CARTABELLI n 3 maggio 2020 - del Museo Conviviale a cura di Nicola Valentino numero speciale

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CARTABELLI n 3 maggio 2020 - del Museo Conviviale a cura di Nicola Valentino numero speciale
CARTABELLI n 3 maggio 2020
del Museo Conviviale

                          a cura di Nicola Valentino

                                       numero speciale
           forme espressive ir-ritate dalla grande reclusione
CARTABELLI n 3 maggio 2020 - del Museo Conviviale a cura di Nicola Valentino numero speciale
“Sterilizziamo la stanza. Sterilizziamo gli oggetti.
                                             Sterilizziamo l’aria. Sterilizziamo il cibo.
                                                             Sterilizziamo il pensiero?
                               Impossibile dottore. Quello è altamente contaminato”.
                                                                      Così Luigi Spada
                                                         ricoverato in camera sterile
                                                            di un reparto oncologico1

1
    Giulia Spada, Luigi Spada, Cinque globuli rossi, Sensibili alle foglie 2016
CARTABELLI n 3 maggio 2020 - del Museo Conviviale a cura di Nicola Valentino numero speciale
Care lettrici, cari lettori
Il nove marzo milioni di persone in Italia e, con tempi diversi, centinaia di milioni
nel mondo, sono state poste, per ragioni sanitarie, in una condizione di arresti
domiciliari, di rigide misure di libertà vigilata e di allontanamento relazionale. La
nostra vita da quel momento risulta sovraderminata da decisori remoti e anche
imprigionata in un sistema di minacce e di paure. In aperta contraddizione con il
dichiarato rischio epidemico degli assembramenti umani, le tradizionali istituzioni
totali: carcere, istituzioni per anziani e disabili, comunità terapeutiche, residenze
psichiatriche, istituzioni per migranti, sono state considerate, in questa operazione su
vasta scala di salute pubblica, non come istituzioni da svuotare bensì da serrare
ulteriormente e da affidare ad un dispositivo, che tragicamente appare, come di
selezione “naturale” di chi vi è ristretto.
Ho usato l’immagine della grande reclusione nel titolo di questo Cartabelli perché ad
un certo punto, attraversando questa esperienza di generale arresto domiciliare, ho
percepito l’eco di quel grande internamento studiato e raccontato da Michel
Foucault2. Una operazione sociale su larga scala che investì la Francia, ma anche tutta
l’Europa nel XVII secolo.
Nella Parigi del 1600 in pochi mesi un parigino su cento fu catturato in un variegato
sistema di case di reclusione, per lo più istituite recuperando gli antichi lebbrosari del
Medioevo. Una data di riferimento è il 1656 anno in cui viene decretata, con editto
reale la fondazione dell’Hopital général a Parigi. Non c’era una idea medica alla base
di questa reclusione di massa che riguardò uomini e donne, persone povere,
disoccupate, valide e invalide, girovaghe, senza dimora, folli o sottoposte a pena. La
narrazione con cui queste istituzioni legittimarono la loro necessità fu quella di
fornire assistenza ai miserabili e correggere i loro comportamenti moralmente
riprovevoli, fra cui l’ozio. Attraverso il grande internamento fu di fatto prodotta la
forza lavoro per la nascente borghesia manifatturiera e furono gettate le basi della
società disciplinare e del capitalismo industriale.
La grande reclusione che stiamo vivendo sembra andare ben oltre il grande
internamento, dal momento che ha avuto come target il cento per cento della
popolazione. E se la osserviamo attraverso questo specchio storico, l’esperienza in
corso sollecita la domanda di quali orizzonti sociali prefigura.
Se da un lato è stata impressa nei nostri corpi una torsione che investe la caratteristica
sociale dell’umano e l’autodeterminazione relazionale di ciascuno; dall’altro, molti di
noi convivono anche con la paura di ammalarsi o che i propri cari si ammalino, con la
difficoltà di prendersi cura degli altri e di ricevere cura, con l’angoscia di non avere
prospettive di lavoro; per citare solo alcuni dei nostri smarrimenti. In questa
condizione di inquietudine interrogante, si è generato, con riferimento all’arte ir-
ritata, uno scambio comunicativo che ha posto al centro il corpo: cosa fa il nostro
corpo? Cosa sta facendo per non passivizzarsi, per re-immaginarsi, per auto curarsi?
A quali risorse sta attingendo?

2
    Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli 1979
CARTABELLI n 3 maggio 2020 - del Museo Conviviale a cura di Nicola Valentino numero speciale
Questo Cartabelli è dedicato all’apertura di un piccolo varco sociale nella solitudine
di ciascun nostro singolare processo creativo. Esso infatti racconta alcune esperienze
individuali e collettive di esplorazione creativa, nell’auspicio che seminandole ne
germoglino altre e che il Museo conviviale con la sua rete sociale di persone che
hanno adottato o vogliono adottare opere di autori e autrici dell’Archivio, possa
costituire un luogo di confronto collettivo sulle risorse di ciascuno e di tutti.

Buona lettura
Nicola Valentino
CARTABELLI n 3 maggio 2020 - del Museo Conviviale a cura di Nicola Valentino numero speciale
COSA CI DICONO I SOGNI
Giulia Spada insegna privatamente lingua italiana a bambini, bambine; ragazze e
ragazzi, provenienti da altri paesi del mondo ma che risiedono a Milano e
frequentano le scuole internazionali. Appartengono a famiglie agiate al pari di altri
allievi di queste scuole private che pur essendo nati in Italia si rivolgono a Giulia per
acquisire una più solida dimestichezza con la lingua. Anche per il suo approccio
pedagogico non disciplinare ma relazionale, Giulia Spada ha proposto ai suoi giovani
studenti e studentesse una interessante esperienza di comunicazione onirica, nata,
come lei racconta, dalla torsione del sonno connessa alle ore di didattica virtuale.

“Dalla seconda settimana di marzo mi trovo, come la totalità degli italiani, in una
condizione di reclusione istituzionalmente indotta a causa delle misure restrittive
decise dal Governo per l’epidemia di Covid-19. La condizione di reclusione ha
coinvolto tutta la popolazione e prima ancora che le attività produttive, questa ha
riguardato il settore scolastico: studenti e studentesse di ogni ordine e grado sono a
casa, costretti a recarsi con i loro zaini in aule virtuali per proseguire la loro
istruzione.
Come insegnante di italiano per stranieri, ho dovuto a mia volta accasarmi nel
continente virtuale. Barricata in casa, insegno ai miei studenti tutti i pomeriggi, di
fatto come se nulla fosse cambiato nella nostra routine pedagogica, ma con il taglio
doloroso della relazione a tu per tu.
Gli studenti ai quali insegno sono in una condizione a dir poco privilegiata, per loro
non ci sono mai problemi di connessione, ogni membro della famiglia ha a
disposizione più dispostivi con cui connettersi, gli ambienti delle loro case sono ampi
e ariosi: non ci sono drammi familiari a causa di convivenze forzate in posti
minuscoli. Per questi studenti l’accasamento nel continente virtuale sembra essere del
tutto naturale, senza conseguenze, quasi un esperimento divertente e innovativo, un
cambiamento in nome del progresso capitalista che virtualizza non solo le merci ma
anche i corpi.
Nella mia routine quotidiana inizia ben presto a nascere una certa irritazione verso
questa immobilità forzata, e dopo poco tempo, perdo una delle cose per me più
importanti, a livello fisico: il sonno. A partire dalla seconda settimana di reclusione,
mi sveglio la notte, faccio incubi dolorosi, non riprendo a dormire tanto presto con il
risultato che alla mattina, con tutta la giornata davanti e le lunghe ore di esposizione
ai dispositivi digitali, tutto mi sembra una tortura. Con questo potente analizzatore
che salta fuori in tutta la sua urgenza, mi pongo una domanda: è possibile che anche
le persone con cui sono in relazione e che stanno facendo la mia stessa esperienza
stiano sperimentando delle torsioni analoghe?
Mi invento allora un gioco con i miei studenti: chiedo loro, all’inizio o alla fine della
nostra lezione, di raccontarmi i loro sogni notturni.
Ma perché il sogno?
CARTABELLI n 3 maggio 2020 - del Museo Conviviale a cura di Nicola Valentino numero speciale
Perlustrare il mondo onirico potrebbe essere un modo per osservare da un punto di
vista non ordinario ciò che stiamo vivendo. Un analizzatore, potremo dire, di ciò che
è diventata la nostra esperienza ai tempi della reclusione forzata, di che contorni ha la
realtà che drammaticamente si sta accingendo a diventare normale, sicuramente
normata.
Anche il sogno è un’esperienza, individuale quando la compiamo nello stupore
segreto del nostro giaciglio, collettiva, ed espressione di possibile cambiamento, se
viene narrata e nella reciprocità del gruppo significata”.

L’esperienza che Giulia sta conducendo si ispira ad una delle documentazioni più
singolari dell’Archivio di scritture, scrizioni e arte ir-ritata, costituita dalla racconta
dei sogni dei reclusi del carcere speciale di Palmi (RC). 3 Nel 1984 i reclusi di una
sezione di quel carcere decisero di scambiarsi i loro sogni notturni senza interpretarli
secondo questa o quella scuola di pensiero. Scoprirono intanto che facevano insieme
in modo ricorrente sogni analoghi che offrivano alla coscienza della veglia una più
ampia e complessa visione della loro reclusione.
Ma a sollecitare Giulia a questa nuova raccolta è stata anche un’altra esperienza di
socializzazione onirica.
Nel 1933 Charlotte Beradt, ebbe l’intuizione di iniziare a raccogliere i sogni sul terzo
Reich fatti dalle persone di tutti i giorni: dal vicino di casa, alla sarta. La raccolta
arrivò ad annoverarne trecento. Questi sogni nel loro intreccio ci rivelano che il corpo
del sogno mostrava del regime nazista ciò che il corpo della veglia non voleva ancora
vedere. 4
L’esperienza che Giulia Spada sta realizzando con i suoi allievi che hanno un’età fra i
dieci e i quattordici anni, è ancora in corso. In questo Cartabelli proponiamo due
sogni, che consegniamo al gioco immaginativo di chi leggerà.

UN PUNTINO NERO IN UN MONDO BIANCO
Ero insieme a tutte le persone del mio anno scolastico e siamo andati a sciare.
Eravamo nella cabinovia quando ho chiesto ad un amico se voleva venire con me ma
prima di rispondermi è scomparso. È successa la stessa cosa per ogni amico a cui mi
rivolgevo. Sono scomparsi tutti e sono rimasto in un mondo bianco, c’era un unico
puntino nero che non ho fatto in tempo a capire cosa fosse perché mi sono svegliato

IO SONO UN MAGO
Io in realtà sono un mago, questo non lo sa nessuno. In questo momento sto facendo
degli studi per risolvere il problema del virus. E’ un po’ difficile perché non ho mai
lavorato su virus fino ad ora, e in più non posso uscire fuori per procurarmi quello di
cui ho bisogno. Mi serve intanto del sangue del pipistrello, ma quello proprio
responsabile del virus o, se lui è morto, mi serve il sangue dei suoi fratelli o dei suoi
genitori che tanto è uguale. A quel punto, mi serve anche il sangue della persona che
3
    Nicola Valentino (a cura di), I sogni di Palmi, Sensibili alle foglie 2012
4
    Charlotte Beradt, Il Terzo Reich dei sogni, Einaudi 1991
CARTABELLI n 3 maggio 2020 - del Museo Conviviale a cura di Nicola Valentino numero speciale
per prima è stata infettata. Mi servono ingredienti molto complessi che sono ad
esempio radici particolari, sabbia, rocce che vengono dalla grotta del pipistrello, poi
acqua di mare però quella della Sardegna che è più pulita delle altre. Poi mi servono
altri ingredienti animali che in questo momento non posso rivelare perché altrimenti
le forze oscure potrebbero farli sparire dalla faccia della Terra e io non saprei come
produrre tutto ciò che serve. Una volta che ho trovato tutti questi ingredienti devo
dire una formula magica che ho scritto nella mia mente, è una formula segreta che
mi ha trasmesso un antico stregone che è venuto a trovarmi in sogno, ma che non
posso rivelare altrimenti non vale più. Alla fine preparerò la pozione e farò una
comunicazione per iniziare la distribuzione mondiale. Penso che mi rivolgerò a
Deliveroo per portarla a casa alle persone che non possono uscire. Ovviamente sarà
gratis e prima la porterò alle persone ammalate per farle guarire immediatamente e
poi a tutti gli altri, come se fosse un vaccino. Lavorerò giorno e notte per questa
pozione. Vorrei anche dire che non avrà purtroppo un buon sapore e questo lo dico
sopratutto ai bambini che magari faranno i capricci ma purtroppo non posso farci
niente. Ho pensato di mettere il gusto alla fragola ma c’è un mio amico che è
allergico alla fragola e non posso rischiare che lui non la possa bere. Faremo tutti
un piccolo sacrificio..

.
LA QUARANTENA DELL’ARTE

candeggina su seta 3m x2m

Giulia Piscitelli è un’artista di Napoli, riconosciuta per il suo lavoro a livello
internazionale. Nei primi dieci anni di attività dell’Archivio di scritture, scrizioni e
arte ir-ritata è stata una indispensabile collaboratrice. Con lei ho curato l’allestimento
di molte delle mostre d’arte ir-ritata svoltesi in diverse città. Dopo esserci persi di
vista per un lungo periodo di recente ci siamo incontrati nuovamente per un libro di
prossima pubblicazione 5.
Dopo l’insorgere dell’epidemia e delle misure di generale quarantena, ci siamo sentiti
telefonicamente dai nostri rispettivi arresti domiciliari. Abbiamo condiviso la
preoccupazione per le nostre prospettive lavorative, dal momento che l’arte, come
l’editoria, la ricerca sociale e tutta la produzione di cultura, era stata messa di fatto in
quarantena.
Commentando questa condizione Giulia mi ha raccontato che aveva ripreso a
lavorare con la sua macchina da cucire e che, visto il blocco del mercato dell’arte e di
ogni attività espositiva a livello globale, avendo bisogno di un pantalone e non
potendolo nemmeno acquistare per la chiusura dei negozi, aveva preso una delle sue
5
    Nicola Valentino (a cura di), titolo provvisorio: l’arte ir-ritata si racconta, Sensibili alle foglie
opere su seta e l’aveva trasformata in un pantalone. Come a dire: vista la quarantena
dell’arte è forse meglio ingegnarsi per necessità con un'altra forma d’arte.
Dopo la nostra conversazione c’è stato questo scambio di messaggi:

“Se mi posso permettere ti chiederei una foto dei pantaloni di seta ricavati dalla tua
opera, che a mio modo di guardare vedrei come una forma di ir-ritazione. Visto il
momento hai riconvertito un lavoro artistico in una creazione utile e anche come mi
hai detto rilassante per te nel farla.”

“Ecco la foto! Riferendoti alla condizione attuale hai scritto: senza corpo non si può
vivere......chissà, forse io sto cercando il corpo nel cucire abiti.....sartoria Piscitelli”

“Volendo continuare a giocare, chissà che Sartoria Piscitelli, non possa diventare un
giorno il titolo dei tuoi pantaloni riconvertiti nuovamente in un’opera a parete. Arte
usata”
SCARABOCCHI IN GUARDIA MEDICA

Caro Nicola,
ancora non riesco a trovare le parole per esprimere quello che sta accadendo. Forse
dovrei solo cominciare a narrare le storie che vivo eppure non ci riesco. Solo nella
dimensione sociale dei corpi in presenza (e non social) so farlo? Cioè so vivermi?
Ho molto rabbia e tristezza, anche il lavoro di cura è stato (s)travolto dalla paura
di Stato e dalle reazioni repressive e di obbedienza ad essa. Ti mando qualche
scarabocchio fatto nelle tantissime ore che passo al telefono nelle notti e nei festivi di
guardia medica. Molti vengono persi, ne avrei vagoni, tutti noi colleghi
scarabocchiamo al telefono. Anzi ti dirò che i foglietti fanno proprio parte del "kit di
lavoro" nel cassetto vicino al telefono mettiamo solo il registro cartaceo della ASL
(lì lo scarabocchio non c'entra) foglietti e penne.

Viviana Forte esercita la professione di medica di medicina generale, risiede a
Cagliari e attualmente lavora in guardia medica. Viviana è coautrice di un libro
sull’istituzione medica: “Medici senza camice, pazienti senza pigiama” 6, frutto di un
cantiere di socioanalisi narrativa molto partecipato da medici allora prossimi alla
specializzazione. Questa ricerca che risale al 2013 penso sia di grande attualità per
guardare i limiti mostrati oggi da una istituzione sanitaria ospedalocentrica, e
l’importanza di una medicina di vicinanza, di prossimità, per prendersi cura delle
persone ammalate e cura della salute individuale e sociale. Un tipo di medicina che
come scrive Viviana è stata anch’essa stravolta. Come travolti sono stati quei
determinati sociali di salute che fanno riferimento alla salvaguardia dei diritti, alla
partecipazione sociale nella costruzione delle scelte per il bene comune e alla
democrazia. Ma con Viviana, che ha una identità scarabocchiante molto fervida,
abbiamo svolto a Roma, nel 2015, un seminario durato due giorni, organizzato
dall’Archivio d’arte ir-ritata sulla creatività come cura, dedicato in gran parte agli
scarabocchi. Le persone che parteciparono, misero sul tavolo i loro scarabocchi, fatti

6
    AA.VV., Medici senza camice, pazienti senza pigiama, Sensibili alle foglie, 2013
lì per lì o custoditi negli anni, e raccontarono i diversi momenti della loro attività
scarabografica nonché la sorpresa, l’inquietudine, la meraviglia, dell’incontro con le
loro creazioni. Un momento di confronto conviviale che pose al centro ciò che viene
considerato uno scarto culturale.

Viviana racconta che dal mese di marzo, chi ha necessità di una visita medica deve
passare per un filtro telefonico obbligatorio che riduce le consultazione ambulatoriali
e le visite domiciliari. L’attività di guardia medica è stata pertanto drasticamente
ridotta ad un contatto telefonico con i pazienti, o al massimo con le foto che loro
riescono ad inviare di un occhio infiammato, un piede gonfio, con l’inesorabile
perdita di una visione d’insieme della persona malata e della possibilità di una
relazione di cura.
Gli scarabocchi che seguono sembrano quindi il frutto di una dissociazione creativa
che vede l’orecchio attento all’ascolto dei sintomi che la persona dichiara, e la mano
che, annotando la conversazione, si lascia anche andare a scarabografare la tristezza e
la difficoltà di questa assenza.
Questo ultimo scarabocchio tracciato sulla bustina di un filtro di tisana, ha preso
forma mentre Viviana era all’ascolto di una donna che quotidianamente telefona alla
guardia medica in genere verso le 23,30. Nessuno sa chi sia, dove abiti e se il suo
nome corrisponda davvero a quello con cui si presenta al medico di turno. La signora
sostanzialmente vuole conversare, cerca un ascolto per le sue confidenze.
Quella però è anche l’ora in cui Viviana, facendo il turno di notte, si prepara una
tisana. La notte dello scarabocchio “sogni d’oro” la signora racconta di come, a causa
del coronavirus, la sua vita sia mutata, soprattutto perché non può incontrare l’uomo
che forse ama, il quale abita anche in un edificio non lontano dal suo, ma non esce
più neppure sul terrazzo per salutarla con l’augurio della buona notte.
Nel farsi del racconto la mano di Viviana gioca con le raffigurazioni della bustina,
utilizza la lettera S per comporre la parola Virus e la sfericità della tazzina per
disegnare il pittogramma del Coronavirus con la sua corona peduncolata. A fine
telefonata l’occhio si rende conto di ciò che la mano ha tracciato con un fremito di
inquietudine che accompagna la sorpresa: il virus aveva fatto la sua apparizione
anche negli scarabocchi.
Quando ho ricevuto questo disegno di Viviana ciò che il mio immaginario ha
registrato era come un augurio al virus di fare sogni d’oro. Ho reagito quindi con un
sorriso, pensando che la scarabografia si distanziasse con ironia dal linguaggio
bellico che domina i luoghi comuni della comunicazione mediatica, sanitaria, medica
e politica, del nemico da distruggere, per cui ciascuno deve essere soldato obbediente
di questo esercito di salvezza nazionale.
Gli scarabocchi al pari dei sogni, nell’approccio che li guarda come una ir-ritazione,
se da un lato documentano un contesto e un momento che la narrazione dell’autore o
dell’autrice contribuisce significativamente a ricostruire, dall’altro offrono anche
un’altra possibilità: non tanto quella di interpretare il loro segreto, quanto di
sollecitare un gioco di significazione nell’immaginario di ciascuno.

                                                                                     .
RITROVARE IL CANTO
Maria è una delle coordinatrici delle attività che si svolgono a Firenze presso il centro
sociale autogestito NextEmerson in via Bellagio. Dagli animatori e dalle animatrici di
questa struttura è nata una interessante iniziativa, quella cioè di valorizzare tutti i
segni, i graffiti, i linguaggi d’arte muraria che negli anni si sono stratificati sulle
pareti della ex fabbrica. Questo singolare museo prende il nome di Nema –
NextEmerson Museo Autogestito.
Per una naturale intesa con questo progetto nel 2019 ho presentato all’Emerson il
progetto di ricerca sull’arte ir-ritata di Sensibili alle foglie e nel mese di novembre
dello scorso anno il Nema ha adottato un’opera di Giorgio Aru del Museo conviviale.
Tra marzo e aprile di quest’anno, nel mutato contesto di libertà vigilata generalizzata,
che ha visto anche giocoforza la chiusura delle attività del centro sociale, ho avuto
con Maria uno scambio di mail sull’importanza di prestare attenzione alle risorse
creative che ci possono venire in aiuto per re-immaginarci in questo tempo. In seguito
a questa sollecitazione Maria mi ha proposto una intervista sull’arte irritata per radio
Wombat.
 Così mi scrive:
Da quando e' iniziata tutta questa storia ci siamo buttati a capofitto nella radio
(https://wombat.noblogs.org) che esisteva anche prima, ma che attraverso questo
lavoro speciale che stiamo facendo ha fatto un enorme balzo in avanti (abbiamo
attivato sette regie dislocate nelle nostre case, la gente ci manda continuamente
contributi di ogni tipo, stiamo tirando su un palinsesto che viene modificato di
settimana in settimana..). Se ti va potremmo usare proprio questo mezzo per
raccontare dell'arte irritata e delle opere che stai attualmente componendo.
insomma, se la cosa ti fa piacere parliamone che ci mettiamo d'accordo”.
L’intervista è andata in onda il 22 aprile ed è ascoltabile al link:
https://wombat.noblogs.org/2020/04/24/arte-e-reclusione-intervista-a-nicola-
valentino/

Il bello di questo racconto però è che da cosa nasce cosa:

Ciao Nicola,
oggi sono riuscita finalmente ad ascoltarmi l'intervista che avete fatto.
e' veramente bella, sono contentissima che ci siamo riusciti.
Per settimane la mia reazione a questa reclusione e' stata un ammutolimento
creativo. Io che sono un'amante dei mondi immaginari e degli universi simbolici, in
questa situazione mi sono sovraccaricata di iper-realà per provare a dare un senso
all'enormità del caos che avevo in testa.
Il mio mondo interiore era come attonito, e a un certo punto mi sono accorta (ti
confesso con un certo spavento) che non avevo più emesso una sola nota dall'inizio
della pandemia.
La vocalità è la mia forma artistica, è il mio strumento per elaborare, costruire,
ricostruire, capire, esprimere. A volte ho usato la scrittura narrativa, ma il canto
rimane il mio mondo più intimo e profondo, con tutto il suo equilibrio tra forme
istintive e autodisciplina. Però dopo più di due mesi, non senza fatica, a un certo
punto la voce mi è tornata. Questa che ti invio come link è la registrazione casalinga
di quello che ne e' venuto fuori. La composizione ovviamente non e' mia, e' una
canzone del 1600. Capita sempre di attingere contemporaneamente ai propri simboli
e a quelli degli altri, di mescolarli, di rielaborarli e farne uscire una cosa propria e
diversa. Almeno a me capita spesso. Il suo titolo è: “Dal ciel cader vid'io. Canzonetta
su la ciaccona”, di Marco Marazzoli (circa 1602-1662). Il titolo che le ho dato io è
Barocco at home.
Te la mando per provare per una volta a contraccambiare quella condivisione del
tuo sentire e delle tue esperienze, che è così nutriente e utile nel senso più bello del
termine. Non sono segni grafici, ma è questo il mondo a cui faccio ricorso per
trovare le mie risorse. Mentre scrivo penso che in fondo qui si tratta di uno
strumento a cui ricorrevo anche prima, che non nasce dentro la privazione, ma anzi,
a cui la privazione della libertà ha reso più difficile attingere. Sta qui7:
http://barocco-at-home.vado.li/

Grazie Maria,
Tivoli dove vivo è una città che valorizza molto la musica barocca, spesso vengono
organizzati dei concerti. Ho apprezzato il tuo canto – rappresentativo del momento il
titolo “Barocco in casa”. Il racconto che mi fai lo trovo significativo rispetto alle
forme espressive ir-ritate di cui abbiamo parlato. Quel che mi sento di osservare è
che la situazione generale e l’isolamento al quale siamo stati costretti hanno
sottoposto a torsione proprio la tua principale risorsa, e mi sembra di poter dire che
anche una tua importante componente identitaria si è ammutolita. Aver ritrovato il
canto mi pare proprio una risorsa vitale, la canzone che mi hai inviato è in un certo
senso, in relazione al momento e alla condizione, molto diversa dalle altre canzoni
che hai cantato perché costituisce il frutto di un canto ritrovato.

7
    Il brano è ascoltabile per un mese a partire dall’undici maggio.
I CORPI OLTRE IL MONITOR

“I miei omini aggrapposi” la definirei un’opera scarabografica sull’importanza per
l’umano di tenersi per mano; è nata nel sovrappensiero di questo tempo, ad una
studentessa presso la facoltà di studi umanistici dell’Università di Cagliari, durante
una lezione on-line.

Enrico Euli svolge l’attività di ricercatore presso l’università di Cagliari dove insegna
metodologie del gioco. Con Sensibili alle foglie nel 2016 ha pubblicato un libro:
“Fare il morto. Vecchi e nuovi giochi di renitenza”, ci siamo conosciuti in quella
circostanza. Di recente Enrico mi ha proposto di tenere con i suoi studenti e
studentesse un seminario in Facoltà, aperto al pubblico, sull’arte ir-ritata con una
piccola esposizione di opere adottabili del Museo conviviale.

Il tema del seminario - mi precisa Enrico - potrebbe essere la dissociazione creativa
ai tempi del controllo algoritmico, in una situazione in cui, cioè, al controllo
repressivo classico si uniscono forme biopolitiche nuove di controllo e di
profilazione. Tieni conto che il mio programma di quest'anno riguarderà la
gamification e l'edutainment, da un punto di vista critico. Sembriamo cioè tutti
divertiti e creativi, ma è proprio così? Insomma, parliamone un po’, così chiariamo
meglio verso dove andare insieme per quell'occasione.

Ma nel mese di marzo i corsi universitari chiudono, le lezioni si spostano online, ed
il seminario previsto per giugno viene annullato e rinviato a data da destinarsi..
Prosegue però lo scambio via mail con Enrico in considerazione anche del fatto che
ciò di cui avremmo dovuto parlare si è andato affermando come una modalità
obbligata nella stessa esperienza didattica. Come se le circostanze tragiche collegate
all’epidemia ed i provvedimenti istituzionali ci stessero anche proiettando in una
esperienza laboratoriale prima dell’ormai ipotetico incontro seminariale.

Ciao Nicola,
ho invitato i miei studenti che vedo attraverso un monitor a mandarmi ciò che
stavano facendo durante la mia (o altrui) lezione. Ti allego le immagini di questi
loro scarabocchi.

Caro Enrico,
Intanto grazie. Un modo interessante e divertente di nominare gli scarabocchi che mi
hai inviato, che vengono tracciati dai tuoi studenti al di là del monitor durante una
lezione, potrebbe essere quello di "eco-grafie", nel senso di echi grafici di ciò che le
parole scambiate suscitano nell’immaginario di chi li traccia. Questo termine l’ho
utilizzato già alcune volte per connotare quegli scarabocchi che nascono durante
incontri seminariali, o durante gruppi di ricerca che noi di Sensibili alle foglie
chiamiamo cantieri di socioanali narrativa. Gli scarabocchi in questi contesti di
lavoro di gruppo, che si svolgono però in presenza, esprimerebbero come un doppio
livello di partecipazione. Potrebbe essere un interessante tema di confronto, quando
si potrà fare il seminario, se ogni studente raccontasse il suo ecogramma e il
momento in cui è nato.
Gli scarabocchi di Monica mi hanno fatto invece pensare ad una antica leggenda sui
tappeti volanti che è stata ripresa in un libro storico per Sensibili alle foglie: Nel
Bosco di Bistorco8. Raccontano i dervisci dell’Islam, grandi conoscitori dell’arte dei
tappeti, che ogni mercante ne mostra al compratore molti e differenti per foggia ed
ornamento cercando di offrigli quello in grado di farlo fluttuare, di fargli provare la
sensazione di passare attraverso i suoi disegni. Il venditore sa bene che chi mediterà
intensamente su figure in accordo con il suo personale mondo simbolico, scoprirà
per incanto l’arte del volo. Come un tappeto ornamentale diventa tappeto volante in
base al trasporto che chi lo acquista avverte nei confronti dei motivi grafici tessuti,
chissà allora che le scarabografie così dense di segni di Monica non costituiscano i
personali tappeti volanti che la sua mano tesse a lezione mentre il suo orecchio
ascolta.

8
    Renato Curcio, Stefano Petrelli, Nicola Valentino, Nel Bosco di Bistorco, Sensibili alle foglie, 1990
IL CORPO INVISIBILE
Con Pierluigi Zuffada ho condiviso per diversi anni la cella del carcere speciale di
Palmi (RC). Pierluigi, al pari di me e Renato Curcio è stato uno dei protagonisti della
singolare esperienza di scambio dei sogni notturni che realizzammo nel 1984, citata
anche in questo Cartabelli. Dopo circa trent’anni ci siamo incontrati nuovamente a
Milano durante la presentazione di un mio libro, scambiandoci i numeri di telefono.
In questi giorni di arresti domiciliari sanitari Pierluigi ha tenuto un diario che
puntualmente mi inviava in lettura tramite Whatsapp ogni giorno alle ore 13, nella
consapevolezza, immagino, di come sia fondamentale la ritualità per la
sopravvivenza in condizioni inedite. Un appuntamento comunicativo fisso senza una
esigenza di risposta, un’offerta non chattabile mi verrebbe da dire, ricca di
meditazioni personali sui dispositivi del momento e con frequenti incursioni fra i suoi
ricordi del passato.
Pubblico qui uno stralcio del diario del 30 aprile perché il nodo che viene affrontato
della invisibilizzazione del corpo ricorre anche nella parte che segue: Senza corpo
non si può vivere e che riguarda la mia attività pittorica. Mi è parso significativo che
guardando il presente attraverso la comune esperienza reclusiva abbiamo raccontato
in modi diversi una stessa torsione9.

Giovedì 30 aprile 2020

Ho la tentazione di concludere il mio diario il 3 maggio, il giorno prima dell’inizio
della seconda fase di distanziamento. Prima di prendere una decisione, voglio iniziare
a scrivere un racconto che, parafrasando un libro di Sepulveda, potrei intitolare
“Storia di un bambino e di una banana che gli insegnò come diventare invisibile”.
L’idea mi è venuta pensando un po’ a quanto in questi due mesi abbiamo passato, e a
quello che ci aspetterà a partire dal 4 maggio, quando ognuno di noi dovrà mantenere
la distanza dagli altri, possibilmente anche nelle case dei parenti e degli amici.
Si potrà uscire di casa, camminare per strada e nei parchi, fare la spesa, fermarsi a
parlare con gli altri, ma a distanza di sicurezza, per evitare l’esplosione di una
seconda ondata di contagi.
In sostanza ci si potrà vedere di persona - a distanza, parlare - sempre a distanza; ci
frequenteremo nella stessa logica, ma con modalità e strumenti diversi da quelli
imposti nei mesi di marzo e aprile.
Non saremo cioè più costretti a fare ricorso sempre e solo a telefonate, o video
chiamate individuali o di gruppo, ma ugualmente il corpo non potrà liberamente e
pienamente esprimersi: pur avendo le prove dell’esistenza propria e altrui, saremo
costretti ancora a vivere come se i nostri corpi fossero invisibili!

9
    Chi volesse l’intero diario può chiederlo a: p.zuffada@gmail.com
L’idea mi è venuta dalla consapevolezza di essere un esperto di invisibilità, fin da
bambino.
In alcune situazioni riesco a non essere percepito da chi mi è vicino. Sono come
quegli oggetti che, malgrado siano davanti agli occhi, non si trovano: funziono come
se inducessi negli altri una sorta di allucinazione negativa.
E ne ho le prove.
Nei ristoranti, qualunque richiamo, o segno faccia, il cameriere non si accorge di me.
Mai.
Questa storia si ripete da anni, e non è pensabile che sempre mi sia trovato di fronte
ad una persona sorda o cieca. Ormai so che è così, per cui lascio quel compito agli
altri, oppure attendo con pazienza che il cameriere arrivi da solo al tavolo.
Ho anche la consapevolezza di sparire nelle situazioni … problematiche, come
successe alla fine della battaglia dell’Asinara10.
Alloggiavo nell’ultima cella della sezione di massima sicurezza e fui l’ultimo dei
prigionieri ad essere prelevato. Mi toccò percorrere il lungo corridoio fra due ali di
agenti di custodia, seguiti da poliziotti e per ultimo da un plotone di carabinieri
incaricati di terminare il “lavoro di accompagnamento”.
Da ciò che successe ho tratto la conclusione che ero proprio invisibile. Ero tenuto
sotto braccio e “scortato” dal direttore del carcere Cardullo e dal magistrato di
sorveglianza. Cardullo urlava, senza molto successo, di non toccare i detenuti per
“rendere più grande la sua vittoria politica contro i terroristi”, il magistrato era scosso
per la situazione che mai avrebbe sospettato di vivere. Appena arrivati all’altezza
dello squadrone di P.S. il cane, sempre poliziotto e al guinzaglio di altrettanto po-
liziotto, attaccò.
Era soddisfatto dal gusto di carne umana, per l’esperienza appena fatta con la chiappa
di Cuccolo. Quindi riattaccò. Alla vista del cane, per evitare l’attacco, il terzetto
prima allungò il passo e, appena giunto a tiro della bestia, si arrestò di colpo. Questo
forse trasse in inganno il militare, che sbagliò i tempi del lancio: il balzo del cane finì
su un malcapitato secondino, che fu morsicato al posto mio. A quel punto il terzetto
riprese velocemente il cammino, superò la porta della sezione (mezza scardinata in
seguito al lancio di una caffettiera bomba), giunse all’androne e gli si parò di fronte
un armadio 4 stagioni mimetizzato da una divisa di carabiniere. L’armadio prese la
mira e tirò un cazzotto, che mi mancò (perché invisibile, per la seconda volta) e finì
in faccia al “povero” Cardullo, che, ginocchia molli e piegate, si mise in salvo tra le
braccia delle sue guardie.
Alcuni osservatori sostennero che il primo attacco andò a vuoto in seguito allo
strattone che diedi per fermarci, mentre per il secondo si trattò di una sostituzione di
persona determinata da una mossa del mio braccio che spinse il direttore a trovarsi

10
  Il due ottobre del 1979 i prigionieri del carcere-lager dell’Asinara entrano in azione con l’intento di
procedere alla distruzione delle strutture del carcere e imporre il trasferimento di massa dei reclusi dall’isola.
Agenti di custodia, carabinieri e polizia esplosero per un paio d’ore migliaia di proiettili contro le porte
delle celle, le finestre, i tetti e le pareti. I prigionieri risposero con alcune macchinette del caffè armate con
cariche di esplosivo; la “caffettiera bomba” di cui si parla nel testo. Per una documentazione ulteriore: Maria
Rita Prette, a cura di, Il Carcere Speciale, Sensibili alle foglie 2006.
faccia a faccia con il cazzotto. Io sostengo, invece, che in quel frangente ero sparito
dalla vista dei carcerieri e tutori dell’ordine, qualunque fosse il loro numero di zampe.
Non solo. Ero riuscito a donare l’invisibilità anche alla penna biro marca Parker: essa
passò indenne alla accurata perquisizione a fondo dalle guardie e mi fece compagnia
ancora per molti anni.
SENZA CORPO NON SI PUÒ VIVERE

Opera quarta

 “Senza corpo non si può vivere” è il titolo della serie di opere che ho creato tra i
mesi di marzo e aprile del 2020.
Dal nove marzo mi ritrovo, come la quasi totalità delle persone in Italia, recluso agli
arresti domiciliari per ragioni sanitarie collegate all’epidemia Covid-19, senza alcuna
possibilità di uscire se non per limitatissime necessità, da dimostrare in caso di
controllo delle forze di polizia. Appena questa condizione è stata istituita, nel mio
corpo sono affiorate tutte le memorie dell’esperienza di reclusione all’ergastolo. Gli
ultimi cinque anni della pena li ho trascorsi infatti in libertà condizionale con misure
di libertà vigilata a ben vedere meno restrittive delle attuali. In questa nuova
condizione infatti mi ritrovo con tutte le relazioni sociali: lavorative, affettive,
amicali, ricreative, occasionali, amputate nella loro dimensione di scambio fra corpi,
e un corpo de-socializzato viene ad essere minato nella sua umanità.
Ma oltre a questa reclusione domiciliare desocializzante il dispositivo che la nuova
condizione ha maggiormente suscitato dal passato è che ogni decisione sulla mia vita
sarà presa dallo Stato, nella forma ancora più ristretta del Governo: è lo Stato che ha
deciso questo arresto, sarà lo Stato a determinarne modalità e durata in base a proprie
valutazioni di ordine sanitario, politico, di opportunità … senza che né io e né a ben
vedere altri milioni di persone in Italia, possiamo avere alcuna voce in capitolo.
Questa impossibilità a decidere e ad autodeterminarsi in relazione con l’ambiente
circostante è ciò che è stato definito anche come situazione estrema 11.
Nei giorni tra l’otto e il nove marzo, quando questa decisione istituzionale andava
maturando, ho detto a me stesso e alle persone che mi erano allora vicine, che sono
entrato nella modalità del giglio. Il giglio è il marchio che mi sono tatuato sul braccio
destro quando sono uscito dalla condizione dell’ergastolo per non dimenticare
quell’esperienza. Il giglio, simbolo della casa reale francese, veniva impresso a fuoco
sul corpo degli ergastolani. Questo marchio, nel mio caso, sicuramente era stato
scavato sotto pelle, per cui tanto valeva renderlo evidente. 12
Prima che essere scrittura sul corpo il tatuaggio (quello non puramente estetico) è
segno del corpo, segno di un suo stato, come un rossore emozionato, come un pianto,
come una cicatrice, e quindi si fa più nitido o sbiadisce a seconda della condizione
che il corpo vive. Il nove marzo, infatti, il giglio del mio braccio destro si era fatto
più nitido. Il tatuaggio quindi mi sembra sia in relazione con uno stato di coscienza,
con una memoria del corpo. Contribuisce pertanto a creare un’identità.
Quando il mio corpo è entrato nella nuova condizione, è questa identità che ha
cominciato ad operare perché sa come fare, cosa guardare, e da cosa guardarsi. Sa
come mettersi in guardia in una condizione di assoluta disparità di potere e ha anche
memoria delle risorse a cui attingere nell’isolamento fisico. Ho anche pensato che se
per me la condizione reclusiva consisteva nell’isolamento, per molte altre persone
ristrette in domicilio familiare, che si sono chiamate fra loro un “divieto di incontro”,
come si usa dire in galera, la condizione sarebbe potuta diventare anche litigiosa se
non letale.
In questa nuova cattività l’unica ampia via d’uscita che l’istituzione mi dà è costituita
dall’accasamento nel mondo virtuale. Una via obbligata che quindi dal lato
esperienziale avverto come una torsione al virtuale13. Al corpo impaurito e dalle
misure restrittive pressato, viene offerto un unico sfiato. Che questa condizione anche
nel breve non sia salutare è un quesito da meditare. La torsione al virtuale dal punto
di vista delle connessioni orizzontali che sulla rete posso istituire non è anticipatrice
di alcun prevedibile, progettabile incontro reale con le persone in carne ed ossa e il
passato relazionale a cui, in alcuni casi potrei far riferimento, lo avverto con un senso
di vuoto, come una mancanza. La torsione al virtuale imponendosi come unica via
comunicativa mi sembra generi come una abitudine allucinatoria di tipo negativo del
corpo proprio e altrui. Se l’allucinazione positiva vede ciò che non c’è, con quella
negativa ci facciamo avvezzi a non vedere ciò che c’è. Questa perdita di ancoraggio
ai corpi e alla loro storicità l’avverto come un fastidio quando persone che conosco
mi “girano” nella chat del cellulare storie, detti, parole che non si sa chi le abbia mai
dette né quando le abbia mai dette, dove le abbia mai pronunciate o scritte. I chi, i
come, i quando, svaniscono e le parole girano senza ancoraggi ai corpi e quindi senza

11
    Bruno Bettelheim, La fortezza vuota, Garzanti 1987
12
    Nicola Valentino, L’ergastolo, Sensibili alle foglie, 2009; Nicola Valentino, Le istituzioni dell’agonia, Ergastolo e pena
di morte, Sensibili alle foglie 2017
13
    Sul concetto di torsione: Renato Curcio, Stefano Petrelli, Nicola Valentino, Nel Bosco di Bistorco, Sensibili alle foglie,
III edizione 2015.
responsabilità. Mi riferisco a testi o link che vengono copiati nelle mie chat da
persone, miei contatti, che spesso non si sono nemmeno preoccupati di aprire,
controllare, verificare che tipo di informazioni vi fossero contenute. Questo
particolare fenomeno fastidioso mi porta a pensare che quando ci accasiamo nella
rete è come se assumessimo delle identità robotiche, oppure, per dirla più
precisamente con il paradigma a me caro della molteplicità identitaria, è come se ci
dissociassimo in una identità robotica che agisce in base ad automatismi. 14
Va detto anche che la torsione al virtuale approfitta di quell’angoscia da fine del
mondo studiata dall’antropologo Ernesto De Martino 15, nella quale si annaspa in
cerca di una nuova produzione di senso. A questa impellenza mi ha fatto pensare il
messaggio di una persona cara: “Mi ritrovo a navigare fino a notte fonda in Internet
perché voglio capire”
Nella inquietudine di questo doppio imprigionamento: reclusione reale e torsione al
virtuale, nel mio corpo ha fatto irruzione una contro reazione. Ripetevo tra me che
senza corpo non si può vivere, mentre andavo a ripescare i pennelli e i colori con i
quali, quando ero in carcere tra il 1990 e il 1994, avevo preso a dipingere. Ho
ritrovato un barattolo di calce che avevo conservato, e vari tipi di sabbie e colori. Non
ricordavo di avere sabbia di Favignana, sabbia di Cuba, del Vietnam, del Sahara, che
da allora, negli anni mi sono state regalate, oltre a sabbie senza etichetta, sabbie di
chissà dove. Fortunatamente avevo anche una confezione di colla per parati da
mescolare con questi materiali per dare consistenza. Ma dove dipingere se non potevo
comprare dei fogli? Sono tornato allora a scartabellare fra i quadri fatti in carcere e ne
ho scelti alcuni da “sacrificare”, tutte opere della dimensione di cm 70x100, per
dipingere sul retro. E così, in coincidenza con l’equinozio di primavera sono andato a
rivitalizzare il corpo, con la mano che quel viaggio già conosce, la mano del giglio.

                                                        Opera nona

14
   Sul concetto di molteplicità identitaria vedi Renato Curcio, Nicola Valentino, La città di Erech, Sensibili alle foglie
2001, scaricabile gratuitamente sul sito della libreria www.libreriasensibiliallefoglie.com
In riferimento alle metamorfosi identitarie nella Società digitale, Renato Curcio, L’algoritmo sovrano, Sensibili alle
foglie 2018
15
     Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi
Opera sesta
                                          In ricordo di Gigi Novelli e Salvatore Ricciardi

L’opera sesta nasce in accogliemento di due notizie luttuose.
Il due aprile ricevo un messaggio che mi informa della morte di Gigi Novelli.
Durante la comune esperienza carceraria Gigi lavorò per un periodo nell’officina
fabbri del penitenziario di Rebibbia e sapendo che avevo cominciato a dipingere con
materiali strani, mi portò in cella una manciata di piombaggine, trafugandola a suo
rischio dall’officina. La piombaggine è grafite polverizzata buona per lucidare il ferro
ed è diventata una delle materie che maggiormente utilizzo.
Il nove aprile mi arriva la comunicazione che anche Salvatore Ricciardi ha finito i
suoi giorni. Con Salvatore ho condiviso alcuni anni di carcerazione, ma con lui non
mi sono poi mai perso di vista e ci siamo di frequente ritrovati in iniziative politiche e
culturali contro l’ergastolo e ogni forma reclusiva. Chi l’avrebbe mai detto che dopo
un ergastolo scontato mi sarei ancora trovato recluso e impossibilitato a testimoniare
il mio lutto. L’undici aprile apprendo radiofonicamente la notizia che per Salvatore è
stata possibile una camera ardente al policlinico e che quando la bara ha attraversato
il quartiere San Lorenzo i compagni della radio con cui Salvatore lavorava e altri
sono scesi per accompagnarlo - lo hanno fatto anche rispettando le misure previste di
distanziamento - il quartiere è stato circondato dalla polizia in assetto anti sommossa
e tutti i partecipanti a questo momento di lutto sono stati identificati e il corteo
funebre si è dovuto sciogliere.
Può essere un dipinto una forma di lutto quando il lutto viene impedito?
Mi sono ricordato di un amico come me all’ergastolo che quando gli fu negato per
motivi di sicurezza l’atto umano di dare un saluto al proprio genitore morto, si chiuse
in cella e in un sovrappensiero di ricordi tracciò su un foglio come un ricamo di segni
che si cercavano fra passato e presente. Uno scarabocchio come personale cerimonia
funebre. L’opera sesta, in ricordo di Gigi e Salvatore, fatta con sabbie di Cuba e del
Vietnam, nasce nell’inquietudine di questi momenti e nel riaffiorare di una esperienza
estrema che l’estremo che ora tutti viviamo ha disseppellito.
Gigi e Salvatore non ci hanno lasciato a causa dell’ infezione da Covid-19 ma sono
morti in un momento di generale dissacramento dell’esperienza della morte, di sua
de-umanizzazione e di negazione del diritto al lutto.

Nicola Valentino, 25 aprile 202016

16
   G Chi volesse leggere l’intero testo del piccolo catalogo di opere pittoriche di cui qui riporto un ampio
stralcio, può chiedere a: nicolavalentino1954@gmail.com
ADOTTA UN’OPERA
               PER OSPITARE NELLA TUA CASA O IN UN CENTRO CULTURALE
                   IL PRIMO MUSEO CONVIVIALE DELL’ARTE IR-RITATA

Sensibili alle foglie custodisce una raccolta inestimabile di opere pittoriche, manoscritti e disegni,
vale a dire documenti sulla condizione umana e sulle istituzioni, nati nei luoghi della reclusione e
nelle solitudini estreme, che ci mostrano come la risorsa dell’immaginario sia vitale per ogni
persona aiutandola a trovare una via d’uscita simbolica e a rinnovarsi malgrado tutto.
Questa raccolta di documenti è stata resa possibile attraverso la partecipazione spontanea di una
moltitudine di autori e autrici, di operatori culturali, di cittadini sensibili. Perché allora, ci siamo
detti, non immaginare, che anche la valorizzazione di questa forma della creatività umana possa
essere fatta da tanti, in modo diffuso? È nata così l’idea di promuovere la costituzione di un Museo
conviviale, localizzato in quelle abitazioni private e centri culturali che avranno piacere di adottare
un’opera di questa raccolta.
Chi avrà voglia di diventare l’iniziatore o l’iniziatrice del primo Museo conviviale potrà quindi
adottare una delle opere di cui on-line proponiamo l’immagine, prendendola in custodia per un anno
in cambio di una donazione simbolica di 100 euro. L’accordo potrà essere rinnovato per gli anni a
seguire anche cambiando l’opera in adozione.
Adottando l’opera si diventa di fatto curatori/curatrici del museo, decidendo come esporla e come
proporla all’incontro con i propri mondi relazionali. Per questa attività ci si può avvalere della
scheda dell’autore, e/o del laboratorio che ne ha sollecitato la creatività, allegata all’opera. Chi
vorrà potrà ovviamente integrare lo sguardo che noi proponiamo con il suo personale gusto e la sua
sensibilità, e anche attivarsi per cercare altre persone disponibili a ospitare uno di questi documenti,
nell’idea di un’estensione capillare del museo.
Per parte nostra avremo cura di rendere pubblica la mappa del museo conviviale dell’arte ir-ritata
indicando le zone geografiche, i nomi dei curatori, e fornendo gli indirizzi solo dei luoghi pubblici.
Una rivista on-line titolata Cartabelli raccoglie l’esperienza che i curatori e le curatrici del museo
stanno svolgendo e gli eventi che sono stati promossi.

https://www.museoconviviale.it/
www.sensibiliallefoglie.it
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