Attaccamenti e legami: gli altri animali tra affetto e opportunismo

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Attaccamenti e legami:
              gli altri animali tra affetto e opportunismo
                                     ELENA CARLONI

Etologia del rapporto materno-infantile: come tutto ebbe inizio

         L’etologia si è precocemente occupata della relazione genitori-prole, in
particolare fin dai primissimi studi sull’imprinting (Lorenz, 1935), che hanno messo in
evidenza come – grazie all’esistenza di un «periodo critico» nelle prime fasi di sviluppo
ontogenetico – i piccoli delle specie con prole dipendente apprendono in maniera
facilitata informazioni chiave sui comportamenti più rilevanti: l’esempio più noto
riguarda il canto tipico della specie per gli uccelli canori (Thorpe, 1961 e 1963). Sebbene
molti aspetti del concetto di imprinting siano stati poi drasticamente ridimensionati – ad
esempio la sua supposta rigidità e brevità, e l’immodificabilità dei comportamenti così
appresi, con il concetto di «periodo critico» sostituito da quello di «periodo sensibile»
(Clarke e Clarke, 1976), restano tuttavia valide le osservazioni sulla speciale attenzione
che i piccoli rivolgono alla madre – o, nel caso di specie con cure biparentali, ad entrambi
i genitori – e alla conseguente facilitazione dell’apprendimento durante – appunto – il
cosiddetto «periodo sensibile» (Bateson, 1979). Si è dunque scoperto che il fattore chiave
di questo fenomeno è proprio l’attenzione esclusiva nei confronti del primary caretaker –
il fornitore primario di cure di Bowlby (1969), che è tanto più intensa quanto più il
fornitore di cure è filogeneticamente vicino al piccolo. Quindi: la madre naturale
costituisce l’oggetto privilegiato di attenzione, un genitore adottivo anche eterospecifico
(Lorenz in veste di mamma oca) può sostituirla, ma l’attenzione che riceve – e il
conseguente successo nell’apprendimento che il piccolo ne ricava – decrescono
all’aumentare della diversità somatica e comportamentale del caretaker col piccolo.
         Gli sviluppi del rapporto che il piccolo intrattiene con la madre nelle fasi
successive dell’accrescimento hanno ricevuto un’attenzione più discontinua e
frammentaria, in parte per la maggiore difficoltà che l’indagine stessa pone, difficoltà che
aumenta esponenzialmente all’aumentare della complessità dei sistemi comportamentali
coinvolti e, in parte, per la grande diversità che intercorre a tal riguardo tra le specie.
         Se, infatti, le cure precoci non differiscono di molto (nutrimento, contatto,
contenimento, protezione) e il rapporto sembra limitarsi per lo più a scambi «immediati»
di stimolo-risposta (riconoscimento della madre e degli stimoli specifici da essa proposti,
e risposta a questi ultimi, oppure adeguata stimolazione della madre da parte del piccolo;
riconoscimento individuale e lettura dei bisogni espressi dal piccolo, risposta alle sue
richieste oppure offerta di stimoli da parte della madre), col tempo il piccolo inizia a
rispondere alla madre in quanto individuo nell’ambito di una relazione diadica che
coinvolge molto più che stimoli specie-specifici. Si apre così uno scenario nuovo, in cui
due personalità distinte comunicano in maniera via via più ricca e complessa, in base alla
crescente esperienza reciproca, all’evolversi -con lo sviluppo- della mente, della

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personalità e dell’organismo del piccolo, e al mutare delle necessità fisiologiche di
entrambi, il tutto all’interno della cornice costituita dalle costrizioni imposte dal fardello
filogenetico, dalle peculiarità specie-specifiche e, non ultime, dalle mutevoli condizioni
socio-ecologiche. Il repertorio comportamentale stesso è mutevole, in quanto dotato di
sistemi di reazione che interagiscono tra loro in modi diversi e con componenti diverse
che si influenzano vicendevolmente in modi diversi (Hinde, 1982a).
        È dunque più facile esaminare questa relazione così complessa e mutevole in
termini universali ed economici, ad esempio valutando il conflitto (Trivers, 1973), ma
anche la coincidenza (Altmann, 1980), di interessi tra genitori e prole con modelli che
quantificano in termini di fitness inclusiva (Hamilton, 1964) il fine bilanciamento tra costi
e benefici che caratterizza l’investimento parentale: tra figli che sono selezionati per
chiedere più di quanto ai genitori sia conveniente dare e genitori che invece sono
selezionati per dare solo quanto necessario alla prole per crescere e riprodursi con
successo, senza però togliere da ciò che potrebbe essere dato alla propria ulteriore futura
prole.
        Altrettanto utile è studiare l’ecologia delle cure materne: come queste rispondano
al variare delle disponibilità ambientali e con il contesto sociale (Altmann, 1980;
Maestripieri, 1994a e 1994b).
        Oppure esplorare aspetti peculiari della relazione, riscontrabili in specie diverse,
così da poterli studiare con metodo comparativo: ad esempio, l’insegnamento vs
l’apprendimento per facilitazione sociale, esaminato nel gatto domestico (Chesler, 1969),
ma anche nello scimpanzè (Boesch, 1991) e in altre specie (Caro e Hauser, 1992).
        O ancora analizzare altri parametri circoscritti, ad esempio della relazione
madre-gattino: lo sviluppo di comportamenti pro-sociali e affiliativi (Moelk, 1979), il
rapporto con la madre e l’apprendimento (Wilson et al., 1965), le conseguenze dello
svezzamento (Tan e Counsilman, 1985) o della separazione dalla madre (Bateson e
Young, 1981) o della interruzione o riduzione della lattazione (Bateson et al., 1981 e
1990; rassegna in: Martin e Bateson, 1988; Deag et al., 2000).
        I roditori (topi, ratti, criceti e gerbilli) sono stati e sono tutt’ora molto utilizzati in
laboratorio per esplorare i meccanismi che sottendono ai diversi parametri della relazione
madre-prole: trasmettitori neuroendocrini, comunicazione feromonale, risposte
cardio-respiratorie ed endocrine etc.; recentemente, la creazione di ceppi di topi
geneticamente modificati ha permesso di spingere ancora oltre il livello di indagine.
        Infine, la complessità della relazione madre-figlio è ancor meglio – seppure solo
suggestivamente – illustrata dagli aneddoti, pur con tutte le limitazioni metodologiche del
caso: molto note le osservazioni della Goodall sugli scimpanzè in natura relative alle
conseguenze deleterie dell’anomala persistenza della dipendenza infantile nel quadro di
un legame patologicamente intenso ed esclusivo (Goodall, 1986). Così, gli apporti di tutti
gli studi compiuti sui vari aspetti della relazione, anche in specie diverse, finiscono col
costituire tante tessere del mosaico generale che ci permette di iniziare a intravvedere
cos’è, come è regolato e come si sviluppa questo primo e fondativo rapporto sociale
(Hauser et al., 1992). Una esperienza che si traduce nella predisposizione alla socialità,
che può poi effettivamente evolversi in funzione delle condizioni socio-ecologiche, ma
che sembra essere presente in tutte le specie che hanno ricevuto cure parentali
nell’infanzia (Ethologische Gesellschaft Meeting, 2007).

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L’etologia all’intersezione con la psicologia dello sviluppo

        Un giusto vanto dell’etologia è l’influenza avuta dagli studi compiuti da Hinde sui
piccoli di macaca Rhesus (Hinde, 1977) sulle pratiche ospedaliere britanniche nei reparti
pediatrici, riguardo alle regole di ospedalizzazione e ai diritti di visita dei genitori. Infatti,
questo autore aveva dimostrato che, per alcuni individui, gli effetti di periodi anche brevi
di separazione dalla madre potevano persistere per anni.
        Anche altri risultati di studi sul comportamento animale, soprattutto – ma non solo
– di primati non umani, hanno avuto notevole risonanza in psichiatria e neuropsichiatria
infantile: i lavori degli Harlow (Harlow e Harlow, 1965) hanno chiarito che il piccolo non
è strettamente condizionato ad amare chiunque lo nutra, e che i piccoli allevati in
isolamento – e ancor peggio in deprivazione sensoriale – sviluppano comportamenti
psicotici, parzialmente remissibili con opportuna riabilitazione (Dunn, 1976; Harlow e
Zimmerman, 1959; Suomi e Harlow, 1972, 1975, 1977; Suomi et al., 1974; rassegna in:
Suomi e Harlow, 1978a e 1978b). Il lavoro di Kaufman e Rosenblum (1967) che
mostrava la disperazione dei piccoli di Macaca nemestrina separati dalla madre, ha dato
il via all’uso di modelli animali della depressione umana (Suomi, 1982), e non va
dimenticato l’apporto dei Tinbergen allo studio dell’autismo (Tinbergen e Tinbergen,
1972). L’indagine sulle conseguenze della separazione precoce dalla madre si è spinta
ancora oltre, dimostrando quanto la reazione del piccolo dipenda dalla sua personalità e
dalle sue precedenti esperienze d’interazione con la madre, cioè – in ultima analisi – dallo
stile materno, restrittivo/ansioso o permissivo/rilassato (Dolhinow, 1980; Dolhinow e
DeMay, 1982; Suomi e Ripp, 1983). E ancora, quanto altro, i.e. il contesto sociale,
influisca sulle modalità del rapporto materno-infantile e sugli esiti delle separazioni
(Nadler, 1980; Dolhinow e DeMay, 1982); e infine quanto varie possano essere le
conseguenze in specie diverse seppur filogeneticamente assai prossime (Sackett et al.,
1981).
        Dunque, l’interesse dell’etologia per le fasi iniziali della vita, nonché per la
relazione che il piccolo sviluppa con la madre o entrambi i genitori durante questo
periodo, ha avuto proficue ricadute in ambiti diversi. Sebbene, infatti, la relazione con la
madre evolva nel tempo, e nelle specie sociali e per il sesso filopatrico anche per tutta la
vita (evidenze aneddotiche in scimpanzè e bonobos, elefanti e orche, leoni etc. e nei
gorilla con il padre; Goodall, 1971; Pusey, 1983) è sicuramente la primissima fase, che ha
corso nell’infanzia, la più interessante e la più studiata.
        È stato questo, infatti, l’ambito più indicato per apportare dati e argomenti al
dibattito «nature vs nurture», ma anche per valutare l’elasticità del comportamento, e
verificare l’esistenza di controlli centrali (regolazione del comportamento) capaci di
indirizzare e ri-indirizzare lo sviluppo (Bateson, 1976).
        L’osservazione dei rapporti materno-infantili è stata altrettanto utile per indagare
il potere correttivo dei rapporti diadici, ad esempio quando la madre risponde con un
aumento di cure alle accresciute richieste di contatto e rassicurazione dei piccoli dopo
separazione, quantificandone le potenzialità (Hinde, 1974) e valutando i fattori che lo
modulano (rassegna ed estensioni di dati relativi agli umani in: Sameroff, 1975; Sameroff
e Chandler, 1975; Quinton e Rutter, 1976).
        Prevalentemente sui primati non umani, sono stati fatti anche svariati tentativi di
gettare luce sulla genesi e le caratteristiche degli stili materni abusivi e sul maggiore
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attaccamento che induce una madre rifiutante (Harlow e Harlow, 1965; rassegna in:
Rajecki et al., 1979; Troisi et al., 1982; Troisi e D’Amato, 1983, 1984, 1991, 1994),
nonché sui meccanismi trans-generazionali di trasmissione dello stile materno, abusivo e
non (Hiraiwa, 1981; Suomi e Ripp, 1983; Troisi et al., 1989; Berman, 1990). Più
recentemente le ricerche sono state estese all’influenza di altre figure d’attaccamento, ad
esempio è stato evidenziato il ruolo paterno nello sviluppo vocale dei piccoli di alcuni
primati attraverso il balbettamento (Elowson et al., 1998; Hauser, 1998).
        Tuttavia, il contributo più noto – sebbene indiretto – dell’etologia all’analisi della
relazione madre-figlio riguarda la Teoria dell’Attaccamento. La psicologia dello sviluppo,
alla metà del secolo scorso, faceva un uso acritico di concetti mal definiti, come
aggressione, attaccamento, ansia etc. (Hinde, 1982a). In questo quadro, Bowlby (1969)
introdusse nella sua trattazione teorica del rapporto materno infantile teorizzazioni,
scoperte e concetti etologici, mentre nello stesso periodo Blurton-Jones (1972) – forse più
proficuamente e, sicuramente incontrando minori critiche, si avvalse dei metodi
dell’etologia per lo studio dell’infanzia.
        Tra altri influssi, provenienti da altre discipline, centrale nella teorizzazione di
Bowlby è l’incorporazione di scoperte dell’etologia: il «periodo sensibile», la risposta a
stimoli adeguati via via più selettiva, il ruolo attivo del piccolo nel rapporto con la madre,
l’evidenza del ruolo dell’evoluzione nella genesi dei comportamenti infantili, il
riconoscimento di aspetti comuni interspecifici nel rapporto genitori-prole.
        Tra i comportamenti, epimeletici e di altra natura, che il bambino rivolge al
genitore, per manipolarlo, Bowlby si focalizzò su quelli capaci di promuovere la
prossimità, riconoscendo così l’importanza del contatto, importanza suffragata dai
ritrovamenti di Harlow (Harlow e Zimmerman, 1959; Harlow e Harlow, 1965).
Importanza vitale, dunque, e dunque sicuramente la selezione naturale doveva aver
promosso lo sviluppo di adeguati sistemi comportamentali nel neonato e nell’infante per
ottenere e mantenere il contatto e la prossimità. Basti pensare al contatto oculare e al
sorriso che segnala il riconoscimento del viso materno (Ambrose, 1963); l’omologo del
sorriso sociale nello scimpanzè è la «faccia da gioco a bocca aperta, o morso inibito»:
benché la madre sia attenta e devota a prescindere dalla reattività del piccolo, è solo
quando emerge questo comportamento (attorno alla VI settimana) che la madre inizia a
prestare attenzione alla faccia del bebé, accarezzandola e investigandone la cavità orale,
iniziando così un gioco alternato e reciproco di mosse e contromosse, palestra per lo
sviluppo delle capacità sociali del piccolo (Plooij, 1979). Consapevole che il grado di
prossimità richiesto dal bambino varia con l’età e le situazioni, sotto l’influenza di fattori
interni ed esterni, e riconoscendo una progressiva integrazione dei singoli comportamenti
favorenti la prossimità in un sistema organizzato gerarchicamente, e dotato di feedback di
controllo, Bowlby ipotizzò l’esistenza – appunto – di un «sistema comportamentale»
(teorizzazione mutuata dall’etologia classica; Hinde, 1982b). Questo sistema sarebbe
sensibile agli input esterni (l’incorporazione di modelli delle figure parentali), in continuo
adeguamento allo sviluppo mentale del piccolo, e costituito da svariati comportamenti di
attaccamento. Questi ultimi sono misurabili con metodi sperimentali, e dunque dalle
teorizzazioni si può passare ad un riscontro basato sui dati, rendendo così
l’«Attaccamento» – aspetto del rapporto continuativo tra il piccolo e la figura di
attaccamento- un concetto riassuntivo, concreto, composto da diversi parametri (i
comportamenti di attaccamento) non sempre necessariamente correlati tra loro, e
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svincolato dal «fardello» delle teorizzazioni (per queste c’è il «sistema
comportamentale», che incorpora un controllo dei e tra i singoli comportamenti) e delle
considerazioni sui meccanismi.
        A questo punto era però necessario concepire un metodo d’indagine che
integrasse le misurazioni dei singoli comportamenti di attaccamento, per valutare e
categorizzare in maniera globale l’Attaccamento. La Ainsworth (Ainsworth et al., 1978;
Ainsworth, 1979) propose il paradigma della strange situation, una serie di test che
seguono un ordine predefinito all’interno di un setting standardizzato. Il comportamento
del bambino durante questi test viene valutato e assegnato a categorie. La predittività del
test, per bambini di età inferiore ai due anni, venne validata dalla correlazione riscontrata
tra i punteggi così ottenuti e i risultati di studi osservazionali longitudinali. Il metodo si è
dunque mostrato capace di individuare caratteristiche durevoli del rapporto, rapporto che
però dipende dalla figura di attaccamento cui si fa riferimento. Infatti, il rapporto del
bambino con la madre è – nel corso dello sviluppo – sempre più soggetto ad influenze
esterne, non ultime quelle derivanti dalle altre relazioni diadiche che il bambino – e la
madre stessa – intrattengono, diverse tra loro in funzione dei diversi partner affettivi.
Dunque, la categorizzazione della Ainsworth è riferita alla relazione e non al bambino, si
limita all’analisi di un rapporto diadico svincolato dalla reale situazione poliadica in cui si
sviluppa il piccolo, e inoltre ha un valore descrittivo ma non genetico.
        Altri sviluppi, successivi, derivanti dall’etologia, si assumono invece proprio
questo compito: individuare le basi evolutive, cioè le cause remote (Huxley, 1942;
Tinbergen, 1963) del comportamento umano. Si tratta della psicologia evolutiva, basata
sull’applicazione delle teorie sociobiologiche (Wilson, 1975) e della Teoria dei Giochi
(Maynard Smith, 1982). Questo approccio si è dimostrato fecondo soprattutto nello
studio della prima infanzia, quando i fattori confondenti – tanto frequenti quando si
esamina il comportamento umano – sono pressoché ininfluenti. Basti qui citare, ad
esempio, l’analisi della scarsa rassomiglianza fisica dei neonati umani ai genitori, che
avrebbe la funzione adattativa di non fornire chiare informazioni sulla effettiva identità
del padre naturale prima che un legame di attaccamento si sia formato col padre «sociale»
(Pagel, 1997), ipotesi corroborata anche da un modello matematico che dimostra come
l’evoluzione premi i neonati dalle facce «anonime», cioè poco rassomiglianti ai loro veri
padri, e gli uomini che credono alla partner quando questa sostiene invece che il piccolo è
tale e quale a loro (Bressan, 2001): tale anonimato incentiverebbe la sopravvivenza
neonatale, eviterebbe ai padri il rischio di rifiutare i propri figli, e avvantaggerebbe i
maschi adulteri. Per le madri il vantaggio è ovvio. Oppure, su un versante affine,
l’identificazione di chi è il vero fruitore dell’orsetto di pezza: le caratteristiche infantili
dell’orsetto non sono scelte dai bambini piccoli ai quali è destinato, ma selezionate dagli
adulti che amano vedere quelle caratteristiche e sono sensibili alla loro attrattività (Morris
et al., 1995). E, soprattutto, è interessante la disamina in questa ottica delle cause
socio-ecologiche dell’abbandono e del maltrattamento (Hausfater e Hrdy, 1984; Gelles e
Lancaster, 1987).

Altri attaccamenti sociali

       L’etologia riconosce diversi tipi di attaccamento sociale, oltre a quello tra un
piccolo e la figura di attaccamento primaria. Questo rapporto, come ben noto e già
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diffusamente descritto, è caratterizzato da una forte dipendenza emotiva nonché
fisiologica e pratica del piccolo, nella misura in cui i suoi bisogni vengono soddisfatti
dalla figura di attaccamento: è quindi una relazione fortemente asimmetrica. È connotato,
inoltre, da comportamenti tesi a promuovere la prossimità con il fornitore di cure, ed è
sostenuto dal sistema della prolattina e da quello dell’ossitocina-arginina-vasopressina,
che agisce su entrambi i partner (Adkins-Regan, 2005; Bielsky et al., 2004; Cushing e
Kramer, 2005; Winslow et al., 2000). Infatti, la rottura della relazione provoca in
entrambi reazioni depressive e lutto, al di là del disagio provocato dall’interruzione delle
cure (Bowlby, 1973 e 1980).
         Le cure alloparentali fornite da conspecifici (o più raramente allospecifici), fino
alla vera e propria adozione, ricalcano lo stesso pattern – anche endocrino – del rapporto
materno-infantile e sono a questo assimilabili e tutt’altro che rare: molte specie
cooperano nell’allevamento dei piccoli in maniera obbligata (Heterocephalus glaber o
ratto-talpa nudo, per restare tra i mammiferi, ma le specie eusociali sono assai più diffuse
in altri taxa) o semi-facoltativa (canidi, erpestidi, tamarini, svariati uccelli etc.), molte
altre allevano comunitariamente i piccoli in determinate situazioni (ad esempio le
leonesse e le gatte); inoltre cure alloparentali variabili per intensità caratterizzano molte
specie sociali (primati: Nicolson, 1987; elefanti, cetacei). Le vere adozioni, però, sono
rare in natura, ma attestate ad esempio tra primati (Dolhinow e DeMay, 1982; Goodall,
1986) e canidi (McNutt, 1996). Un caso particolare, che fonde l’attaccamento materno a
quello fraterno, è la prestazione di cure alloparentali da parte di un fratello o sorella del
piccolo, che può giungere fino alla sostituzione della figura materna quando questa venga
a mancare (Berman, 1983; Dolhinow e DeMay, 1982; Nicolson, 1987; Pusey, 1983). Per
quanto riguarda il substrato endocrino, è stato riscontrato che l’ossitocina promuove
anche le cure alloparentali in entrambi i sessi, aumentando la propensione a prestarle
(Ferguson et al., 2002; Clark e Galef, 2000; Wynne-Edwards, 2001).
         Più in generale, l’attaccamento fraterno può essere intenso nell’infanzia e
adolescenza, ma per la maggior parte delle specie tende a scemare al momento della
dissoluzione dell’associazione. Fanno eccezione quelle specie sociali in cui l’uno o l’altro
sesso, filopatrico più spesso che disperdente, ricava benefici in termini di fitness inclusiva
dalla cooperazione con individui consanguinei, formando coalizioni e alleanze: le iene e
le leonesse, i delfini, i maschi di ghepardi, leoni, licaoni, lupi, manguste nane e scimpanzè,
per citare solo qualche esempio (Caro, 1994; Connor et al., 1992; Creel e Creel, 2002;
Frank, 1986; Frank et al., 1989; Goodall, 1986; Nishida, 1979; Packer e Pusey, 1982 e
1983). Le oche grigie sorelle tendono a mantenere prossimità e supporto sociale anche
quando sono già stabilmente accoppiate (Frigerio et al., 2001). Coalizioni e alleanze
(Harcourt e de Waal, 1992) non sono certamente limitate a fratelli e sorelle, ma anzi
coinvolgono spesso degli individui non imparentati, tuttavia la pre-esistenza di una
relazione di consanguineità e la dimestichezza reciproca dovuta al tempo trascorso
assieme in stretta associazione e in un periodo tanto sensibile ne favoriscono la
formazione. Nelle coalizioni, e ancor più nelle alleanze, si registrano: astensione dagli
scontri competitivi, anche grazie a comportamenti di auto-contenimento, intensi scambi
affiliativi (ad esempio i frequentissimi strofinamenti corporei sociali dei felidi, con
marcatura odorosa reciproca), mantenimento di associazione e prossimità, elevata
tolleranza alla condivisione di risorse, etc. Quindi, i membri di queste associazioni
mostrano molti dei comportamenti riscontrati tipicamente nella diade madre-piccolo (e,
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di fatto, i benefici derivanti dalle alleanze in termini di riduzione dello stress sono simili a
quelli derivanti dal supporto fornito dalla famiglia: Frigerio et al., 2003; Scheiber at al.,
2009), sebbene il grado di interdipendenza sia infinitamente minore, e ristretto alla
facilitazione reciproca nell’acquisizione di risorse. Inoltre si tratta di una relazione
simmetrica. Dunque, i membri di coalizioni e alleanze godono di un vantaggio – variabile
con la specie e le condizioni socio-ecologiche – nel restare coesi, ma non dipendono l’uno
dall’altro sensu stricto, per la sopravvivenza. Anche i rapporti tra i membri di
cooperazioni e alleanze sono favoriti e regolati dall’ossitocina, che promuove la capacità
di distinguere i cooperatori dagli imbroglioni (Ferguson et al., 2002), mentre l’isotocina
sembra indurre comportamenti prosociali (Adkins-Regan, 2005), e l’arginina-
vasopressina aumentare la probabilità di reciprocazione nel ratto (Rutte e Taborsky,
2007; rassegna in: Soares et al., 2010).
         Si inserisce qui il più ampio concetto delle «relazioni di valore» (van Schaik e
Aureli, 2000). Per lo più si tratta di relazioni utili, in termini di mera cooperazione e
opportunismo, e infatti le associazioni con gli individui di alto rango sono attivamente
cercate e valutate, in quanto capaci di innalzare in maniera attiva (con un supporto sociale
attivo nei conflitti) o passiva (la prossimità con un dominante diminuisce le probabilità di
aggressioni ricevute) la posizione gerarchica della controparte, la quale può avvalersene
anche per una scalata sociale. Si contano però anche casi di vere amicizie (Strum, 1987;
Goodall, 1986), che possono anche evolvere da un iniziale dipendenza asimmetrica ad un
rapporto di piena parità: i giovani maschi di babbuino spesso «adottano» piccole femmine
all’età dello svezzamento e le proteggono per anni, quando queste femmine diverranno
adulte più facilmente sceglieranno il loro protettore e amico per riprodursi; i maschi di
Macaca sylvanus e M. thibetana similmente «adottano» per qualche ora del giorno
piccoli che col tempo potrebbero più facilmente divenire spontanei alleati; simili
fenomeni sono stati registrati anche nelle manguste e in altre specie, tra individui dello
stesso o di diverso sesso (Strum, 1987). Va però detto che tra i macachi i piccoli
funzionano da lasciapassare, e vengono usati per cementare i rapporti affiliativi tra
maschi adulti, che – tenendo tipicamente il piccolo tra loro, e «sbaciucchiandolo» – se ne
servono come di un ponte affettivo, uno strumento sociale atto a inibire e tenere basso il
livello di aggressività e indurre una generica predisposizione affinitiva (agonistic
buffering hypothesis: rassegna in Kuester e Paul, 2000).
         Gli studi in natura si sono concentrati sulle amicizie «interessate», sia perché più
frequenti, sia perché più utili per saggiare le ipotesi sull’evoluzione e il controllo della
socialità. Tuttavia non mancano rapporti aneddotici di amicizie disinteressate, basate
presumibilmente solo su affiatamento, consuetudine, solidarietà e lealtà. Vengono
riportate abbastanza frequentemente tra gli animali domestici, che per lo più vivono in
condizioni di competizione rilassata, in quanto foraggiati dall’uomo, ma anche tra i
selvatici in natura (Goodall, 1986).
         Ricordo, in particolare, il caso di un licaone che si trattiene ad allontanare le iene
da una carcassa per permettere ad un vecchio maschio malandato del suo gruppo, col
quale era rimasto indietro rispetto al resto del branco, di mangiare a sazietà, trattenendosi
egli stesso dal consumare la carne. Da quel vecchio maschio il giovane licaone non
poteva aspettarsi molto, ma la cooperazione è così vitale per questa specie che nel branco
ogni individuo ha valore. Se quel giovane maschio avesse però avuto dei cuccioli propri
nel branco, probabilmente non sarebbe stato così generoso col vecchio.
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Un altro esempio, che voglio citare per una sorta di debito personale verso una
scimmia che ho molto ammirato, è quello di Propje. Vecchia femmina, catturata da
piccola in natura in Indonesia, passata attraverso un paio di zoo e approdata infine nella
colonia universitaria di Utrecht negli anni ottanta, era stata a lungo una battagliera
femmina alfa. Poi, con l’invecchiamento e lo sfoltirsi della sua famiglia, base di potere
per una società matrilineare com’è quella dei Macaca fascicularis, aveva via via perso
posizioni. Era tuttavia rispettata e – come capita spesso ai vecchi – «fuori gerarchia».
Conservava un gran carattere che le faceva meritare l’ammirazione degli osservatori.
Aveva mantenuto dai vecchi tempi una speciale affiliazione con un’altrettanto vecchia,
più malandata ma ancora fertile femmina scorbutica, Stompje. Quando questa aveva
inaspettatamente partorito, la prossimità si era fatta più stretta e ricercata attivamente
dalla più dominante Propje, quindi non certamente con secondi fini gerarchici. Propje la
difendeva, senza ricevere alcuna reciprocazione, nei rari casi di aggressione, e le stava
seduta accanto per la maggior parte della giornata. Ad un certo punto il vecchio maschio
dominante, che era stato in ottimi rapporti con tutti, venne sostituito da un più giovane
estraneo. È prassi per i maschi che assumono il controllo di un gruppo tentare di uccidere
i piccoli, soprattutto maschi e soprattutto delle femmine subordinate, per indurle ad un
nuovo estro e poter rimpiazzare i cuccioli di altri maschi con la propria prole. Questo
maschio, Montuur, non fece eccezione e tentò un’aggressione, ferendo solo lievemente
un piccolo: sebbene, infatti, il dimorfismo sessuale sia notevole in questa specie, tuttavia
in uno spazio recintato un gruppo di femmine coese e furiose non è facilmente
affrontabile. Dopo questo primo approccio il maschio, eccitato e inquieto rimase a
camminare nervosamente in un angolo, e le femmine con i piccoli si radunarono
nell’angolo opposto, altrettanto inquiete ma impegnate a toelettarsi vicendevolmente.
Allora Propje prese in mano la situazione: si recò coraggiosamente dal nuovo maschio
(pesava meno di un terzo di lui ed era mezzo sdentata) e presentandoglisi ventralmente (di
norma la presentazione socio-sessuale è di terga) e con espressioni facciali suadenti gli
mostrò amichevolezza, intercedendo così per l’intero gruppo. Montuur, felicissimo di
questa occasione per deporre le armi e poter entrare senza frizioni nel gruppo la montò –
ventralmente – più volte e con entusiasmo. Nelle ore e giorni che seguirono Montuur
ebbe modo di farsi accettare e divenne presto un apprezzato padre – naturale o adottivo.
Propje, però, dopo avergli per prima rivolto delle attenzioni, iniziò quasi subito ad
ignorarlo. Inoltre, Lixa, la grossa femmina dominante, che aveva nel gruppo un figlio
quasi adulto e assai rampante, nonché una folta famiglia di femmine grosse e aggressive,
gli rivolgeva infrequenti e svogliati gesti di deferenza. Per qualche ragione, sicuramente
non sessuale, Montuur decise che si trattava di una situazione intollerabile, un affronto al
suo status, una minaccia: Propje era l’unico individuo del gruppo che non gli dimostrava
deferenza, l’unica femmina che non gli rivolgeva inviti socio-sessuali, nemmeno
pro-forma. Provò un paio di volte a rivolgerle lui delle profferte, che lei ignorò. Allora, un
giorno, Montuur si avvicinò a Stompje e prese a schiacciarla al suolo tenendola giù con
una mano finché lei non iniziò a strillare di paura: non le faceva veramente male, ma la
minacciava e non recepiva i suoi segnali di sottomissione. La stava tormentando e
terrorizzando. L’evento era strano: nessuno si interessava mai alla vecchia, per il maschio
non c’era scopo nel minacciarla, e Montuur non era un animale aggressivo. Inoltre,
mentre schiacciava Stompje al suolo, Montuur fissava Propje all’altro capo del recinto,
con uno sguardo luccicante che sollecitava il contatto oculare ed era allo stesso tempo
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minaccioso. Poiché l’aggressione non terminava (altra stranezza), Propje iniziò a sua
volta a strillare e ad avvicinarsi al maschio, abbozzando una presentazione socio-sessuale
mentre avanzava angosciata. Per un po’ lo affrontò strillando e poi finì col presentarsi
completamente, emettendo nel contempo un suono rotto per l’emozione ma simile alla
vocalizzazione coitale che le femmine emettono quando si accoppiano con, vera o
presunta, soddisfazione. Montuur lasciò immediatamente Stompje, dedicandosi con
fervore a Propje… e tornò la pace. Propje non sembrava per niente contenta: era stata
costretta ad offrirsi al maschio, cioè a prenderlo in considerazione e a sottomettersi, per
salvare l’amica. Nelle settimane seguenti l’evento si ripeté una decina di volte, sempre
uguale: Montuur schiacciava Stompje, questa strillava disperata, l’amica accorreva
agitata cercando di distrarre e rabbonire il maschio, lui lasciava immediatamente andare
Stompje per montare Propje, che sopportava l’umiliazione per amicizia.
        Dopo questa lunghissima digressione, dovuta ad un mio personale attaccamento
per quella notevole femmina, torno sui legami di tipo opportunistico. Tutte le relazioni
affinitive descritte vengono mantenute grazie a prossimità e scambi affiliativi
(toelettatura reciproca: rassegna in Aureli e de Waal, 2000; comportamenti di coesione
come la camminata affiancata o gli strusciamenti; cerimonie di saluto: Colmenares et al.,
2000; Creel e Creel, 2002), scambi di favori (supporto sociale attivo e passivo: rassegna
in Aureli e de Waal, 2000; Scheiber et al., 2005; anche interspecifico: Weiß e Kotrschal,
2004; condivisione delle risorse; etc.). L’allogrooming, in particolare, cioè la toelettatura
sociale- sembra essere moneta di scambio per favori sociali, tanto da aver portato
all’ipotesi del «mercato biologico» (Noë et al., 1991; Noë e Hammerstein, 1994).
        A volte gesti di solidarietà vengono estesi persino a membri di altre truppe o
gruppi (Strum, 1987), e non è chiaro quanta reciprocazione gli attori di questi gesti si
attendano dai beneficiati, ma di solito l’altruismo tende a ripagare bene.
        Un’altra occasione sociale per la formazione di un attaccamento è quella
riproduttiva. L’attaccamento sessuale, o di coppia, è molto diffuso e sebbene si tratti nella
maggior parte dei casi di un legame transitorio (brevi periodi di consortship nelle specie
promiscue o poliginiche/poliandriche, la stagione riproduttiva nella monogamia seriale),
non mancano casi di attaccamento protratto per tutto il corso della vita (vera monogamia).
È questo il caso per svariate specie di uccelli (cigni, corvidi, oche, pappagalli e
parrocchetti etc.), carnivori (soprattutto canidi), primati (tamarini, siamanghi). Anche
questo attaccamento è promosso e mantenuto da ossitocina (promuove il legame di
coppia nelle femmine) e arginina-vasopressina (nei maschi: Clark e Galef, 2000); e si
riscontra coordinazione ormonale nella coppia (Hirschenhauser et al., 1999).
        Si riconosce infine anche un attaccamento al gruppo sociale. Questo tipo di
attaccamento è più blando degli altri, sebbene la sua intensità dipenda strettamente dal
grado di consanguineità interno al gruppo e dal grado di dipendenza dell’individuo da
esso, cioè da quanto la sua sopravvivenza a lungo termine e «viabilità» futura
(opportunità riproduttive di successo) siano determinate dalla coesione all’unità sociale.
Questa può essere pari alla coppia riproduttiva, alla famiglia (genitori e prole: ad esempio
canidi, tamarini), alla famiglia allargata (genitori, prole, prole adulta e altri consanguinei:
canidi, manguste, suricati, tamarini, e tante altre specie), alla famiglia matrifocale
(macachi, babbuini, leoni, elefanti, etc.), al gruppo di maschi consanguinei e non
(scimpanzè), all’harem (gelada, gorilla, equidi), alla truppa a fissione-fusione composta
da più unità (babbuini, storni), al branco gregario (gnu). Tanta varietà di associazione si
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riflette necessariamente in gradi assai diversi di frequenza, qualità e complessità delle
interazioni, e quindi di legame e attaccamento.
         Va poi distinta la gregarietà, cioè la propensione generica e aspecifica a restare in
gruppo, tipica di tanti erbivori per i quali il branco significa soprattutto protezione
antipredatoria, che fa sì che un cavallo o una pecora isolati cerchino di unirsi a qualunque
altro individuo della propria specie o di specie affini: nelle fattorie è facile vedere gruppi
misti di brucatori, asini, vacche e capre che assumono subito la postura affiancata
testa-coda per assicurare una scansione ottimale dell’ambiente mentre sono intenti a
foraggiare. Queste associazioni transitorie ed estemporanee non implicano
necessariamente un legame, quale quello che si forma invece in gruppi coesi e strutturati.
         In conclusione, l’uniformità del substrato ormonale che promuove tutte le forme
di attaccamento, pur nelle inevitabili variazioni sessuali o di specie, suffraga la
convinzione che l’attaccamento appartenga ad un sistema comportamentale stabile, che
di volta in volta agisce su oggetti diversi.

Legami interspecifici

        Ultimo in ordine cronologico, ma probabilmente non tale per il lettore proprietario
di «animali da compagnia», è il legame che si forma tra un animale e il suo compagno
umano. Come già accennato, sebbene siano riscontrabili degli elementi universali
interspecifici, tuttavia le specie differiscono in abilità percettive, interessi, capacità e
modalità di relazione e sviluppo, e sotto molti altri aspetti. Queste differenze
inevitabilmente si riflettono nelle relazioni sociali che gli individui sono in grado di
intessere, con conspecifici ed eterospecifici. A questo punto è necessaria una piccola
digressione metodologica.
        L’orientamento fondamentale dell’etologia, derivante dalle basi evoluzionistiche
della disciplina (Darwin, 1859 e 1872), è di analizzare il comportamento di una specie in
relazione e in funzione della nicchia trofica in cui essa si è evoluta, cioè di ricondurre le
indagini all’ambiente specifico originario che l’ha plasmata. Ne consegue che, quando si
vuole studiare la relazione che un animale domestico sviluppa con i conspecifici o anche
con il compagno umano, è necessario analizzarne il comportamento alla luce del
comportamento sociale della specie ancestrale selvatica – o, in mancanza di questa, della
specie filogeneticamente più prossima – osservata in natura, dove le pressioni selettive e
il peso del fardello filogenetico sono più evidenti e comprensibili, integrando poi queste
osservazioni con l’analisi delle modificazioni eventualmente introdotte dal processo
selettivo di domesticazione e degli adattamenti all’ambiente antropico. Dunque, per
studiare appropriatamente il gatto domestico è necessario non limitarsi alle osservazioni
del gatto di casa, ma esaminare anche il comportamento del selvatico e del domestico
rinselvatichito. Per il cane si analizzeranno cani rinselvatichiti, lupi, sciacalli e altri
canidi; per il cavallo o la vacca –le cui specie ancestrali sono estinte in natura – ci si
rivolge agli altri equidi selvatici, senza trascurare il ricreato cavallo «selvaggio» di
Przewalski, oppure a bovini affini.
        Limitandoci per una esemplificazione a cani, conigli e gatti, l’analisi delle specie
selvatiche ci chiarisce rapidamente non solo quali esigenze ed aspettative sociali abbiano
questi animali, ma anche quale tipo di relazione possiamo aspettarci. Sebbene sia
certamente vero che nessun mammifero è totalmente refrattario ad instaurare rapporti
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affettivi allargati, perché le basi della socialità sono gettate dal rapporto precoce con la
madre, tuttavia un coniglio è selezionato per restare con la madre pochi giorni, mentre un
gatto selvatico non diventa totalmente indipendente prima dei due anni in media, e un
canide sociale non solo dipende a lungo dalla madre o più spesso da entrambi i genitori,
ma – a differenza del gatto – è selezionato per restare nel gruppo-famiglia per anni, vivere
in un gruppo e da esso dipendere.
         Ciò ha delle conseguenze: ad esempio sulla tolleranza alla dipendenza e alla
prossimità che, ricordiamolo, non sono scelte dall’animale ma imposte dall’uomo. Un
altro esito è che, ad esempio, il gatto, non essendo evolutivamente vincolato alla vita di
gruppo da forti pressione ecologiche, tende a sciogliere le associazioni quando non più
proficue (Laundré, 1977; Macdonald et al., 1987), cioè quando i costi della socialità
superano i benefici che ne ricava: quando lo stress sociale diventa eccessivo o… quando
il vicino di casa offre pesce più fresco e un divano più morbido. Perciò il gatto viene
definito (senza connotati morali) un opportunista sociale. In realtà anche per il cane si
tratta di massimizzare i benefici e minimizzare i costi, ma poiché per questa specie la
socialità assicura la sopravvivenza, e la coesione del gruppo è fonte di vantaggi condivisi,
il cane tende tipicamente ad essere «fedele».
         La storia evolutiva più solitaria del gatto fa sì che i suoi segnali sociali siano più
sottili e difficili da cogliere per l’osservatore inesperto (Bradshaw e Cameron-Beaumont,
2000); apparentemente più ambigui perché sovente uno stesso segnale è utilizzato in
contesti diversi con significati anche diametralmente opposti – ma i modificatori di
significato sfuggono all’attenzione umana; inoltre maggiormente connotati da
ambivalenza sia per una minore predisposizione alla «compiacenza» sia a causa di una
minore selezione genetica per la docilità rispetto al cane. Valga, ad esempio della nostra
diffusa incomprensione, la recente scoperta dell’esistenza di almeno due tipi di fusa: uno
di appagamento e uno di urgente richiesta (McComb et al., 2009). È stata necessaria
un’analisi spettrografica per riconoscerne la differenza, che altrimenti sfugge all’orecchio
disattento. Mentre pare essere vero il contrario: gli animali prestano la massima
attenzione ai segnali che inviamo, sia perché più esercitati alla decifrazione della
comunicazione non verbale sia per il rapporto di dipendenza che li lega a noi. Anche in
questo caso un esempio chiarisce lo sforzo relazionale impiegato: è noto che i gatti
utilizzano il canale comunicativo acustico con parsimonia quando si rivolgono a
conspecifici (limitandolo a contesti ben specifici: riproduttivo, agonistico, materno), ma
con larghezza quando si rivolgono ai proprietari. Inoltre, i soggetti selvatici,
rinselvatichiti o i randagi non abituati all’uomo sono assai più silenziosi dei gatti di casa,
ma in un contesto antropizzato apprendono rapidamente ad usare le vocalizzazioni. Tutta
la pletora di miagolii che ci rivolgono sembra derivare dall’uso metacomunicativo del
primitivo e invariato miagolio di richiesta infantile, che viene infinitamente modulato,
piegandolo all’umore, adattandolo alla situazione e alla relazione con il destinatario.
Ebbene, questa esuberanza vocale trova la sua origine nella nostra «sordità»: uno
psicologo americano ha fatto ascoltare a due gruppi di umani, l’uno aduso e l’altro non
avvezzo ai gatti, cinque tipiche vocalizzazioni feline; i profani riconoscevano solo il grido
di spavento-dolore. Ma se l’ascolto veniva ripetuto, anche gli inesperti giungevano a
interpretare il significato dei suoni (Nicastro e Owren, 2003). Dunque il gatto ripete, e lo
fa solo con gli umani, perché repetita iuvant!
         Notoriamente, i proprietari di animali domestici si dividono in estimatori
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dell’indipendenza felina o della dipendenza affettiva canina. Questa caratteristica, come
anche la scarsa gerarchizzazione, ha radici nelle storia evolutiva del gatto, modellato per
condurre una vita prevalentemente solitaria. È noto che è impossibile imporre qualcosa ad
un gatto contro la sua volontà, mentre i cani si lasciano addestrare volentieri. Interessante,
a tal proposito, è riscontrare come anche i metodi educativi materni differiscano tra cane e
gatto. La gatta ha tutto l’interesse in una precoce acquisizione di indipendenza della prole,
la quale – una volta adulta – non dovrà integrarsi in un gruppo, ma procurarsi un territorio
e difenderlo. Dunque, la madre non inibisce le manifestazioni di aggressività, ma le
tollera o al più se ne difende; tipicamente «redarguisce» i piccoli solo quando questi si
allontanano pericolosamente, e anche allora la sgridata consiste in una bella leccata della
zona ventrale che riporta il gattino ad uno stato infantile e allo stesso tempo lo calma; le
imposizioni gerarchizzanti sono pressoché assenti; gli atti aggressivi limitati alle soffiate
o a qualche colpetto sulle orecchie nel periodo dello svezzamento. La cagna invece, e più
tardi saranno il padre e gli altri componenti del gruppo a farlo, impartisce sovente lezioni
di sottomissione, punisce i comportamenti anti-sociali, rimette al loro posto i cuccioli
riottosi e troppo aggressivi, con minacce più frequenti e più severe di quelle feline: tutto
ciò è funzionale all’integrazione dei cagnolini nel gruppo sociale costituito dalla famiglia
d’origine, dove resteranno per un po’ aiutando i genitori nell’accudimento della prole. In
entrambe le specie la deferenza per la madre rimane immutata negli anni, sebbene
manifestata con modalità che cambiano con l’età. In effetti si può dire che l’unica autorità
che il gatto riconosce spontaneamente e rispetta davvero è quella materna. Da qui, in
parte e forse, la predilezione che i gatti sembrano avere per le «madri di famiglia» umane.
Non occorre invece dire che i cani necessitano di integrarsi nella gerarchia domestica:
sono predisposti a farlo, la coesione sociale ordinata è fonte di sollievo perché in origine
significa sopravvivenza, e quindi anelano a compiacere, interagire, coordinarsi al resto
del gruppo. Infine, una nozione comune è che il gatto si affeziona al territorio, il cane alle
persone. In parte è vero: il gatto – originariamente cacciatore solitario, opportunista ed
eclettico – necessita per sopravvivere di conoscere millimetricamente l’ambiente. Perciò
può privilegiare la fedeltà all’ambiente noto, garanzia di sopravvivenza, al mantenimento
del legame sociale – pur soffrendo per l’interruzione. Il cane trova quella garanzia nella
fedeltà al branco. Naturalmente c’è ampio spazio per la variabilità individuale: gatti più
affettivamente dipendenti (forse i meno vitali) privilegiano il legame con l’umano a
quello coll’ambiente.
         Queste e altre differenze etologiche tra le due specie influiscono sul rapporto che
gli individui intessono con i compagni umani, variandone modi e intensità. Tuttavia,
probabilmente, la principale fonte di variabilità è da ricercarsi nel rapporto che la
controparte umana è disposta a creare (Zasloff, 1996; Turner, 2000). Infatti, lo stile
dell’uno influenza l’altro, e il grado di attaccamento che l’animale sviluppa sembra essere
correlato alla disponibilità affettiva (Karsh e Turner, 1988) ma anche al rispetto che il
compagno umano dimostra. Turner (1991), in uno studio sui gatti, trovò che la relazione
«migliore» in termini di frequenza e durata del contatto era quella in cui l’iniziativa
dell’approccio veniva lasciata all’animale. Quanto maggior successo aveva invece il
proprietario nell’ottenere il contatto, tanto più questo era breve, come se il gatto «non
potesse rifiutare» la richiesta di contatto, ma poiché esso non rispondeva ad una sua
esigenza lo interrompeva presto. Incidentalmente: appare qui evidente che la definizione
di attaccamento sensu Bowlby non viene messa in discussione, ma correntemente
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utilizzata per esplorare le caratteristiche dei legami interspecifici. Vedremo che anche in
studi più recenti il modello non viene abbandonato, anche perché ha il merito di
rispondere a tutti i requisiti della teorizzazione etologica. Il difetto risiede semmai nel
trascurare una metà della diade e la portata delle reciproche influenze. Lo stile relazionale,
e dunque la personalità, del partner umano sembra essere la principale variabile anche
nella genesi della cosiddetta «ansia da separazione», uno dei problemi più spesso
lamentati dai proprietari – soprattutto ma non esclusivamente di cani (Overall, 1997),
forse troppo frettolosamente etichettato in modo da corrispondere agli interessi delle case
farmaceutiche, più probabilmente da far risalire alla inappropriatezza delle condizioni di
allevamento e gestione. Non si tratterebbe infatti di iperattaccamento canino, anche se
non si esclude che questa condizione sia caratterizzata da un diverso stile di attaccamento
(Parthasarathy e Crowell-Davis, 2006).
         La relazione con gli animali da compagnia ha ricevuto molta più attenzione sul
versante umano che non su quello animale, perché facilmente indagabile anche con test e
interviste: tipi e qualità della relazione, benefici derivanti, nonché ragioni e modalità
dell’attaccamento per i cani (rassegna in: Hart, 1995) e i gatti (rassegna in: Turner, 2000).
Il legame che questi animali intrattengono con noi è stato invece esplorato in maniera più
frammentaria, per ragioni intrinseche e metodologiche: una relazione viene definita da
tipo, qualità e grado di integrazione temporale delle interazioni (Hinde, 1976), quindi
richiede lunghe osservazioni che impegnano sia l’animale sia l’umano all’interno dello
spazio domestico privato.
         Inizialmente si è molto lavorato all’individuazione del periodo sensibile per la
socializzazione interspecifica (più correttamente definita social referencing: Turner,
2000), fissato tra la II e VII (gatti: Karsh e Turner, 1988) o VIII (cani) settimana. Se è
vero che una precoce familiarizzazione con stimoli – sociali e non – è assolutamente
raccomandabile per assicurare adulti confidenti e socievoli e ridurre il rischio di
aggressioni da paura, tuttavia la grande flessibilità comportamentale permette ampi
recuperi in seguito: soggetti poco socializzati nell’infanzia possono ancora stringere
legami affettivi profondi e costituire ottimi compagni sebbene richiedano qualche cautela
(Turner, 2000). Si è anche tentato di quantificare i termini della socializzazione precoce,
arrivando a stabilire che è consigliabile una manipolazione quotidiana gentile, ma non
eccessiva per durata e intensità del contatto e per numero di persone coinvolte (Turner,
2000). Nel determinare la personalità – e quindi la propensione a stabilire soddisfacenti
legami con gli esseri umani, oltre all’effetto materno, in cui la componente genetica è
difficilmente districabile da quella relazionale, è stato stabilito un effetto paterno (Turner
et al., 1986), che nello studio in questione era puramente genetico. Pochi studi sono stati
dedicati all’analisi dell’influenza delle precedenti relazioni sociali (Fallani et al., 2006;
Prato-Previde e Valsecchi, 2007), tanto meno per quanto riguarda qualità e durata della
relazione con madre, fratelli e padre.
         Un diverso modo di esplorare la relazione è quello di tentare di individuare se vi
sia stata un’evoluzione del cane per selezione da domesticazione: se abbia affinato una
speciale propensione e abilità a leggere i nostri segnali, e sviluppato la tendenza ad
affidarsi al nostro aiuto sollecitandolo prima ancora di aver veramente provato a superare
un ostacolo (Miklósi, 2009). Esperimenti che hanno confrontato cani con lupi allevati allo
stesso modo sembrerebbero suffragare questa ipotesi (Miklósi, 2009), restituendoci
l’immagine di un cane che si vede come parte di una coppia cooperante, ma potrebbe
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anche trattarsi di una maggiore percezione di inabilità, e quindi dipendenza, oppure di
compiacenza. Altri lavori sulla capacità di interpretare alcuni nostri gesti (il puntare:
Miklósi, 2009) hanno dato risultati controversi (Marshall-Pescini et al., 2010). Ed
entrambi i fenomeni possono essere spiegati anche con accettazione sociale e
condizionamento (Udell et al., 2010). Prato-Previde e colleghe (Prato-Previde et al.,
2008) hanno determinato che i cani si lasciano influenzare contro-intuitivamente dalle
indicazioni dei proprietari in un test di discriminazione e preferenza di quantità di cibo.
Altre ricerche tentano di verificare la capacità di interpretare correttamente le nostre
espressioni facciali e gli stati mentali.
        Infine, per quanto riguarda l’analisi dei legami emotivi tra animali adulti e umani,
sensu Bowlby, viene correntemente utilizzato il metodo Ainsworth, modificato per
adattarlo alla specificità dei soggetti (AASST), sia per riscontrare se vi sia attaccamento
(verificando l’aderenza dei dati alla definizione di base sicura) sia per valutare le
differenze individuali e la qualità della relazione. Topál e colleghi (1998) hanno così
dimostrato che i cani mostrano comportamenti di attaccamento verso i proprietari,
sebbene si registri una considerevole variabilità; hanno anche riscontrato che i soggetti
potevano essere classificati lungo l’asse attaccamento sicuro-attaccamento insicuro,
concludendo che la relazione cane-uomo è analoga a quella bambino-genitore. Altri
ricercatori hanno replicato il test senza giungere a conclusioni certe (Prato-Previde et al.,
2003). Edwards e collaboratori (2007) hanno trovato che i gatti in compagnia del
proprietario sono più esplorativi e cioè confidenti, più in allerta – quindi insicuri – di
quando sono con estranei, concludendo che si tratta di una manifestazione di
attaccamento. Tutto un filone di ricerca si è sviluppato su questo argomento,
prevalentemente nel cane, senza alcun apporto realmente innovativo. Non
sorprendentemente si è appurato che nel cane un attaccamento insicuro (connotato da
ansia, passività, evitamento) è associato all’uso di minacce da parte del proprietario,
mentre un compagno gentile favorisce l’instaurarsi dell’effetto base sicura, di
comportamenti tesi ad aumentare prossimità e rassicurazione, di confidenza (White et al.,
2010). Tutti questi lavori trascurano la personalità del cane, che andrebbe misurata per
valutare se vi sia congruenza tra di essa e lo stile relazionale (che potrebbe essere
«imposto» da un proprietario con problemi di dipendenza). Inoltre, con rare eccezioni
(Mariti et al., 2010) trascurano le altre relazioni di attaccamento che il cane intrattiene.
        Infine, gli animali domestici formano spontaneamente legami affettivi anche con
individui di altre specie non umane, con maggiore facilità se esposti a questi nell’infanzia,
ma anche da adulti, purché sia chiara l’assimilazione al gruppo eterospecifico. Queste
relazioni e legami tra specie diverse hanno ricevuto scarsa attenzione a causa
dell’incidenza sporadica del fenomeno, esposto perciò alle molteplici influenze dei fattori
locali.

                                            SINTESI

         Vengono ricapitolati i primi studi etologici sullo sviluppo infantile e la relazione
genitori-prole, con un enfasi sull’identificazione del periodo sensibile, dei danni da deprivazione
sociale, del ruolo dello stile materno e del contesto sociale. A fianco dei contributi metodologici e
teorici alla psicologia dello sviluppo, queste indagini e i successivi sviluppi hanno apportato
conoscenze inestimabili su argomenti di stretta pertinenza etologica: stimoli, apprendimento,
regolazione dello sviluppo, maturazione delle competenze sociali, basi evolutive della socialità,

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