storia).
Ci sono tempi della natura, che di solito sono tempi lunghi, e ci sono i tempi
dell’uomo, quelli che si sviluppano su una scala storica che vengono divise
in periodi, detti anche stadi, separati da fasi di cambiamento. Sono i tempi
lunghi dell’appropriazione del pianeta, i tempi magari più brevi
dell’appropriazione dei territori, sono i tempi della diffusione dei fenomeni
geografici nello spazio.
Quali temporalità ci interessano? I tempi della natura e quelli degli uomini.
Tra i primi possiamo mettere: i tempi astronomici misurati in miliardi di
anni e i tempi geologici che si misurano in milioni di anni. Tra i secondi: i
tempi della preistorici in centinaia di migliaia di anni, i tempi
dell’archeologia e della geostoria in migliaia di anni tempi dello storico che
si misurano in secoli, decenni, anni, mesi, giorni… (Y. Lacoste, Dictionnaire
de la géopolitique et des paysages).
Spazi geografici e tempi storici si intersecano nella costruzione dei territori
e nella loro analisi.

Gli attori sociali

Il territorio non può essere concepito senza che vengano considerate e
forze che lo producono. Lo spazio geografico può essere visto come una
grande scacchiera dove diverse forze lottano, si alleano o si annullano. Si
tratta di capire quali sono queste forze, i loro interessi e i loro obiettivi,
quali gli usi del suolo auspicati, quali le loro strategie.
Queste forze agiscono in ogni società: individui, imprese, collettività
pubbliche, gruppi di interesse, partiti politici, ecc. Perché? Per accaparrarsi
le risorse e ottenere i mezzi necessari per essere autonomi e non soggetti
alla volontà di altri. L'imprenditore vorrà trarre dal suolo il massimo
profitto, il comune vorrà favorire l'interesse della collettività, il gruppo
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ecologista preservare l'ambiente, e così via. Gli attori sociali sono quelle
forze che agiscono e che hanno incidenza sullo spazio geografico2. Agiscono
sullo spazio geografico in funzione dei loro interessi, mezzi e strategie (che
dipendono in parte dalle loro rappresentazioni dello spazio).
Presi nel complesso, costituiscono il sistema degli attori (Brunet, Le
déchiffrement du monde, 2001, p. 33):

•    Gli individui e le famiglie: abitano, consumano, lavorano, si spostano
     nello spazio, sono proprietari o affittuari.
•    L'impresa: sfruttano e trasformano               le   risorse, scelgono una
     localizzazione per le loro installazioni, originano flussi di merce,
     scambi, lavoro, ecc.
•    I gruppi: gestiscono o hanno interessi inerenti il territorio. Sono i partiti
     politici, i sindacati, i gruppi di interesse e di pressione, le lobby (es.
     TCS), i movimenti sociali (come i Cittadini per il territorio, il
     movimento femminista, …), i gruppi ambientalisti, ecc.
•    Le collettività locali come il comune, regione, dipartimento, …,
     collocano infrastrutture sul territorio, gestiscono direttamente lo
     spazio e si occupano di pianificazione del territorio.
•    Lo Stato: si assume grandi lavori infrastrutturali, preleva la fiscalità,
     crea norme, gestisce le "maglie" del territorio. Pianificando il territorio
     svolge funzioni di regolazione tra gli obiettivi diversi degli attori.
•    Attori internazionali come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario
     internazionale.

Attraverso il ruolo degli attori la società si riproduce e produce il proprio
spazio. I vari attori sono in relazione tra di loro, alcune di queste relazioni
possono essere più intense, si tessono complicità, antagonismi.

I conflitti territoriali

Il conflitto (da conflictus, fligere, come choc, lotta, combattimento) è uno
scontro che non deve necessariamente essere inteso come guerra. In
geografia i conflitti sono numerosi, anche se a volte occultati: tra nomadi e
sedentari, tra industria e agricoltura, tra due paesi in merito al tracciato di

2 "Acteur",   Les mots de la géographie. Dictionnaire critique, 1992
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una frontiera, per un certo uso del territorio o per la sua protezione, per la
localizzazione di determinate attività. In funzione della rarità dello spazio,
della compatibilità tra le funzioni e degli interessi degli attori, il territorio
diventa una grande scacchiera sulla quale operano attori dotati di obiettivi e
strategie diverse e dove si manifestano le rivalità di potere in relazione allo
spazio. Il conflitto geografico non può che essere terriorializzato, vale a dire
che quando non consiste direttamente in una lotta per il territorio, si iscrive
nello spazio.
Quali sono i conflitti geografici? Vi sono innanzitutto i conflitti per i grandi
progetti e per la pianificazione del territorio come quelli legati
all’edificazione di un parco eolico, di una nuova linea ferroviaria o
autostrada, per la localizzazione di un termovalorizzatore, di una discarica
rifiuti, di una impresa inquinante, o ancora per la scelta del luogo dove
collocare un centro richiedenti asilo, un corridoio aereo, la reintroduzione
della fauna nelle Alpi. In questo caso può operare la cosiddetta sindrome
NIMBY, nozione che si presenta per la prima volta a NY nel 1980.
Vi sono poi i conflitti per le risorse. Il caso del progetto GAP o i numerosi
casi per le risorse petrolifere sono a questo proposito emblematici.
Vi sono anche conflitti legati a nazionalismi regionali e indipendentismi.
Coinvolgono aspetti identitari, linguistici, le risorse statali. Esempi: Belgio,
Catalogna, Scozia, Kurdistan.
Infine vi sono conflitti più classici legati al tracciato delle frontiere: sono
dispute per la loro definizione, localizzazione e gestione e per la ripartizione
e l’utilizzo delle risorse (idriche, minerarie, ittiche, ecc.) che ne deriva. In
molti casi le frontiere si trasformano in veri e propri muri militarizzati, lo è
con il muro edificato dagli Israeliani sul confine con la Palestina, nel Sahara
occidentale, ne vorrebbero uno i greci presso Evros, lo è stato a Cipro.
Naturalmente queste 4 tipologie di conflitti possono sovrapporsi l’una con
l’altra.

Cosa è la geografia politica

La geografia politica è quel settore della geografia umana che studia le
relazioni spaziali connesse all’esercizio del potere a diverse scale. La
dimensione del potere condiziona le questioni territoriali e non solo a scala
statale.

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Ma cosa è il potere? Il potere è costituito dalle relazioni di dominio dei
soggetti individuali o collettivi, pubblici o privati su altri soggetti. Come
sosteneva il filosofo Michel Foucault il potere è presente in ogni tipo di
relazione: “il potere è ovunque”. Quindi accanto a una politica formale,
intesa come azione di un sistema statale, esiste una politica informale,
presente nelle istituzioni come la famiglia, l’azienda, la scuola, i media, ecc.
Precursore della geografia politica fu Friedrich Ratzel (1844-1904), uno dei
padri della geografia umana. Di formazione naturalistica, influenzato dal
darwinismo e dalle tesi evoluzionistiche in voga al suo tempo, è l’autore nel
1877 di Politische Geographie e di Anthopogeographie, in due volumi, del
1882 e 1891. Il suolo viene presentato come dato intangibile e come
oggetto di competizione. Lebensraum: lo stato è un organismo vivente,
nasce, cresce, si sviluppa. Deve assorbire unità politiche di minore
importanza, frontiera organo periferico, materializza la crescita, evolve.
Sarà poi il politologo svedese Rudolf Kjellen (1864-1922), professore di
storia e scienze politiche a Uppsala, a introdurre il termine di geopolitica
nel 1916, “scienza dello Stato in quanto organismo geografico, così come si
manifesta nello spazio”. Karl Haushofer, vicino al gerarca nazionalsocialista
Rudolf Hess, farà entrare la geopolitica nell’orbita del nazismo, ne
diventerà uno strumento per giustificare l’espansione nazista: lo stato
come un organismo biologico alla ricerca di                 uno spazio vitale
(Lebensraum) che deve crescere, estendersi, anche annettendosi stati più
piccoli e deboli.
Proscritta per lungo tempo, negli anni della prima Guerra del Golfo e della
guerra irakena (2003), la geopolitica torna in scena diventando popolare e
mediatica. Yves Lacoste rilancerà questa nozione utilizzandola per
analizzare l’imperialismo americano in Vietnam e i bombardamenti delle
dighe sul fiume Giallo, le problematiche del Terzo Mondo: la geografia
serve per fare la guerra (1976). Lo stesso Lacoste oggi ritiene che esista
una geopolitica interna (allo stato) e una geopolitica esterna (tra stati).

Geografia politica o geopolitica?

Anche se i due termini vengono impiegati oggi in modo indistinto ci
troviamo davanti a due diverse discipline.
La prima è una branca della geografia umana, la seconda è piuttosto legata
alle cancellerie e alla strategia militare. La geografia politica ha
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un’attitudine scientifica (e non necessariamente operativa), non si limita
alla geografia dello Stato e si apre verso i temi più diversificati quali le
politiche ambientali, lo studio del terrorismo, le minoranze, i movimenti
sociali urbani, ecc. Ritiene che l’esercizio del potere non sia esclusivo
appannaggio dello stato (esiste un potere economico, gruppi di pressione,
religione, istituzioni,... e non si manifesta solo attraverso la guerra, insiste
sulla messa in evidenza ruolo degli attori sociali e dei loro obiettivi sul
territorio.
La geopolitica è costituita da un amalgama di conoscenze provenienti dalla
geografia, dal diritto internazionale, dalle scienze politiche, dalle scienze
militari, …, è caratterizzata da un’ottica concreta, e dall’applicazione delle
conoscenze del territorio per il raggiungimento di obiettivi di politica
(estera). Pensiero strategico (strategia, dal greco stratòs = esercito). La
“geopolitica classica” si caratterizza per alcune invariati: una insistenza sul
tema dell’organismo statale, lo spazio come condizione per la potenza dello
Stato, l’importanza attribuita alla nozione di frontiera, il determinismo
geografico e il darwinismo sociale, l’uso di metafore organicistiche e
biologiche, la differenziazione tra potenza marittima e potenza terrestre. La
geopolitica ha adottato un progetto nazionalista finalizzato alla supremazia
dello Stato ed è funzionale al pensiero dominante come l’espansione
coloniale o l’imperialismo. Nella geopolitica la carta geografica viene
considerata come strumento di rappresentazione e di propaganda. Occorre
dunque mettere in discussione i suoi modelli di rappresentazione che sono
segnati massicciamente dall’ideologia.

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Lo Stato e le sue funzioni

Con o senza Stato?

Si può vivere senza Stato? A cosa serve lo Stato? Quali sono le origini dello
Stato contemporaneo? Quali sono le sue dimensioni geografiche? Per quali
motivi, malgrado le reti della globalizzazione, gli Stati continuano a
organizzare spazi e società nel mondo?
Lo Stato è la sola forma di organizzazione sociale possibile? Nella storia si
sono presentate altre modalità: per esempio le forme di organizzazione dal
basso proposte dalle correnti libertarie e anarchiche rappresentate, ad
esempio, da Piötr Kropotkin o da Elisée Reclus (i quali vedono lo Stato come
elemento di rottura dei rapporti egualitari), o ancora le “società senza Stato”
studiate dagli antropologi.
Ma la forma-Stato si imposta su tutte le altre si è diffusa con successo su tutto
il pianeta (oggi esistono più di 200 stati, 193 sono membri dell’ONU).
Malgrado i numerosi problemi che lo Stato deve oggi affrontare, esso
costituisce il riferimento per milioni di persone e il quadro all’interno del
quale può venir esercitato il potere politico e la democrazia. L’insieme degli
Stati forma un grande mosaico e tesse una trama geografica che circonda
l’intero pianeta.
Lo stato è un territorio occupato in maniera effettiva avente un governo che
esercita una autorità sul suo territorio e la sua popolazione. I suoi elementi
costitutivi sono la popolazione, il territorio, le strutture e gli apparati dello
Stato (governo, parlamento, amministrazione, ma anche norme, leggi, codici,
sistema politico e giuridico) attraverso i quali lo Stato assicura il suo
funzionamento e persegue la prosperità per i propri cittadini. La sovranità è

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facoltà dello Stato di esercitare il potere attraverso un “uso legittimo della
forza”.

La genesi dello Stato moderno

L’affermazione dello Stato moderno è avvenuta in quattro momenti. Il primo
momento si colloca nel corso del Rinascimento con la dissoluzione dello Stato
feudale e si afferma poi con il ‘600 e il ‘700. Viene teorizzato da Machiavelli,
Thomas Hobbes, John Locke.
Si presentano così i primi grandi stati nazionali europei (Francia, Spagna,
Inghilterra), monarchie che sottraggono il potere a principi e feudatari, e che
riducono all’obbedienza le città-stato indipendenti. Alcuni sono monarchie
assolute, tali per diritto divino (Luigi XIV in Francia, Carlo I d'Inghilterra,
Federico II di Prussia, Maria Teresa d’Austria, Caterina II di Russia). La
Rivoluzione inglese (1688) porta il primo regime parlamentare mentre e la
Rivoluzione francese crea lo Stato repubblicano. Ora l’autorità superiore non è
più dio bensì la nazione: lo Stato di diritto è dotato di una costituzione ed è
caratterizzato dalla separazione dei poteri.
Il secondo momento è quello dell’affermazione dello lo Stato-nazione. Nel
corso dell’800 lo Stato liberale diventa il quadro dello sviluppo economico di
numerosi paesi. Lo Stato-nazione è uno Stato relativamente omogeneo per
lingua e cultura: riunisce e integra etnie differenti e crea l’unità nazionale. Nel
corso della sua lunga costituzione, lo Stato-nazione ha amalgamato sotto un
unico mantello etnie e minoranze differenti. Ma sovente l’etnia dominante ha
imposto la sua lingua e ha fagocitato nella nazione le minoranze (Francia).
Molti Stati nazionali si sono formati a partire da etnie che si volevano
emancipare da un impero (ottomano, austro-ungarico) o da possedimenti
coloniali.
Nel Novecento lo Stato è uno Stato liberale, ma è pure presente lo Stato
socialista e lo Stato totalitario. Una forma dello stato liberale è lo Sato sociale
(Stato del benessere o welfare state) che prende forma tra la fine del XIX
secolo e il dopoguerra al seguito del New Deal di Roosvelt per sostenere la
parte di popolazione meno abbiente toccata dalla crisi del ‘29. Il pensiero
dell’economista J.M. Keynes costituirà un riferimento importante. Negli anni
della seconda guerra mondiale il politico britannico Lord Beveridge
presenterà lo Stato sociale con la formula “dalla culla alla bara”. Si tratta di
uno Stato che incentiva la produzione di beni e servizi attraverso le imprese

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pubbliche, investe nell’istruzione, eroga sussidi, si occupa della sanità,
interviene per correggere gli squilibri nella distribuzione dei redditi. Lo Stato
sociale può pure essere visto come una forma di compromesso politico davanti
al malcontento del popolo e al fascino che soluzioni più radicali potevano
suscitare.
Il terzo momento è quello della crisi. La liberalizzazione di quelle che erano le
grandi aziende pubbliche come acqua, ferrovie, gas, elettricità (considerati
“monopoli naturali”) e la crisi fiscale, mettono in discussione lo Stato che ora
dispone di risorse limitate e che, si dice, ha assunto pesi eccessivi: la spesa
pubblica tende ad aumentare originando un importante déficit pubblico.
Ma soprattutto la critica viene da parte del neoliberalismo e dalla rivoluzione
conservatrice: Margaret Thatcher (1979-90) e Ronald Reagan (1980-1988)
portano verso un alleggerimento dello Stato e verso la privatizzazione delle
aziende pubbliche in settori chiave quali quello dei trasporti e dell’energia.
Contestato        dall’alto,     dalle       organizzazioni        sovraregionali      e    dalla
globalizzazione, deve cedere una parte delle sue competenze, e contestato dal
basso dove città e regioni vedono il loro ruolo ampliarsi: sono le forze
centrifughe della devoluzione.

Le forme di Stato possono essere descritte in relazione al territorio, ai fondamenti del potere,
alla società.
In relazione al rapporto Stato-territorio:
-    con lo Stato unitario l’intero paese dipende da un governo centrale unico (Francia, Italia)
-    lo Stato federale si compone di stati parzialmente autonomi che rinunciano a certi compiti
     assegnati all’autorità centrale (Svizzera del 1803, e dal 1848)
-    la confederazione è una associazione di Stati che desiderano mantenere la più completa
     autonomia (Svizzera primitiva sino al 1789, Repubblica Elvetica tra il 1815 e il 1848, la
     CSI).
In relazione al fondamento del potere:
-    lo Stato democratico (democrazia diretta, rappresentativa, pluralista)
-    lo Stato autoritario dove il potere è mantenuto attraverso la forza
In relazione al rapporto con la società:
-    lo Stato liberale unisce il liberalismo economico al liberalismo politico
-    lo Stato socialista è proprietario dei mezzi di produzione
-    nello Stato totalitario esiste un partito unico, regime militare, dittatura
-    lo Stato sociale

Quale è il ruolo dello Stato oggi? Un semplice supporto per le attività
economiche?
Le funzioni dello Stato
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Lo Stato rivolge la sua azione verso l’esterno. Crea così le condizioni favorevoli
per permettere le relazioni commerciali, impone barriere doganali, difende il
territorio nazionale, svolge una politica estera, partecipa alle attività delle
organizzazioni internazionali. Dalla fine del Trattato di Westfalia (1648) che
sancì la fine della Guerra dei trent’anni fino all’inizio del XX secolo, lo Stato
viene considerato quale attore unico sulla scena internazionale. Nella teoria
classica delle relazioni internazionali si parla di sistema westfaliano.

Naturalmente una buona parte delle azioni dello Stato sono rivolte verso
l’interno. Esso elabora norme, è uno dei più importanti attori territoriali,
preleva fiscalità, pianifica e gestisce il territorio, mantiene la sicurezza interna,
realizza la politica regionale, si fa promotore dell’alfabetizzazione e della
scolarizzazione di massa, costituisce eserciti di leva, attraverso la banca
nazionale emette moneta.

Negli USA, paese del liberalismo e del culto della libera impresa, la moderna pianificazione del
territorio nasce tra gli anni Trenta (con il New Deal) e il dopoguerra. Con Roosvelt gli Stati Uniti
varano il progetto Tennesse Valley Autority per lo sfruttamento delle risorse idriche, per la
promozione dell’industria e dell’agricoltura. In Francia l’aménagement du territoire ha lottato
contro lo strapotere territoriale di Parigi. Il modello tedesco (Raumplanung), adottato anche
dalla Svizzera e dell’Austria, è meno rigido ed è legato al federalismo. I Länder dispongono
dell’essenziale delle competenze nella pianificazione regionale. In Gran Bretagna il Town and
country planning e il Regional planning si occupano della riconversione delle regioni industriali
in difficoltà e del controllo dei grandi agglomerati (controllo della crescita della Great London,
edificazione delle città nuove). I Paesi Bassi hanno una lunga storia in materia di creazione di
territorio, di lotta contro le acque del mare, hanno creato nuovi poli urbani nel Randstadt
Holland (Amsterdam, Rotterdam, Haya, Utrech e un cuore verde).

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Cittadinanza, nazione e minoranze

La popolazione e la cittadinanza

Una popolazione non è solo un’entità demografica: risiede stabilmente e ha
attributi nazionali e etnici. La cittadinanza è il rapporto giuridico tra cittadino
e Stato e la condizione della persona fisica detta cittadino alla quale
l’ordinamento giuridico riconosce la pienezza dei diritti civili (garanzia della
libertà individuale), politici (prendere parte in modo diretto o indiretto al
governo dello Stato) e sociali (garanzia di un certo benessere economico e
sociale).
Ogni ordinamento giuridico stabilisce le regole per l’acquisto della
cittadinanza. Due concezioni si contrappongono.
Una prima, detta diritto di sangue (Jus sanguinis), è basata sulla filiazione; ciò
significa che la cittadinanza viene acquisita in quanto figli di cittadini. È il
modello tedesco: si appartiene al popolo tedesco indipendentemente dal luogo
di nascita, sangue, etnia, lingua (J. Fichte). È pure il caso di Austria, Svizzera, e
della maggior parte dei paesi europei. È questa una concezione della
cittadinanza detta “oggettiva”.
Una seconda è basata sul diritto del suolo (Jus soli): essere nato sul territorio
dello Stato dà diritto alla cittadinanza. È il modello francese (tutti i nati sul
suolo francese sono cittadini francesi) e vale anche per i paesi anglosassoni e
gli Stati di immigrazione classica (quali USA, Canada, Australia e America
Latina. Si tratta di una concezione della cittadinanza detta “soggettiva”.
L’adozione dell’una o dell’altra formula ha implicazioni particolarmente
importanti quando si tratta di integrare o meno (naturalizzare) chi è privo di
cittadinanza.

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Nazione, nazionalismo, identità nazionali

L’idea di nazione (da natus, nascita, nato in un medesimo territorio) è
contemporanea alle grandi rivoluzioni della fine del XVIII e dell’inizio del XIX
secolo che hanno attribuito legittimità e potere al popolo. La prima ondata
nazionalista si presenta tra il 1830 e il 1919, con il crollo degli imperi
ottomano, austro-ungarico e russo, la seconda è legata alla fine imperi
coloniali e al crollo dell’URSS.
Cosa è una nazione? Una nazione è una collettività in cui i membri hanno
coscienza di una comunanza di origini, lingua, costumi e destino storico. Essa
risiede in una combinazione di elementi: religione, etnia, cultura, lingua,
attaccamento al suolo, integrità del proprio territorio (un gruppo umano che
non ha legami istituzionali con la terra non sarà riconosciuto come nazione).
Nazione è appartenenza. Per riprendere la nota formula di Renan (1882), la
nazione è il “plebiscito di ogni giorno”, L’appartenenza a una nazione porta un
senso di appartenenza a una patria (in tedesco Heimat, terra natia, e
Vaterland, patria).
La questione della nazione coinvolge anche la nozione di etnia. Se l’idea di
nazione nasce all’interno delle scienze della politica, la nozione di etnia è
piuttosto legata all’antropologia culturale. Per i Greci la categoria ethnos era
peggiorativa e faceva riferimento ai Greci non organizzati in villaggi (come ad
esempio i pastori) in contrapposizione rispetto a quelli che abitavano la polis.
In senso stretto etnia rappresenta un gruppo di individui che parla la
medesima lingua, in senso più ampio un gruppo legato da più caratteri
comuni. Fabietti e Remotti nel loro Dizionario di antropologia danno questa
definizione:     raggruppamenti           umani     distinti    sulla    base   delle    loro
caratteristiche      geografiche,         linguistiche   e      culturali.   Queste     brevi
considerazioni ci ricordano che nazione ed etnia sono delle nozioni
problematiche.

La costruzione delle identità nazionali

Tornando alla nozione di nazione, occorre dire che essa si afferma con gli
ideali del romanticismo e si appoggia su un sentimento di appartenenza e non
ha nulla di naturale. Le identità nazionali non si sono svegliate da un sonno
profondo, sono state costruite passo dopo passo con una gigantesca impresa
che ha mobilitato scrittori, artisti, intellettuali. A questo proposito B. Anderson
                                                               14
parla di “comunità immaginate”. All’alba del XIX secolo le nazioni non avevano
ancora una storia: occorreva quindi creare una storia nazionale. La storica
Anne Marie Thièsse (2005) propone la lista degli elementi simbolici e
materiali che una nazione degna di questo nome deve offrire: “una storia che
stabilisca un continuità con i grandi antenati, una serie di eroi prototipi di virtù
nazionali, una lingua, dei monumenti culturali, un folclore, dei luoghi sacri e un
paesaggio tipico, una mentalità particolare, delle rappresentazioni ufficiali –
inno e bandiera – e delle identificazioni pittoresche – costume, specialità
culinarie o animale totemico”.
Per costruire la nazione vengono fissate immagini quasi fuori dal tempo. Le
grandi esposizioni nazionali della seconda metà del XIX sono un occasione
permettere in scena l’identità e le specificità regionali. Accanto alle
realizzazioni industriali venivano esposti i costumi contadini tipici o i villaggi
tradizionali (in occasione dell’esposizione nazionale svizzera del 1896 di
Ginevra ci sarà un tipico villaggio alpino, a Torino nel 1884 fu edificato il borgo
medievale del Valentino, ecc.).
Attraverso un processo metonimico (figura retorica che consiste nel trasferire
un termine dal concetto a cui strettamente si riferisce ad un altro con cui è in
rapporto di reciproca dipendenza), la natura diventa la nazione e il territorio
nazionale si trasfigura in patria, luogo carico dei significati dei padres.
“Fabbricare” paesaggio diventa allora un investimento nazionale che rimanda
a un immaginario collettivo e a un racconto identitario. Montagna, mare,
foreste, ecc., vengono caricati di significati simbolici. Così fiordi ricoperti da
neve, in contrasto con il verde delle praterie dell’antico signore danese,
rappresentano il paesaggio nazionale norvegese. La Francia ha sovente
celebrato la diversità dei suoi paesaggi regionali, la varietà dei climi, il mosaico
di culture. La Rivoluzione francese ha sacralizzato la nazione, le frontiere
“naturali” delle Alpi, dei Pirenei e del Reno. Il geografo Vidal de La Blache
(1845-1918) celebrò questa diversità nei suoi studi. L’Ungheria ha montagne, i
Carpazi, e colline, ma per distinguersi dall’Austria e dalle sue Alpi grandiose, i
poeti e i pittori ungheresi considerano la puszta (una pianura sconfinata
spazzata dalle tempeste) come paesaggio tipico e simbolo della libertà.

Nazione e minoranze

Lo Stato-nazione si è costruito sulla ricerca di una corrispondenza tra i due
elementi. Ma non tutti gli Stati sono costituiti da una sola nazione e non tutte
                                                      15
le nazioni hanno uno Stato. Sovente vi sono minoranze. Se la situazione ideale
è quella che fa coincidere Stato a nazione le politiche degli Stati nei confronti
delle minoranze sono diverse. Alcuni hanno loro attribuito autonomia e creato
regioni autonome, altri, non accettando le rivendicazioni, hanno applicato una
politica repressiva.
Esistono etnie minoritarie che beneficiano di un certo riconoscimento
all’interno degli Stati-nazione. Le minoranze e le etnie integrate e riconosciute
non vengono considerate come elemento di disgregazione, ne viene
riconosciuta la cultura, la lingua e viene attribuito un certo grado di
autonomia. Gli esempi sono numerosi. Inuit canadesi, dal 1999 territorio
autonomo. Nazionalità storiche della Spagna dal 1983 hanno potuto
ufficializzare la propria lingua: il basco (500’000 persone), il catalano (7
milioni), il galiziano (1 milione). Il Regno Unito dal 1997 ha dato la facoltà di
promuovere le due lingue celtiche: il gaelico (80’000) e il gallico (500’000). In
Olanda, la lingua frisone è diventata materia di insegnamento. Pur rifiutando
di riconoscere l’esistenza di un “popolo corso”, la Francia permette
l’insegnamento della lingua e della cultura. In Moldavia il popolo gagauzo,
turcofono e cristianizzato, ha ottenuto dal 1991 l’autonomia territoriale.
Vi sono poi gruppi non riconosciuti dallo Stato che non dispongono di un
territorio proprio, di istituzioni (territoriali o comunitarie) e non hanno
nemmeno uno statuto che le protegga o le qualifichi. L’unico eventuale
“riconoscimento” deriva da studi di tipo etnografico. Nonostante questa
precarietà, le etnie non riconosciute istituzionalmente costituiscono di gran
lunga la maggioranza dei popoli del mondo. Tra questi: Curdi (37 mio di
persone divise tra Turchia, Siria, Irak, Iran). 10-12 milioni di Tzigani sono
dispersi in Europa, non hanno nessun riferimento territoriale e generalmente
non possiedono istituzioni rappresentative riconosciute. In nord Africa 20
milioni di Berberi che parlano lo tamazight sono suddivisi fra gli Stati che
difficilmente riconoscono i loro più elementari diritti linguistici e culturali. I
Tuareg hanno ottenuto un riconoscimento precario in Mali e nel Niger. In
America latina i 15 milioni di Quechua sono ripartiti tra Bolivia, Perù e
Equador; la loro lingua è riconosciuta come lingua nazionale in Perù. In Cile
vive un milione di Mapuche che faticano a essere riconosciuti. Avere un
cognome mapuche è uno svantaggio quando si cerca lavoro e non è un caso
che l’Araucanìa sia ancora la zona con la maggior percentuale di poveri del
paese.

                                                    16
Infine ricordiamo le minoranze secessioniste che aspirano all’indipendenza.
Sono state tra le cause del crollo dell’impero sovietico e delle guerre
balcaniche. Ricordiamo che l’irredentismo costituisce la rivendicazione di uno
Stato nei confronti di una popolazione collocata entro le frontiere di un’entità
politica   vicina.   Originariamente     l’irredentismo   era   il   movimento
risorgimentale antiaustriaco quando una parte dell’Italia nord orientale, anche
dopo il 1861, era ancora nelle mani dell’impero austro-ungarico. Province
irredente erano allora il Trentino e la Venezia Giulia.

                                                    17
Stato e territorio

Il territorio di uno Stato è costituito dalla terraferma, dalle acque interne, dal
mare territoriale, dallo spazio aereo, ma pure dalle navi e aerei nazionali in
viaggio. Le condizioni di esistenza dello Stato sono legate a una territorialità
(in analogia con l’etologia, ottenere dal territorio che abitano i mezzi necessari
per vivere nel migliore dei modi compatibili con le risorse disponibili e per
essere autonomi). Lo Stato territorializza la sua azione politica e il territorio
diventa il riferimento più importante delle sue politiche). Esso deve mediare
tra gli interessi privati e quelli collettivi, pensare al tipo di sviluppo verso il
quale tendere, preservare gli equilibri ambientali, lottare contro gli squilibri
regionali, occuparsi delle infrastrutture di trasporto, dell’energia, permettere
uno sviluppo armonioso territorio.

L’approccio tradizionale: morfologia e situazione

Gli Stati hanno una estensione (esistono microstati dalla taglia simile a
quella di una piccola città come lo Stato del Vaticano, Monaco o Nauru, ma
pure macrostati come la Russia, il Canada, la Cina, il loro territorio ha una
morfologia (una forma allungata e estesa latitudinalmente come quella del
Cile o del Giappone, frammentata come le Filippine, ecc.), esistono poi
sacche di territorio inserite all’interno di altri Stati (sono enclave o exclave
come Kaliningrad, territorio russo, circondato da Lituania, Bielorussia e
Polonia, o la Berlino ai tempi della DDR, o ancora Campione d’Italia,
originariamente feudo del monastero di Sant’Ambrogio e della diocesi).

                                                     18
Dal punto di vista strategico la posizione relativa di uno Stato (in geografia
la situazione è il risultato della relazione di un luogo con altri spazi. Si
analizza in relazione a un ambiente locale, regionale, o generale. Una
situazione è sempre relativa e può evolvere nel tempo. Nella geopolitica
l’analisi di situazione è sempre stata importante: si pensi al valore
strategico delle isole Diego Garcia o delle isole Falkland, oppure al ruolo
degli stretti e delle stozzature marittime (choke points) come Panama o
Gibilterra.
Sempre a questo proposito, gli Stati cuscinetto sono quei paesi, in genere
più deboli o di piccole dimensioni che si trovano tra due Stati conflittuali
riducendo le possibilità di conflitto. Bolivia, Paraguay e Uruguay separano il
Brasile dal Cile e dall’Argentina; così come la Mongolia collocata tra la Cina
e l’URSS. Vi sono poi Stati privi di sbocco sul mare (costituiscono 1/5 degli
Stati) che sovente cercano soluzioni per accedere agli oceani: il corridoio di
Danzica alla fine della Prima Guerra Mondiale permetteva alla Polonia,
chiusa tra la Prussia e la Prussia orientale, l’accesso al Baltico; il corridoio
di Eilat permette a Israele di accedere a Aqaba; il corridoio di Antofagasta
permetteva alla Bolivia di accedere al mare.

Aree dotate di statuto speciale

Non possiamo dimenticare il ruolo di aree dotate di statuto speciale. Le
zone franche sono aree chiuse con una giurisdizione particolare (assenza di
gravami fiscali, deroga alle leggi vigenti). Attraverso esse gli Stati possono
eludere barriere e norme vigenti sul territorio nazionale. In esse si svolge il
montaggio, la preparazione e la riesportazione di merci. Possiamo
ricordare: le zone franche commerciali (free trade zone), in genere grandi
porti (Miami, Colon o Hong Kong) dove transitano merci senza gravami di
tasse, quelle industriali (free processing zone) e i parchi industriali con
trasformazione dei prodotti (Filippine, Cina). Le zone franche sono di
regola situate in prossimità di passaggi marittimi strategici (Caraibi, Sud-
est asiatico, Medio Oriente) e svolgono un ruolo determinante nel contesto
della globalizzazione. Vi sono poi i cosiddetti paradisi fiscali che diventano
facilmente sede di società anonime diverse (Liechtenstein, Lussemburgo,
Bermuda).

                                                     19
La regionalizzazione dello Stato

Lo Stato è costituito da unità amministrative interne quali cantoni, distretti,
regioni, province. Tre modelli si confrontano.
•   Nello Stato unitario l’intero paese dipende da un governo centrale unico
    (Francia moderna, molti Stati dell’America latina o dell’Africa Nera). Il
    modello giacobino dello Stato centralista è caratterizzato da una
    regionalizzazione dall’alto in quanto è il governo centrale a suddividere
    il territorio in base a criteri definiti a livello nazionale. In Francia
    Napoleone ha creato i dipartimenti i cui limiti erano definiti in modo
    tale da consentire il viaggio a cavallo di andata e ritorno in un giorno
    dalle zone più discoste alla città capoluogo (sede della prefettura, della
    questura, ecc.).
•   Lo Stato regionale ha concesso una forte autonomia ad alcune regioni.
    In Italia 5 Regioni dispongono di statuto speciale: Valle d’Aosta,
    Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia. Sul modello
    dei dipartimenti francesi, dal 1959 l’Italia si è dotata di provincie e di
    regioni (oggi 110 provincie e 20 regioni). Ma lo Stato regionale si può
    trovare anche in Stati in cui il federalismo non è mai stato tale, come
    per esempio in URSS, dove la supremazia della Russia si manifestava
    attraverso la presenza di alti funzionari nelle diverse provincie.
•   Il modello federalista (da foedus-foederis, patto, lega) si caratterizza per
    una regionalizzazione dal basso. Lo Stato federale è costituito da
    porzioni di territorio con individualità geografica, storica e culturale
    dotati di ampi spazi di autonomia nella gestione degli affari locali, che
    rinunciano a certi compiti assegnati all’autorità centrale (come in
    Svizzera, USA, Australia, Canada, Nigeria, India). Nel sistema federale il
    governo centrale garantisce l’unità dello Stato e della sua politica nei
    confronti dell’esterno ma le unità di cui è composto godono di
    autonomia in campi specifici (istruzione, sanità, ecc.) e partecipano alle
    decisioni politiche centrali. Il modello federalista è adatto ai grandi stati
    (come gli USA, l’Australia o la Germania) o a Stati con popolazioni
    diversificate, comporta però alcuni problemi come una complessa
    gestione e una possibile presenza delle forze centrifughe rispetto alle
    forze centripete

                                                     20
La capitale, luogo di esercizio del potere

La capitale (dal latino caput, testa) è quella città che svolge specifiche
funzioni politiche legate alla gestione del potere dello Stato e è in grado di
intrattenere intese relazioni con il resto del territorio nazionale. Per le sue
necessità operative, l’esercizio del potere ha bisogno di luoghi fisici, si deve
territorializzare. Essa svolge pure significative funzioni simboliche: la
capitale deve esprimere la retorica del potere, permettere di rappresentare
e intrattenere l’idea di unità nazionale.
Non esiste una capitale senza un territorio di riferimento: forse si può
inventare dal nulla una capitale ma non si può costruire dal nulla uno Stato
attorno ad una capitale. A volte le capitali sono dotate di centralità
geografica rispetto al territorio nazionale, altre volte sono periferiche.
Alcune capitali, come Londra o Parigi, hanno mantenuto il loro primato e la
loro funzione nel corso del tempo, altre hanno acquisito il titolo attraverso
un trasferimento di funzioni da un’altra città (è il caso di Madrid, chiamata
da Filippo II a sostituire l’antica Toledo nel 1561, o della capitale italiana
che originariamente era Torino ma si è poi trasferita prima a Firenze e
infine a Roma). In altri casi la capitale è una città fondata appositamente
per marcare una rottura nella continuità politica del paese: Nuova Delhi per
differenziarsi dalla capitale coloniale Calcutta, San Pietroburgo voluta dallo
zar Pietro I per avvicinare il paese all’Europa, Washington per qualificare la
nascita del nuovo stato americano indipendente, Ankara per segnare la
nascita della Turchia moderna, Brasilia per marcare una volontà di
sviluppo “autocentrato”.
Ad ogni modo, l’edificazione di una capitale costituisce un vero progetto
politico. In questo senso, progettare una capitale significa creare forme e
simboli che possano evidenziare il potere dello Stato.

Washington è stata edificata nel 1791 su progetto di L’Enfant il quale ha preso a modello il
parco di Versailles: grandi arterie (che portano i nomi degli stati federati al momento della
sua edificazione) si irradiano dalla Casa Bianca. Anche la capitale australiana, Camberra, è il
prodotto di un progetto volontaristico. Il concorso (1911), vinto da Walter Griffin, allievo di
Wright, fu uno dei più importanti successi dell’architettura tra le due guerre. La capitale del
Brasile è stata Salvador de Bahia sin dal 1549, dal 1763 divenne Rio e rimase tale sino al
1960. Ma la questione di una nuova capitale nel centro del paese è stata dibattuta sin
dall’Ottocento quando si pensò di scegliere quale luogo dove costruire una nuova capitale il
punto dove convergono gli affluenti del Paraguay e del Rio delle Amazzoni. Questa ipotesi fu

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riconsiderata dal presidente Kubitschek nel 1956 il quale chiamò l’architetto Oscar
Niemeyer e l’urbanista Lucio Costa. La nuova capitale, Brasilia, fu inaugurata nel 1960. Il suo
asse monumentale comprende un percorso cerimoniale con la piazza dei tre poteri, mentre
gli assi residenziali ospitano le superquadras che contengono immobili a 6 piani e i servizi
necessari al funzionamento della vita di quartiere.

Coesione e dissoluzione degli Stati

I geografi della politica hanno messo in evidenza quegli elementi che
favoriscono la coesione di uno Stato oppure la sua dissoluzione. Il geografo
americano Hartshorne sosteneva che l’esistenza dello Stato dipende da un
equilibrio dinamico tra forze centripete e forze centrifughe. Le forze
centripete contribuiscono alla coesione di un dato Stato e ne consentono la
sopravvivenza: tra esse possiamo annoverare la lingua e la cultura comuni,
una lunga storia, confini ben definiti. Le forze centrifughe contribuiscono alla
frammentazione: tra esse compaiono le divisioni interne linguistiche e
culturali, una breve storia comune e le dispute relative ai confini. La
continuità dell’esistenza dello Stato dipende dalla possibilità che le forze
centripete risultino superiori a quelle centrifughe.
Alcuni evidenziano le forze della devoluzione (la devoluzione è quel processo
attraverso il quale le regioni in seno a uno Stato rivendicano e ottengono
maggiore autonomia a spese del potere centrale), forze che spingono verso
la secessione e l’indipendenza di alcune regioni. Nel corso degli ultimi
decenni si sono presentati numerosi esempi e altri si presentano
attualmente. Sono forze culturali (che si sono manifestate ad esempio nei
Paesi Baschi, nel Québec, in Scozia) o forze economiche (dovute alle
differenze di reddito di alcune regioni come in Catalogna, nelle Fiandre).
Vengono poi presi in considerazione anche fattori geografici: una
collocazione marginale e periferica rispetto allo spazio nazionale, o
addirittura l’insularità, sono alleati della devoluzione. Occorre però dire che
più di una volta questi fattori si sovrappongono.

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Frontiere e confini

Malgrado la retorica di un mondo senza frontiere, queste continuano ed
esistere. La frontiere non si cancellano si ritracciano, dice pertinentemente
Marc Augé (2007). Non si è mai tanto negoziato, delimitato, demarcato,
caratterizzato, equipaggiato, sorvegliato, pattugliato, quanto oggi, ed è da
tempo che non si discute così tanto di frontiere, forse dalla fine della
guerra. Dal 1991 più di 26.000 km di nuove frontiere internazionali sono
state istituite, altri 24.000 km sono stati oggetto di accordi di delimitazione
e di demarcazione, e se i programmi annunciati di muri, chiusure e barriere
metalliche o elettroniche saranno portati a termine si estenderebbero su
oltre 1800 km, aggiunge Michel Foucher (L’obsession des frontières, 2007, p.
7).

La frontiera come limite territoriale

I termini di frontiera e di confine non sono sinonimi. Il primo (che deriva
dal latino frons frontis) indica un territorio situato in fronte, al margine. Il
secondo rappresenta piuttosto un’idea di linearità e di passaggio. L’inglese
in questo contesto è più preciso: utilizza frontier (per zonalità), boundary
(per linearità) o border.
Per molto tempo, la frontiera non corrispose ad uno spazio definito
linearmente, non era precisamente demarcata ed era uno spazio vago, una
terra di nessuno tra due territori.
Per le società tradizionali, oltrepassare un limite corrispondeva all’atto di
varcare uno spazio conosciuto e carico dei segni che rimandavano a una
cultura conosciuta per addentrarsi in uno spazio pericoloso e privo di
simboli comprensibili. Un vero dualismo era presente in tutte le culture:
l’Umland del villaggio e l’alterità, la natura allo stato selvaggio entro cui si
poteva penetrare solo con grande coraggio e ritualmente.

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In alcuni casi le frontiere mobili e i “fronti pionieri” fungevano da limite
dinamico in spazi di nuova occupazione caratterizzati da deboli densità.
Frederick J. Turner, massimo studioso della frontiera americana, aveva
presentato questo limite come il vero motore all’origine dell’ecumene
americana. Le vicende della “frontiera”, che termineranno prima della fine
del diciannovesimo secolo, lasciarono profonde tracce nell’animo degli
americani. Sulla “frontiera”, attraverso il contatto con un ambiente ostile si
era infatti costituito l’individualismo, il pragmatismo e l’egualitarismo degli
americani.

D’après le Bureau du recensement américain, la frontière correspond à une zone
de peuplement dans laquelle la densité est supérieure à deux habitants et
inférieure à six habitants par mille carré (2,59 km2). C’est pourquoi il fut déclaré
officiellement en 1890 que la frontière avait disparu aux États-Unis. La frontière
n’a pas cessé de se déplacer du début du XVIIe siècle à la fin du XIXe. Elle n’a jamais
formé une ligne continue: les avancées, les redans, les enclaves ont été courants.
Lorsque les premiers colons débarquent en Amérique, elle se confond avec la côte
atlantique, puis, à la veille de l’indépendance des colonies, elle franchit les
Appalaches. Vers 1830-1840, elle atteint le Texas ; vers 1850, la Californie; après la
guerre de Sécession, les Grandes Plaines. Elle progresse grâce à l’attrait des mines
d’or et d’argent, des immenses pâturages, des terres à cultiver. Elle est donc une
étape du peuplement de l’Ouest ou de la mise en valeur du continent nord-
américain. Dans cette zone, les ressources du sol ou du sous-sol sont abondantes;
elles sont peu exploitées par des Indiens nomades. Les pionniers prennent
possession d’une terre qu’ils croient disponible ou qu’ils achètent aux Indiens à un
prix dérisoire. Ils établissent leur code social, leur organisation politique, leurs
modes de production. Si l’anarchie ou la loi du plus fort commence par l’emporter,
c’est finalement sous la forme d’un territoire puis d’un État que telle ou telle zone
de frontière entre dans l’Union. Cette progression vers l’ouest a profondément
marqué l’histoire des États-Unis et comporte de multiples significations.
L’Américain y a manifesté et développé son goût de l’initiative personnelle, de
l’aventure, voire de la violence. Son comportement à l’égard des Indiens ou des
Mexicains est celui du conquérant persuadé qu’il peut tout se permettre. La lutte
contre la nature, contre les animaux sauvages forge, croit-il, les caractères. En
même temps, ces vastes étendues, ouvertes à la colonisation, permettent aux États
de l’Est et accessoirement aux immigrants de trouver un exutoire à leur excédent
de population ou d’énergies: la frontière joue un peu le rôle d’une soupape de
sécurité. Aussi l’Amérique subit-elle un choc, quand elle apprend que la frontière a
cessé d’exister. Son expansion ne devra-t-elle pas se faire maintenant dans les
Antilles ou dans le Pacifique? C’est ce que croient les partisans de l’expansion
impérialiste à la fin du XIXe siècle. À moins que la lutte contre les inégalités
sociales ou le sous-développement économique ne constitue à son tour «de
nouvelles frontières», comme le suggérait le président John F. Kennedy en 1960.
Cessant d’être une réalité, la frontière devient un mythe qui symbolise le rêve
américain des espaces immenses et de la liberté. Peut-être la conquête de l’espace
a-t-elle représenté aussi une nouvelle frontière.
(La Frontière, Encyclopaedia Universalis)

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Nel periodo feudale le relazioni di sangue o di alleanze erano più
importanti dei legami territoriali. La preoccupazione per un nuovo tipo di
frontiera apparve solamente con il progetto dello Stato moderno (in
particolare con il trattato di Campoformio che aveva sancito la pace tra
Franca e Austria nel 1792): la nuova frontiera è una frontiera lineare. Della
linearizzazione della frontiera saranno responsabili anche i progressi nelle
scienze matematiche e cartografiche, la carta era diventata strumento del
politico e del militare atto a controllare e gestire lo spazio.
La questione della frontiera è stata affrontata da Friedrich Ratzel nel suo
saggio Politische Geographie (1897). Questa era l’organo situato alla
periferia dello Stato, ne materializzava crescita, forza e cambiamenti
territoriali. Il geografo tedesco, per definire la frontiera, aveva assunto una
analogia organicista: come un organismo biologico vivente lo Stato doveva
tendere verso l’espansione.

Costruzione e operatività della frontiera

L’allestimento della frontiera prevede quattro distinte fasi. La prima è
costituita dalla sua definizione, risultato di negoziazioni adottate dagli Stati
attraverso i trattati ma pure della conquista (in questo caso la frontiera è il
prodotto dell’uso della forza e non è riconosciuta né da almeno uno dei
belligeranti, né dal diritto internazionale, una frontiera che si contrappone
alla frontiera di diritto). La definizione della frontiera permette di
identificare il tracciato con la scelta di alcuni siti (corsi d’acqua, linee di
cresta) ma a volte si avvale di semplici linee geometriche tracciate
indipendentemente dalla topografia e dai contenuti sociali del territorio.
Anche se lo spazio fisico svolge un ruolo determinante, non esiste la
frontiera naturale, esiste piuttosto una interpretazione sociale e politica
delle caratteristiche di una morfologia fisica (un fiume, un lago, una cresta
di una montagna) ritenuta adeguata per marcare sul territorio una
frontiera.
La seconda fase è costituita dalla delimitazione, opera dei cartografi e dei
geografi che, attraverso l’uso di carte a grande scala e di fotografie aeree
permette di passare ad una fase più operativa.
Il caso della frontiera marittima costituisce un momento particolare. La
terminologia di acque territoriali, tuttora in vigore, è stata definita nel XVIII
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