Canto gregoriano e canto fratto nei codici francescani del Veneto

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Canto gregoriano e canto fratto nei codici francescani del Veneto
Riflessioni in margine al CD-AUDIO “Laudate Dominum omnes gentes”
di Marco Gozzi

1. La substantia del canto cristiano
        Il canto cristiano liturgico, comunemente chiamato ‘canto gregoriano’, non è musica, non è principalmente musica. Prima dell’intonazione
musicale, nell’esperienza del canto cristiano, viene la parola. Se si dovesse definire con un solo sostantivo l’essenza del canto cristiano liturgico
bisognerebbe dire preghiera. Di più. Il canto gregoriano non è nemmeno ‘gregoriano’: nessuno studioso serio crede più che Gregorio Magno (il grande
papa romano vissuto tra il 540 e il 604) sia stato l’inventore o il semplice propugnatore delle melodie che ora sono chiamate con il suo nome.1
        Quindi il canto gregoriano non è ‘gregoriano’ e non è nemmeno propriamente o unicamente ‘canto’. Scrive Massimo Lattanzi:
    Poco o nulla il gregoriano ha a che fare con il fenomeno musicale quale oggi noi lo intendiamo. L’esigenza profonda che determina la sua
    creazione è innanzitutto la proclamazione solenne, durante l’azione liturgica, del testo sacro. Si tratta di una proclamazione solenne, appunto, densa
    di sottolineature, frutto della meditazione del testo stesso attraverso la sua incessante ruminatio e nella venerazione di ogni parola: verbum Domini.
    Dunque, tra le arti, si ricorrerà all’oratoria e, prima ancora, alla retorica, non tanto alla musica, per individuare con certezza l’essenza del
    gregoriano.2

        Il gregoriano innalza la parola latina dalla sua ordinaria funzione di banale mezzo di comunicazione sino a renderla parola sacra universale, la
amplifica per farla giungere al cuore, da dove dovrebbe sgorgare. Nell’uomo moderno, che ha perso la dimensione della dipendenza originaria da un
Creatore, è difficile che scatti la piena comprensione di una forma d’arte nata per esprimere questa dipendenza costitutiva, eppure il gregoriano è di
moda, fa tendenza (si pensi ai CD dei monaci di Santo Domingo de Silos e al loro successo), anche se nessun gruppo di monaci che canta in latino può
fare minimamente concorrenza ad una qualsiasi band famosa di musica leggera, almeno se consideriamo le copie vendute.
        Ci si dimentica forse troppo spesso che il canto cristiano nasce e vive con e per la Liturgia, Liturgia che è un momento molto particolare della
vita del popolo cristiano, meglio: del singolo cristiano in quanto appartenente ad un popolo. Il canto liturgico ha dunque anche una dimensione
comunitaria, non è espressione intimistica e personale; anche i canti solistici sono affidati al solista perché è colui che sa dire meglio, con maggiore
padronanza tecnica e potenza espressiva, quello che la schola intera non può esprimere, ma è un delegato della comunità orante, non un autonomo e
solitario personaggio fuori dal coro. Le chiese (sia quelle con la c minuscola, sia quella con la maiuscola) sono l’ ambiente naturale del gregoriano, non
le sale da concerto, non i dischi, i CD, la radio, le conferenze, le mostre. Cantare il canto cristiano liturgico fuori dalla liturgia è snaturarlo, privarlo del
suo significato profondo: è come giocare a biliardo su un prato invece che sul tavolo da biliardo. Si può fare, ma ci vuole una grande passione per farlo.

1
 Sulla questione si legga, ad esempio, il paragrafo Gregorio Magno in GIULIO CATTIN, La mondia nel medioevo, Torino, EDT, 1991, pp. 63-68.
2
   MASSIMO LATTANZI, Il canto gregoriano non è canto: appunti per un paradosso, articolo pubblicato sul sito della Schola gregoriana di Cremona:
http://digilander.libero.it/gregduomocremona/lattanzi.htm.

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I libri esposti in mostra testimoniano la complessità e la ricchezza della liturgia cristiana di rito latino vissuta all’interno dell’esperienza
francescana. Ogni Ordine religioso, come ogni Chiesa locale, ha sempre vissuto la liturgia secondo la propria peculiare tradizione, geloso di quelle
piccole o grandi differenze che le diverse celebrazioni hanno sempre permesso, sia prima sia dopo il Concilio di Trento (1545-1563).
        Quando oggi ci accostiamo a questi splendidi prodotti, che in questa occasione appartengono ai conventi francescani del Veneto (ma ne
esistono di numerose altre tradizioni), siamo spesso spinti da un interesse parziale. Ogni esperto osserva i libri liturgici dal proprio punto di vista: il
paleografo studia la scrittura, il filologo musicale confronta le lezioni dei diversi testimoni, il liturgista va a caccia di anomalie nei riti, di testi
particolari e di tracce di antiche officiature, l'eucologo osserva i testi delle orazioni, il bibliomane studia le legature, misura lo spessore della pergamena
e osserva il libro come oggetto, lo storico dell'arte si occupa della qualità delle miniature e dell’impianto decorativo, e via dicendo. In questo modo
accade che, esaltando un particolare, si perde di vista lo straordinario valore complessivo di questi libri, che supera di molto quello che il singolo
specialista vi può riconoscere: si tratta di testimonianze vive di una prassi liturgica dinamica e fiorente, che non hanno nulla di decadente o di stantìo,
neppure nei secoli dal XVI al XIX e che documentano un’energica esperienza di fede sana e operosa.
        I libri liturgici con notazione, in particolare, sono testimonianze di una fede ancora capace di generare bellezza e cultura e la loro funzione
principale, fra l’altro, non è quella di permettere ai frati di leggere le melodie attraverso la notazione. Il canto cristiano liturgico si insegna e si trasmette
prevalentemente per tradizione orale, anche in presenza dei libri (sia manoscritti sia a stampa), e anche nei secoli successivi al Cinquecento. La
funzione del cosiddetto ‘libro corale’ (ossia del grande libro da porre sul leggio del coro durante le celebrazioni liturgiche, di solito un Graduale, un
Antifonario o un Salterio corale) è principalmente ornamentale, di prestigio e di memoria liturgica: ricorda i testi e la successione dei canti della schola
nel rito, ma le melodie dei canti sono conosciute a memoria dai cantori.

2. La storia del canto cristiano
        Una storia che abbracci i duemila anni della mutevolissima esperienza del canto cristiano liturgico non è ancora stata scritta. Si sono abbozzate
alcune ipotesi, spesso esposte come solide certezze, riguardo a singoli periodo (in particolare il periodo carolingio e il secolo successivo, che vedono la
nascita della scrittura neumatica), ma per altri secoli gli studi sono rarissimi. Mancano indagini approfondite sui repertori di molti Ordini religiosi (e le
influenze reciproche, ad esempio tra Francescani e Benedettini), sulle storie delle grandi cattedrali e collegiate europee; nei manuali e nelle storie della
musica si parla del gregoriano solo riguardo al periodo medievale, come se poi non fosse più stato praticato, o fosse un repertorio del tutto marginale
ed esteticamente trascurabile (‘decadente’, ricco di abusi e indegno di studio), superato in tutto dalla polifonia. Per decenni si sono studiati con acribia
e grande competenza i manoscritti più antichi, ma si sono trascurati tutti i testimoni recenziori (dal XIII al XIX secolo), escludendo totalmente
dall’indagine le edizioni liturgiche, per una miopia culturale che solo da pochi anni comincia ad essere considerata patologica.

     Alcuni studi recenti hanno evidenziato una nuova immagine del canto cristiano liturgico che oscura la vecchia rappresentazione di un Medioevo
liturgico monodico o monofonico, ossia di un canto cristiano intonato da cantori maschi e adulti all’unisono, così come si trova scritto nei libri. La
realtà era diversa. E per scoprire questa diversa realtà, come per evidenziare le peculiarità sia locali sia diffuse in tutta Europa nel campo del canto
liturgico, ci si è rivolti soprattutto allo studio di manoscritti non musicati come gli Ordinari;3 certamente anche lo studio di Rituali e Cerimoniali,

3
    GIULIO CATTIN, “Secundare” e ”succinere”. Polifonia a Padova e Pistoia nel Duecento, “Musica e Storia”, 3 (1995), pp. 41-120.

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ancora troppo poco editi e analizzati, potrebbe portare a nuove scoperte. Non deve essere trascurata poi la valutazione delle edizioni di libri liturgici
(Messali, Breviari, Graduali, Antifonari, Salteri, Innari, Processionali, Pontificali, Rituali, Officia della Settimana santa, Cantorini, eccetera) che, pur
appartenendo talvolta al pieno Cinquecento, possono tramandare canti (o solo testi di canti) e usi rituali molto antichi.
    Due fenomeni sinora trascurati che riguardano il canto piano e che concorrono a ricostruire la nuova immagine del canto liturgico sono testimoniati
da manoscritti e da edizioni liturgiche: il primo è la polifonia semplice, il secondo il cantus fractus.
    I libri Ordinari italiani, come ha mostrato Giulio Cattin, abbondano di riferimenti alla prassi della polifonia semplice, ossia a quel modo di cantare
estemporaneamente una vox organalis aggiunta alla melodia gregoriana tradizionale, solitamente nota contro nota. Questa prassi, dapprima chiamata
dagli studiosi ‘cantus planus binatim’, poi ‘polifonia primitiva’, oggi è di solito chiamata ‘polifonia semplice’.4
    Di certo questo fenomeno di amplificatio del canto cristiano è assai antico, dato che già nel VII secolo gli Ordines romani citano i ‘parafonisti’,
ossia coloro che cantano la seconda voce.5 Normalmente la vox organalis non è messa per iscritto; solo in pochissimi codici, spesso di utilizzo
didattico, affiorano alcuni esempi che possono illustrare lo stile di questa prassi.6

   La tecnica utilizzata per l’amplificazione polifonica estemporanea operata dai cantori (non dai compositori!) è mostrata o descritta da molti trattati
musicali medievali, a partire dal manualetto Musica Enchiriadis del IX secolo, per arrivare al Micrologus di Guido d’Arezzo (1030 circa),7 al trattato
Ad organum faciendum (seconda metà dell’XI secolo), al De musica cum Tonario di Johannes Affligemensis (sec. XIII), al trattato conosciuto come
‘anonimo di San Marziale’ o ‘anonimo De La Fage’, forse del XII secolo, ma tramandato da manoscritti italiani e spagnoli del XIV secolo, sino ad
arrivare alle Expositiones tractatus … magistri Johannis de Muris di Prosdocimo de Beldemandis (che utilizza la locuzione cantus planus binatim per
descrivere il fenomeno), alla Practica musice di Franchino Gaffurio e al Liber de arte contrapuncti di Johannes Tinctoris.
        Oltre agli Ordinari, ai libri di canto e alle testimonianze teoriche, la prassi di cantare super librum (chiamata anche biscantare o discantare,
organizare, tenere organum, secundare, succinere) è testimoniata anche da fonti cronachistiche e letterarie, come la Cronica di Salimbene da Parma
(composta negli anni ottanta del Duecento, ma che si riferisce ad eventi lontani anche di oltre cinquant’anni)8 Salimbene parla assai spesso del
‘secondo canto’ (o contracantum) da aggiungere alle sequenze di nuova composizione.
    Se i libri Ordinari di Padova, di Siena, di Lucca, di Pistoia e di Firenze testimoniano una diffusa prassi di polifonia semplice, che non lascia quasi
nessuna celebrazione in queste cattedrali priva di amplificazione con l’aggiunta della seconda voce, gli esempi notati di questo genere presenti in

4
  Sul tema si vedano almeno Le polifonie primitive in Friuli e in Europa, a cura di C. Corsi e P. Petrobelli, Roma, Torre d’Orfeo, 1989; Un millennio di polifonia liturgica tra oralità
e scrittura, a cura di Giulio Cattin e F. Alberto Gallo, Venezia-Bologna, Fondazione Levi-Il Mulino, 2002 (Quaderni di «Musica e Storia», 3); Polifonie semplici. Atti del convegno
internazionale di studi Arezzo, 28-30 dicembre 2001, a cura di Francesco Facchin, Arezzo, Fondazione Guido d’Arezzo, 2003; ANGELO RUSCONI, La polifonia semplice: alcune
osservazioni, «Musica e Storia», XII/1 (2003), pp. 7-50.
5
  Cfr. GUIDO MILANESE, Paraphonia-paraphonista dalla lessicografia greca alla tarda antichità romana, in Curiositas. Studi di cultura classica e medievale in onore di Ubaldo
Pizzani, Napoli, 2002, pp. 407-421.
6
  Un primo elenco di manoscritti di origine italiana di polifonia sacra fino al 1300 circa si trova in SUSAN RANKIN, Between oral and written: 13th-Century Italian sources of
poliphony, in Un millenio di polifonia liturgica tra oralità e scrittura, a cura di G. Cattin e F.A: Gallo, Bologna, Il Mulino, 2002, pp.75-98: 93-95.
7
  Recente traduzione con commento in Guido d'Arezzo: le opere, introduzione, traduzione e commento a cura di Angelo Rusconi, Firenze, Fondazione Ezio Franceschini - Sismel
Edizioni del Galluzzo, 2005 (contiene: Micrologus, Regulae rhythmicae, Prologus in Antiphonarium, Epistola ad Michaelem, Epistola ad archiepiscopum Mediolanensem).
8
  SALIMBENE DE ADAM, Cronica, a cura di Giuseppe Scalia, 2 voll., Bari, Laterza, 1966.

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manoscritti italiani superstiti sono al confronto estremamente ridotti: in assoluta prevalenza si incontrano Benedicamus Domino (spesso tropati) e
sezioni di Ordinarium Missae (Kyrie, in maggioranza, e Sanctus e Agnus); rare sono le sezioni di Proprium Missae.
    Un primo elenco di manoscritti italiani che tramandano polifonia semplice è stato allestito da F. Alberto Gallo,9 ma nuove fonti continuano ad
affiorare.

    Il secondo importante aspetto da sottolineare nella tradizione del canto cristiano liturgico è la copiosa presenza di esempi di composizioni scritte
con notazione ritmico-proporzionale, ossia esempi di cantus fractus. E certamente la prassi di esecuzione mensurale di melodie liturgiche è stata assai
più diffusa di quanto non ci facciano credere le poche testimonianze scritte rimaste, perché ciò che è scritto sul libro può essere molto diverso da ciò
che si canta, in una tradizione che ha sempre vissuto di trasmissione orale.
    Il canto cristiano liturgico conosce molto presto esecuzioni con valori proporzionali, soprattutto per quanto riguarda i testi metrici (inni e poi
sequenze), ma alla fine del Duecento compare in Francia meridionale un nuovo tipo di repertorio che si diffonde rapidamente in Italia e poi in tutta
Europa: in questo periodo si compongono infatti Sequenze e Credo con notazione mensurale, i più importanti e diffusi dei quali sono il cosiddetto
Credo Cardinalis e il Credo Regis o Apostolorum. Se il primo è abbastanza conosciuto e la sua melodia compare ancora nelle edizioni vaticane come
Credo IV (ma privato del mensuralismo originario), il secondo è meno noto e tuttavia assai presente nella tradizione manoscritta e a stampa fino al
Settecento.
    Il Credo Cardinalis e il Credo Apostolorum di Roberto d’Angiò (come anche il più tardo Credo Angelorum, anch’esso nato in cantus fractus e che
il popolo cantava in chiesa fino a qualche anno fa nella cosiddetta Missa de Angelis) dimorano comunque stabilmente nei Graduali con Kyriale dal
Trecento in poi; anche il Credo vaticano I – forse l’unica intonazione in uso prima del Trecento – si trova spesso scritto con notazione mensurale nei
manoscritti e nelle edizioni.
        Lo studio dei libri liturgici tardi (sia manoscritti sia a stampa) dimostra come il repertorio del canto cristiano liturgico abbia conosciuto una
straordinaria vitalità e una molteplicità di forme e di stili talvolta nuovi, non ancora del tutto noti nella loro complessità e ricchezza, ma certamente
degni di essere conosciuti e studiati, come fondamentale testimonianza di una religiosità ancora viva e pulsante, che si adatta ai tempi, alle nuove
sensibilità, alle nuove tendenze estetiche, pastorali e teologiche.10
        Se lo sguardo si allarga al contesto, attraverso l’interrogazione delle fonti documentarie, delle testimonianze epistolari, dei diari, delle cronache,
degli atti di sinodi e congregazioni, si scoprono peculiarità locali diffusissime che si insinuano nelle pieghe del repertorio e nelle sfumature esecutive,
difficilmente registrate dai libri ufficiali. Anche tutti questi aspetti devono essere ancora censiti e indagati con sistematicità.
    Solo da poco tempo la ricerca musicologica ha preso coscienza che c’è un’enorme diversità di consuetudini, di repertori, di modalità esecutive e
liturgiche nelle diverse Chiese; non solo esistono macroscopiche differenze fra i riti delle diverse diocesi, o fra quelli dei diversi ordini religiosi o tra
canto romano e ambrosiano, ad esempio, ma anche all’interno della stessa liturgia ‘secundum consuetudinem curiae Romanae’.

9
  F. ALBERTO GALLO, The practise of "Cantus planus binatim" in Italy from the beginning of the 14th to the beginning of the 16th century, in Le polifonie primitive in Friuli e in
Europa, a cura di C. Corsi e P. Petrobelli, Roma, Torre d’Orfeo, 1989, pp. 13-30.
10
   Si vedano, ad esempio: MARCO GOZZI, Repertori trascurati di canto liturgico, “Polifonie”, II/1 (2002), pp. 107-174 e Plainsong in the age of polyphony, edited by Thomas Forrest
Kelly, Cambridge, Cambridge University Press, 1992 (Cambridge studies in performance practice, 2).

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Nel periodo barocco, soprattutto sotto l’impulso dei Francescani, si compongono interi Kyriali (raccolte di Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus e Agnus,
ossia i canti dell’Ordinario della Messa) nello stile del canto fratto, talvolta anche a due o tre voci. Il ciclo è di solito derivato dal materiale melodico e
ritmico del Credo. Nel repertorio sacro entrano così stilemi propri della musica vocale e strumentale dell’epoca (progressioni, salti di ottava, impianto
tonale, alterazioni cromatiche, ornamentazioni virtuosistiche, eccetera).
    La musica sacra anche monodica cerca di ‘aggiornarsi’, di essere al passo con i tempi, di dilettare oltre che di aiutare a pregare. Gli esiti non sono
sempre artisticamente eccellenti e di sublime profondità spirituale, ma è errato considerare tutto questo repertorio come decadente o spurio: è una delle
tante forme di canto sacro che la tradizione ci ha consegnato, degna di essere almeno conosciuta e giudicata nella sua specificità, e non di rado tra
queste nuove composizioni si incontrano ottimi esempi di altissimo artigianato musicale.

3. L’esecuzione, oggi, del canto cristiano
        Ogni epoca e ogni chiesa locale mostrano storicamente repertori diversi, testimoniati dai libri liturgici superstiti, e un diverso tipo di esecuzione
del canto liturgico. Su quest’ultimo aspetto, soprattutto per i secoli successivi al XIV, gli studi sono molto scarsi e gli indizi derivati dai trattati teorici,
dalle cronache e dai diari sono ancora da vagliare e da ricomporre in un quadro che ne mostri l’estrema varietà.
        Nella seconda metà dell’Ottocento, per iniziativa dei monaci benedettini di Solesmes, è però iniziato un fenomeno che ha lentamente imposto
un nuovo modo di eseguire il gregoriano, che molti chiamano ‘restaurazione’ e ritengono un ritorno all’autentico canto delle origini, dopo una presunta
‘decadenza’ di molti secoli.
        Forse le cose non stanno esattamente così; quasi certamente il canto gregoriano ‘restaurato’ che si è insegnato nei seminari cattolici di tutto il
mondo nella prima metà del Novecento è un’invenzione moderna, non una restaurazione. Il modo di cantare dei monaci di Solesmes, diffuso dai dischi
in vinile dagli anni cinquanta del Novecento, ha poi imposto in tutto il mondo un’immagine sonora del canto gregoriano che si è imposta come modello
universale. Noi viviamo ancora sotto quella forte suggestione, che ha in qualche modo imbalsamato l’esecuzione del canto liturgico.
        In ogni caso ciò che oggi si ascolta nelle moderne realizzazioni in cd di canto gregoriano, anche da parte di ensembles specializzati, ha poco a
che fare con il suono del canto cristiano liturgico che un qualsiasi credente poteva ascoltare durante la Messa o i Vespri in ogni chiesa europea dal XIII
al XVIII secolo. Quello era un canto spesso ‘a battuta’, ritmicamente proporzionale, talvolta eseguito con voci stentoree, talaltra infarcito di alterazioni,
spesso secundato (ossia a due o tre voci), eseguito in alternanza all’organo o alla polifonia. E quando non era praticata la polifonia semplice i pueri
della schola (laddove presenti) cantavano comunque assieme agli adulti e il cosiddetto gregoriano risultava dalla commistione tra le voci maschili e
quelle degli scolari che cantavano un’ottava sopra: una prassi polifonica, dunque, anche se non percepita come tale.
        Ma come cantare, oggi, il repertorio che possiamo leggere sui libri posteriori al XV secolo?
È poco opportuno voler riesumare o voler ripetere una qualche prassi del passato, quasi che fosse possibile (e che poi sia utile) abbeverarsi oggi alla
purezza originaria di quell’esperienza, o rivivere la leggendaria età dell’oro dell’«autentico» gregoriano dell’epoca carolingia (di cui sappiamo
pochissimo) o riproporre una qualsiasi altra prassi storica ricostruita. Se anche ricostruissimo perfettamente il suono medievale è la nostra percezione
ad essere radicalmente cambiata da allora. E poi ha senso pregare oggi nel canto cercando di ricostruire il modo di pregare di cinquecento anni fa, che
cosa è rimasto oggi di quella vibrante spiritualità?
        L’esecuzione di un canto liturgico può nascere da uno sguardo estetizzante o tecnicistico, che esalta alcuni particolari a scapito di altri.

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Il problema, osservato dal punto di vista della ‘prassi esecutiva’, è mal posto: non siamo di fronte a musica pura, non possiamo ‘rifare’ il
passato, e se anche fossimo in grado di ricostruire l’autentico suono del canto dei monaci di San Gallo del IX secolo, probabilmente non ci piacerebbe
per niente, sarebbe completamente estraneo al nostro gusto di uomini tecnologici del terzo millennio e distantissimo dal suono dei monaci di Solesmes.
       Lo scopo della registrazione non è quello di proporre un’«esecuzione filologica» (come si usa dire oggi con espressione priva di senso) del
canto cristiano testimoniato dagli Antifonari, dai Graduali e dai Kyriali dei conventi francescani del Veneto dal XV al XVIII secolo, ma è assai più
modesto (o forse enormemente più pretenzioso): ridare suono a quelle pagine, mostrarne la ricchezza e la potenza espressiva, secondo un’ipotesi
esecutiva che utilizza le poche evidenze note sull’esecuzione del canto liturgico in area norditaliana dal Quattrocento in poi, ma restituire
quell’esperienza secondo la sensibilità moderna, inseguendo ciò che quella bellezza fermata dalla notazione quadrata di due, quattro o cinquecento anni
fa può dire a noi uomini del terzo millennio. E se questa esecuzione aiuterà a pregare avrà raggiunto il suo scopo.

4. Il canto cristiano inscatolato
        Registrare o ascoltare un cd contenente canto cristiano non è fare un’esperienza liturgica. Il canto cristiano ascoltato da un cd subisce una
doppia alterazione snaturante, per prima cosa perché risuona al di fuori del suo luogo naturale che è la liturgia, ma anche perché è riprodotto, e dunque
si diffonde in assenza dei cantori, che con la loro presenza sottolineano la carnalità e l’umanità di quel gesto di comunicazione e di preghiera comune.
Eppure anche in questa forma inscatolata qualcosa dell’essenza profonda del canto cristiano liturgico rimane; paradossalmente la sua verità e vitalità
missionarie possono essere persino potenziate: l’ascoltatore può godere della preghiera cantata anche al di fuori della liturgia, e ricercare momenti non
consueti di incontro con questo repertorio, magari dettati da suggestioni totalmente extrareligiose. E prima o poi potrà interrogarsi sul significato e sul
valore di quel canto.
        I canti liturgici restano capolavori assoluti della tradizione cattolica, capaci di sopportare enormi deformazioni di tutti i tipi: deformazioni
esecutive, ambientali, di percezione. Si tratta di melodie sopravvissute almeno per un millennio; alcune, forse, ancora più antiche. Ma quei testi,
associati a quelle melodie, ogni volta che risuonano acquistano nuova forza espressiva e sempre hanno interrogato e interrogano l’uomo (anche l’uomo
moderno). Perché “il pensiero teologico esatto e rigoroso” – come disse l’allora cardinale Ratzinger nel 2002 – non può sostituire quel “colpo
provocato dalla corrispondenza del cuore nell’incontro con la bellezza”.
        Il gruppo vocale che esegue i canti registrati nel cd allegato a questo catalogo prende il nome da un musicologo e sacerdote nato a Berlino cento
anni fa: Laurence Feininger, la cui storia ha a che fare profondamente con questa bellezza.
        È stando di fronte ad una esperienza di bellezza in un monastero tedesco, all’interno della liturgia di rito latino vissuta nella sua dimensione più
vera, che il giovane Laurence Feininger, a venticinque anni, nella Germania nazista del 1934, si convertì alla fede cattolica, lui che aveva vissuto fino
ad allora in una famiglia dagli orientamenti protestanti, ma non praticante.
        Feininger fu battezzato nel monastero benedettino di Stift-Neuburg nei pressi di Heidelberg, abbracciando la verità di cui quella bellezza era
splendore. Da quel momento ogni sua energia fu rivolta a salvare dall’oblìo e dalla dispersione tanti tesori di musica sacra cattolica composti soli Deo
gloria, tanto da connotare il suo lavoro non come un’attività culturale, ma come una vera e propria missione.11 Nel 1946 fu ordinato sacerdote: da
11
  NINO PIRROTTA, Laurence Feininger: la musicologia come missione, in: I codici musicali trentini a cento anni dalla loro riscoperta: atti del convegno “Laurence Feininger, la
musicologia come missione”, Trento, Castello del Buonconsiglio, 6-78 settembre 1985, a cura di Nino Pirrotta e Danilo Curti, Trento, Provincia Autonoma di Trento, Servizio Beni
culturali, 1986, pp. 12-15.

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allora si dedicò al gigantesco progetto di catalogare e di pubblicare il patrimonio vocale sacro della liturgia cattolica per poterlo rendere accessibile a
tutti. Nel 1949 si stabilì definitivamente a Trento, dove era giunto per studiare i celebri codici musicali del Quattrocento; fondò il «Coro del Concilio»,
formato da oltre cento cantori, per eseguire le grandi partiture di scuola policorale romana che nessuno eseguiva e continuò a raccogliere materiale
bibliografico e fotografie dagli archivi e dalle biblioteche di tutto il mondo. Parallelamente studiava, trascriveva e pubblicava importanti composizioni
di polifonia sacra: tra il 1947 e il 1975 la Societas Universalis Sanctae Ceciliae (da lui ideata, sostenuta e curata) sfornò ben 142 volumi di mottetti e
Messe dal XV al XVIII secolo, alcuni di mole notevolissima.
        Dopo il Concilio Vaticano II, negli anni che videro l’abbandono della liturgia latina, Feininger iniziò la raccolta sistematica di manoscritti e di
edizioni liturgiche. Egli non si limitava a comprare manoscritti antichissimi o libri liturgici anteriori al Concilio di Trento, ma raccolse tutte le
testimonianze, anche tarde o periferiche (manoscritti di epoche successive all'invenzione della stampa, edizioni settecentesche, ottocentesche, ecc.), di
quel complesso cerimoniale che egli considerava “impareggiabile mezzo per comunicare la Dottrina della Verità” e “impareggiabile mezzo pastorale”:
la liturgia cattolica di rito latino. Qualsiasi libro che facesse parte di questa storia millenaria aveva per lui un valore inestimabile, e lo riportava
all’origine della sua vocazione.
        Il gruppo vocale Feininger ha preso il nome da questo grande sacerdote e musicologo ferito dalla bellezza, ed è nato perché l’eredità non solo
materiale di Feininger fruttificasse e si potesse ancora proporre all’uomo di oggi la bellezza e la profondità del tesoro della musica sacra cattolica su
testo latino.

5. I brani contenuti nel CD
        All’interno del vasto repertorio di canti liturgici di rito latino si possono incontrare tipologie diversissime di canto (forme sillabiche,
semisillabiche, melismatiche, forme con e senza ripetizioni, forme brevi e forme assai ampie, melodie che si muovono per grado congiunto o con ampi
intervalli, semplici o ornate, ritmicamente monotone oppure esuberanti, senza metro oppure con valori proporzionali, a una o più voci e via dicendo),
eppure ognuna di queste espressioni ha un suo valore ed una sua storia nell’economia liturgica e rappresenta un universo ricco di apporti testuali e
musicali di diversa provenienza e datazione.
        Il disco “Laudate Dominum omnes gentes” rappresenta un’antologia di queste diverse espressioni di canto liturgico francescano e si apre con
l’antifona che riecheggia la potente affermazione di san Paolo nella quale si riassume l’essenza della sua esemplare esperienza cristiana:

Magnificabitur Christus in corpore meo sive per Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io
vitam sive per mortem; mihi enim vivere         viva sia che io muoia; per me infatti il vivere è
Christus est et mori lucrum. [Phil. 1, 2-21]    Cristo e il morire un guadagno.

Questa rara antifona al Magnificat (TRACCIA 1), per i secondi vespri della festa di san Paolo, si incontra a c. 42v dell’Antifonario settecentesco
Vicenza, Convento di Santa Lucia, Corale 2 ed è seguita, nella pagina a fronte, dall’altrettanto insolita antifona Ecce qui in vita sua soffulsit domum per
i primi vespri della festa di san Francesco.

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Il secondo brano (TRACCIA 2) è l’introito della Messa per la festa di san Francesco Gaudeamus omnes in Domino (“Rallegriamoci tutti nel
Signore celebrando la festa in onore di san Francesco…”), tratto dal Graduale cinquecentesco segnato Corale 9 dello stesso convento; il testo è
intonato sulla melodia tipica utilizzata per il canto introitale delle feste di diversi santi (compresa la Madonna), che inizia festosamente la celebrazione
eucaristica.
        Le TRACCE 3 E 4 riguardano invece due composizioni che sono posizionate in pagine contigue nell’Antifonario-Graduale settecentesco
vicentino del Convento di Santa Lucia (Corale 15, cc. 111v-112r), ma che non hanno quasi nulla in comune: la prima, Memento verbi tui, è un
communio (canto di comunione) per la ventesima domenica dopo Pentecoste in canto piano, mentre l’altra è l’antifona mariana in canto fratto Salve
regina, aggiunta da altra mano nei fogli finali del codice. Il testo di Memento, tratto dal Salmo 118 (versetti 49-50: “Ricorda la promessa fatta al tuo
servo, con la quale mi hai dato speranza; questo mi consola nella miseria.”) è intonato con il consueto stile semisillabico e con l’ambitus ristretto delle
antifone di comunione, mentre il Salve regina usa il moderno linguaggio del canto fratto (ossia il canto che fa uso di valori ritmico-proporzionali nella
notazione), con una ritmica e un’estensione esuberanti. Il manoscritto riporta solo una voce scritta, ma nella realizzazione discografica è stata aggiunta
una seconda voce di controcanto, secondo lo stile e l’uso testimoniati in molti conventi della Provincia francescana veneta.12
        Le due antifone Unus ex duobus e Salve crux pretiosa (TRACCE 5 E 6), che compongono la prima pagina (c. 65r) della sezione dedicata al
Proprium sanctorum dell’Antifonario segnato come Corale 16 del Convento di Santa Lucia di Vicenza, appartengono all’Ufficio di sant’Andrea (30
novembre). Pur essendo entrambe brevi e poco ornate, sono assai diverse espressivamente. La prima (per i vespri) si muove in un ambitus grave e
mostra un carattere meditativo e narrativo: è qui presentata anche musicalmente la figura di Andrea. Il testo riprende il racconto dell’evangelista
Giovanni, che assieme ad Andrea fu il primo discepolo ad incontrare Gesù e a riconoscerlo come Messia: “Uno dei due che avevano seguito il Signore
era Andrea, fratello di Simon Pietro. Alleluia”. La seconda antifona (per le lodi) ha invece un carattere energico e vibrante, si muove in ambito acuto
ed è un saluto alla croce sulla quale fu martirizzato sant’Andrea.
        Il Salterio settecentesco di Lonigo (Corale 1) tramanda la celebre antifona mariana Ave regina celorum a c. 86v (TRACCIA 7), da cantare alla
fine della Compieta. Il bel testo dell’antifona, composto da coppie di ottonari a rima baciata, è di anonimo autore e risale probabilmente al XII secolo:

        Ave Regina coelorum,                                       Ave, Regina dei cieli,
        ave domina angelorum.                                      ave, signora degli angeli;
        Salve radix, salve porta,                                  salve porta e radice
        ex qua mundo lux est orta.                                 attraverso cui la luce è giunta al mondo.
        Gaude Virgo gloriosa,                                      Gioisci, vergine gloriosa,
        super omnes speciosa.                                      bella fra tutte le donne.
        Vale, o valde decora,                                      Salute, o tutta santa,
        Et pro nobis Christum exora.                               prega per noi Cristo.

12
   Cfr. GIULIA GABRIELLI, Il canto fratto nei manoscritti della Fondazione Biblioteca S. Bernardino di Trento, Trento, Provincia autonoma di Trento - Soprintendenza per i Beni
librari e archivistici, 2005 (Patrimonio storico e artistico del Trentino, 28).

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Il Kyriale-Prosario cinquecentesco del Convento di San Daniele di Lonigo (Corale 3) si apre invece con l’antifona per l’aspersione dell’acqua
benedetta Asperges me, Domine (TRACCIA 8), il cui testo è un versetto del Salmo 50 (il Miserere): “Purificami con issopo e sarò mondo, lavami e sarò
più bianco della neve”; l’intonazione musicale acentua il carattere di supplica del testo.

        Dopo la morte di santa Chiara d’Assisi, avvenuta l’11 agosto 1253 alla presenza di frate Leone e di due altri fedeli discepoli di san Francesco, la
causa di canonizzazione fu promossa da papa Innocenzo IV. Nonostante un lieve ritardo, a causa della morte del pontefice, il processo si concluse con
notevole celerità e nel 1255 Chiara fu canonizzata nella cattedrale di Anagni da Alessandro IV (Rinaldo dei conti di Segni), che diede un forte impulso
al culto della santa.
        L’Ufficio ritmico (ossia scritto in versi) di santa Chiara fu composto su modello del più celebre Ufficio ritmico di san Francesco,13 scritto da
Giuliano da Spira attorno al 1230. Il nuovo Ufficio deriva totalmente le intonazioni musicali dal modello e ne cambia solo il testo, riproducendone però
anche tutti gli schemi metrici e strofici. L’Ufficio ritmico di santa Chiara così costruito inizia con la prima antifona dei primi vespri Iam sanctæ Claræ
claritas14 (TRACCIA 9), che qui è presentata nella versione tramandata dall’Antifonario cinquecentesco Corale 3 del Convento di San Giacomo di
Monselice (cc. 104v-105r).
        Le normali antifone degli uffici non ritmici presentano testi non versificati, ma sono musicalmente affini alle loro sorelle più recenti, un classico
esempio di tradizionale antifona ad Magnificat è Hodie Maria virgo caelos ascendit (“Oggi la Vergine Maria ascende in cielo, esultate poiché regna
con Cristo in eterno”, TRACCIA 10), per i secondi vespri della festa dell’Assunzione di Maria (15 agosto).

      La Messa del francescano sant’Antonio da Padova, morto il 13 giugno 1231, inizia con l’introito In medio ecclesie (TRACCIA 11), previsto per il
Comune dei dottori. Il testo dell’antifona è derivato dal libro del Siracide (15, 5), mentre il versetto salmodico è il secondo versetto del Salmo 91;
entrambi tratteggiano la statura del grande dottore della Chiesa:

     In medio ecclesiae aperuit os eius et                   Aprì la sua bocca in mezzo all’adunanza e il
     implevit eum Dominus spiritu sapientiae                 Signore lo riempì di sapienza e di intelligenza
     et intellectus: stolam gloriae induit eum.              e lo ricoprì con il manto della gloria.
     Ps. Bonum est confiteri Domino et                       Sal. È buona cosa lodare il Signore e cantare
     psallere nomini tuo, Altissime.                         inni al tuo nome, o Altissimo.

Essendo questo un introito utilizzato per tutti i dottori si tratta di una melodia che ricorre abbastanza spesso nelle feste dei santi, ma la sua notorietà non
può certo competere con il più celebre introito dell’anno liturgico, il canto che apre tutti i Graduali e che spesso reca una splendida miniatura o una

13
   Edizione (con musica) in ELISEUS BRUNING, Officium ac Missa de Festo S. P. N. Francisci quibus accedunt Cantus selecti in honorem eiusdem ad codicum fidem ac normam
Gregorianam, Paris, Desclée, 1926.
14
   Edizione (con musica) in GIACOMO BAROFFIO - EUN JU KIM, Historiæ Sanctorum. Offici liturgici medioevali da codici italiani, Lamezia Terme, 1999 (Ricerche musicali A.M.A.
Calabria, 14), pp. 53-64 e 129-130. Edizione del solo testo in GUIDO MARIA DREVES (ed.), Historiae Rhythmicae. Liturgische Reimofficien des Mittelalters Aus Handschriften und
Wiegendrucken, Erste Folge, Leipzig, Reisland, 1889 (Analecta Hymnica Medii Aevi, 5), pp. 157-160, n. 54.

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ricca incisione (di solito raffigurante il re David in preghiera da cui si diparte una piccola animula in forma umana che sale al cielo): Ad te levavi
animam meam (TRACCIA 12). È l’introito della prima domenica di Avvento, che trae il suo testo dai primi quattro versetti del salmo 24: “A te innalzo
l’anima mia. O mio Dio, in te confido, non sia confuso e non abbiano a deridermi i miei nemici! No: tutti quelli che sperano in te non resteranno delusi.
Sal. Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri”. Tutta l’attesa dell’Avvento è condensata in questo canto fiducioso e appassionato.

        Come nel caso di Ad te levavi, anche le altre feste principali dell’anno liturgico esibiscono spesso nei codici liturgico-musicali un grande
capolettera decorato per l’introito. Lo splendido Graduale miniato quattrocentesco della Biblioteca comunale di Monselice (ms. 10014) mostra infatti
grandi iniziali ornate e intere pagine incorniciate da fregi miniati all’inizio di ciascuna festa importante dell’anno liturgico; così si apre anche la festa
dell’Epifania (6 gennaio), dove l’introito Ecce advenit dominator Dominus (TRACCIA 13) reca nella grande iniziale ‘E’ su sfondo dorato con
l’adorazione dei magi. Il testo del solenne introito dell’Epifania è tratto dal profeta Malachia (3, 1) e dal primo libro delle Cronache (29, 12): “Ecco,
arriva il sovrano Signore. La regalità, l’autorità e il potere sono nelle sue mani”. Il versetto salmodico è invece l’inizio del Salmo 71: “O Dio, concedi
al re il tuo giudizio, al figlio del re la tua giustizia”. Il salmo dipinge il re ideale dell’avvenire (su modello di Salomone); la tradizione giudaica e
cristiana vi ha però visto il ritratto anticipato del re messianico predetto da Isaia e Zaccaria, per cui la traduzione andrebbe mutata in: “O Dio, concedi
al re [Cristo] il tuo giudizio, accorda al re tuo Figlio i tuoi poteri di giudice”.

        I canti maggiormente utilizzati durante le celebrazioni liturgiche sono sempre stati i canti dell’Ordinario della Messa (Kyrie, Gloria, Credo,
Sanctus e Agnus Dei), cosicché le sezioni ad essi dedicate nei libri liturgici sono le più consumate, con evidenti segni d’uso frequente. Nella tradizione
francescana, soprattutto settecentesca, era usanza compilare estesi Kyriali in canto fratto, chiamati “Cantorie”, che raccoglievano il repertorio in uso
nei singoli conventi. Sono però frequenti anche i Kyriali tradizionali posti alla fine dei Graduali (ossia dei libri che contengono i canti del Proprio della
Messa), come accade ad esempio nel Graduale-Kyriale settecentesco del convento padovano di San Francesco Grande (Corale 8), da cui è tratto il
semplice Kyrie (TRACCIA 14), sconosciuto al repertorio di Melnicki,15 che compare a c. 42r con la rubrica Tempore Paschali (per il tempo di Pasqua).
Più antico (fine Cinquecento) è il Graduale dello stesso convento (Corale 13) che tramanda il Communio del sabato dopo la IV domenica di Quaresime
Dominus regit me (TRACCIA 15), il cui testo riprende i primi due versetti del Salmo 21: “Il Signore è mio pastore, non mi mancherà nulla. Egli mi ha
posto in luoghi di verdi pascoli, mi ha condotto ad acque ristoratrici”.
        Un altro Kyrie eleison (TRACCIA 16) dalla melodia poco nota si trova nel Kyriale di Ceneda (Corale 19), che reca la rubrica “De sancto
Francisco”. Il chiaro impianto tonale e la struttura con frequenti ripetizioni melodiche ne fanno un esempio di relativamente recente composizione,
assai diverso nello stile dalle più antiche intonazioni per le feste maggiori dell’anno liturgico che si incontrano nei coevi Kyriali a stampa romano-
francescani.
        La breve antifona per il Benedictus delle lodi della festa del Corpus Domini è Ego sum panis vivus (TRACCIA 17); il testo è tratto dal vangelo di
Giovanni (Gv 6, 51) e appartiene allo ‘scandaloso’ discorso di Cristo nella sinagoga di Cafarnao, fondamento del mistero eucaristico: “Io sono il pane
vivo disceso dal cielo: chi mangerà questo pane vivrà in eterno, alleluia!”. Nell’antifonario seicentesco del convento di San Francesco del Deserto,
Corale 1, precede l’antifona ad Magnificat per i secondi vespri della stessa festa O sacrum convivium.

15
     MARGARETA MELNICKI,   Das einstimmige Kyrie des lateinischen Mittelalters, Diss., Universität Erlangen-Nürnberg, 1955.

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Da un diverso convento veneziano, quello di San Michele in Isola, proviene invece il Graduale che tramanda l’introito per il Mercoledì delle
Quattro Tempora d’Avvento Rorate caeli desuper (TRACCIA 18), il cui testo è tratto dal profeta Isaia (Is 45, 8) e dal Salmo 18: “Stillate, celi, dall’alto
la vostra rugiada e le nubi piovano il Giusto; si apra la terra e germogli il Salvatore. Sal. I cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento proclama
l’opera delle sue mani”). Nel medioevo la Messa del mercoledì delle Tempora d’Avvento era detta ‘Messa aurea della Beata Vergine Maria’ ed era
ritenuta d’una particolare efficacia nelle necessità dell’anima e del corpo. Dopo il Concilio Vaticano II i tempi forti di digiuno e preghiera delle Quattro
Tempora sono stati aboliti.
         Un altro canto di ingresso, per la maggiore solennità dell’anno liturgico – la Pasqua – e dunque sempre impreziosito da una splendida miniatura
(o da una grande incisione nei casi dei libri a stampa), è l’introito Resurrexi, et adhuc tecum sum (TRACCIA 19) che apre anche il secondo tomo di
Graduale del Convento di San Michele in Isola (Corale 4), scritto nell’anno 1500. Il testo, tratto dal Salmo 138 dice: “Sono risorto e sono ancora con
te, alleluia; hai posto sopra di me la tua mano, alleluia; la tua sapienza si è dimostrata inarrivabile, alleluia, alleluia. Sal. O Signore, tu mi scruti e mi
conosci, tu sai quando mi siedo e quand mi alzo”.

        Le ultime otto tracce del cd sono dedicate a canti provenienti da libri del Convento di San Daniele di Lonigo e da poco restaurati. La TRACCIA
20 propone il primo canto dell’Antifonario seicentesco segnato Corale 2: era il motto del sacerdote e musicologo Laurence Feininger (1909-1976); il
testo è tratto dal Salmo 69 (versetto 10) ed è richiamato dall’evangelista Giovanni (Gv 2, 17) in relazione all’episodio della cacciata dei venditori dal
tempio di Gerusalemme da parte di Gesù:

Zelus domus tuae comedit me, et opprobria            Lo zelo della tua casa mi divora; ricadano su di
exprobrantium tibi ceciderunt super me.              me gli oltraggi di chi ti insulta.

L’antifona è prescritta liturgicamente in apertura del mattutino del Giovedì santo (Feria quinta in coena Domini), come primo canto del solenne triduo
che conclude la settimana santa.

         Il Corale 3 di Lonigo è un Kyriale con molti Credo in canto fratto posti all’interno dei cicli di Ordinarium, tramanda poi alcune sequenze (da c.
82r), il Proprium della Messa per la Concezione di Maria con l’introito Egredimini et videte filiae Syon (c. 91v) e infine, nelle carte finali (97r-104v)
scritte da una mano seriore sulla rasura di un precedente Te Deum laudamus, si incontrano due Credo in canto fratto e un Kyrie con la rubrica In
solemnitatis sanctorum nostri Ordinis. Il primo Credo reca l’appellativo ‘Tripola’ (TRACCIA 21), che si riferisce al metro ternario e danzante della
composizione. Alla voce scritta sul libro è stata aggiuta una seconda voce grave di contrappunto nota contro nota, secondo lo stile largamente diffuso
in altri conventi francescani coevi dove non era utilizzato l’organo.

       Il Corale 6 di Lonigo è invece un Antifonario (contiene il Commune sanctorum e alcune antifone dei santi) datato 1532, che tramanda anche (c.
77v-78r) l’antifona Franciscus vir catholicus (TRACCIA 22), antifona che apre il celebre Ufficio ritmico di san Francesco composto da Giuliano da
Spira attorno al 1230. Di questo Ufficio si è già parlato a proposito dell’antifona Iam sanctæ Claræ claritas (traccia 9). Dal punto di vista musicale le

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due antifone sono identiche, poiché, come si è detto, l’Ufficio di Santa Chiara deriva totalmente le intonazioni musicali dal precedente Ufficio di san
Francesco, cambiando solo il testo.

        Il Corale 11 di Lonigo è un Antifonario de sanctis la cui sezione principale (cc. 1-125) è stata copiata nel 1598, secondo quanto si evince dalla
sottoscrizione datata del copista nell’ultima carta: “Scriptus a fratre Paulo a Motha ordinis minorum regularis observantiae 1598. Pertinet ad locum
Sancti Blasii Vicentiae” (“Scritto da frate Paolo da Motta di Livenza dell’Ordine dei frati minori osservanti 1589. Appartiene al convento di San Biagio
di Vicenza”). Nelle carte finali si trovano aggiunte alcune antifone per la festa della Visitazione, di datazione poco posteriore al corpo principale del
codice. L’antifona che apre questa sezione è Beata es Maria (TRACCIA 23), che è preceduta dalla rubrica “In festo Visitationis beatae Mariae in primis
Vesperis ad Magnificat antiphona” (c. 127v). Eccone il testo con traduzione:
Beata es Maria quae credidisti; perficientur in    Beata, o Maria, che hai creduto: in te si compie
te quae dicta sunt tibi a Domino, alleluia.        la parola del Signore. Alleluia.

        Il Corale 12 di Lonigo è invece un Innario del tardo Ottocento che nelle carte finali contiene aggiunte di antifone mariane; una di queste: Regina
caeli è il pezzo che conclude il codice (TRACCIA 24). La melodia è quella tradizionale ornata (la più nota versione in tono semplice è sillabica e priva
dei melismi), saldamente impiantata in una sorta di moderno fa maggiore. L’antifona è destinata ad essere cantata dopo Compieta nel tempo di Pasqua
e possiede un testo gioioso, intercalato da quattro Alleluia che ne interrompono il senso, a sottolineare la prorompente letizia pasquale:

   Regina caeli, laetare, alleluia: quia           Regina del cielo, rallegrati, alleluia: colui che
   quem meruisti portare, alleluia,                hai portato nel grembo, alleluia, è risorto
   resurrexit sicut dixit, alleluia.Ora pro        come aveva promesso, alleluia. Prega il
   nobis Deum, alleluia.                           Signore per noi, alleluia.

       Il Corale 13 di Lonigo è un manoscritto composito del primo Seicento, che raccoglie nella stessa legatura frammenti di diversa datazione e
provenienza (talvolta anche con formati di pagina diversi): dopo un breve Kyriale di quattro carte segue un frammento di Innario (con pagine numerate
da 21 a 78) e altri due frammenti di Kyriale (ripettivamente di 9 e 17 carte) seguiti da una sezione prevalentemente in canto fratto, di diverse mani, che
contiene anche antifone mariane a tre voci (Tota pulchra, Regina caeli, Ave Regina, Salve Regina), due Si queris mircula per S. Antonio da Padova e
ben tredici diverse intonazioni del Tantum ergo a tre voci. Da questo intressante ed eterogeneo materiale sono stati tratti due esempi significativi, che
mostrano lo stile della polifonia semplice in uso nel convento di Lonigo e in molti altri conventi non solo del Veneto: l’antifona Tota pulchra es, Maria
(TRACCIA 25) e l’inno Tantum ergo (TRACCIA 26).
       Tota pulchra deriva l’attacco testuale dal Cantico dei Cantici, ma si trasforma subito in una preghiera popolare con accenti litanici:

Tota pulchra es Maria,                             Sei tutta bella, o Maria!
Et macula originalis non est in te.                E il peccato originale non è in te.
Tu gloria Jerusalem,                               Tu sei la gloria di Gerusalemme,

                                                                                                                                                       12
tu laetitia Israël,                                  tu sei la letizia di Israele,
tu honorificentia populi nostri,                     tu sei l'onore del nostro popolo,
tu advocata peccatorum.                              tu sei l'avvocata dei peccatori.
O Maria!                                             O Maria!
Virgo prudentissima                                  Vergine prudentissima,
mater clementissima,                                 Madre clementissima,
ora pro nobis,                                       prega per noi
intercede pro nobis                                  e intercedi per noi
ad Dominum Jesum Christum!                           presso il Signore nostro Gesù Cristo!

L’intonazione musicale sottolinea la semplicità del testo e la sua cadenza da Rosario popolare alternando versetti solistici destinati a due cantori (di
solito per terze) con ripetizioni amplificate degli stessi versetti (o della loro espansione) da parte del coro. L’effetto è di grande suggestione pur facendo
uso di un linguaggio semplicissimo e armonicamente povero.
        Il testo del Tantum ergo è invece derivato da un più ampio inno eucaristico scritto da San Tommaso d'Aquino (1225-1274) per la celebrazione
della solennità del Corpus Domini (festa introdotta a Liegi nel 1246 ed estesa a tutta la Chiesa cattolica nel 1264 da Urbano IV) e cantato anche il
Giovedì santo e nelle adorazioni eucaristiche: sono infatti le ultime due strofe del Pange, lingua, gloriosi corporis mysterium. Ecco le due strofe:

Tantum ergo sacramentum                              Un così grande sacramento
veneremur cernui                                     veneriamo, dunque, prostrati
et antiquum documentum                               e il vecchio rito
novo cedat ritui.                                    trovi compimento nel nuovo.
Praestet fides supplementum                          La fede supplisca
sensuum defectui.                                    all'insufficienza dei sensi.

Genitori genitoque                                   Al Genitore [il Padre] ed al Generato [Cristo]
laus et jubilatio                                    sia lode e giubilo,
salus, honor, virtus quoque                          rispetto, gloria, virtù
sit et benedictio.                                   e benedizione. A Colui che
Procedenti ab utroque                                procede da entrambi [lo Spirito Santo]
compar sit laudatio. Amen.                           si tributi uguale omaggio. Amen.

La versione scelta per l’incisione è a tre voci, semplice e sillabica, con un andamento vicino ai momenti corali di Tota pulchra; le voci superiori
procedono spesso per terze parallele, conferendo al brano quella suggestiva movenza semplice e popolare cara alla spiritualità francescana.

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Il cd si conclude con il Credo Cardinalis (TRACCIA 27) nella sua veste musicale cinquecentesca ricostruita (con la secundatio per i versetti
dispari e l’introduzione delle alterazioni necessarie della musica ficta) dalla versione che compare nel Graduale-Kyriale di Lonigo in due volumi
(manoscritti 14 e 15), probabilmente copiati tra il 1533 e il 1535 e in uso per qualche tempo nel convento di San Bernardino di Verona.
         Il cosiddetto Credo Cardinalis (n. 279 del repertorio di Miazga)16 è il componimento più tipico, più rappresentativo e più celebre del repertorio
che va sotto il nome di canto fratto; è contenuto anche nei moderni libri vaticani come Credo IV, ma arbitrariamente privato dell’originario
mensuralismo.17
         Taluni ritengono che l’appellativo cardinalis si riferisca al fatto che il Credo fin dal Trecento fu destinato “alle feste cardinali o principali”
(Pasqua, Natale, Pentecoste ecc.), ma la spiegazione non è del tutto convincente; la genesi del titolo potrebbe essere legata ad un cardinale della curia
romana (forse presente ad Avignone), così come il Credo regis è stato composto dal re di Sicilia Roberto d’Angiò.
         La fama del pezzo si deduce anche dalle citazioni dei teorici, che ne parlano fin dalla fine del Quattrocento come prototipo del genere:
Franchino Gaffurio, Pietro Aaron e Biagio Rossetti lo chiamano Credo ‘cardineo’, Zarlino (ne Le istitutioni harmoniche del 1558) ‘cardinalesco’. Fra
Pietro Cinciarino da Urbino, nel suo Introduttorio abbreviato di Musica piana o vero Canto Fermo del 1555 fornisce una traduzione letterale del passo
di Gaffurio relativo al Credo.
         La citazione gaffuriana continuò comunque a diffondersi in molti trattati successivi, con impostazioni e finalità anche molto diverse, come
quelli di Illuminato Aiguino da Brescia, di Pietro Cerone, fino al trattato di Fra Orazio da Caposele del 1623.
         La melodia di questo Credo, composto in area francese agli inizi del Trecento, era certamente conosciuta a memoria da tutti i cantori, da tutti i
canonici e da tutti i frati e monaci (nonché suore e monache) almeno dal XIV al XVIII secolo. La tradizione manoscritta e a stampa di questi secoli è
zeppa di testimonianze di questa melodia. Il Credo è diffusissimo: quasi tutti i Kyriali o Graduali con Kyriale, dal XIV secolo in poi, lo tramandano,
con minime varianti.18
         La concezione melodica della voce-base del Credo cardinalis mostra una costruzione ritmica e melodica che tradisce una attitudine polifonica:
è costruita come una voce di composizione polifonica e non come un pezzo di canto fermo. Oltre alle evidenti somiglianze con il triplum della messa di
Machaut possiamo osservare brevemente altri elementi: la costruzione del testo musicale è formulare; anche se non mostra vere e proprie ripetizioni di
singole sezioni, si configura come continua rielaborazione tematica di alcuni semplici incisi melodico-ritmici elementari, in modo da permettere con
facilità l’aggiunta estemporanea di una seconda voce con l’applicazione di procedimenti melodici identici per ciascun frammento ripetuto.
         L’esecuzione qui proposta aggiunge dunque alla voce tramandata da codici ed edizioni una seconda voce per i versetti dispari, derivata in
questo caso dal codice Parma, Archivio della Fabbrica del Duomo, ms. F-09, in modo da ricostruire la prassi in uso in molte chiese europee fino alla
metà del Cinquecento.
         Il canto fratto, rappresentato qui dal suo prototipo più noto e citato (il Credo Cardinalis), nasce come amplificatio del canto piano e si esprime
nella forma di solennizzazione più praticata anche nel XIII secolo che è la polifonia semplice. Il ritmo proporzionale applicato alla melodia che

16
   TADEUSZ MIAZGA, Die Melodien des einstimmigen Credo der römisch-katholischen lateinischen Kirke: eine Untersuchung der Melodien im den handschriftlichen Überlieferungen mit besonderer
Berücksichtigung der polnischen Handschriften, Graz, Akademische Druck, 1976, pp. 74-77. Miazga elenca 102 manoscritti che contengono questa melodia del Credo.
17
   Cfr. Graduale Triplex, seu Graduale romanum Pauli PP.VI cura recognitum & rhythmicis signis a Solesmensibus monachis ornatum …, Sablé sur Sarthe - Abbaye Saint-Pierre de Solemes, 1979, pp.
776-779, dove il Credo è attribuito erroneamente al XV secolo.
18
   Per una prima discussione e bibliografia sul pezzo, si MARCO GOZZI, Alle origini del canto fratto: il ‘Credo Cardinalis’, in “Musica e Storia”, XIV/2 (2006 [ma 2008]), pp. 245-302.

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accompagna il lungo testo del Credo ha la funzione di rendere più agevole, definita e regolata l’esecuzione polifonica, oltre a quella di rendere più
vario (meno monotono) il procedere melodico.
         I codici superstiti tramandano numerose versioni a due voci non solo del Credo cardinalis, ma anche di altri Credo (numerosissime se le
rapportiamo alla povertà di testimonianze di polifonia semplice applicate ad altri generi di canti), se in queste versioni la voce-base è spesso uguale, si
osserva però frequentemente che la seconda voce è diversa. Questo prova l’utilizzo della melodia del Credo cardinalis (con il suo ritmo ben definito e
noto a tutti) sin dal suo nascere come base per estemporanee intonazioni a due voci, dove la voce aggiunta era di volta in volta composta alla mente dal
succentor, oppure intonata secondo la melodia tradizionale propria di una qualche chiesa locale, tramandata da maestro ad allievo. La melodia aggiunta
era talvolta messa per iscritto (come si vede in alcuni dei manoscritti superstiti), ma più spesso restava effimero prodotto della memoria e della
competenza del biscantinus. Questo spiega anche la parallela tradizione apparentemente monodica del canto: come per tutto il resto del repertorio i
libri liturgici registrano nella maggioranza dei casi solo la voce base, non le voci aggiunte. La seconda voce non è messa per iscritto proprio per
permettere il continuo aggiornamento dell’amplificatio polivocale secondo i gusti e le competenze dei cantori delle diverse chiese, ma anche per
permettere ad ogni chiesa di avere la sua melodia di controcanto, che rende il pezzo peculiare di quella chiesa e ne sottolinea la singolarità.
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Breve bibliografia essenziale per approfondire

ELISEUS BRUNING, Giuliano da Spira e l'Officio ritmico di S. Francesco. Osservazioni critico-estetiche sulla musica e sulla sua restaurazione attuale,
      “Note d'Archivio per la storia musicale” IV (1927), pp. 129-202.
TIZIANA SCANDALETTI, Una ricognizione sull’ufficio ritmico per s. Francesco, “Musica e Storia” IV (1996), pp. 67-101.
DAVID HILEY, Chant, in: Performance practice, music before 1600, ed. by Howard Mayer Brown - Stanley Sadie, New York - London, Norton, 1990,
      pp. 37-54.
Jubilate Deo: miniature e melodie gregoriane, a cura di Giacomo Baroffio, Danilo Curti e Marco Gozzi, Trento, Provincia autonoma di Trento, 2000.
FERNANDO URIBE, Introduzione alle fonti agiografiche di san Francesco e santa Chiara (secc. XIII-XIV), Assisi, Ed. Porziuncola, 2002, pp. 127-142
      (Medioevo Francescano 8).
Il canto fratto: l’altro gregoriano. Atti del convegno internazionale di studi, Parma - Arezzo, 3-6 dicembre 2003, a cura di Marco Gozzi e Francesco
      Luisi, Roma, Torre d’Orfeo, 2005.
GIULIA GABRIELLI, Il canto fratto nei manoscritti della Fondazione Biblioteca S. Bernardino di Trento, Trento, Provincia autonoma di Trento -
      Soprintendenza per i Beni librari e archivistici, 2005 (Patrimonio storico e artistico del Trentino, 28)
www.cantusfractus.org Sito web sul canto fratto con immagini di Kyriali e ascolti commentati.

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