Divani e smalti per unghie alla Pensione Mariuccia - Filodiritto

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Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752
                                              Direttore responsabile: Antonio Zama

      Divani e smalti per unghie alla Pensione Mariuccia
                                                  07 Luglio 2021
                                                  Andrea Cesaretti

La polemica
Ho appena digitato “ristorazione non trova personale”su Google il quale mi ha restituito “Circa
16.100.000 risultati (0,77 secondi)”. Ho dato una scorsa ai titoli della prima pagina costatando che si
replica la polemica a cui continuiamo ad assistere sui media. “Colpa del reddito di cittadinanza,
le persone preferiscono percepirlo e restare sul divano piuttosto che alzarsi e lavorare”. “No, la colpa è
dei gestori che pagano stipendi da fame e chiedono prestazioni oltre gli orari previsti dalla legge”.
Ho approfondito un po’ l’aspetto economico di questa querelle e, in effetti, ho scoperto che “la
retribuzione di un cameriere può partire da uno stipendio minimo di 800 euro netti al mese, mentre
lo stipendio massimo può superare i 2.000 euro netti al mese.”[1]. Immaginando una persona giovane,
magari al primo impiego, il paragone sarebbe che se va a servire caffè e gin tonic, riceve 800 euro mensili
mentre, se resta sul divano, ne percepisce 500[2]. È anche probabile che egli o ella rifletta che, sul divano,
non spende soldi in benzina o altri mezzi per raggiungere il posto di lavoro, che ci aggiunga altre
considerazioni simili ed è quindi probabile che concluda con un bel “ma chi me lo fa fare ad andare a
sopportare gli isterismi dello chef e del maitre”.
Questa mattina, poi, ho ascoltato alla radio un’intervista a una tipa di un’agenzia di ricerca e selezione del
personale la quale raccontava che non si trovano operai generici e che quotidianamente si sentiva dire “
grazie, ma preferisco prendere il reddito di cittadinanza”. Si è poi infervorata sempre di più contro il
governo che, a suo dire, continua a elargire il sussidio anche a chi rifiuta il lavoro al punto che, per farla
smettere, visto che la conversazione stava prendendo la piega sbagliata per la radio di stato, dopo qualche
minuto è partita la pubblicità.

   La polemica infuria.
Infuria e forse qualcosa di vero c’è anche se la tipa della ricerca del personale non mi ha convinto perché
mi sono detto che “non quadra che un fannullone che preferisce il sussidio al lavoro, mandi in giro
curriculum” (in effetti potrebbe farlo per mettere a tacere il genitore).
La polemica infuria, ma le cause di questo “stallo” sono da ricercare altrove rispetto al reddito di
cittadinanza perché questa situazione è, al contrario, l’effetto di un assetto socio economico sbagliato
in cui ci siamo (o ci hanno) infilati.
L’analisi che segue certamente non è la soluzione al problema di cui stiamo discutendo e, purtroppo, ho la
sensazione che, al momento, una soluzione non vi sia, ma conto che almeno ne descriva le cause.
La causa sta nell’effetto Wal-Mart
“The Wal-Mart Effect” è un libro del 2006 del giornalista economico Charles Fishman, senior editor
della rivista Fast Company, che descrive gli effetti economici locali e globali attribuibili alla catena di
vendita al dettaglio americana Wal-Mart.
Wal-Mart è una catena di negozi low cost fondata da Sam Walton nel 1962. Al 31 luglio 2020 gestiva
11.496 negozi in 27 paesi.
Fishman ha dimostrato che le catene low cost come Wal-Mart producono i seguenti effetti:
costringono le piccole imprese al dettaglio a chiudere l'attività,
abbassano i salari per i lavoratori locali,
impongono prezzi al ribasso ai fornitori con la conseguenza che questi devono abbassare i costi di
produzione e, per farlo, devono ridurre i salari, utilizzare materiali meno costosi e/o ricorrere a terzisti
localizzati in paesi a basso costo.

   Come sempre accade, noi arriviamo sempre in ritardo rispetto
   agli americani, ma prima o poi ci arriviamo e, anche noi, ci
   siamo infilati nello stesso deleterio circolo vizioso.

L’effetto Wal-Mart all’italiana (e non solo)
Secondo l’ufficio statistica della regione Emilia Romagna, nel mio comune (Rimini) sono attivi 1.101
alberghi e 415 strutture extra-alberghiere[3]. Ho fatto una ricerca su Booking per il weekend del 16-18
luglio 2021 (quindi alta stagione) a Rimini, su 327 strutture che offrivano camere, ne e ho trovate 187 (il
57%) con prezzo intorno ai 50 euro a notte in camera doppia (che significa 25 euro a persona).
Un paio di jeans da uomo di Pull&Bear (catena della Inditex, la stessa dei negozi Zara con sede in Spagna)
si possono comprare a 20 euro (il più economico di Emporio Armani ne costa 125). Lo smalto per unghie
più costoso da Kiko costa 4,99 euro (il più economico di Chanel ne costa 27).
Come fa una struttura alberghiera, anche se non è il Grand Hotel, a chiudere un bilancio in attivo
vendendo notti in alta stagione a 25 euro? Come fa un gruppo come Inditex ad accontentare i suoi
investitori vendendo pantaloni a 20 euro? E come fa Kiko ad assicurarsi il sorriso del direttore della sua
banca vendendo smalti che costano meno delle vernici dell’imbianchino?
Siamo concreti. Sono finiti i tempi in cui la Pensione Mariuccia veniva mandata avanti da una banda di
parenti fino al quarto grado, si faceva pagare con assegni che venivano scontati a San Marino e ai tedeschi
rimbambiti dal sol leone rifilava cappuccini con il surrogato anziché il caffè. Invece, al contempo, le
bollette, la tassa sui rifiuti, la lavanderia (prima o poi laverà le lenzuola spero) e altri ammennicoli simili
non fanno altro che aumentare pertanto è ovvio che deve ridurre il personale e quel poco che mantiene lo
paga il meno possibile mentre gli fa fare il lavoro anche di quelli lasciati a casa.
Pull&Bear (come tutte le catene low cost) fa produrre i jeans (almeno quelli di cui ho esaminato le
etichette) in Bangladesh e in India. Per quanto riguarda Kiko non saprei proprio visto che dichiarano che
sono tutti prodotti made in Italy. Probabilmente sono semplicemente bravi a gestire l’azienda.
Un equilibrio al ribasso
Il problema è che una situazione di questo tipo, dove tutti ci siamo abituati a un mondo low cost, invece di
produrre ricchezza per il Paese e i suoi cittadini, la brucia.
Pull&Bear (come la maggior parte delle catene low cost) fa parte di un gruppo straniero quindi gli utili
escono dall’Italia. Vende prodotti che fa produrre all’estero quindi non trasferisce denaro all’economia
interna. La Pensione Mariuccia (come tante altre attività ricettive, di ristorazione e simili) paga, soprattutto
tenendo conto delle ore effettive lavorate, salari infimi con la conseguenza che, se non sei figlio di un papà
che integra, quando hai pagato l’affitto di casa, ti rimane il giusto per un paio di hamburger del Mc
Donald’s.
 Non oso pensare cosa abbiano speso i miei quando rifecero casa nei primi anni ’70. Adesso trovi divani
che costano meno di una bicicletta. Tutto Made in Italy dice la pubblicità. In Italy nel senso che i
capannoni dove sono stipati decine di cinesi sono sul territorio italiano[4] [5]. Non ce l’ho con i cinesi,
ovviamente, ma come qualsiasi persona non radicalchic –politically correct, mi chiedo dove finiscano i
loro quattrini. A occhio e croce non danno una spinta ai consumi interni italiani, ma magari sono prevenuto.
Comunque sia, siamo in pieno effetto Wal-Mart: l’effetto della corsa al low cost è che la maggior parte dei
soldi prodotti da queste imprese finiscono nelle economie finanziarie e reali di altri Paesi con buona pace
dei consumi interni e del benessere delle persone.
Ecco perché la polemica da cui siamo partiti è sterile. Insomma, se giochi al ribasso, da qualche parte devi
tagliare.

L’etica questa sconosciuta
L’effetto Wal-Mart non ha solo implicazioni economiche, ma anche etiche e anche io ne sono responsabile.
Nel 2013 a Dacca in Bangladesh avvenne il Crollo del Rana Plaza di Savar dove aveva sede una delle
fabbriche tessili a cui Pull&Bear appalta i suoi lavori insieme ad altri marchi fra cui H&M, Zara, Bershka,
Oysho, Stradivarius, Mango, solo per citare alcuni fra quelli conosciuti in Italia. Nel crollo morirono 1.134
persone.
Sapevo io di questa tragedia quando ho comprato prodotti dei marchi citati? Si, lo sapevo, ma ho
continuato a comprarli.
Quando ho accompagnato mia figlia da un amico gioielliere, sapevo che la pietra montata sull’anello che
stava acquistando era stata tagliata, con estrema probabilità, da un minorenne indiano? Si, lo sapevo, ma
non ho impedito l’acquisto.
Anni fa tenni un discorsetto nei lavori di apertura di un convegno sull’etica delle pietre preziose e chiesi
alla platea “se vi dicessi che garantire l’etica, per esempio, che non vi siano minori coinvolti
comporterebbe un aumento dei costi di almeno il 30%, sareste disposti ad accettarlo?” Silenzio in sala.
L’effetto Wal-Mart ci ha fatto diventare cattivi. Cade una fabbrica e muoiono i lavoratori che cuciono i
miei jeans? Non è un problema mio, sono paesi lontani e se i loro governi non sono in grado di garantire
condizioni di lavoro umane non mi riguarda. In India i bambini tagliano le pietre preziose? Mica posso
andare contro le loro tradizioni religiose per cui, se non lo fanno, non avanzeranno di casta nella prossima
vita.
E se, invece di inventarci delle scuse, smettessimo di comprare quella roba? Probabilmente, creeremmo
solo un danno ulteriore ai dipendenti di quelle attività. Capito in che circolo vizioso ci siamo infilati?
L’effetto IKEA
Il mondo low cost produce conseguenze economiche, etiche, ma anche (torniamo più leggeri) di stile.
Si dice che “l’effetto IKEA” sia l’appagamento che le persone riscontrano quando dedicano a un prodotto il
loro stesso lavoro perché i loro sforzi ne fanno aumentare il valore e la loro personale valutazione in quanto
partecipano a un processo di creazione[6].
Con me non funziona e, con tutto il rispetto per il compianto Egidio Brugola, montare i mobili mi fa venire
solo il nervoso.
 Per me, l’effetto IKEA è l’appiattimento del gusto. Roba tutta uguale, case tutte uguali, uffici tutti
uguali e tutti uguali a un gabinetto dentistico.
La roba dell’IKEA costa poco? Vero, ma con lo stesso prezzo trovi nei mercatini del modernariato oggetti
e arredi di ben altro stile. Certo, ci vuole tempo e anche un po’ di gusto. Mi si ribatterà che non siamo tutti
arredatori. Vero anche questo, ma certo che finché continueremo a usare l’IKEA come riferimento, il gusto
per il design, quello vero. non ci tornerà di sicuro. Senza parlare del fatto che nemmeno le sirene di Ulisse
attiravano i poveri viandanti come le candele e i tovaglioli di carta dai quali nessuno è mai uscito indenne.

L’effetto Zoomers
Gli Zoomers sono i giovani nati tra la metà degli anni ’90 e il 2012 e, mi viene da pensare che sia questa la
generazione in cui è presente la maggior parte delle persone che preferisce i sussidi al lavoro.
Coerentemente alla mia età (io sono un Boomer), dovrei raccontare che io passavo le vacanze estive
lavorando negli alberghi della riviera e altri luoghi comuni simili invece di bighellonare e chiedere un
sussidio allo stato.
Al contrario, questo è proprio un paragone da evitare.
Primo, perché allora, neri o no, i soldi giravano. Secondo, perché (scusate lo snobismo) in riviera c’era ben
altra clientela e ti sentivi proprio cool a consegnare le chiavi dei macchinoni. Terzo, perché la mia
generazione aveva la percezione che, se ti impegnavi, le cose sarebbero sempre e solo andate meglio. A
fronte di tutto questo, potevo anche sopportare gli isterismi dello chef, del maitre e del direttore
dell’albergo.
Questi Zoomers, invece, sono nati e cresciuti in periodi di crisi economiche, hanno visto crollare le torri
gemelle e, con loro, la sicurezze sul futuro, hanno assistito alle manipolazioni tossiche dei mercati
finanziari e alla corruzione in vari settori della società.
Questi scenari spiegano il desiderio della generazione Z (per non parlare di quella Alpha successiva) di
autonomia e di autosufficienza. Questi giovani stanno vivendo uno scenario incerto che giustifica in pieno
la loro intolleranza agli isterismi degli chef, dei maitre e del titolare della Pensione Mariuccia soprattutto a
fronte di quattro spiccioli.
Per cui, prima di giudicarli, quelli della mia generazione dovrebbero fare una bella autocritica per come gli
abbiamo fatto trovare il mondo.

Invece di far polemica, facciamo un mea culpa
Non ho indicato soluzioni perché, in ogni caso, gli italiani “vogliono la rivoluzione ma preferiscono fare le
barricate con i mobili degli altri” (Flaiano). Ho solo indicato quella, che secondo me, è la madre di tutti i
problemi e che rende sterile la polemica da cui siamo partiti ovvero se non si trova personale per via degli
stipendi bassi o del reddito di cittadinanza.
Ci saranno anche fannulloni come ce n’erano anche ai miei tempi e come ce ne sono sempre stati però, per
quanto riguarda la maggior parte dei giovani di oggi, la colpa del loro atteggiamento apparentemente
arrendevole è solo nostra: abbiamo permesso l’instaurazione della dittatura delle catene dal prezzo basso
con il loro fiume di soldi da cui questa generazione è esclusa, permettiamo a una burocrazia anacronistica
di bloccare ogni iniziativa economica per cui, se non hai un genitore con le relazioni giuste, col cavolo che
riesci a far partire la tua startup, accettiamo le bugie per cui puoi assumere giovani senza pagare contributi
e poi scopriamo dal consulente del lavoro che non è vero nulla.

   Allora, come facciamo a eliminare l’effetto Wal-Mart e tornare
   ai bei tempi?
   Non lo so.
   Però prometto che ci penserò.

[1] https://www.jobbydoo.it/stipendio/cameriere
[2] https://www.adirai.it/economia/tabella-reddito-di-cittadinanza-2021-importi-requisiti-rdc_160621/
[3]          https://statistica.regione.emilia-romagna.it/turismo/dati-preliminari/dati-consolidati-2018/analisi-
territoriale-della-offerta-turistica/dettaglio-provinciale/rimini/rimini-gennaio-dicembre2018.pdf
[4] https://www.report.rai.it/dl/docs/1316614424665poltrona_per_due_pdf.pdf
[5] https://www.linkiesta.it/2012/08/matera-dove-ora-il-divano-made-in-italy-e-cinese/
[6] https://www.ninjamarketing.it/2019/07/11/effetto-ikea-fatica-sforzo-soddisfazione-ux/

TAG: reddito di cittadinanza, ristorazione, stipendio, dipendenti, The Wal-Mart Effect

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