ATTACCAMENTO E ADOZIONE: Rischi e sostegno nel cammino adottivo - KERE ORIGINE VIVA

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                           ATTACCAMENTO E ADOZIONE:
                          Rischi e sostegno nel cammino adottivo

                                                                     a cura di Sandra Vannucchi

1. La teoria dell’Attaccamento.
La formazione dei primi legami affettivi è importante ai fini dell’acquisizione della competenza
sociale e dell’adattamento all’ambiente e rappresenta un passaggio fondamentale nelle famiglie
naturali quanto in quelle adottive.
John Bowlby, noto psichiatra inglese, intorno agli anni 50 ha formulato la teoria dell’attaccamento,
un paradigma scientifico che ha rivoluzionato il modo di concepire lo sviluppo umano.
Gli schemi emozionali e comportamentali dell’attaccamento, pur essendo frutto della selezione
naturale e quindi pre-programmati, sono anche delle risposte che vengono prodotte grazie a processi
di elaborazione delle informazioni che provengono dall’ambiente esterno, organizzate secondo un
processo omeostatico.
La vicinanza con la madre e l’esplorazione dell’ambiente sono i due poli di questo sistema
d’equilibrio: quando il bambino si trova davanti ad un pericolo, il sistema si attiva e mette in atto
quei comportamenti che mantengono la vicinanza della madre.
In particolare la teoria dell’attaccamento pone l’accento sulle seguenti caratteristiche (Bowlby,
1979):
– Specificità: il comportamento d’attaccamento è diretto verso pochi individui, di solito in un
preciso ordine di preferenza.
– Durata: un attaccamento persiste, non viene abbandonato durante il corso della vita, anche se
durante l’adolescenza i primi attaccamenti possono diventare complementari ad altri attaccamenti.
– Ruolo delle emozioni: molte delle emozioni più intense sorgono durante la formazione, il
mantenimento, la distruzione e il rinnovarsi di relazioni d’attaccamento. La formazione di un
legame è descritta come l’innamoramento, il mantenimento di un legame come l’amare qualcuno, la
perdita di un partner come il soffrire per qualcuno.
– Ontogenesi: il comportamento d’attaccamento per una figura preferita si sviluppa, generalmente,
durante i primi nove mesi di vita. Il comportamento d’attaccamento resta facilmente attivabile fino
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alla fine del terzo anno di vita del bambino; più esperienze d’interazione avrà con una persona,
tanto più questa diventerà la sua principale figura d’attaccamento.
– Apprendimento: imparare a distinguere le persone familiari dagli estranei è un processo chiave
nello sviluppo dell’attaccamento. Inoltre, un attaccamento può svilupparsi malgrado ripetute
punizioni da parte della figura d’attaccamento.
– Organizzazione: dalla fine del primo anno di vita intervengono sistemi comportamentali
organizzati a livello cibernetico e comprendenti modelli rappresentativi dell’ambiente e del sè. Tali
sistemi vengono attivati da determinate condizioni quali: l’estraneità , la fame, la fatica e ogni causa
di spavento. Possono anche essere inibiti da altre condizioni: vista della figura materna e serena
interazione con essa.
– Funzione biologica. Il comportamento d’attaccamento si verifica in quasi tutte le specie di
mammiferi, ed in alcune specie persiste per tutta la vita adulta. La funzione più probabile del
comportamento d’attaccamento è la protezione, particolarmente per i predatori. Il mantenimento
della vicinanza di un animale immaturo a un adulto di riferimento è la regola che indica come tale
comportamento abbia un valore di sopravvivenza.
L’attaccamento che emerge nelle prime fasi della vita continuerà a caratterizzare, anche in futuro, il
rapporto   “figura      d’attaccamento-bambino”     ma     in   forme      man   mano    più    mature.
Bowlby afferma che il legame è il risultato di un sistema di schemi comportamentali a base innata.
A differenza di Freud (1920) che riteneva l’affetto del bambino determinato da motivazione
secondaria, (ossia derivante dal fatto che la madre provvede ai bisogni fisiologici di nutrimento e
pulizia, per cui il bambino la investe della sua pulsione libidica), Bowlby (1969) riconduce
l’attaccamento alla madre ad una motivazione primaria.
Esistono, infatti, schemi pre-programmati come il pianto, il sorriso, l’aggrapparsi, che favoriscono
la prossimità e il contatto con la madre e che aumentano la possibilità del piccolo di sopravvivere.
Allo stesso modo anche la madre sviluppa una sensibilità pre-programmata capace di cogliere e
decodificare i segnali del figlio. Prendere in braccio il proprio bambino che piange, ad esempio, non
si configura come un rinforzo che condiziona il piccolo rendendolo “viziato”, ma piuttosto risulta la
risposta più adeguata ad un segnale di disagio.
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La madre diviene una base sicura per il figlio, in quanto gli fornisce: presenza, disponibilità,
prontezza, incoraggiamento… Affidarsi ad una base sicura, per il bambino, a sua volta significa
poter riuscire ad affacciarsi con coraggio verso il mondo esterno sapendo di poter tornare dal
genitore qualora si sentisse spaventato o minacciato, perché sarà sempre accettato, confortato e ben
voluto. Il fatto che l’attaccamento sia “monotropico”, ossia con una singola figura, se diventa
assoluto, può avere implicazioni profonde per lo sviluppo delle competenze sociali e
dell’autonomia.
Gli attaccamenti di un bambino piccolo devono essere meglio pensati come una gerarchia
solitamente, ma non necessariamente, con la madre (o chi si prende principalmente cura di lui) al
vertice, seguita da vicino dal padre, nonni, fratellini, ecc. E’ necessario che il bambino nel corso
della sua crescita impari a capire che la figura cui egli è attaccato deve essere condivisa con il suo
partner sessuale e con gli altri fratellini, il che fa della separazione e della perdita una parte inerente
alla dinamica di attaccamento: la capacità di separarsi dalle figure d’attaccamento e di formare
nuovi attaccamenti rappresenta una sfida evolutiva molto importante.
Fra il sesto e l’ottavo mese, fino all’inizio del secondo anno di vita, avviene, infatti, un
cambiamento rispetto alle prime fasi del legame, che è da ricondurre sia allo sviluppo cognitivo,
(come la conquista della permanenza dell’oggetto) che consente al bambino di discriminare la
madre dalle altre persone, sia all’attivarsi di predisposizioni di natura filogenetica come la paura
dell’estraneo.
E’ proprio intorno agli otto mesi che si verifica l’imprinting filiale ossia quella capacità del piccolo
di fissare e conservare nella memoria le caratteristiche della figura allevante.
Ricerche effettuate nell’ambito della teoria dell’attaccamento sono a tal proposito utili in quanto
hanno cercato di individuare il contributo dato dalla figura d’attaccamento principale allo
strutturarsi del legame affettivo. I risultati di tali indagini mostrano che la storia affettiva del
bambino con la sua figura d’attaccamento influenza la sua capacità di regolare le emozioni e la sua
possibilità di mettere in atto comportamenti congruenti con la situazione.
Quando Mary Ainsworth lavorava presso la Tavistock Institute, ha condotto uno studio
longitudinale basato su osservazioni sistematiche e ripetute nel tempo dell’interazione madre-
bambino durante tutto il primo anno di vita e ha misurato con la metodica “Strange Situation”
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l’impatto del legame affettivo sulla capacità del bambino di provare e regolare certe emozioni
(Ainsworth, Walter e Wall, 1978).
La “Strange Situation” si basa su otto episodi, ciascuno di pochi minuti, durante i quali il bambino
si trova in una situazione che rappresenta per lui un progressivo accumulo di tensione.
Dallo studio è emerso che se un bambino durante i primi mesi di vita ha avuto una madre attenta e
sensibile alle sue richieste, nella “Strange Situation” risulta in grado di esplorare in maniera attiva
l’ambiente circostante. Quando la madre lo lascia con un estraneo si sente a disagio ma dimostra di
superare la separazione, perchè comunque si lascia confortare da tale presenza e riprende a giocare.
Quando la madre torna le corre incontro con calore e affetto, dimostrando di non aver alcun rancore
per averlo lasciato solo. Questo tipo di legame è basato sulla certezza di poter avere una madre che
si pone come base sicura, ed è per questo che bambini che mostrano questa organizzazione del
comportamento e questa regolazione delle emozioni sono stati chiamati dalla Ainsworth bambini
sicuri.
Se un bambino nel corso del primo anno di vita, ha sperimentato il rifiuto del suo bisogno d’affetto
perchè ha avuto una madre che ha scoraggiato il contatto fisico soprattutto in situazioni nuove di
disagio e di paura, formerà un attaccamento evitante o distaccato. Il bambino in presenza e assenza
della madre mette in atto comportamenti di falsa autonomia: si impegna nel gioco anche quando la
madre si allontana, sembra tranquillo e concentrato. Anche nel caso avesse provato momenti di
tensione e sconforto, alla madre non mostra il suo dolore per la separazione. Il bambino che, invece,
ha avuto una madre imprevedibile nelle risposte, elabora un tipo di legame d’attaccamento insicuro
di tipo ansioso – ambivalente. In presenza della madre si mantiene stretto ad essa, in assenza mostra
segni di sconforto, piange e non esplora l’ambiente che lo circonda.
Quando la madre torna e cerca di prenderlo in braccio, però, fugge dal contatto; mostra segni di
rabbia e anche se viene confortato non riesce a calmarsi.
Il bambino fa ricorso a quella che viene detta “rabbia disfunzionale”, ossia mette in atto
comportamenti aggressivi proprio nei confronti della persona dalla quale voleva essere protetto.
Ricerche successive condotte da Main, Kaplan e Cassidy (1985) hanno evidenziato un’altra
tipologia d’attaccamento: ansiosa disorganizzata.
Il bambino nella “Strange Situation” mostra sequenze disorganizzate di comportamento: resta
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immobile, si copre gli occhi alla vista della madre. Tali manifestazioni sono associate a storie di
abuso e di maltrattamento subite da parte del genitore (Attili, 2000). E sono le forme che spesso
ricorrono nei bambini adottati.
In generale è importante ricordare che l’ansia da separazione è una reazione comune a tutti i
bambini di tutte le culture; il suo superamento avviene attraverso la percezione della figura
d’attaccamento come “base sicura”, come punto di riferimento certo, da cui potersi allontanare per
esplorare l’ambiente fisico e sociale nella certezza che, in caso di necessità , il suo aiuto e conforto
non verranno meno.

2. Rottura del legame e sue conseguenze
La carenza affettiva è stata oggetto di importanti ricerche tra il 1940 e il 1960.
Molti furono gli psicoanalisti che si occuparono del problema: Bowlby (1969), nella sua teoria della
perdita, considera l’angoscia come una risposta realistica da parte di un individuo vulnerabile per la
separazione o per una minaccia di separazione dall’agente delle cure materne. Dato che la dinamica
d’attaccamento prosegue per tutta la vita adulta, l’angoscia da separazione sorgerà ogni volta
vengano minacciate le relazioni più importanti.
Bowlby considera la reazione al lutto come un caso particolare di angoscia da separazione,
considerando     il   fatto   che     la   perdita    è   una    forma    irreversibile   di   separazione.
Mentre l’angoscia di separazione è la risposta usuale a una minaccia di perdita, il lutto è la risposta
alla perdita dopo che si è verificata.
E’ impossibile definire la carenza affettiva in maniera univoca, poiché bisogna tener conto
nell’interazione madre-bambino di tre dimensioni:
    –   L’insufficienza dell’interazione che rimanda all’assenza della madre e del sostituto materno
        (affidamento istituzionale precoce);
    –   La distorsione che tiene conto della qualità dell’apporto materno (madre imprevedibile);
    –   La discontinuità del rapporto che provoca la separazione, quale che ne siano i motivi.
        Spitz (1949) compie a tal proposito una ricerca sul comportamento dei lattanti tra i sei e i
        diciotto mesi posti in ambiente sfavorevole: ospedale, brefotrofio. Dopo una separazione
        materna brutale egli nota dapprima un periodo di piagnucolamenti, poi uno stadio di ritiro e
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         d’indifferenza, accompagnati da una regressione dello sviluppo e da sintomi somatici.
Spitz chiama questa reazione del bambino, simile al marasma, “depressione anaclitica” (Spitz,
1946),    poichè   il   bambino     non    può    appoggiarsi    alla   madre   per   essere   accudito.
Altri studiosi quali James Robertson (1953) e Cristoph Heinicke (1956) hanno studiato il
comportamento di bambini dell’età compresa tra i 2 e i 3 anni, esposti ad una situazione particolare,
come la permanenza in un istituto o in un reparto ospedaliero, allontanati dalle cure della figura
materna e da tutte le altre figure importanti e conosciute.
Le reazioni infantili ad un trasferimento in tali luoghi sono varianti dei fondamentali processi di
lutto. Se un bambino dai quindici ai trenta mesi ha avuto una relazione sicura con la madre,
manifesterà nella situazione sopra descritta una sequenza di comportamento abbastanza prevedibile.
Tale comportamento può essere diviso in tre fasi:
1) Protesta
2) Disperazione
3) Distacco
All’inizio il bambino invoca il ritorno della madre con il pianto e sembra fiducioso di riuscire nel
proprio intento. E’ questa la fase della protesta che può durare anche per diversi giorni.
Il bambino resta preoccupato per l’assenza della madre e spera nel suo ritorno; ma l’esito negativo
lo fa cadere nella disperazione. Successivamente si verifica un cambiamento radicale: il bambino
pare disinteressato e sembra essersi quasi dimenticato della madre (distacco).

2.1 “Il bambino abbandonato”… sviluppo dei disturbi dell’attaccamento
Recentemente Rygaud (2007) ha messo in evidenza i possibili effetti della rottura del contatto tra
madre e bambino, considerando le varie fasi di sviluppo in cui questo può avvenire e le possibili
conseguenze. Egli sottolinea l’importanza del contatto, inteso come ogni relazione tra il bambino e
l’ambiente fisico prossimo. Il contatto è reciproco, c’è azione e reazione di due parti ed entrambe
cercano attivamente di stabilire un circuito a feedback per comunicare. Dal momento del
concepimento (contatto tra due codici genetici) fino all’attaccamento fisico (contatto tra l’embrione
e l’utero), attraverso la gravidanza, fino alla nascita (attraverso un contatto fisico). Senza un
contatto iniziale il bambino non può separarsi e funzionare in modo indipendente e una mancanza di
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contatto iniziale è una caratteristica del bambino affetto da disturbi dell’attaccamento.
Il bambino, infatti, ha la tendenza interna a sviluppare emozioni, comportamenti e facoltà, sistemi
interni di autoregolazione che lo fanno evolvere progressivamente dalla dipendenza dagli stimoli
esterni alla regolazione interna e all’autoadeguamento, tale tendenza viene definita auto-
organizzazione.
Lo scopo del contatto, quindi, è quello di aiutare il bambino ad organizzare i propri sistemi
funzionali interni primitivi; più il bambino riesce a cavarsela da sé, più il contatto evolve in una fase
ambivalente in cui il bambino oscilla tra dipendenza e fiducia in sé stesso, finché non diventerà più
indispensabile, poiché la funzione che veniva sostenuta dall’esterno diventerà interna. Tale
meccanismo è applicabile per l’autore ai procedimenti affettivi, di apprendimento e alla creazione di
funzioni psicologiche.
Rygaud individua 5 stadi dell’auto-organizzazione e ne descrive le situazioni di rottura in
riferimento ad ogni stadio.
Stadio 1: auto-organizzazione fisica
Il risultato di uno sviluppo fisico normale è un feto che comincia a reagire agli stimoli durante la
gravidanza e subito dopo la nascita. Aiutato con stimolazioni regolari il bambino apprende
progressivamente a stabilizzare i suoi schemi fisici: onde cerebrali, veglia, sonno, livello di
eccitazione, attenzione, respiro, frequenza cardiaca, temperatura corporea. (Permanenza organica).
Da un lato la predisposizione genetica può rafforzare lo sviluppo di disturbi dell’attaccamento, ad
esempio Schalling et al (1988) hanno messo in evidenza come la produzione bassa di serotonina
possa essere presente in adulti che presentano disturbi dell’attaccamento. D’altra parte è stato messo
in evidenza come le madri di bambini affetti da disordini dell’attaccamento si sono più spesso
esposte a condizioni di vita estrema , hanno una maggior tendenza ad abusare di alcool o droghe e a
non alimentarsi correttamente durante la gravidanza, con conseguente difficoltà nel contatto da
parte de bambino e una diminuzione della ricettività agli stimoli, associata ad una tendenza
all’iperattività, così come una debole capacità di apprendere attraverso l’esperienza.
I contatti madre-figlio nei bambini affetti da disturbi dell’attaccamento sono spesso turbati
precocemente durante la gravidanza e alla nascita (es. per basso peso o complicazioni perinatali
(Zachau, 1975) e comportano in molti delle disfunzioni organiche, Hansen in tal proposito parla
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proprio di “psicosindrome organica” (1977). Il bambino, quindi, soffrirà spesso di malattie precoci e
di disturbi funzionali nel primo anno (es sindrome feto alcolica). Gli effetti dei problemi del
bambino saranno rinforzati dai contatti molto ridotti e dalla debole capacità della madre di prendersi
cura del bambino.
Stadio 2: organizzazione sensoriale
Il bambino passa la maggior parte del suo tempo di veglia ad organizzare le informazioni sensoriali
in insiemi significativi e riconoscibili. Il suo primo compito è quello di costruire un sistema
sensoriale coerente, capace di annullare le informazioni non pertinenti e di prendere in
considerazione le informazioni utili. Le diverse facoltà sensoriali sono stimolate dalla routine e
dalle cure quotidiane e la madre fornisce costantemente un “filtro stabilizzatore” (Rygaud, 2007)
verso il mondo. Ella, cioè, inibisce le impressioni sensoriali troppo violente e fornisce una
stimolazione esterna se l’ambiente è troppo incolore, evitando, così, la carenza sensoriale. Insegna,
inoltre, progressivamente al bambino a sopportare la frustrazione (fame, dolore, sete, ecc..)
differendo di poco il momento della sazietà e del sollievo. In questo modo il bambino riesce ad
avere una mappa dei suoi bisogni interni, dei suoi limiti, e di parti importanti del suo ambiente utili
a soddisfare i propri bisogni, nonché la capacità di ignorare gli stimoli inutili a tal fine e di
distinguere tra gli stimoli interni e quelli esterni (permanenza sensoriale).
I neonati, infatti hanno una piccola capacità di regolare lo stress, relegandola inizialmente in base ai
genitori e contemporaneamente sviluppandola. La regolazione dello stress è importante per
l’esplorazione, l’apprendimento, l’indipendenza, le relazioni affettive. In particolare la funzione
dell’asse Ipotalamo, Ipofisi surrene (HPA) viene programmata durante l’infanzia in seguito alla
stimolazione ambientale e alle relazioni con i genitori.
Tale facoltà appare poco sviluppata nel bambino con disturbi dell’attaccamento, dato che alla
nascita non ha ricevuto che delle risposte insufficienti da sua madre o da coloro che si curavano di
lui (Rygaud, 2007).
In particolare l’assenza della stimolazione tattile e della stimolazione vestibolare (movimenti) nel
neonato possono non permettere un adeguato viluppo del Sistema Nervoso Centrale, con
conseguente instabilità/immaturità. Ciò è stato messo in luce da vari studi sugli scimpanzè in cui la
carenza di contatto e cure materne provoca comportamento insicuro o aggressivo (Reide, 1979) ed
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uno arresto o forte ritardo nello sviluppo dei dendriti nel sistema limbico (Heat, 1975, Bryan, 1989).
La probabile conseguenza di una minore crescita dei dendriti è che la rete neurale che connette le
diverse zone funzionali del cervello diviene imprecisa e instabile.
In particolare esiste un periodo critico per la formazione delle reti neurali nella corteccia pre-
fronatale (10-18 mesi) che mette in relazione risposte emotive con pensiero, linguaggio e capacità
di progettazione. Il sistema di attivazione reticolare è importante, poiché assicura un adeguato stato
di veglia, la concentrazione e le reazioni emozionali alla stimolazione, permettendo, quindi, una
reazione adeguata al pericolo. Considerando la divisione del cervello nelle sue tre unità funzionali
cervello rettiliano, limbico e neocorteccia (McLean, 1949) si possono descrivere le possibili
conseguenze di stress precoci sullo sviluppo del SNC nel bambino con disturbi dell’attaccamento. Il
cervello rettiliano è la parte più antica e primitiva responsabile dei comportamenti del predatore,
questa unità non dipende dalle cure genitoriali, tuttavia una mancanza di stimolazione può dare
luogo a ritmi di base instabili (mangiare, dormire, respirare). Il Sistema Limbico è probabilmente il
più ricettivo alla programmazione tra la nascita e i due anni, ed è la sede della programmazione e
dell’apprendimento emozionale di base. La neo corteccia è probabilmente programmata a partire
dai 12 mesi ed ha le funzioni più elevate e complesse, ivi compresa l’inibizione delle unità inferiori
e la capacità di essere empatici, che vengono programmate attraverso il contatto con i care-givers.
Nel bambino affetto da disturbi dell’attaccamento, quindi le conseguenze neurologiche possono
riguardare una discreta dominanza dei comportamenti aggressivi e difensivi propri del cervello
rettiliano, una “cecità sociale” dovuta alla mancanza di programmazione del sistema limbico e una
mancanza di capacità di analizzare e reagire agli stimoli sensoriali.
I Sintomi da carenza di cure che si possono riscontrare nei neonati sono:
comportamento d’attaccamento insufficiente e mancanza di risposta (evita il contatto oculare e
fisico, non si muove seguendo le espressioni del viso dell’adulto), depressione o ipotono muscolare,
ritmi corporali di base instabili (problemi di ipo-iperattività, disordini alimentari, mancanza
generale della capacità di adattarsi ai mutamenti esterni e raggiungere una stabilità emotiva,
nanismo dovuto a una minor produzione degli ormoni (a causa di assenza di stimolazione tattile e
vestibolare, nei casi più gravi tale instabilità può condurre alla morte), funzione immunitaria
diminuita o in continua sottotensione.
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Stadio 3: organizzazione senso-motoria
Il bambino sperimenta costantemente il suo ambiente, cercando di dominare la relazione con
l’ambiente immediato (White, 1959) ed attua tentativi ed errori che provocano un equilibrio
dinamico per raggiungere degli obiettivi attivando alcuni muscoli e inibendone altri costruendo,
così, anelli di reazioni tra sensazioni e azioni. Uno sviluppo motorio riuscito dipende in questa fase
da una guida esterna e da stimolazioni. Imparare a memoria e imitare sequenze di comportamento è,
infatti, una strategia normale a questo stadio che produce la “permanenza sensomotoria” (Rygaud,
2007). In questo periodo vengono stabiliti i limiti attraverso i feed-back dell’ambiente e dell’adulto
ed il bambino proietta ogni emozione ostile sugli altri, fino ad apprendere che anch’egli può essere
la causa degli avvenimenti.
Questi conflitti esterni (bambino/ambiente) sono i prerequisiti di conflitti interni ulteriori
(coscienza/soddisfacimento di bisogni). Attraverso le reazioni dell’adulto, il bambino impara come
reagire di fronte a se stesso (più tardi ad integrare i conflitti ed accettare i sentimenti antagonisti).
Nei bambini con carenti cure nei primi anni si possono sviluppare invece difficoltà a mantenere
l’attenzione e noia costante. Il bambino è incapace di creare una figura interna stabile di ciò che può
colmare un determinato bisogno e quindi cerca continuamente nuovi stimoli. Inizialmente il
bambino apprende tramite la memoria limbica (emotiva), ma essendo questa danneggiata nel
bambino deprivato ecco che egli tenderà a non apprendere dall’esperienza e di conseguenza a
ripetere dei comportamenti stereotipati, rimanendo indifferente a punizioni e ricompense
provenienti dall’ambiente.
Per quanto riguarda lo sviluppo motorio spesso il bambino con disturbo dell’attaccamento ha
sviluppato delle competenze frammentarie che appartengono ad un livello di sviluppo motorio più
elevato rispetto all’età, per sopravvivere, ad esempio può aver imparato a camminare prima ancora
di aver provato a gattonare.
Il problema è che spesso il bambino sarà motivato ad apprendere solo nelle situazioni di
sopravvivenza, mostrando un registro di comportamenti assai limitato. Inoltre se non ha ricevuto
informazioni in merito al fatto che le proprie azioni conducono a delle conseguenze non avrà senso
di colpa (che di solito sorge verso i 12-24 mesi), poiché non si percepisce come la causa di
qualcosa.
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Stadio 4: organizzazione della personalità
In questa fase il bambino potrà utilizzare rappresentazioni simboliche ed integrare emozione,
pensiero e parola, memoria capacità di previsione, potrà adattare i propri comportamenti alla
situazione ed incorporare le risposte dell’ambiente alle proprie esigenze. Ciò permette lo sviluppo
della permanenza della personalità, ovvero la capacità d mantenere un dialogo interno e di risolvere
così alcuni conflitti emozionali.
Dalla nascita la relazione madre-figlio è un campo protetto nel quale i due partner si danno
costantemente feedback e si accordano l’un l’altro. In questo contesto protetto si formano alcune
rappresentazioni stabili della madre, si tratta all’inizio di un processo affettivo che, in seguito, si
traduce nello sviluppo delle competenze cognitive.
In particolare da 0 a 12 mesi si sviluppa l’attaccamento di base d el bambino, quando questo è
debole (ad esempio con genitori violenti, imprevedibili,..) da una parte il bambino sarà totalmente
dipendente e avrà bisogno di cure, dall’altra i genitori rappresenteranno una minaccia. Ogni contatto
sarà per lui molto ambivalente. La sola relazione sicura sarà quella in cui odiare l’oggetto, modalità
che assicura contatto e distanza allo stesso tempo. Il bambino percepirà anche il genitore adottivo
come ostile. Il meccanismo di difesa usato in questa fase è la scissione, tutto verrà diviso in
categorie antagoniste (bene-male, forte-debole). Il bambino percepirà l’altro sia come totalmente
gentile, che completamente diabolico, avrà difficoltà a unire queste due percezioni in una sola, e
non riuscirà a riconoscere che emozioni forti possano appartenergli. Inoltre i bambini bloccati nelle
prime due fasi non vivono e non risolvono sufficientemente i conflitti interni. Ogni frustrazione sarà
risolta con un tentativo di cambiare l’ambiente piuttosto che il proprio comportamento. Tutto è un
errore dell’altro perché il bambino è solo vagamente cosciente che può essere lui la causa di qualche
evento.
Da 12 a 36 mesi il neonato interiorizza effettivamente le emozioni e le attitudini morali dei genitori.
I conflitti interni non risolti produrranno sentimenti di colpa.
Le esperienze traumatiche di separazione in questa fase possono rendere il bambino profondamente
insicuro, indurlo a ricercare sicurezza ed evitare le responsabilità, con cali della curiosità e del
coraggio per affrontare nuove sfide.
Affettivamente il bambino traumatizzato interpreterà anche le separazioni meno significative come
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dei rifiuti (“Io non sono degno di essere amato”), idealizzerà o si mostrerà sottomesso al genitore
adottivo quando gli proporrà un contatto (con lo scopo di evitare un rifiuto). Rifiuterà l’altro alla
minima delusione sarà possessivo e geloso quando il genitore mostrerà interesse per gli altri e
tenterà di colpevolizzarlo. Egli darà inizio a conflitti minori, con lo scopo di riaffermarsi e di testare
la relazione e si descriverà come abbandonato, triste, solo, senza valore inutile depresso. Nei casi
gravi potrebbe sviluppare idee suicidarie (Salk,1985). Il bambino sopravvive ai periodi di
separazione sradicando il ricordo di sua madre.
Il falso cinismo è anche una reazione frequente. Il bisogno di calmare gli effetti delle esperienze di
separazioni dolorosi, traumatici e la perdita del valore del sé porteranno spesso in età adulta
all’alcolismo e alla tossicomania. (Prescott, 1980).
Da 36 mesi a 6 anni il bambino svilupperà un io sociale tramite il confronto con gli altri. Se le
difficoltà riguardano questa fase, invece, il bambino svilupperà un concetto negativo di sé ed avrà
difficoltà a trovare un ruolo ed un’identità sociale adeguati, ma risponderà all’attenzione e
all’investimento raggiungendo rapidamente uno sviluppo normale. Il bambino avrà paura di perdere
il genitore adottivo o paura della sua eventuale collera e qualche volta tenderà a punirsi. In questi
casi, comunque, più che di disturbi dell’attaccamento si parla di traumi dell’attaccamento, poiché
questi bambini hanno sviluppato uno stadio di permanenza in cui hanno imparato ad investire
affettivamente sulle altre persone.
Questi bambini sono più coscienti dei problemi personali e sono in grado di accettare l’aiuto e la
consolazione a lungo termine.
Le problematiche si possono ravvisare sono quindi:
   –   l’ incapacità di anticipare le situazioni di pericolo e di decidere se un avvenimento o
       un’azione avrà delle conseguenze gravi o minori, poiché il bambino non ha sviluppato il
       senso delle proporzioni, del tempo, dello spazio e dell’emozione.
   –   Difficoltà a distinguere la realtà dalla fantasia o dalle aspettative e i particolari dal tutto.
   –   L’autostima oscilla rapidamente dal sentirsi “superman” al sentirsi “nessuno” (io gonfiato).
   –   Le emozioni sono assolute, non relative (nessun dubbio, colpa, ansia anticipatoria..).
   –   Il bambino non può concentrarsi su alcuna figura o provare sentimenti per molto tempo, ha
       una percezione unidimensionale dello stesso oggetto. Egli ha pochi ricordi di sentimenti o
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       eventi.
   –   Non ha un punto di vista personale ma, come una spugna, assorbe e poi imita qualsiasi cosa,
       ripetendola “come un pappagallo”, senza averla assorbita.
   –   Il bambino distingue con difficoltà un adulto dall’altro, fatica a ricordare nomi, facce,
       emozioni condivise o eventi.
   –   Difficoltà di riorganizzazione, cioè il bambino con DA si mostra rigido ed inflessibile,
       incapace di gestire i cambiamenti, di avere più punti di vista o di applicare alle cose il
       proprio punto di vista. Solitamente mette a punto un piccolo numero di strategie
       comportamentali primitive e le usa per risolvere i problemi, anche nei casi in cui dovesse
       fallire nel raggiungimento degli scopi o nella produzione degli esiti desiderati.
       L’aumentata complessità di un compito, quindi, si tradurrà in un aumento del rischio di
       fallimento, inoltre è in grado di gestire solo una relazione diadica, ma non di gruppo.
Stadio 5: organizzazione sociale
Alla fine il bambino comincia a comprendere ed esplorare un problema più complesso: le relazioni
tra me e gli altri. Il bambino non deve soltanto imparare a conoscere la propria posizione, i suoi
sentimenti e le sue intenzioni in ogni momento, ma deve anche imparare ad adattarsi e ad
incorporare quelli che cambiano negli altri. Si sviluppa così la “permanenza sociale”, cioè la
capacità di interagire e mantenere i propri limiti, senza perdere la propria identità personale.
Come precedentemente affermato, ciò non avviene nel bambino con disturbi dell’attaccamento,
soprattutto se nel primo anno di vita non ha avuto le stimolazioni utili allo sviluppo del sistema
limbico ed esperienze di relazione con la madre atte a promuove lo sviluppo di una modalità di
reazione affettiva adeguata da parte del bambino.
E’ opportuno sottolineare che questi stadi si sviluppano in modo pressoché simultaneo, anche se
dato che zone del cervello differenti si attivano ad età diverse, alcune attività stimolano meglio lo
sviluppo in determinate età.
E’ importante tenere presenti tali stadi poiché nel momento in cui è sotto pressione il bambino con
disturbi dell’attaccamento reagisce spesso con la regressione, oppure mostra problemi di sviluppo
discontinuo. In particolare le maggiori difficoltà emergono a livello emotivo-affettivo e nel contatto
sociale (le cause di tali carenze sono, secondo Rygaud ricercabili ai livelli di sviluppo inferiori,
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poichè il comportamento sociale è il più complesso di tutti ed è dovuto allo sviluppo del sistema
limbico e della neo-corteccia).
Anche altre ricerche hanno messo in luce che ci sono molte evidenze che legano l’adozione
all’aumento di rischio di sviluppare problemi di relazione interpersonale. In effetti i temi della
perdita sono inerenti alla relazione e centrali nell’esperienza adottiva: gli adottati hanno perso i
propri genitori naturali e, più in generale, il senso di essere biologicamente legati ad un altro
significativo (Brodzinsky, 1990; Jones, 1997; Schechter & Bertocci, 1990), c’è di più: è uno “stato
di perdita” associato all’essere diversi (Brodzinsky). Inoltre nei casi in cui i tentativi di
ricongiungimento con i genitori naturali sono difficili o falliscono, gli adottati possono esperire un
ulteriore perdita e rifiuto.
Un attaccamento inadeguato è molto costoso sia per gli individui che per il servizio pubblico,
nonché per l’intera società. Gli studi sulle “esperienze negative durante l’infanzia” indicano che il
benessere fisico e psicologico, nonché le maggiori cause di mortalità, sono correlate ai primi
attaccamenti disfunzionali.
I bambini il cui attaccamento è vulnerabile hanno un maggiore rischio di sviluppare:
1. problemi di salute mentale
2. genitorialità precoce
3. abuso di sostanze
4. disoccupazione
5. coinvolgimento in crimini come vittime o perpetratori. (Rees, 2008).
Inoltre i bambini traumatizzati sono spesso sopraffatti dai traumi subiti e hanno modificato la loro
personalità perdendo la fiducia di base; conseguentemente hanno elaborato modelli mentali che li
portano a premesse invalidanti, quali:
• è certo che io non valgo niente;
• posso sicuramente aspettarmi che gli altri mi faranno del male, specie se mi sono vicini.
Da ciò derivano criteri di comportamento che vorrebbero essere modi per difendersi o per
conservare il controllo di sé:
• meglio attaccare che essere attaccato;
• prima di essere cacciato mi farò cacciare.
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Occorre dunque conoscere i vissuti del bambino post-traumatico e i suoi funzionamenti, nonché
fornire un valido sostegno ai genitori adottivi che si trovano spesso a confrontarsi con bambini che
esprimono rabbia ed aggressività proprio nei loro confronti.

2.2. E’ già tutto scritto?
Secondo vari autori, i giochi dello sviluppo non si esauriscono entro i primi due anni di vita (il così
detto periodo sensibile per quanto attiene agli eventi psicodinamici), ma proseguono nel tempo e
sottolineano    l’importanza   delle   relazioni   successive   e   non     solo   di   quelle   precoci.
Un modello di riferimento in questa direzione è quello evolutivo dove l’identificazione di fattori di
rischio relativi alle precoci esperienze del bambino e non solo il processo adottivo in sé
determinano esiti diversi nella storia dell’adottato in una prospettiva bio – psico – sociale (Mazzei
E. et coll., 2006).
Anche Bowlby sottolineava che ci sono più linee o rami nell’infinita varietà delle cose (c’è grande
diversità nella normalità), da un ramo principale viene permesso una ampio numero di possibili
risultati a causa delle successive ramificazioni (multifinaltà). Seguire una direzione anche iniziale
non determina il risultato finale, ma dà solo inizio ad un set di possibilità. D’altra parte Rees (2008)
sottolinea che, come per un muro, le fondamenta sono importanti qualunque cosa venga poi
aggiunto successivamente. Un robusto piano alto può compensare solo parzialmente delle deboli
fondamenta, la vulnerabilità persiste, in particolare sotto stress e esperienze successive costruiscono
sopra, ma non sostituiscono le percezioni derivate dalle prime relazioni.
All’interno di questa importante domanda possiamo se non altro individuare oltre ai già citati
Fattori di rischio prenatali (stress materno in gravidanza, cure pre e perinatali inadeguate,
malnutrizione o infezioni della madre in gravidanza, abuso di alcool o droghe) e Fattori di rischio
postnatali ( malnutrizione e malattie, accudimento discontinuo, ripetute esperienze di separazione e
perdita, scarsa qualità delle relazioni adulto – bambino, livello e durata di condizioni di
deprivazione affettiva e di ipostimolazione, abuso, maltrattamento, grave trascuratezza), anche
alcuni fattori protettivi quali: le caratteristiche temperamentali ovvero le “modalità di sperimentare
ed esprimere emozioni e di interagire con le figure di accudimento, prodotto della continua
interazione delle caratteristiche endogene del bambino e l’ambiente” (Muratori, 2005 ) e la
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resilienza che (in fisica descrive la proprietà dei materiali di resistere agli urti senza spezzarsi) fa
capo a quei fattori individuali, costituzionali ed appunto temperamentali che rendono alcuni
bambini particolarmente capaci di resistere ai fattori di rischio e far fruttare al massimo i fattori
protettivi anche modesti, che comunque non sono mai assenti del tutto.
In questa ottica le ricerche e la letteratura relativa alla “resilienza” (Cyrulnik, 2001) ci mostrano
chiaramente che se è vero che l’aver vissuto esperienze svantaggiose e/o traumatiche costituisce un
indubbio fattore di rischio per lo sviluppo psicofisico dell’individuo, è altrettanto vero che la
maggioranza di coloro che sono reduci da esperienze di questo tipo riesce comunque a raggiungere
un equilibrio e un funzionamento adeguati (Rutter, 1993).
Un altro fattore da non sottovalutare sono le caratteristiche della famiglia adottiva alla quale spetta
una funzione cosiddetta “ripartiva”, alcuni studi hanno messo in evidenza come nella relazione con
dei genitori adottivi che hanno una capacità ben sviluppata di mentalizzazione i bambini possono
velocemente scoprire che gli errori e le rotture relazionali,e le emozioni negative che ne seguono,
sono prontamente alleviate e riparate, sviluppando così l’aspettativa che sia possibile mantenere dei
legami affettivi stabili (Steele et al., 2010). Viene quindi sottolineato che la capacità di mentalizzare
può essere trasmessa dai genitori ai propri figli adottivi.
Uno studio che appare molto importante, in quest’ottica è quello di Steele e collaboratori (2010),
poiché si riferisce a bambini adottati in età compresa tra i 4 e i 6 anni (fascia molto comune nelle
adozioni anche qui in Italia), e sottolinea come i modelli operativi interni possono modificarsi
tramite una relazione con nuovi genitori accoglienti e comprensivi. I modelli impoveriti del
bambino possono, così acquisire le caratteristiche di una rappresentazione di sé organizzata e sicura.
D’altra parte l’arrivo e la successiva integrazione del figlio adottivo nella famiglia, determina da
parte di ognuno degli adulti che precedentemente si erano organizzati come coppia o famiglia, una
modificazione del proprio modello di relazione interno, delle dinamiche affettivo-relazionali con il
coniuge (e con altri componenti del nucleo familiare, se presenti), e che si realizzino tutti quei
cambiamenti che comporta il passare dall’essere coppia all’essere coppia genitoriale e famiglia.
Questo processo, che rappresenta un passaggio del ciclo di vita, necessita di un’attivazione in
ognuna delle persone coinvolte del proprio patrimonio affettivo.
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Se centriamo la nostra attenzione sulla formazione di questo nuovo rapporto familiare, dobbiamo
considerare che lo stesso attiva nei genitori adottivi istanze adulte ma anche ri-attiva in loro conflitti
infantili e adolescenziali non sufficientemente elaborati.
Dal momento nel quale una coppia si attiva dando avvio al progetto dell’adozione (durante il tempo
della valutazione in merito all’idoneità e durante tutto il tempo dell’attesa), comincia a crearsi nella
mente di ogni partner e nell’area condivisa del “noi” – area specifica della relazione di coppia – uno
spazio per il bambino che sperano possa arrivare come loro figlio. Questo spazio, è popolato di
desideri, fantasie, aspettative, rappresentazioni mentali e gradualmente cominciano a sorgere nel
mondo interno degli adulti cambiamenti che incidono a livello strutturale in ognuno dei futuri
genitori: rappresentazioni del proprio figlio, di se stessi come padre/madre, così come a livello
sociale. Questo processo interno, costituisce una preparazione, una sorta di allenamento personale e
di coppia, in funzione dell’arrivo del bambino reale. Se durante questa preparazione prevale una
mobilizzazione creatrice, flessibilità e una capacità di accogliere i propri cambiamenti in modo
armonico, possiamo prevedere che al suo arrivo, il bambino troverà uno spazio relazionale nel quale
situarsi, adulti disponibili ad accoglierlo come è, con la propria storia, con le proprie risorse e limiti,
con le sue necessità.
La famiglia potrà porre a sua disposizione ciò di cui necessita per contenerlo e aiutarlo a riprendere
il proprio percorso evolutivo.
Quando i bambini adottivi trovano genitori che non hanno elaborato sufficientemente separazioni,
perdite, lutti, la sofferenza presente nei bambini può riattivare il dolore di questi adulti.

2.3. L’elaborazione del lutto
Il termine “lutto” è usato per indicare una gamma molto ampia di processi psicologici innescati
dalla perdita a prescindere dal suo esito finale.
Nel 1960 Anna Freud ridefinisce il lutto: «Trauerarbeit […] in senso psicoanalitico, vuol dire per
noi lo sforzo individuale per accettare un fatto del mondo esterno (la perdita di un oggetto di
investimento) e per effettuare dei cambiamenti corrispondenti nel mondo interno».
Bowlby definisce un lutto sano lo sforzo coronato dal successo di un individuo per accettare sia il
fatto che è avvenuto un cambiamento nel suo mondo esterno, sia che è necessario che egli stesso
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operi dei cambiamenti corrispondenti nel mondo interno delle sue rappresentazioni.
Quando un bambino va in adozione e non è neonato, necessita di elaborare (con gli strumenti che
possiede secondo il suo livello di sviluppo) la separazione dall’ambiente nel quale ha vissuto fino al
suo incontro con la famiglia adottiva; ha bisogno di metabolizzare la perdita di quelle persone per
lui significative: educatori, famiglia affidataria, assistenti istituzionali ecc., così come la separazione
da altri bambini con i quali aveva stabilito relazioni intense (bambini con i quali aveva condiviso
giochi, stanze e talvolta anche lo stesso letto ecc.).
Per i genitori adottivi, invece, il lutto riguarda la perdita della relazione esclusiva di coppia, la
perdita dei ritmi quotidiani che l’arrivo del bambino propone ma, soprattutto, la perdita del figlio
immaginario (figlio del desiderio) per lasciare pian piano il posto a quello reale.
Alcune ricerche realizzate in Spagna su un campione di oltre 300 bambini adottati, suddivisi per
gruppi d’età e per grado di ritardo di sviluppo, hanno evidenziato che tanto i bambini che
presentavano un ritardo psicofisico lieve, quanto quelli per i quali questo ritardo era medio e quelli
maggiormente compromessi mostravano un significativo miglioramento della loro situazione fisica,
affettiva e cognitiva nei primi due anni dopo il loro arrivo in famiglia. In seguito il loro sviluppo
continuava mantenendo però lo stesso scarto riguardo al gruppo di controllo dei bambini non
adottati.
Nell’adozione si verificano sempre dei cambiamenti propri della dimensione emozionale di tutti i
componenti della famiglia: possono essere di tipo evolutivo oppure presentare aspetti conflittuali
che possono rendere difficile o essere di ostacolo al processo di filiazione.
Risulta perciò importante, nell’arco di tempo indicato dei due anni (tempo di elaborazione del
lutto), realizzare una valutazione precoce in termini di risorse e limiti che consenta di comprendere
quali capacità possiede la famiglia per affrontare le difficoltà che man mano emergono, oppure se si
stia delineando la comparsa di una relazione di tipo patologico, che potrebbe concludersi con il
fallimento della relazione adottiva.
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2.4. Il periodo dell’adolescenza
Nelle storie di adozione il processo di separazione adolescenziale può riportare in superficie nel
ragazzo angosce abbandoniche non risolte e nei genitori le difficoltà legate al processo di
riconoscimento e di appartenenza. Possibili comportamenti di provocazione e di sfida.
Si può assistere da parte del ragazzo a movimenti di oscillazione verso l’estero tra posizioni in
progresso ed aspetti regressivi che possono determinare una condizione conflittuale che alimenta lo
stato d’ansia e le problematiche comportamentali e di conseguenza le reazioni di insofferenza
intrafamiliari.
I genitori devono confrontarsi con una immagine nuova del figlio che fanno fatica a riconoscere.
Possibili reazioni di intolleranza rinforzano i timori o le fantasie del figlio legate al processo
adottivo e possono nascere o rinascere nei genitori vissuti di fallimento e angoscia nel chiedersi
quanto nei comportamenti del figlio è riferibile al suo passato e quanto alle problematiche legate al
processo adottivo.
La tenuta del legame di coppia è messa fortemente in gioco e si possono verificare reazioni in cui i
genitori si coalizzano “difendendosi” dal dolore che scaturisce nella relazione con il figlio ad altre
in cui salta il legame in una dinamica di attribuzione reciproca di colpe: ovviamente questo è molto
legato anche al modo con cui la coppia è giunta alla scelta adottiva, la discrepanza di posizioni
rispetto a questa e l’eventuale squilibrio nelle motivazioni.

3. Sostegno alla famiglia adottiva
Cos’è l’adozione?
Per costruire un buon modello di sostegno psicosociale all’adozione dobbiamo innanzitutto
condividere cosa rappresenta. La metafora del “trapianto” pare essere utile nell’evocare la
complessità dell’operazione, la molteplicità di variabili in gioco e i rischi di “rigetto”. Di questa
metafora l’aspetto forse più centrato è quello che enfatizza la valenza riparativa dell’adozione, che
deve rispondere al fondamentale bisogno di un bambino di stabilire delle adeguate relazioni di
attaccamento e ricevere il “nutrimento” necessario alla sua crescita.
A questo proposito l’adozione si presenta come un fenomeno “anomalo”, di difficile classificazione.
Essa, infatti, viene frequentemente considerata una condizione di svantaggio “patologica”, con
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caratteristiche proprie (Chiti, 2010).
Alla base di questa accezione vi è un pensiero in parte corretto e in parte scorretto.
La parte corretta è relativa al fatto che, come ampiamente evidenziato dalla letteratura in materia
(Brodzinsky & Palacios, 2005), i soggetti adottati hanno mediamente maggiori difficoltà dei loro
coetanei non adottati (biologici). Quindi, da questo punto di vista, pensare l’adozione come a una
condizione problematica è più che ragionevole. La parte scorretta consiste nel fatto che l’adozione
non rappresenta una categoria nosografica definita, con le sue caratteristiche e la sua evoluzione nel
tempo, bensì un “contenitore” all’interno del quale possiamo trovare contenuti molto diversi, in
quantità e qualità, lungo un continuum che va da gravi condizioni post-traumatiche a una situazione
complessivamente nella norma.
In altre parole, si tratta di aver chiaro che l’essere adottivi (genitori e bambini) può comportare
condizioni di funzionamento, e quindi “bisogni di sostegno”, radicalmente diversi l’uno dall’altro.
Tale diversità è ravvisabile sia nelle condizioni di partenza, sia nell’evoluzione nel tempo. Ne
consegue che si devono distinguere due dimensioni di sostegno fondamentali: una, “standard”,
riferibile a temi comuni a tutte le adozioni, motivata dal fatto che tutte le famiglie adottive debbono
confrontarsi        con    taluni     argomenti      complessi       e    quindi     non       possono      non
avere bisogno di aiuto; l’altra, specifica per ciascuna famiglia, costruita sulla base della situazione
che la caratterizza e dei bisogni ravvisati.
Pertanto, un modello di intervento efficace ed efficiente deve essere organizzato in modo tale da
essere flessibile e saper calibrare, in qualità e quantità, il sostegno sulla base delle reali esigenze di
ciascun nucleo familiare.

3.1. I Gruppi post-adottivi.
Alla luce delle difficoltà e dei fattori di rischio che presenta il percorso adottivo, negli ultimi anni è
aumentato      il   sostegno    fornito    alle   coppie    che    decidono    di   adottare    un    bambino.
Tale percorso implica sia il far frequentare dei corsi pre-adottivi che forniscono già delle
informazioni alle coppie sui rischi e le difficoltà che incontreranno con propri futuri figli, ormai
chiamati    bambini       con   special    needs,   sia    il   fornire   un   supporto    dopo      l’adozione.
Nel post adozione oltre che a interventi mirati per le specifiche famiglie, un ulteriore strumento a
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cui ci si può rivolgere sono i gruppi post-adottivi per i genitori che hanno luogo una volta al mese
per circa due ore ed all’interno dei quali i genitori possono trovare sostegno, condividere le
problematiche e confrontarsi. Parallelamente a questi gruppi di genitori anche i figli adottivi
partecipano al proprio gruppo, alla presenza di due educatrici ed una psicologa.
Questa modalità di sostegno ha varie caratteristiche degne di nota. Innanzitutto per i bambini,
partecipare alle attività di gruppo con altri bambini adottati, con esperienze simili, permette di
percepire la propria realtà adottiva non più come unica, ma come possibilità di condivisione.
Contemporaneamente i genitori adottivi hanno la possibilità di partecipare a un gruppo condotto da
professionisti che aiutano loro a comprendere ciò che talvolta risulta di difficile lettura e hanno la
possibilità attraverso le identificazioni crociate di percepire le proprie ansietà come meno
pericolose.
Inoltre l’attivazione di gruppi paralleli di genitori e figli, alla presenza di un osservatore nel gruppo
dei figli e di osservatori pure nel gruppo dei genitori consente una miglior comprensione delle
dinamiche interattive in seno a ogni singola famiglia.
Nella metodologia specifica, dopo le due ore di lavoro con i genitori e parallelamente con i figli, i
professionisti di entrambi i gruppi si trovano a confrontarsi sul materiale raccolto sistematizzando
quanto è emerso per ogni singolo gruppo familiare. Questi aspetti consentono una miglior lettura
nell’incontro successivo delle comunicazioni che emergono e possono favorire una maggior
possibilità di discriminazione sulle differenti situazioni di rischio così da poter implementare
l’intervento anche con altre metodologie specifiche per le famiglie più a rischio.
Dal mio punto di vista, inoltre, l’utilità di tali gruppi risiede in particolar modo nella condivisione
da parte dei genitori delle proprie difficoltà, ma anche delle risorse e delle strategie messe in atto
con i propri figli, che li aiuta a non sentirsi soli in questo difficile percorso e a vedere che vi sono
delle speranze di cambiamento. In particolare nella mia esperienza, il gruppo agisce come
facilitatore di verbalizzazioni di problematiche e difficoltà; alla dimensione di condivisione spazio-
temporale dell’esperienza adottiva, nella maggior parte dei casi si unisce la condivisione
dell’esperienza di non aver potuto procreare e ciò favorisce i movimenti identificatori tra i
partecipanti al gruppo.
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