CRISTOFORO COLOMBO E L'APERTURA DEGLI SPAZI
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UFFICIO CENTRALE PER I BENI LIBRARI E GLI ISTITUTI CULTURALI COMUNE DI GENOVA SOCIETÀ LIGURE DI STORIA PATRIA CRISTOFORO COLOMBO E L'APERTURA DEGLI SPAZI MOSTRA STORICO-CARTOGRAFICA Direzione scientifica GUGLIELMO CAVALLO ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO LIBRERIA DELLO STATO ROMA 1992
L'età dell'evidenza cartografica. Una nuova visione del mondo fra Cinquecento e Seicento Massimo Quaini Nel 1501, al largo di Valenza, la squadra navale dell'ammiraglio turco Kemal Reis cattura sette navi spagno le. Tra i marinai ridotti in schiavitù vi è un compagno del terzo viaggio di Colombo, appena concluso. A questo marinaio viene sequestrata una carta delle nuove ìsole e terre scoperte ed esplorate da Colombo. Ad affermarlo è, nel 1513, Pirì Reis, nipote de l capo dell'armata navale turca e ottimo cartografo, nell'ampia legenda di un mappamondo tracciato anche in base alla carta sequestrata. Al di là del problema specifico dell'attribuzione della fonte cartografica a Colombo, è interessante vedere come la mig liore tradizione cartografica ottomana presenta la scoperta e lo stesso processo conoscitivo di Colombo: «Queste coste dice la carta del 1513 a proposito delle Indie occiden tali furono scoperte da un infedele genovese, il cui nome era Colombo; un libro sarebbe caduto nelle sue mani, in esso era detto che alla fine del mare occidentale vi erano coste e isole e ogni sorta di metalli e pietre preziose», Secondo questa tradizione, che deriva dalla più forte potenza navale del Medi terraneo, all'origine del proge tto colombiano non ci sarebbe la misteriosa leg genda del pilota sconosciuto e il sentito dire dei marinai, ma un libro che avrebbe fornito a Colombo soprattutto un'immagine del mondo, imperniata su due punti essenziali: 1) il mare occidentale, l’oceano che separa l'Europa e l'Africa dall'Asia, non è infinito ma è una specie di più grande mediterraneo chiuso ad occidente dalle coste di un continente e da molte Isole; 2) questo continente è ricco di metalli e pietre preziose. Il primo punto è nella sua formulazione simile all'idea che, secondo il cronista genovese Antonio Gallo, Bartolomeo Colombo, cartografo in Lisbona, avrebbe trasmesso al fratello ricavandola dalle esperienze dei navigatori portoghesi non meno che dal suo tirocinio di cartografo genovese, mediterraneo. Il secondo si rifà alla visione dell'Asia tramandata non solo dalla letteratura dì viaggio medievale, da Marco Polo a Mandeville, ma anche dal sapere geografico antico, a cominciare da Erodoto e dal suo assioma che i prodotti più mirabili si trovano alle estremità del. mondo conosciuto. Sulla base di questi elementi si potrebbe ipotizzare che il libro di cui parla Piri Reis sia identifìcabile con l'Imago mundi di Pierre d'Ailiy definito da molti «le livre de chevet» di Colombo la cui geografia elaborata nell'ambito della filosofia scolastica, si iscrive nella ritrovata prospettiva
dei geografi antichi. Ma al di là di questa o altre identificazioni, è per noi interessante ragionare sul fatto che all'origine dell'avvenimento che apre l'età moderna sia collocato un libro. Non è certamente un caso. Così come non è forse un caso che, secondo una tradizione risalente al Bernaldez, Cristoforo Colombo durante il suo soggiorno in Andalusia abbia fatto il mercante di «libri figurati» e di carte. Siamo a pochi lustri dall'invenzione della stampa, un evento che ha profondamente modificato le coordinate culturali della società medievale e che ha potentemente contribuito a creare un nuovo sistema percettivo. È oramai ben stabilito, infatti, che la stampa modifica il rapporto orale scritto e lo stesso ruolo della cartografia nella mentalità tardo medievale, così come la vediamo riflessa anche in Colombo. Per meglio comprendere questo punto facciamo un salto di mezzo secolo. Nel 1564 viene pubblicato il Quinto libro di Pantagruel, dove, nel contesto di un viaggio immaginario per terre e isole inaudite, appare una curiosa allegoria di Sentito dire: «Vedemmo un vecchietto tutto gobbo, deforme e mostruoso. Lo chiamavano Sentito dire. La sua faccia era come tagliata in due dalla bocca che gli arrivava alle orecchie, e dentro quella bocca aveva sette lingue… aveva inoltre, sulla testa e per tutto il corpo un'infinità di orecchie: tanto che un tempo gli occhi di Argo non furono certo di più; per il resto era cieco e paralitico di gambe. Attorno a lui vidi uno stuolo innumerevole di uomini e donne che ascoltavano con molta attenzione... in quel momento teneva in mano un mappamondo e ne impartiva la spiegazione sommariamente per aforismi. Così gli ascoltatori diventavano dottori e gran sapienti in poco d'ora, e parlavano con eleganza e perfetta memoria di una quantità di cose prodigiose, per apprendere la centesima parte delle quali non basterebbe un'intera vita: delle Piramidi, del Nilo, di Babilonia, dei Trogloditi, degli Imantopodi, dei Blemmì, dei Pigmei, dei Cannibali, dei monti Iperborei, degli Epigoni, di tutti i diavoli, e sempre per Sentito dire…». Apparentemente, questa grottesca rappresentazione di una cultura fondata sull'oralità, al tramonto per effetto dell'invenzione della stampa e il conseguente primato della vista, contrasta con la visione che gli studiosi del rapporto orale scritto ci offrono per questo secolo e proprio sotto l'aspetto che qui ci riguarda. Infatti, secondo Walter J. Ong «il visualismo stimolato dalla stampa è connesso con l'aumentato uso delle carte geografiche e con la concreta esplorazione fisica del globo (che dipende dal dominio visivo dello spazio sulle carte geogra fiche e nell'immaginazione) che apre l’eta moderna». L'antico mondo orale sempre secondo Ong «conosceva pochi esploratori, pur avendo viaggiatori, avventurieri e pellegrini». Sono le carte geografiche, la loro diffusione che trasformano la visione che gli uomini hanno del mondo: da allora «lo cominciarono a vedere principalmente come qualcosa che si trova davanti ai loro occhi, come è nei moderni atlanti a stampa, ossia come una vasta superficie o un insieme di superfici (la vista ci mostra superfici) pronte per essere esplorate». Era dunque sbagliato o contraddittorio il bersaglio polemico di Rabelais? Ra-belais non sbagliava: mettendo in mano a Sentito dire un mappamondo, aveva in mente le carte tipicamente medievali. Nel mappamondo medievale di Hereford (secoli XIII-XIV) è riportata una scritta misteriosa che costituisce la chiave della comunicazione del messaggio geografico: «omnia plus legenda quam pingenda» e cioè «tutte queste cose sono più da leggere che da disegnare». Significa che per gli uomini del medioevo, prima dell'invenzione della stampa, i fatti geografici, i luoghi e al loro rappresentazione non possono essere affidati solo alla vista e al disegno, ma devono essere letti (e non semplicemente scritti). Devono cioè essere sottoposti alla parola letta ad alta voce perché nel medioevo la lettura è collettiva e non a caso i mappamondi sono collocati nelle chiese e quindi ad una trasmissione che passa per l'udito, che, a differenza della vista e quindi anche del disegno, ha il potere di alimentare la meraviglia e l'immaginazione. Come ha riconosciuto anche Le Goff, «gli uomini del Medioevo, al contrario di quelli del Rinascimento, non sanno guardare, ma sono sempre pronti ad ascoltare e a credere a tutto ciò che si dice loro ... sono sognatori ad occhi aperti». In altre parole, l'uomo medievale pensa che l’immaginazione e la meraviglia siano bloccate dai contorni dei luoghi fissati dalla vista e dal disegno e che ci sia bisogno del potere evocatore e fantastico della parola, della parola detta, ascoltata. Non a caso, invece, la storia della cartografia moderna è : la storia dell'emancipazione del disegno dalla parola, che dando corpo a
lunghe didascalie tiene invece campo nel mappamondo medievale, fino ad occupare tutti gli spazi vuoti e a svolgere un secondo discorso narrativo, enciclopedico, più rilevante e atteso del primo. Così come è altrettanto evidente che i tempi moderni cominciano solo nel momento in cui, come già notava Alexander von Humboldt, cessa nei cartografi l'orrore del vuoto e nelle carte cominciano ad apparire le macchie bianche e i profili incompiuti delle terre incognite. Per ora, se pensiamo alla genesi del progetto colombiano, il libro, la parola sono più di un semplice complemento della carta. Solo pensando a questa stretta alleanza della parola e del disegno possiamo capire la grandissima risonanza che le parole di Aristotele e di Seneca, le «profezie» degli antichi, hanno avuto sull'animo di Colombo. Per tacere poi delle parole della Sacra Scrittura, In una delle operette del d'Ailly postillate da Colombo, l’Epilogus mappe mundi l’autore dice di aver voluto dopo il trattato sull’Imago mundi (affidato alla parola) descrivere la mappa mundi affinchè il quadro delle conoscenze geografiche «sì presenti come in uno specchio, visibile non solamente agli occhi dell'anima ma anche allo sguardo sensibile degli occhi del corpo». E tuttavia anche in questo caso la descrizione solo in parte ricorre dia figura, che rimane totalmente subordinata alla parola. Per esempio non è la carta ma sono gli auctores Aristotele, Seneca, Plìnio, Esdra, s. Gerolamo che con le loro testimonianze provano che «l'estensione della terra abitabile è considerevole e che la parte ricoperta dalle acque deve essere piccola», come anche Colombo si affretta a postillare, È probabile che per immaginare resistenza di un altro mondo al di là dell'oceano, più del disegno cartografìco e dei calcoli di uno scienziato come Toscanelli, abbiano inciso, sulla mentalità ancora medievale dì Colombo, soprattutto le parole dei geografi antichi. Colombo infatti si colloca a metà del guado di quella profonda trasformazione della mentalità medievale, che si potrebbe esemplificare con il passaggio dal Boccaccio che in un'operetta geografica, a proposito dei geografi antichi, dice di aver «voluto più presto a loro autorità credere che agli occhi miei» perché la vista è ingannatrice a Leonardo, che invece esalta la vista è rivaluta il disegno per la descrizione degli oggetti corporei, estesi, dicendo allo scrittore «non t'impacciare di cose appartenenti alli occhi con farli passare per li orecchi, perché sarai superato di granlunga dall'opera del pittore». Le posizioni, all'inizio dell'età moderna, tendono ormai a invertirsi, sia rispetto a Boccaccio sia al mappamondo di Hereford, ma Colombo e l'età sua non hanno ancora reciso il cordone ombelicale con il mondo medievale. Infatti, nel Giornale di bordo) a proposito della natura del Nuovo Mondo, leggiamo sotto il 25 novembre: «l'Ammiraglio conclude che se in lui, che aveva visto, lo stupore era còsi grande, tanto più grande meraviglia avrebbe provato chi ne avesse sentito parlare». Fin qui la mentalità è tipicamente medievale, ma ciò che subito dopo viene aggiunto «e nessuno avrebbe creduto se non quando avesse visto» implica chiaramente il nuovo potere dì verificazione della vista. Si potrebbe però dire che Colombo ammetteva questo potere con rammarico, quasi presagisse che proprio attorno a questo punto si sarebbe giocata, tragicamente, la sua sorte: la sorte di un uomo che non viene creduto sulle terre che dice di aver veramente scoperto e soprattutto sulle loro potenzialità economiche. Colombo, sempre a metà strada fra mentalità medicale e mentalità moderna, è alla fine vittima del nuovo potere della vista, dell’osservazione, che altri, come il fiorentino Vespucci, riusciranno ad esercitare assai meglio, per una maggior adesione alle istanze scientifiche dell'umanesimo. Anche se, come si è già notato, la genesi: stessa della sua impresa sarebbe inconcepibile senza'il visualismo stimolato dalla diffusione del libro e delle carte geografiche e senza ammettere che Cristoforo e .Bartolomeo erano innanzitutto cartografi. Nello stesso tempo è però significativo, che sui primi grandi mappamondi cinquecenteschi, in cui sta per compiersi la sconfitta della visione geografica colombiana, così legata all'autorità degli autori, si coglie ancora l'eco delle parole di Colombo che abbiamo appena citato. In una legenda del mappamondo di Giovanni M. Contarini del 1506 leggiamo: «ciò che il medesimo Cristoforo Colombo diligentissimo scrutatore dei mari, afferma, ha una forza grandissima per chi l'ascolta».
Alle soglie dell'età moderna il cartografo è ancora un uomo che «ascolta», ancora sensibile al potere della comunicazione orale. Come il lettore della Cronaca di Norimberga di Hartmann Schedel: «un libro che (come ha scritto Gombrich) dovrebbe offrire allo storico un'occasione unica per conoscere l’aspetto del mondo all'epoca dì Colombo». Ma in esso, la stessa xilografia ritorna immutata per quattro volte «con titoli incredibilmente diversi: per Damasco, Ferrara, Milano e Mantova». Evidentemente, ciò che allora ci si aspettava era soltanto di convincere il lettore che questi erano nomi di città: non l'immagine ma il nome, il suono del nome era chiamato a differenziare l'oggetto della rappresentazione. Quando poniamo sotto i nostri occhi i mappamondi cinquecenteschi, dobbiamo pensare che contrariamente al nostro modo tutto geometrico di leggerli, allora, nel Cinquecento, a richiamare l'attenzione era soprattutto la successione dei nomi, antichi e nuovi, ma ugualmente favolosi: Cuba, Brasile, Cipango, Katai, Mangi, Ciamba, Giava, Taprobana... e magari la regione dei «Giudei clausi», rinchiusi per punizione divina e popolatori delle terre nuovamente scoperte secondo una teoria poi abbandonata. Un atteggiamento che non ha dunque preso tutte le distanze da quello del vecchio «cosmografo» rappresentato da Rabelais nell'atto di spiegare le «cose prodigiose» raffigurate sul mappamondo: dal Nilo alle Piramidi, ai Pigmei, ai Cannìbali, ai monti Iperborei fino ai Blemmi e agli Imantopodi, e cioè ai «mostri» dell'immaginario medievale. In effetti, neppure il cartografo moderno può fare a meno del sentito dire. Anzi il rapporto tra questo e l'autopsia '(come per indicare la testimonianza oculare dicevano i greci) è alla base della carta. Anche Fautore della' carta si trova di fronte a due opposti modi di informazione: da una parte l'occhio che percorre la realtà e visualizza ciò dì cui fa esperienza, dall'altra l'orecchio che raccoglie discorsi che possono provenire da testimoni lontani più o meno oculari. L'autopsia, così come per la storia riduce lo spessore cronologico del racconto, per la geografia/cartografia riduce la scala, l'ampiezza della rappresentazione. Perciò si è costretti a far ricorso al sentito dire, all'informazione indiretta, orale o libresca. Già lo ammetteva Strabone: affidandosi a quegli «organi di senso» che sono i diversi indivìdui che nel corso dei viaggi hanno 'visto paesi diversi, i geografi ricompongono in uno schema unico l’aspetto del mondo abitato nella sua totalità, La carta, dunque, come prodotto di una combinazione razionale fra l'occhio (o l'autopsìa del viaggiatore) e l'orecchio (il sentito dire), fra la visione e le esperienze del viaggiatore e la verifica da parte del geografo cartografo di tutta la tradizione. Come ha scrìtto C Jacob «il sentito dire permette così la moltiplicazione all'infinito dello sguardo geografico: il cartografo, immobile, dispone dello sguardo degli altri, centralizza le loro visioni parziali, le assembla e le armonizza, come tessere dì un mosaico, per giungere allo "schema unico”, alla carta generale dell'ecumene. Questa è la divisione del lavoro tra il geografo, intelligenza centrale (noùs), e i viaggiatori anonimi, 'organi di senso' mobìli, intermediari tra la realtà e il soggetto che la rappresenta». Anche il Contarini, in una legenda del suo mappamondo, sì rappresenta come un «viaggiatore immobile» che, come continuatore di Tolomeo, fa vedere «novas gentes et orberà .recentem». Al cartografo occorre dunque, come prima e principale dote, la capacità di rettifica e di critica delle sue fonti, tanto cartografiche quanto descrittive; la capacità di distìnguere gli autori degni di fede da quelli menzogneri. Questa distinzione attraversa tanto i cartografi precedenti quanto i viaggiatori. L'autopsia, infatti, non è di per sé una garanzia di verità, perché come già osservava Polibio tutto può essere deformato nel racconto del testimone oculare. Dai cartografi greci a Mercatore questo rapporto non cambia nella sostanza, anche se si complica e ogni cartografo enfatizza l'uno e l’altro punto di vista:quello del marinaio o quello, per così dire, del «filologo», il ruolo dell'occhio o quello della critica testuale. L'esempio di Colombo dimostra come ambedue i punti di vista fossero necessari agli uomini che con la loro abilità di cartografi, cosmografi ed esploratori aprivano nuovi spazi all'avventura umana, II rapporto fra l'esperienza e l’auctoritas è già enunciato nel mappamondo dì fra Mauro (1459) in più di una legenda, per esempio in una delle annotazioni che riguardano il disegno dell'Europa settentrionale: «io non credo derogar a Tolomeo se io non seguito la sua cosmografia, perché se havessi voluto observar i sui meridiani over paralleli over gradì era necessario ... lassar molte provincie de le qua! Tolomeo non fa mention, ma per tuto maxime in latutìdine ... dice terra incognita e questo perché al suo tempo non li era nota».
Il sentimento che la carta del mondo è un'opera perfettibile, affidata al corso delle generazioni, diventa alle soglie dell'età moderna una presa di coscienza necessaria, frutto dell'umanesimo. Lo dimostra un ragionamento di fra Mauro, che pur ammettendo all'inizio l'insufficienza dell'intelletto umano, conclude con la piena fiducia nel potere di verifica dell'esperienza sulla «scrittura» della terra o «geografia», sia essa in particolare quella di Tolomeo o più in generale quella delle fonti bibliche e cristiane: «questa opera ... non ha in sé quel compimento che doveria, perché .non è possibile a Pintellecto human senza qualche superna demonstration verificar in tutto questa cosmografia over mapamundì ... Onde se algun contradirà a questa perché non ho seguito Claudio Tolomeo, sì per la forme come etiam ne le sue mesure ... non vogli più curiosamente defenderlo de quel che lui proprio non s e defende, el qual nel secondo libro, capitulo primo dice che quele parte de le qual se ne ha continua pratica se ne può parlar correctamente ma de quale che non sono cussi frequentade non pensi algun se ne possi parlar cussi correctamente; però intendendo lui non haver possudo in tute verificare la sua cosmografia ... resta che'l conciede che cum longeva de tempo tal opera se possi meglio descrivere over haverne più certa noticia de qual habuto lui. Pertanto dico che io nel tempo mìo ho solicitado verificar la scriptora cum la experientia, investigando per molti anni e praticando cum persone degne de fede, le qual hano veduto ad ochio quel che qui suso fedelmente demostro». Anche se non sempre fra Mauro può mantenersi fedele a questi principi, è importante che vengano affermati in maniera così esplicita, insieme al riconoscimento non meno nuovo e rivoluzionario .dell'evidenza cartografica e del suo linguaggio: «ma queli vuol ben intendere [i segni della carta] è necessario habino ben visto ad ochio over ben leto e intendi li venti et habi bona geometria e bona ìntelligentia de desegno.». Anche se la cosmografia rimane una scienza incerta, per la diversità delle informazioni e delle opinioni, la sua capacità di dimostrazione è ormai riconosciuta indipendentemente dal potere della parola, a patto che chi vuoi approfittare della carta e trarne «buon giudizio» sia in grado di intenderne «la buona geometria» e l'autonomo linguaggio, di leggere i venti (le direzioni) e gli altri segni attinenti le divisioni, le province, i mari. Alla nascita dell'evidenza cartografica, un'evidenza così legata all'esperienza visiva e allo sforzo sempre più consapevole di usare la «buona geometria», concorrono,.dalla metà del Quattrocento a Mercatore, lo studio di Tolomeo non meno dell'esperienza dei marinai. Come recita già il mappamento detto «genovese» del 1457 le «carte vere» sono quelle elaborate dai cosmografi e accordate alle nuove informazioni dei marinai «frivolis naracionibus rejectis». «Frivole narrazioni» ritroveremo ancora nel planisfero di Mercatore, come fra poco vedremo. Ma ciò che anche in questo caso è importante è la linea di tendenza e l'affermazione di principio, per esempio l'esigenza di fornire i mappamondi di scale graduate, come con molta enfasi è indicato anche nel mappamondo del benedettino Andreas Walsperger (1448), dove si danno istruzioni (precise quanto inutili) per misurare con l'ausilio del compasso le distante fra le regioni e le città disegnate. A questo proposito non ci si può scordare del fatto che questa è anche «l'epoca in cui la geometria di Euclide prende possesso dello spazio vissuto attraverso lo strumento pittorico della prospettiva» (Gusdorf). Luca Pacioli, compagno di Piero della Francesca, nel suo trattato De divina praportwne (1509), partendo dalla constatazione che l'ottica è superiore alla musica nella misura in cui l'occhio ha più valore dell'orecchio, afferma che «a ragione anche il popolo ritiene che rocchio sia la prima porta attraverso la quale lo spirito conosce le cose e ne gioisce». Di questa preminenza della vista la carta è destinata ad offrire la migliore conferma nell'età rinascimentale. Un trattatista francese della metà del secolo XVII, parlando della scienza geografica, ricorre alla stessa metafora dell'occhio come porta della geografia: «le nostre carte e i nostri globi scoprono ai nostri occhi e dagli occhi fanno passare.alla nostra immaginazione e da questa al nostro spirito» tutta la geografìa. La prospettiva pittorica, in quanto razionalizzazione e geometrizzazione dello spazio, non meno dell'arte teatrale (la cui forma moderna si sviluppa all'interno dello spazio della prospettiva euclidea), trovano il loro principio in «una educazione dello sguardo che diventa l'organizzatore, il grande architetto della conoscenza» (Gusdorf). Il legame fra la prospettiva pittorica e le proiezioni geografiche è del tutto evidente,
soprattutto attraverso la mediazione di Tolomeo. Non meno evidente è la connessione con l'arte teatrale e con l'idea del «teatro del mondo» che costituisce il titolo più usato dagli atlanti geografici prima dell'Atlas (1595) di Mercatore. Quando Abramo Ortelio pubblica nel 1570 il suo Theatrum orbis terrarum e nella premessa definisce la geografia come «l'occhio della storia», ha dunque presente un concetto che va ben al di là della semplice subordinazione di una scienza all'altra, come con grande miopia culturale questa celebre espressione, ricorrente anche negli atlanti dei Blaeu, è stata letta dai geografi positivisti. Quando nel 1569 Mercatore incide su rame il suo famoso mappamondo con il titolo di Nova et aucta orbis Terrae descriptio ad usum navigantium emendate accomodata inaugurando lo «stile della carta moderna», non fa altro che razionalizzare uno sforzo più che secolare, al quale avevano partecipato marinai e cosmografi mediterranei e atlantici. La continuità è anche dimostrata dalla permanenza di elementi mitici, dislocati per esempio nell'arco polare settentrionale. In un'ampia legenda Mercatore racconta infatti di aver desunto la forma delle terre polari dalle notizie di un prete norvegese, che a sua volta le aveva ricavate da un frate minorità di Oxford che nel 1360 «era venuto in queste isole e dopo averle oltrepassate per magia, aveva tracciato una carta di tutte queste regioni e le aveva misurate con l'astrolabio, ricostituendole nella forma» presentata dallo stesso Mercatore. Sempre dalla stessa fonte ricavava l'idea che l'oceano «irrompendo attraverso 59 bocche tra queste isole forma quattro fiumi che entrano nelle viscere della Terra» con un grande gorgo che trascina e perde tutte le navi che vi si avventurano. Al di sotto della Siberia un'altra ampia legenda parla del prete Gianni e dell'origine del primo impero tartaro, ancora sulla base delle informazioni raccolte da Marco Polo: si conclude con l'osservazione che «alcuni credono che il Prete Gianni regni ancora in Asia e che sia diverso da quello che ancora oggi in Africa si chiama il Prete Giam», che lo stesso Mercatore rappresenta con un piccolo disegno nel cuore dell'Africa centrale come imperatore degli abissini. A proposito dell'Africa, una lunga didascalia spiega come «il Niger si getta nel Nilo», in base soprattutto all'autorità di Solino e di Plinio, che ipotizzavano lunghi percorsi sotterranei... Non è dunque per questi aspetti che il planisfero di Mercatore dichiara la sua modernità. Non lo è neppure per il fatto di tenere in grande conto le relazioni dei naviganti e le più recenti carte marine di castigliani e portoghesi: come abbiamo visto, questa tendenza era già operante da circa un secolo e mezzo. Ma è piuttosto per la sua nuova intelaiatura matematica nota appunto come proie zione di Mercatore, utile soprattutto per i naviganti (come dice anche il titolo della carta), in quanto consentiva di tracciare sulla carta rotte che mantenevano costanti gli angoli rispetto alla superficie del globo. Il problema si era posto soprattutto con le navigazioni oceaniche, in quanto nel Mediterraneo, anche se gli angoli tracciati sulla carta nautica non corrispondevano agii angoli sulla superficie terrestre, gli errori erano trascurabili e comunque compensati dalla navigazione stimata. I vantaggi nautici della proiezione di Mercatore erano però limitati dal fattoche la scala della carta veniva a variare man mano che dall'equatore si procedeva verso i poli e ciò rendeva assai complesso il calcolo delle distanze. Per questaragione la sua prima utilizzazione fu limitata ai planisferi. La conseguente deformazione delle aree e in particolare la dilatazione delle regioni alle medie latitudini contribuì non poco a enfatizzare anche graficamente il ruolo centrale dell'Europa nel mondo e a perpetuarne fino ai giorni nostri l'immagine fuori scala rispetto al resto del mondo. Nella cartografia nautica la proiezione mercatoriana venne adottata verso la metà del Seicento soprattutto con L’Arcano del mare di Robert Dudley, stampato a Firenze negli anai 1646-1647. Fu questo inglese, postosi al servizio dei Medici, che decretò con la sua opera la morte della medievale cartografia nautica che tanti servizi aveva reso non solo alla navigazione
mediterranea ma anche a quella atlantica. La stessa produzione cartografica del nord Europa che si venne sviluppando parallelamente al ruolo crescente delle marinerie nordiche e alla diffusione della stampa ricalcò nel corso del Cinquecento i modelli mediterranei, cominciando a coprire le regioni del Baltico delineate in maniera approssimativa dai cartografi mediterranei e inglobando successivamente anche il Mediterraneo, dove ormai le navi inglesi e olandesi erano di casa. II prototipo di questi atlanti portolanici è costituito dallo Spieghel der zeevaerdt (Specchio del mare) di Lucas Janszoon Waghenaer edito a Leiden da G Plantijn nel 1583 e in. edizione inglese nel 1588. Ad esso fece seguito nel 1695 il Cmriboe-k mn de Mìdland$ch$ Zee, opera del celebre navigatore Barentszoon, dedicato alla navigazione mediterranea e pubblicato ad Amsterdam. La sua importanza dal punto di vista cartografico consiste nel fatto che, con una tavola dell'intero Mediterraneo dovuta a Petrus Plancius, viene definitivamente corretta Ferrata disposizione dell'asse del Mediterraneo ruotato di circa 8-ro gradi in senso antiorario (in modo che la foce del Nilo appariva sullo stesso parallelo di Gibilterra). Una correzione di cui erano consapevoli alcuni cartografi operanti nel Mediterraneo, ma che, come notava anche Bartolomeo Crescendi nella Nautica mediterranea, si tardava ad applicare. II predominio della cartografia nordica in campo nautico è rivelato dal fatto che nel 1664 Francesco Maria Levamo, cartografo genovese, pubblica Lo Specchio del mare Mediterraneo, limitandosi a riprodurre le tavole del Niew Groot Stroeis Boeek inhoudmde $ M.iddeÌàntsee Zee dell'olandese Anthoni Jacobzs, A sua volta Vincenzo Corooelli, cosmografo della Repubblica di Venezia, lo ripubblicherà nel 1698, dedicandolo curiosamente alFEcc.mo Signor Don Pietro Manuel Colón ... duca di Veragues. Ponendoci dallo stesso osservatorio genovese possiamo fare un'altra considerazione a proposito del predominio della cartografia nordica sull’ormai esausta cartografia' mediterranea. Le grandi famiglie genovesi che tanto avevano saputo approfittare in termini economici dell'apertura degli spazi atlantici e americani sono nel Seicento fra i maggiori clienti delle officine cartografìche fiorenti in Amsterdam. Una vera e propria galleria di carte murali avevano per esempio allestito gli Spinola nel loro palazzo di piazza Pellicceria, attingendo alle grandi carte stampate da J. Bkeu, F de Wit e H. Allaerdt. Una «galleria» oggi ricostituita grazie al pieno restauro di una collezione unica per la sua ricchezza che realizzava pienamente là consapevolezza dell'utilità delle carte geografiche dichiarata dallo stesso Joan Blaeu io apertura del suo Grande Atlante: «Quanto siano utili le carte dei geografi è facilmente dimostrabile: per loro mezzo si contemplano a casa nostra., davanti ai nostri occhi, le regioni più sperdute; si scalano senza sforzo montagne inaccessibili; sì attraversano senza pericolo fiumi e mari ed in un batter d'occhio, senza alcuna spesa, si compie il giro del mondo, conducendo il nostro spirito da Oriente a Occidente, da Settentrione a Mezzogiorno», Sulle grandi carte murali, che avevano sostituito le più costose gallerie affrescate e che risultano diffuse anche nelle case dei ricchi borghesi (come dimostrano i famosi quadri di Vermeer), l'occhio poteva viaggiare dalle più prossime contrade dell'Italia e dell'Europa alle lontananze ancora piene di mistero dell'Asia sud-orientale o delle terre americane che si andavano ancora scoprendo. Per citare un solo esempio, la Nova totius terrarum orbis tabula (1668), eseguita dal de Wìt e stampata da J. Blaeu, in proiezione stereografica equatoriale, mostra il profilo interrotto delle coste americane a nord della Califòrnia (ancora ritenuta un isola). Anche il continente australe, o «Hollandia Nuova», presenta un tracciato incompleto nella sua parte orientale, a ulteriore dimostrazione della nuova consapevolezza maturata dai cartografi e dai geografi in ordine alla progressiva esplorazione delle terre incognite e soprattutto alla necessità di attenersi a informazioni sicure piuttosto che a teorie e congetture, Non erano in fondo passati molti anni dalla Nova totius terrarum orbìs geogra-phica ac hydrographim tabula (1617) di Jodocus Hondius, dove neiremisfero meridionale campeggia l'ipotetico grande continente inventato dai geografi per bilanciare le masse continentali dell'emisfero settentrionale. Il de Wit smette dunque di teorizzare sul polo sud e riconosce il significato della «pagina bianca », delle lacune che solo le nuove spedizioni marittime possono colmare. L'utilità della
carta appare dunque .strettamente connessa a questo nuovo senso dteì limiti del discorso cartografico che verrà sviluppato soprattutto con le grandi spedizioni scientifiche del Settecento, La carta dell'età barocca, anche nella sua rivendicata utilità e scientificità, non rinuncia tuttavia agli effetti allusivi, evocativi insiti nella sua natura artistica, pittorica. Le carte murali, non meno degli atlanti, offrono ampio spazio alla decorazione e in parte anche alla narrazione, confinate tuttavia ai margini, nei contorni. Vedute paesaggistiche di città e figure umane o costumi corrono sui margini associandosi spesso a descrizioni e discorsi storici. I cartigli diventano spazi pittorici,, dove sfarzose quanto esplicite allegorie dei continenti esprimono i messaggi ideologici che raffilatura matematica e il linguaggio sempre più convenzionale non sono più in grado di rappresentare. II primato dell'Europa, regina del mondo, raffigurata con le insegne del comando e il globo in mano, il se&iplice fescino mercantile dell'Asia delle spezie o la nudità selvaggia dell'Africa e dell'America esprimono nella maniera più evidente i rapporti di forza che la carta ha contribuito prima a realizzare come prezioso strumento tecnico nelle mani di naviganti e condottieri e poi a enfatizzare come rappresentazione. La carta dunque come metafora visiva di concetti non strettamente geografici; come «geografia morale»
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