ECONOMIA E SOCIETÀ 3 - corso di perfezionamento in teoria critica della società - Maria Turchetto (Università Ca' Foscari di Venezia)

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ECONOMIA E SOCIETÀ 3 - corso di perfezionamento in teoria critica della società - Maria Turchetto (Università Ca' Foscari di Venezia)
corso di perfezionamento in teoria critica della società

        Maria Turchetto (Università Ca’ Foscari di Venezia)
                  ECONOMIA E SOCIETÀ
                         3
                     www.turchetto.eu/corsi
ECONOMIA E SOCIETÀ 3 - corso di perfezionamento in teoria critica della società - Maria Turchetto (Università Ca' Foscari di Venezia)
John Hobson, L’imperialismo (1901)

Rudolf Hilferding, Il capitale finanziario (1909)

Rosa Luxemburg, L’accumulazopne del capitale (1913)
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Secondo Hobson, il '900 si apre all'insegna delle
politiche imperialiste, la cui caratteristica, rispetto al passato,
è quella di essere adottate da più Stati contemporaneamente
e concorrenzialmente: è un "imperialismo su base
nazionalistica", considerato da Hobson una perversione e un
tradimento sia del cosmopolitismo illuminista, sia del
nazionalismo ottocentesco. Tale "imperialismo nazionalistico"
consiste nella lotta tra gli Stati nazionali più forti per
assicurarsi il controllo politico ed economico di terre abitate
da "razze inferiori". Si formano così più "imperi" (aree di
influenza egemonizzate da Stati economicamente forti) in
concorrenza per l'ulteriore espansione.
La ragione di queste politiche è fondamentalmente
economica, e risiede nella necessità di trovare sbocchi
alla sovrapproduzione di merci e soprattutto di capitali, che si
verifica nelle società di tipo capitalistico a causa di una
cronica carenza di consumo ed eccesso di risparmio, a loro
volta dovuti alla cattiva distribuzione dl reddito e alla
"mentalità" prevalente in tali società. Le possibili soluzioni
sono un cambiamento di mentalità, una politica di
redistribuzione dei redditi e di consumi pubblici, oppure
l'esportazione dei capitali in eccesso: è la soluzione peggiore,
ma l'unica di fatto praticata.
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Secondo Hilferding, il capitale finanziario nasce dai processi
di concentrazione capitalistica, ossia dall'aumento delle dimensioni delle
imprese e dei capitali necessari per l'investimento: aumentano le dimensioni
degli impianti, aumentano le spese per la ricerca - fenomeno quest'ultimo
particolarmente visibile nella Germania attraversata dalla "rivoluzione
chimica", dove sorgono grandi laboratori privati. Per far fronte a questa
aumentata necessità di capitali, le imprese assumono la forma della società
per azioni, istituzione in grado di raccogliere tutti i valori-capitale esistenti,
prima soprattutto attraverso la borsa, poi, nel capitalismo più recente,
attraverso le banche. Il nuovo ruolo assunto in questo senso dalle banche si
nota soprattutto in Germania: come fa notare Hilferding, mentre in
Inghilterra la banca offre soprattutto credito di circolazione, cioè fornisce la
liquidità necessaria alle transazioni commerciali, in Germania offre
soprattutto credito di capitale, cioè credito per investimenti. Le
conseguenze di questo nuovo ruolo svolto dalle banche sono rapporti più
organici tra banche e imprese. Per limitare il rischio, le banche stringono
rapporti con più imprese, dunque limitano la concorrenza, promuovono la
formazione di trust e comunque di accordi fra imprese; introducono
addirittura, secondo Hilferding, "elementi di pianificazione". Il capitalismo
più avanzato - quello che sta soppiantando l'Inghilterra - è dunque
caratterizzato dall'intreccio di capitale bancario e capitale bancario, ciò che
Hilferding definisce appunto "capitale finanziario". Il fenomeno, secondo
l'economista tedesco, è in ultima analisi positivo, perché rende il sistema più
stabile e meno esposto alle crisi.
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Secondo Rosa Luxemburg, il capitalismo che strutturalmente bisogno di un
ambiente non capitalistico in cui svilupparsi, riversandovi le merci e i capitali
che produce in eccesso. Sostiene una posizione sottoconsumista, non
lontana per certi aspetti da quella di Hobson, ma argomentata sulla
struttura di classe del capitalismo. Per riversare merci e capitali in eccesso
nell'ambiente non capitalistico è necessario crearvi un mercato, rapporti
capitalistici, imprese; in una parola, renderlo capitalistico. Ma a questo
punto i limiti propri del capitalismo si ripropongono anche nei paesi in cui il
capitalismo è penetrato. Detto altrimenti, il capitalismo non può
semplicemente nutrirsi di economie precapitalistiche lasciandole intatte,
deve trasformarle in economie capitalistiche, ma così facendo esaurisce
l'ambiente di cui si alimenta. Una volta che i rapporti capitalistici siano
diffusi ovunque, il capitalismo è destinato a finire.
Ciò che dell'opera della Luxemburg rimane di più valido è l'analisi storica e
teorica dei processi di penetrazione del capitalismo nei paesi non capitalisti:
attraverso la "lotta del capitale contro l'economia naturale" (che consiste
sostanzialmente nell'introduzione della proprietà privata e di relazioni
mercantili di tipo monetario in società in cui tali istituzioni non esistono - i
casi dell'India britannica e dell'Algeria francese sono in tal senso ricostruiti in
modo esemplare); la successiva "lotta contro l'economia mercantile
semplice" (in cui si verifica l'introduzione della produzione capitalistica, ad
esempio attraverso la creazione di infrastrutture "moderne" in Egitto, sotto
il patronato inglese, e in Turchia, ad opera del capitale tedesco); infine, la
"lotta di concorrenza fra i capitali su scala mondiale per l'accaparramento
delle residue possibilità di accumulazione". Quest'ultima fase coincide con
l'imperialismo propriamente detto.
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L’altro aspetto dell’accumulazione del capitale ha per arena la scena
mondiale, per protagonisti il capitale e le forme di produzione non-
capitalistiche. Dominano qui come metodi la politica coloniale, il sistema
dei prestiti internazionali, la politica delle sfere di influenza, le guerre.
Appaiono qui apertamente senza veli la violenza, la frode, l’oppressione,
la rapina, la guerra [...]
La teoria liberale-borghese vede solo una delle due facce: il dominio
della «concorrenza pacifica», dei miracoli della tecnica, del puro
scambio delle merci, e separa nettamente dal dominio economico del
capitale il campo dei chiassosi gesti di forza del capitale come più o
meno accidentali manifestazioni della «politica estera».
In realtà la violenza non è qui che il veicolo del processo economico, le
due facce dell’accumulazione del capitale sono legate organicamente
l’una all’altra.
               Rosa Luxemburg, L’accumulazopne del capitale, Pgreco 2012
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L'imperialismo è una forma di atavismo. Esso rientra nel vasto
gruppo di quelle sopravvivenze di epoche remote, che hanno
una parte così importante in ogni situazione sociale concreta;
di quegli elementi di ogni situazione sociale concreta che si
spiegano con le condizioni di vita non già del presente, ma del
passato, e quindi, dal punto di vista dell’interpretazione
economistica della storia, con modi di produzione, non attuali
ma trascorsi. E’ un atavismo della struttura sociale e, insieme,
delle abitudini psichiche e individuali di reazione emotiva.
Poiché le esigenze vitali che l'hanno generato si sono per
sempre esaurite, anch'esso deve a poco a poco scomparire
[…]
In tutto il mondo del capitalismo, e fra gli elementi della vita
sociale moderna da esso forgiati, si è venuta determinando
un’ostilità di principio alla guerra, all'espansione, alla
diplomazia segreta, agli armamenti, e agli eserciti di
mestiere […] ne segue che il capitalismo è per essenza
antimperialistico, e che non possiamo dedurne senz'altra
mediazione le tendenze imperialistiche che effettivamente
oggi persistono; anzi, possiamo intenderle soltanto come
elementi estranei, introdotti nel suo mondo dall'esterno,
poggianti su fattori non-capitalistici della vita moderna.
J. Schumpeter, Sociologia dell’imperialismo (1919)
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Con quanta maggior potenza il capitale, grazie al
militarismo, fa piazza pulita, in patria e all’estero,
degli strati non capitalistici e deprime il livello di vita
di tutti i ceti che lavorano, tanto più la storia
quotidiana dell’accumulazione del capitale sulla
scena del mondo si tramuta in una catena continua
di catastrofi e convulsioni politiche e sociali, che,
insieme con le periodiche catastrofi economiche
rappresentate dalle crisi, rendono impossibile la
continuazione dell’accumulazione e necessaria la
rivolta della classe operaia internazionale al dominio
del capitale.
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«Anche in queste ultime, angosciose settimane ho
continuato a sperare che trovaste un modo qualunque
per fare del trattato un documento giusto e realistico. Ma
ora è troppo tardi, evidentemente. La battaglia è
perduta». Il 7 giugno del 1919, con queste parole, John
Maynard Keynes comunica a Lloyd George le proprie
dimissioni dall’incarico di rappresentante del Tesoro alla
Conferenza di Versailles. Poco dopo parte alla volta di
Charleston, nel Sussex, apparentemente per un periodo di
vacanza, in realtà per scrivere, in due mesi scarsi, un libro
destinato ad avere vaste conseguenze: Le conseguenze
economiche della pace.

«Se diamo per scontata la convinzione che [...] per anni la
Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli
rimanere nella fame e nell’indigenza, il paese circondato
da nemici [...], se noi mirassimo deliberatamente alla
umiliazione della Germania, oso farmi profeta, la vendetta
non tarderebbe»
J. M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace
Devo scegliere il lavoro come la più illustre delle vittime della
nostra politica monetaria. In queste circostanze i datori di lavoro
propongono di ristabilire l’equilibrio con una riduzione dei salari,
quale conseguenza della maggiore precarietà, indipendentemente
dalla riduzione del costo della vita: il che vale a dire riducendo il
livello di vita dei lavoratori, i quali dovrebbero sopportare questo
sacrificio per permettere di sanare una situazione di cui non sono
assolutamente responsabili, e di cui non hanno alcun controllo.
[...]
La verità è che siamo al bivio fra due teorie della società
economica. L’una sostiene che i salari dovrebbero essere
determinati facendo riferimento a quanto è “giusto” e
“ragionevole” in un rapporto tra classi. L’altra, la teoria del Moloch
economico, afferma che i salari dovrebbero essere determinati
dalla pressione economica, altrimenti detta “realtà dei fatti”, e che
tutta la nostra grande macchina debba procedere a rullo
compressore, tenendo presente soltanto l’equilibrio generale,
senza prestare attenzione alle conseguenze che comporta sui
gruppi sociali.
        John M. Keynes, Le conseguenze economiche di Mr. Churchill
                                                                 (1925)
«In queste pagine si racconta la storia del più grande
                              rialzo speculativo e relativo crollo delle azioni dei
                              tempi moderni. E’ giusto contribuire a tener vivo il
                              ricordo di quei giorni. Infatti né la regolamentazione
                              pubblica, né il migliorato livello morale degli affaristi,
                              degli agenti di cambio e dei loro clienti, degli
                              operatori di borsa, dei funzionari delle banche e dei
                              fondi di investimento sono in grado di impedire
                              questi scoppi ricorrenti e le loro conseguenze. Serve
                              di più il ricordo di come, in passate occasioni, le
                              illusioni hanno preso il posto della realtà e la gente è
                              rimasta ‘incastrata’»

                              John K. Galbraith, Il grande crollo (1954)
Fattori di debolezza dell’economia USA nel primo dopoguerra:

•   distribuzione del reddito (bassi salari)
•   sistema finanziario (punta più sul capital gain che sui dividendi)
•   sistema bancario (rischi del sistema di banca mista)
•   crescita dei prestiti (al consumo e esteri)
•   politica economica (assenza di trattati internazionali e politiche liberiste)
Liberiamoci dai principi metafisici o generali sui quali, di tempo in
               tempo, si è basato il laissez-faire. Non è vero che gli individui posseggano
               una «libertà naturale» imposta sulle loro attività economiche. Non vi è
               alcun patto o contratto che conferisca diritti perpetui a coloro che
               posseggono o a coloro che acquistano. Il mondo non è governato
               dall’alto in modo che gli interessi privati e sociali coincidano sempre.
               Esso non è condotto quaggiù in modo che in pratica essi coincidano. Non
               è una deduzione corretta che l’interesse egoistico illuminato operi
               sempre nell’interesse pubblico. Non è vero che l’interesse egoistico sia
               generalmente illuminato; più spesso individui che agiscono
               separatamente per promuovere i propri fini sono troppo ignoranti o
               troppo deboli persino per raggiungere questi.
               [La fine del laissez-faire, 1926]

               Il sistema non è in grado di autoregolarsi e, senza un’azione deliberata, è
               incapace di portarci dalla nostra attuale povertà alla nostra potenziale
               abbondanza
               [Autosufficienza nazionale, 1933]
[il sistema economico] sembra capace di permanere in una condizione cronica di
attività inferiore al normale per un periodo considerevole, senza una tendenza marcata
né verso la ripresa né verso il collasso completo [...]. Una situazione intermedia, né
disperata né soddisfacente, è la nostra sorte normale
[Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, 1936]
Léon Walras (1834-1910)

Teoria dell’equilibrio economico
generale
Y reddito
C consumo
S risparmio
I investimento
A aspettativa di domanda
i saggio di interesse

famiglie Y = C + S                     imprese Y = C + I

quando       S = I si ha piena occupazione

ma S = f (Y, i) e I = f (i, A)
Rimane una possiilità, solo una:
l'intervento del governo per aumentare il
livello degli investimenti. Occorreva che il
governo contraesse prestiti e spendesse a
fini pubblici. Ciò presuppone un disavanzo
deliberato. Solo in questo modo si sarebbe
rotto l'equilibrio della sotto-occupazione,
spendendo deliberatamente i risparmi
accantonati - e non utilizzati - del settore
privato.

             John Kenneth Galbraith, Storia
                            dell’economia
Per il sistema keynesiano la guerra ebbe conseguenze importanti. Essa portò gli
economisti in posizioni di potere a Washington: tutti gli enti di guerra erano
amministrati o guidati in misura più o meno grande da economisti che
appartenevano in gran parte alla più giovane generazione keynesiana. La
generazione anteriore, legata alla teoria classica, non fu similmente reclutata.
[...]
Ma il vero contributo della guerra a diffondere le idee di Keynes consistette nel
mostrare cosa l'economia poteva realizzare attraverso l'intervento dello Stato.
Dal 1939 al 1944, il culmine corrispondente al tempo di guerra, il prodotto
nazionale lordo in dollari costanti (1972) aumentò da 320 a 569 miliardi di
dollari, ossia quasi raddoppiò. In mezzo a tanto parlare di privazioni del tempo di
guerra, le spese per il consumo personale in dollari similmente costanti non
diminuirono, aumentando anzi da 220 a 255 miliardi. La disoccupazione nel 1939
fu stimata pari al 17% della forza lavoro civile, mentre nel 1944 era scesa al
valore irrilevante dell'1,2%. I prodotti duraturi che utilizzavano il metallo, come
nuove automobili, erano scomparsi dallo stile di vita standard, ma nel complesso
nell'ultimo anno di guerra il tenore di vita degli americani era più alto di quanto
non fosse mai stato in passato. Che questo fosse il risultato della pressione
crescente della pubblica domanda sull'economia - gli acquisti da parte del
governo federale di beni e servizi in questi anni aumentarono da 22,8 miliardi di
dollari nel 1939 a 269,7 miliardi nel 1944 - nessuno poteva metterlo seriamente
in dubbio. Marte, il dio della guerra, nel suo corso ineluttabile e imprevedibile,
aveva fornito a favore di Keynes una dimostrazione superiore a ciò che si
sarebbe potuto chiedere.
                                      John Kenneth Galbraith, Storia dell’economia
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