ANIMAL studies Fenomenologia e animalità II - Rivista italiana di antispecismo - Novalogos
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ANIMAL studies Rivista italiana di antispecismo trimestrale anno vi numero 19 Fenomenologia e animalità II
ANIMAL STUDIES Rivista italiana di antispecismo trimestrale 19 – Fenomenologia e animalità II numero a cura di Luca Vanzago e Lucia Zaietta Direttore responsabile ed editoriale Roberto Marchesini Comitato scientifico Ralph R. Acampora (Hofstra University) Carol Adams (Southern Methodist University) Matthew Calarco (California State University Fullerton) Felice Cimatti (Università della Calabria) Enrico Giannetto (Università degli studi di Bergamo) Oscar Horta (Universidade de Santiago de Compostela) Andrew Linzey (University of Oxford) Peter Singer (Princeton University) Tzachi Zamir (The Hebrew University of Jerusalem) Redazione Eleonora Adorni, Matteo Andreozzi, Laura De Grazia, Alessandro Lanfranchi, Manuela Macelloni, Valentina Mota, Roberta Papale, Lucia Zaietta, Nicola Zengiaro. ISSN 2281-2288 ISBN 978-88-97339-76-2 Reg. Trib. Roma n. 232 del 27/7/2012 © 2017 NOVALOGOS/Ortica editrice soc. coop. via Aldo Moro, 43/D - 04011 Aprilia www.novalogos.it • info@novalogos.it finito di stampare nel mese di settembre 2017 presso la tipografia ristampa s.r.l., cittaducale (ri)
Sommario 5 Editoriale Di Luca Vanzago, Lucia Zaietta Articoli 9 Prendersi cura del mondo. L’ecologia dell’essere in-relazione Di Roberto Marchesini 25 Guardando dal di dentro, pensando dal di fuori Di Matthew Calarco 37 Biodiversità e diacritica della vita Di Ted Toadvine 56 Esodo ed esilio Di Renaud Barbaras 71 Il versante animale Di Jean-Christophe Bailly
EDITORIALE Di Luca Vanzago e Lucia Zaietta Si arricchisce di nuovi sviluppi la riflessione che abbiamo avviato nel numero 16/2016 e si conclude, con queste pagine, la nostra inchiesta sui rapporti tra fenomenologia e animalità. Fenomenologia, innanzitutto. Sono stati infatti il me- todo e la storia della fenomenologia a farci da cornice in questo progetto, a par- tire dalla traduzione del testo del 1934 Il mondo e noi. Mondo-ambiente umano e animale, Appendice X (XV volume della Husserliana) – pubblicata per la prima volta in lingua italiana nel numero di Animal Studies Fenomenologia e animalità I – in cui Edmund Husserl si interroga sulla soggettività animale, e su come la nostra soggettività umana la possa cogliere e comprendere. Su questa scia, si sono succeduti i contributi di Florence Burgat, Carmine Di Martino, Brett Buchanan e Renato Boccali, grazie ai quali è emersa la ricchezza e la profondità delle decli- nazioni fenomenologiche intorno alla questione dell’animalità e della differenza antropologica. Che cosa hanno da dire, oggi, le pagine di Heidegger, di Sartre e di Merleau-Ponty intorno al tema dell’animale? Che cosa ci insegna la tradizione fenomenologica, attraverso la sua inchiesta sullo statuto della correlazione tra- scendentale, intorno all’abitare animale? Come comprendere l’essere-al-mondo animale, nella sua povertà e insieme ricchezza di mondo? Erano queste le doman- de che hanno accompagnato i contributi della nostra prima riflessione. Anche nel numero che qui presentiamo, la fenomenologia resta lo sfondo privilegiato, ma in un senso più esteso e con un respiro più ampio. Voci cen- trali e autorevoli nel panorama fenomenologico contemporaneo, come quelle di Renaud Barbaras e di Ted Toadvine, si alternano a grandi studiosi di confine 5
animal studies 19 e del confine, quali Roberto Marchesini, Matthew Calarco e Jean-Christophe Bailly, le cui riflessioni, e contaminazioni, creano incroci inediti tra filosofia, etica, etologia e persino letteratura. Accanto alla fenomenologia, intesa in que- ste pagine nel suo significato più originario e fecondo, resta la domanda sulla specificità dell’animale, degli animali. Sono ancora loro, nella loro pluralità, i protagonisti dei contributi che andiamo a presentare. Animali di cui prendersi innanzitutto cura, come ci invita a fare la riflessione che apre il nostro numero, firmata da Roberto Marchesini. Direttore del Cen- tro Studi Filosofia Postumanista, della Scuola di Interazione Uomo-Animale (SIUA) e Direttore Editoriale della rivista Animal Studies, Roberto Marchesini propone un originale approfondimento sulla cura, un tema che si trova al cen- tro della fenomenologia (basti pensare a Husserl stesso, Heidegger, Lévinas) e, ovviamente, al centro della riflessione sulla relazione uomo-animale. È proprio la propensione epimeletica, infatti, a sospendere il pensiero proiettivo alla base dell’antropocentrismo e ad aprire uno spazio di incontro, di relazione e di ac- cudimento, da esplorare con un approccio interdisciplinare. Anche l’intervento di Matthew Calarco – Guardando dal di dentro, pensando dal di fuori – mette in opera un decentramento radicale. Professore di Filosofia continentale e ambientale presso la California State University, autore di Zo- ografie (Mimesis, 2012) e voce di rilievo negli Animal Studies, Calarco prende spunto dall’esperienza e dalla riflessione della filosofa australiana Val Plumwo- od per ripensare la soggettività – e l’alterità – animale. L’attacco da parte di un coccodrillo subito da Plumwood, evento che è al centro della sua stessa filosofia, fa da cornice a una fenomenologia dell’impresentabile: comprendere l’Altro non solo nella sua esteriorità, e dunque estraneità, ma anche nel suo ‘dentro’, nella sua interiorità, permetterà forse di reinstallare l’alterità al nostro fianco, riconsiderando la sua soggettività e il nostro stile di vita. Si tratta di un’alterità, come abbiamo accennato prima e come ci ha defi- nitivamente insegnato Derrida, da pensare al plurale, nella sua specificità e, allo stesso tempo, nella sua molteplicità. È questo il compito prefissato dalla preservazione della “biodiversità”, una parola e un concetto ormai onnipre- sente nell’ecologia contemporanea, che Ted Toadvine – professore di Filosofia e Environmental Studies alla Oregon University e punto di riferimento negli studi tra fenomenologia ed ecologia – mette sotto inchiesta nell’articolo che 6
editoriale qui propone, Biodiversità e diacritica della vita. Le differenze nelle e delle forme di vita sono al centro di ogni pensiero rivolto all’animalità, ma come compren- dere queste differenze? La nozione di biodiversità rende davvero giustizia alla variabilità delle forme di vita? Sulla scia della fenomenologia di Merleau-Ponty e dell’ermeneutica diacritica di Richard Kearney, Toadvine ci sottopone una stimolante e profonda alternativa al ‘dogma’ della biodiversità, un’alternativa che prende il nome di biodiacritica. Comprendere la polisemia delle forme di vita all’interno di un sistema diacritico, composto e retto esso stesso da livelli e scarti, può infatti condurci a un’ermeneutica carnale, estesa al di là dei limiti umani «fino a letture diacritiche dei differenti tipi di Altri – umani, animali e divini. Tutti in carne e ossa» (Kearney 2011). All’interno del panorama della fenomenologia contemporanea, la proposta di Renaud Barbaras è ineludibile e rappresenta uno dei contributi più pro- fondi. La sua fenomenologia dinamica, incentrata sulla nozione di desiderio, investe ogni aspetto del pensiero sul vivente, e sulla vita stessa. Professore di Filosofia contemporanea all’Université Panthéon Sorbonne di Parigi, membro dell’Istituto Universitario di Francia e autore di studi critici fondamentali per approfondire la filosofia di Husserl, Merleau-Ponty, Patočka, nonché di pro- poste originali tra le quali citiamo Introduzione a una fenomenologia della vita (Mimesis 2014) e Dinamica della manifestazione (Lythos 2017), Renaud Bar- baras interviene nel nostro numero con una riflessione sulle modalità di abitare il mondo proprie dell’animale e dell’uomo. Senza adottare un continuismo biologico, che non renderebbe giustizia alle specificità di entrambi, ma senza d’altra parte marcare una separazione netta e ormai ingiustificabile, Barbaras caratterizza la modalità dell’essere al mondo animale e umano rispettivamente come esodo e come esilio: prossimità e distanza, dentro e fuori, sono così ricom- presi all’interno di una fenomenologia dinamica che riconosce una separazione originaria e, dunque, l’emergenza di un desiderio che è la modalità prima della soggettività e terreno comune tra uomo e animale. Conclude infine questo numero, e così il nostro percorso tra fenomenologia e animalità, Jean-Christophe Bailly. Scrittore, poeta, drammaturgo e filosofo, Bailly si è recentemente interessato alla questione animale pubblicando Le versant animal (Bayard, 2007) e Le parti pris des animaux (Seuil, 2013; tradotto in Italia da Nottetempo, 2015). La proposta di Bailly non si configura come uno studio 7
animal studies 19 sistematico sull’animalità (nozione dalla quale Bailly prende esplicitamente le di- stanze), ma si presenta anzi come un invito a guardare ai modi di abitare animali, alle tracce, alle piste e alle reti inestricabili di segni che gli animali lasciano con il loro passaggio fugace. Assimilabile per certi versi all’appello di von Uexküll, il richiamo di Bailly evoca la dimensione dell’Aperto di Rilke, quell’infinita gram- matica di segni e fraseggi attraverso cui si dispiega l’inesauribile manifestazione di senso dei mondi animali. A conclusione del nostro percorso, abbiamo dunque scelto di riportare, per la prima volta in traduzione italiana, alcune tra le pagine più dense e suggestive del libro Le versant animal (capp. 19-23). 8
PRENDERSI CURA DEL MONDO. L’ECOLOGIA DELL’ESSERE IN-RELAZIONE Di Roberto Marchesini La dimensione della cura, nelle sue diverse scansioni – dall’esercizio me- todologico in Husserl alla liberazione dell’autentico nell’altro in Heidegger, dalla presa in carico della solitudine dell’alterità in Lévinas al pudore che lo sguardo dell’altro suscita in Derrida – ci parla di un “essere nella relazione” come fondamentale dell’umano. Nel seminario della cura, un flusso ricorsivo sul Sé che eccentra, gratifica, coniuga e poi amplifica la propensione a venire, l’atto epimeletico – dal greco epimeleomai = mi prendo cura – trascende l’a- spetto meramente prassico dell’atto tutorale, per divenire attribuzione di senso, ragione di presenza che consente al Sé di sfuggire dalla gravitazione egoica. La cura ritorna sempre su chi ne fa professione di fede quale fattore ontopoietico capace di mescolare l’empito proiettivo del vissuto con l’attribuzione di senso. Nel flusso epimeletico la presenza diventa vita-attiva, sguardo sospensivo e ri- ordinativo sul divenire fenomenico. La cura è sempre coniugata all’empito di proiezione oltre il qui-e-ora, pur inverandosi nell’istantaneità e nella corposità della presenza, giacché è indirizzo di crescita, ricerca di un ordine capace di sfidare l’entropia, preoccupazione attiva orientata a un obiettivo, attesa di una rivelazione nel flusso di dettagli da setacciare. L’evento epimeletico rende la presa in carico dell’Erlebnis quale inevitabile “momento di ritorno”, successiva consapevolezza di una copula già avvenuta, cosicché il Sé è sempre partecipe di predicati di espressione che non sono mai fedeli al retaggio pregresso ma frutti a posteriori del flusso ibridativo. In tal senso la cura precede il vissuto. L’epimelesi è eccentramento nell’alteri- tà e, per contro, ricorsiva emergenza ontopoietica, poiché inaugura il rinno- vamento del Sé attraverso la protezione dell’altro, poiché avvolge, condivide, 9
animal studies 19 crea partecipazione: nel dedicarsi e nel darsi s’accentua il significato relazionale dell’essere e la sua solidità nell’essere. L’essere preoccupato precede e sostanzia l’essere occupato, coniuga il filoge- netico mammale con l’ontopoietico decentrativo e dubitativo, proprio nell’a- limentare il prendere distanza dal Sé per realizzarne una presenza reale e non occasionale. Questo è forse il tratto più affascinante dell’atto epimeletico, che non disgiunge o distanzia le diverse scansioni dell’essere ma le coniuga in un millepiani dimensionale, in una coerenza che non è mai staticità, regressione nel retaggio. Nella cura si svolge, come un germoglio foliare, la nostra natura di mammiferi, le risonanze remote del nostro essere primati, l’avvolgente calore amniotico del primo mondo, l’orbitare intorno alla base sicura del processo di attaccamento, la crescita prossimale del dialogo materno, l’espansione adole- scenziale dello scacco relazionale fino alla problematica e affascinante ricerca di un senso capace non di cancellare il fenomeno ma di farlo giungere infine alla stazione dell’epifania. La cura non è mai espressione tal quale di una competenza pregressa, messa in atto quasi per emanazione di una dotazione acquisita, tale per cui si possa dire che nella donazione il retaggio esprime le sue doti in purezza, giacché è sempre evento emergenziale, esito della congiunzione, potremmo dire “crea- tivo”, nel senso di innovare-inventare un piano di realtà, sempre che si tenga in certezza la natura dialogica e non solipsistica del creare. L’essere umano che apre a ventaglio il gesto nella semina, che adotta un cucciolo d’altra specie, che trasforma la coreografia motoria del proprio corpo, che confeziona uno zufolo per riprendere-rispondere alla sinfonia del mondo o che misura con lo sguardo gli spazi dell’infinito, proprio nella contraddizione interna di queste proiezioni, crea un nuovo piano di realtà, perché non precedente, e fa emergere il senso come risultato dell’atto dialogico-relazionale. Il senso non è mai perciò qualcosa di nascosto da scoprire, bensì una possibilità da far emergere nel mare magno del virtuale attraverso un concepimento: tale è in effetti la cura. La cura rende l’essere umano copula mundi, ma non nel significato antropo- plastico, cui ci ha abituato la pretesa antropocentrica dell’età moderna, bensì in quello ibridativo, nel far emergere i predicati dell’umano non attraverso il pri- sma emanativo o essenzialistico, ma nel loro tratto di sopravvenienza, nell’es- sere cioè frutti relazionali. Prendersi cura del mondo allora non ci riporta a un atto paternalistico, di chi ponendosi al di sopra impone, anche nella luce della generosità, la propria mano benevolente, né ricade nella demiurgica attribu- zione di senso o nominazione del mondo, ma nel saper coniugarsi, nell’umiltà 10
prendersi cura del mondo. l’ecologia dell’essere in-relazione dell’accoglienza e della contaminazione. La cura pertanto non è mai limitata alla sua espressione prassica, non è mai solo un’azione e non può essere confi- nata o ricondotta al mero valore produttivo. L’epimelesi è una condizione del soggetto che, sospendendo l’angustia del pensiero proiettivo, la gravitazione del narcisismo ma altresì l’eziologia riflessiva dell’inanizione, si apre non solo alla relazione, ma alla trasformazione del Sé. La cura come epifania Se ci è negato l’atto riflessivo sui predicati, ovvero se la via cartesiana del cogito è fuorviante perché il suo risultato è ancor più aleatorio del nostro os- servatorio sul mondo, giacché siamo sempre coscienti di un ex post copulativo, diviene conseguente il riflettere sul fenomeno, che difficilmente può rimanere di fronte a noi, ossia disgiunto e a sé, perché sempre il flusso epimeletico lo trasforma in qualcosa che ci riguarda, nel senso di rivelare matrici dimensionali disponibili al divenire ontopoietico. Non è meramente una fruizione e tuttavia anche la contemplazione è sempre una partecipazione immersiva, ovvero che mi riguarda, nel panorama, un contaminarsi con esso e trasformarsi attraverso esso. La distanza o, meglio, la disgiunzione è solo apparente, così come appa- rente è la sua dimensione di fondale per lo sguardo o di spazio contenitivo. La partecipazione, innescata dal flusso epimeletico, ossia dall’inevitabile tendenza a guardare il mondo cercando di far emergere un ordine che ci riguarda, o di sottrarlo all’algore dell’entropia, trasforma il fenomeno in epifania. Quando parlo di una prospezione epimeletica, inevitabile nell’essere uma- no perché attinente a ciò che più di profondo e autentico c’è nella condizio- ne umana, intendo rimarcare il fatto che non siamo in grado di sottrarci da questo flusso di ospitalità che sta alla base della nostra ontologia. L’ospitalità è un modo d’intendere il rapporto con il mondo, accogliendolo e cercando accoglienza in esso. E mi rendo conto che, valutando la storia dell’umanità, le guerre e i genocidi, o la crisi ecologica in atto, questa mia professione di fede nell’umano sembra peccare di ottimismo o comunque essere assai controintui- tiva. Tuttavia non credo che la dimensione umana, nelle sue diverse espressioni culturali, nella scienza come nella poesia, possa/debba essere ricondotta al solo empito autoaffermativo, a una generica volontà di potenza. C’è un continuo spaccio di cura nell’agire umano, un desiderio materno di preservare, mettere in ordine, sostenere e tutorare, un empito amniotico verso il mondo che rende 11
animal studies 19 l’umano non già tensionale nella verticalizzazione disgiuntiva – quale ci sotto- linea Peter Sloterdijk in You must change your life – ma nell’orizzontalizzazione coniugativa. Il flusso epimeletico, proprio nel suo archetipo protettivo, trasforma il nostro rapporto con il mondo sul modello relazionale che s’instaura tra una madre e il proprio cucciolo. In questo senso ribadisco il mio credo in una prevalente declinazione femminile della condizione umana e nel significato maternale dell’antropo-poiesi. Possiamo allora dire che la cura trasforma l’in- tersezione al fenomeno in un atto evolutivo a doppio senso: i) da una parte ciò che appare non è mai solo un’estrazione parziale riferibile alla umwelt umana, ma è sempre un’ibridazione, esito cioè della proiezione del Sé nel mondo; ii) dall’altra il soggetto non si trova mai di fronte al fenomeno ma dentro di esso, disperso in esso e posseduto da esso, cosicché si riconosce non nel retaggio ma nell’oltrepassarsi. Chiamo questo doppio flusso predicativo, ossia di emergenza creativa di predicati, con il termine di “epifania”. La cura, in altri termini, apre la strada a quell’evento epifanico che rimarca la necessità di riconoscere l’essere non nel retaggio ma nella trasformazione di questo, nella capacità cioè dell’essere di oltrepassarsi, nel rivelare una propria presenza nella violazione del dato, nell’infedeltà al consolidato, nella meta- morfosi. A questo aggiungasi – ma, a ben vedere, non è altro che una seconda prospettiva dello stesso concetto – che la cura mostra il significato relazionale dell’ontologia, che non può essere raggiunta attraverso operazioni enucleative, giacché l’essere costruisce i propri predicati nell’ibridazione e non per emana- zione. Se è vero che esiste una propensione epimeletica dell’essere umano, che possiamo indagare con diverse ottiche disciplinari ed epistemologiche, è altret- tanto vero che la cura non è mai adesione al pregresso bensì utilizzo dell’acqui- sito per operarne un superamento. Il soggetto che si prende cura, dal momento che nell’epimelesi si proietta nell’altro e si coniuga a lui, non può ritrovare o pretendere di mantenere un proprio, quasi fosse un carattere essenziale da preservare, ma deve accettare la condizione di rivelatore di predicati ibridi. Ora, il mio ragionamento può essere equivocato in due modi: i) il ritenere che in questa prospettiva venga totalmente annichilito il retaggio, rendendo di fatto il Sé a tal punto elusivo che qualunque discorso su di lui assuma il valore dell’arbitrarietà; ii) il conside- rare, viceversa, il retaggio così rilevante da trasformare l’evento epimeletico in nient’altro che un atto surrogatorio della propensione parentale, con il rischio di un riduzionismo. Voglio subito sgombrare il campo da questi equivoci. Dal 12
prendersi cura del mondo. l’ecologia dell’essere in-relazione mio punto di vista parlare di un evento dialogico-ibridativo, vale a dire di una prevalenza dell’epifania sul fenomeno, non significa negare una presenza e una costituzione dei dialoganti. Sostenere l’importanza della natura umana, per converso, non significa far discendere i predicati in modo diretto dal retaggio. Quando parlo di estrazione matriciale dalla virtualità del reale, al fine di costruire un piano di realtà, non intendo sostenere la nullità del reale, ma il suo carattere virtuale, vale a dire il presentare dei vincoli di resistenza ma, al contempo, dei campi di possibilità organizzative, tali per cui l’intersezione di risulta non è altro che il modo attraverso cui il Sé, rispettando i vincoli, realizza in modo singolare un proprio piano organizzativo di realtà. Per tale motivo l’epifania non può prescindere dal retaggio e dal fenomeno, ma altresì non dev’essere appiattita in essi. L’epimelesi è una tendenza profonda, precedente per alcuni aspetti all’emergenza della nostra specie, e tuttavia l’espressione epi- meletica – il modo attraverso cui la cura si realizza e i frutti che produce – non può essere ricondotta esclusivamente a detta tendenza. Ogni espressione di cura è sempre un atto creativo, un parto capace di portare singolarità sotto la volta del mondo, non un ripetersi ciclico. Pertanto, se è pur vero che la propensione epimeletica ci riporta a qualcosa di profondo, che trascende la nostra individualità e precede il nostro essere get- tati nel mondo, risonanza di età lontanissime e rivelazione di condivisioni che vanno oltre la dimensione umana, non possiamo dimenticare altresì che la cura è come lo sviluppo della chioma di un albero, si appella alla luce e alla spinta vitale dell’essere-un-corpo che nella singolarità del vissuto – inteso husserliana- mente non come participio passato – trova il suo palpito: è cioè il frutto di un esercizio alla relazione dedita e all’accudimento. Questo esercizio richiede una palestra che nell’essere umano trova la maggior soddisfazione nella dedicazio- ne alla crescita del vivente. Si usa la predicazione del coltivare per significare una crescita tolta alla casualità e all’occasionalità perché tutorata, sostenuta, indirizzata, e la rivolgiamo agli interessi, alle passioni, alla ricerca, allo studio, all’amicizia e all’amore. La costruzione del paesaggio è un esempio della lettura epifanica dell’am- biente, che risente di un millepiani ibridativo che, come sottolineato da Edward Wilson nel saggio Biofilia, risente di risonanze remote, come la tendenza a privilegiare un panorama fatto di alberi distanziati tra loro da prati erbosi in un’estetica che risente di prototipicità filogenetiche che l’autore attribuisce al desiderio di riproporre un orizzonte a savana ove si è svolta gran parte del cammino speciativo del nostro lignaggio. Potremmo allora ipotizzare che la 13
animal studies 19 rivoluzione agricola abbia avuto come primo movens non già un bisogno di re- perimento di risorse alimentari, che sarebbero divenute un ex post facto ovvero una disponibilità, bensì un significato primariamente epimeletico. Le attività di coltivazione rappresentano infatti non solo la radice antica di un flusso cul- turale che ha trasformato l’umano, luogo di relazione privilegiata tra l’essere umano e la terra, ma andrebbero considerate quale cartina al tornasole di una tendenza più complessiva: atelier evolutivo dell’antropopoiesi stessa. La cura sembra essere perciò una delle caratteristiche che maggiormente definiscono la dimensione umana nelle sue svariate espressioni, non solo come attività di estrazione di un ordine nella realtà circostante o come modalità di controllo sui fenomeni naturali – alla cura può infatti essere ricondotta sia la tensione epistemico-tassonomica sia la facilitazione dei processi naturali utili al sostentamento, sviluppati in specie con la rivoluzione neolitica – ma altresì come ricerca di senso, quale tendenza a trasformare l’intersezione ai fenomeni in epifanie ovvero a trasfigurazioni dell’evento in ibridazioni con l’alterità. In particolare, per comprendere tale bisogno di superamento del fenomeno in sé attraverso lo speculum della rivelazione – nel significato di cosa l’evento che mi sta di fronte può annunciare che mi riguardi in modo diretto, ossia interna- mente – è necessario soffermarsi sulla trasformazione dell’alterità da altro-da-sé ad altro-in-sé, ovvero da fenomeno a epifania. L’alterità fenomenica dismette il suo essere di fronte, vale a dire il suo carattere di estraneità, per quanto coinvol- gente sotto il profilo emotigeno, rappresentazionale o elicitativo, nel momento in cui rende disponibile o disvela un significato condizionale o dimensionale che mi riguarda. È in quel preciso momento che il volo di un uccello non è più qualcosa da ammirare o da decrittare nei suoi caratteri previsionali o, ancora, da conoscere come datità oggettiva, per assumere il significato rivelatore o epifanico, capace cioè di modificare la mia dimensione esistenziale mostrandomi una condizione possibile che mi riguarda. Il volo, nell’ibridazione epifanica che la rende dispo- nibile all’essere umano, rivela o fa emergere una nuova prospettiva predicativa, un nuovo senso alla mia presenza, grazie alla proiezione coniugativa che l’es- sere-con rende possibile, investigabile, immaginabile. La cura entra in modo diretto e profondo in tale emergenza metamorfica, consentendo una proiezio- ne empatica sull’alterità, un con-sentire, che non è più simpatia, riflessione egoica nell’altro, ma eccentramento nell’alterità. L’afflato epimeletico è un farsi carico della prospettiva altrui che insiste-su, ovvero non può prescindere-da, quelle risorse espressive che hanno reso praticabile l’ibridazione, in virtù di una 14
prendersi cura del mondo. l’ecologia dell’essere in-relazione sospensione sull’estraneità del fenomeno. Il volo è pertanto una creazione di senso portata a mettere in discussione tanto l’estraneità del volo di un uccello quanto il mio retaggio di creatura non dotata di volo. La cura supera quella distanza tra me e l’altro che porterebbe a limitare l’incontro all’interazione disgiunta, definendo la relazione nei termini tradi- zionali del: i) polemos, ove l’alterità è il luogo del confronto e dell’opposizione per oscillazione di sfondo, mantenendo la disgiunzione; ii) taxon, ove l’alterità qualifica attraverso il tipo-gradiente di rapporto, sia esso omologico, analo- gico o di referenza, definendo e quindi fondando la distanza; iii) proiettivo, ove l’alterità diviene un contenitore o uno specchio che consente la riflessione egoica senza apportare alcun contributo perché non riconosciuto; iv) infusivo, ove l’alterità annichilisce o diluisce il retaggio, come se non ci fosse dialogo ma semplice invasione-iscrizione. L’epifania definisce, al contrario, una soglia di meticciamento capace di far emergere nuovi predicati in cui il soggetto si rico- nosce proprio perché non aderente a una precedenza. Il senso pertanto non è mai una costruzione arbitraria sul fenomeno, bensì un mettere in luce attraver- so l’eccentramento quello che è sepolto all’interno dell’apparenza fenomenica. L’epimelesi proprio per il suo carattere copulativo e quindi ibridativo rende possibile quell’eccentramento che non è mai annichilimento del retaggio e del fenomeno ma trasformazione del retaggio nel fenomeno e viceversa. L’errore che potremmo fare può essere duplice: i) nell’appiattimento sulla disgiunzio- ne e sulla stabilità ontica del retaggio e del fenomeno, come entità separate e impermeabili che nell’incontro confermano i loro predicati precedenti; ii) nel non riconoscere o nel pretendere una trascendenza assoluta dal retaggio e dal fenomeno, tale per cui il primo non ha alcuna voce in capitolo nella ricerca di senso e il secondo diventa una totale costruzione della proiezione del Sé. La cura ci chiede di andare oltre l’immagine solipsistica della ricerca di sen- so, per riportarla al millepiani dell’Erlebnis, che non guarda al passato, pur appoggiandosi sulle molteplici risonanze ontopoietiche che nel loro insieme portano a vivere l’esperienza, ma all’atto emergenziale di predicati che s’invera nell’incontro con l’alterità. Non è possibile pertanto limitarsi a scavare all’in- terno del flusso fenomenico, setacciando, accantonando, sospendendo, bensì occorre attualizzare il molteplice, giacché l’esperienza non si pone mai su un unico piano di vissuto. A questo punto è perciò indispensabile comprendere che la propensione alla cura ha una base remota nell’essere umano, risonanza di storie che talvolta precedono il biografico o si perdono nella dimensione amnesica dell’infanzia. 15
animal studies 19 La cura è un patrimonio che abbiamo ereditato dai nostri progenitori e da un frattale dialogico che ci ha fatto emergere infine come entità individuata. D’altro canto, i frutti predicativi che la dimensione epimeletica determina van- no inquadrati, quasi per paradosso, nel senso di un superamento del retaggio stesso, perché portati all’eccentramento rispetto alla condizione precedente e perché in grado di operare una sospensione sull’apparizione fenomenica ovvero sull’intersezione prima facie dell’evento. A mio avviso, pertanto, non è possibile fare un ragionamento sul comportamento di cura senza prendere in conside- razione alcune propensioni naturali dell’essere umano, pur facendo salve tutte le articolazioni antropopoietiche, in primis culturali, che intervengono nella definizione del prospetto della cura. Vorrei tuttavia chiarire il fatto che non ritengo l’epifania o l’attribuzione di senso una mera discendenza diretta o ema- nativa dei caratteri impliciti dell’essere umano, bensì il risultato emergenziale e dialettico che tali caratteri rendono possibile. In tal senso i connotati dell’essere umano vanno considerati come volani e non come generativi delle risultanze epifaniche: non si può prescindere da loro, ma non li si può considerare esau- stivi nell’esplicazione. La dimensione epimeletica dell’essere umano La tendenza a “prendersi cura di” – da cui la natura intenzionale dell’epi- melesi – riguarda diversi aspetti nell’essere umano e parallelamente si riflette su un orizzonte ampio di prospettive, come l’epistemologia, l’etica, l’estetica, solo per citarne alcune. Tuttavia, per comprendere la base comportamentale di questa attitudine, è necessario riferirsi al significato evoluzionistico o adattati- vo di tale dimensione espressiva. Come ho detto, non ritengo che i predicati umani vadano ritenuti espressioni dirette o discendenze emanative del retaggio filogenetico ma, a mio avviso, sbaglia chi pretende di prescindere totalmente da quella che rimane pur sempre la risonanza di retaggio più importante, ciò che possiamo definire “natura umana”. L’essere umano è infatti il frutto di un processo evoluzionistico che ha arricchito la nostra tavolozza cromatica non solo di precise conformazioni anatomico-funzionali, ma altresì di propensio- ni e sensibilità espressive, dotandoci di connotati che talvolta sono unici nel nostro lignaggio, altre volte sono condivisi per omologia o analogia con altre specie, in particolare con quelle più vicine da un punto di vista tassonomico o che hanno subito analoghe pressioni selettive. Si tratta di un patrimonio im- 16
prendersi cura del mondo. l’ecologia dell’essere in-relazione portante, sovente sminuito per paura di una sorta di determinismo biologico, ma si tratta di un errore grossolano perché il retaggio filogenetico non è mai deterministico sull’ontogenesi, ma semplicemente definisce il range evolutivo possibile e gli strumenti ontopoietici disponibili. Da un punto di vista meramente etologico, ritroviamo comportamenti di cura in tutti quegli animali che presentano una struttura parentale in onto- genesi. Le cure parentali rappresentano un’innovazione importante negli stili riproduttivi presenti nel mondo animale, avvento riconducibile al periodo Per- miano, quando dall’alveo dei rettili presero avvio numerose linee filetiche, oggi rappresentate dalla classe dei mammiferi e degli uccelli, ove le cure parentali sono sempre presenti. Se è vero che le cure parentali si manifestano a macchia di leopardo nel mondo animale, è nei mammiferi e negli uccelli che divengono una dimensione consolidata. La strategia riproduttiva intrapresa è presto detta: fare pochi piccoli ma affiancarli nel difficile periodo della crescita, quando è più consistente la mortalità. Le cure parentali prevedono una serie di attività genitoriali, come la nutrizione, la protezione, l’accudimento, l’educazione: tut- ti gli animali che hanno cure parentali devono dedicare parte della loro esisten- za ai bisogni di un’alterità rappresentata dal cucciolo o dal nidiaceo. L’espressione epimeletica in natura si basa su una componente motivazio- nale, vale a dire su una propensione innata a esprimere certe azioni e a essere sensibili verso particolari richiami rispondendo con precisi pattern comporta- mentali. Quando si analizza una fonte motivazionale occorre non solo prende- re in considerazione il significato funzionale e adattativo che ha stabilizzato il carattere in quella specie, ma altresì il significato edonico che l’espressione di detto connotato determina sul soggetto. La presenza di una certa motivazione definisce un’area di orientamento e consumazione, una sorta di languore, che se trova rispondenza espressiva produce gratificazione e appagamento, mentre se non ha agibilità causa frustrazione e depressione. Questo è il motivo per cui un animale rinchiuso in uno zoo, per quanto sottoposto a pratiche di welfare animale, tende a cadere all’interno di compulsioni di ordini sostitutivo o a stati depressivi. Ribadire questo concetto è molto importante perché ci fa compren- dere che, negli animali dotati di motivazione epimeletica, l’atto di cura non è soltanto una donazione, ma un completamento del proprio essere, un’urgenza di pienezza e rispondenza alla propria natura. La componente motivazionale è importante, direi indispensabile nella defi- nizione etografica di una specie, perché è il menù motivazionale – la specificità intrinseca dell’essere desiderante – che definisce i verbi-desideri che un sogget- 17
animal studies 19 to presenta. Ma l’espressione epimeletica per realizzarsi – ossia per trasformarsi da propensione in azione – deve appoggiarsi ad altre componenti come: i) la competenza nel riconoscere il bisogno, ossia nel partecipare alla condizione carenziale dell’alterità; ii) le dotazioni espressive nelle attività di cura, come le conoscenze di accudimento o l’esperienza nella gestione di cucciolata; iii) l’o- rientamento sociale e la complessità sociale, in termini di regole da impartire; iv) la componente emozionale e, in particolare, la sicurezza implicitata in fase ontogenetica, come dimostra ampiamente la teoria dell’attaccamento di John Bowlby. Quindi non si tratta solo di un desiderio espressivo, ma altresì di una competenza-disponibilità, in tutto paragonabile ad altre attività: come il pro- cacciamento di cibo, la capacità mimetica, la migrazione. Da un punto di vista filogenetico possiamo dire che la robustezza del comportamento epimeletico risente: i) del gradiente di bisogno di cura che manifesta il cucciolo per poter raggiungere in pienezza la maturità sociale; ii) della complessità del gruppo sociale, anche solo in termini di numerosità del gruppo, di complessità delle dinamiche sociali, dell’indice di negoziazione delle istanze e della collaborativi- tà richiesta nell’esaudimento dei bisogni. Per quanto concerne le componenti filogenetiche voglio rimarcare la mia posizione sul ritenere l’essere umano tutt’altro che carente nel retaggio filo- genetico. La potenzialità di assumere più profili ontopoietici (educativi e cul- turali) non nasce, a mio avviso, da una carenza – come più volte riportato dalla tradizione umanistica – ma da una virtualità attribuibile a ridondanza del retaggio che consente di assumere più declinazioni. La carenza di fatto limiterebbe il portato declinativo ontopoietico. Per tornare all’epimelesi, è evi- dente che l’essere umano, sia in termini motivazionali sia in termini di com- petenza espressiva, ha sviluppato una dimensione epimeletica estremamente consistente. Quando parliamo di una propensione epimeletica nell’essere uma- no, ci riferiamo ad alcune caratteristiche che, seppur presenti anche in altre specie, hanno una solidità e una rilevanza nell’uomo incomparabile. Il perché è afferibile da un punto di vista filogenetico ai bisogni di cure parentali che il cucciolo umano presenta alla nascita, per una serie di motivi: i) l’immaturità al parto o neonatale, riconducibile alla difficoltà di transito nel bacino rispetto alla grandezza del neurocranio; ii) la lunghezza dell’età evolutiva rispetto alla vita media. Si tratta di uno stato di totale abbandono alle cure parentali, che non ha riscontri, prendendo in considerazione la linea filetica da cui l’essere umano discende, vale a dire tra i mammiferi e i primati, peraltro già specialisti nel 18
prendersi cura del mondo. l’ecologia dell’essere in-relazione comportamento parentale. Il cucciolo d’uomo non è in grado non solo di ag- grapparsi, come fanno le altre antropomorfe, ma nemmeno di tener su la testa, mostrando a tutti gli effetti la sua condizione fetale. Anche i carnivori presen- tano una considerevole immaturità neonatale, ma raggiungono l’indipendenza nel giro di due settimane e hanno poi un periodo evolutivo molto più con- tratto in relazione alla vita media. Immaturità neonatale e lunghezza dell’età evolutiva si traducono in spiccati bisogni di cura da parte del bambino, ragion per cui la nostra specie ha dovuto controlateralmente sviluppare una forte di- sponibilità epimeletica e parimenti una notevole sensibilità verso la richiesta di cura e una robusta capacità di riconoscere i bisogni dell’altro. In generale possiamo dire che l’evoluzione dei caratteri in filogenesi è sempre correlativa, non solo nel senso di adattamento tradizionale all’ambiente e allo stile di vita, ma anche in senso di coerenza interna dei caratteri: non è possibile un incre- mento di bisogni di cure parentali nel cucciolo senza parimenti sviluppare una maggiore propensione alla cura da parte del genitore. Siamo cioè degli specialisti dell’epimelesi, lo siamo già nella nostra natura ovvero in quelle predisposizioni che ci vengono dalla storia filogenetica di Homo sapiens. Lo siamo come specie, lo siamo come appartenenza alle antropomorfe, lo siamo in quanto primati, lo siamo in quanto mammiferi. Cosa significa? Riprendendo quanto detto sulla motivazione, significa: i) che siamo propensi a mettere in atto comportamenti di cura; ii) che il farlo corrisponde a un desi- derio espressivo e che quindi produce soddisfazione e appagamento; iii) che ci muoviamo nel mondo con una forte attenzione a tutto ciò che ha bisogno del nostro intervento; iv) che siamo molto sensibili verso le richieste di aiuto che ci provengono dall’esterno e verso le forme giovanili; v) che costruiamo spazi di agibilità su prassi che favoriscono la crescita come il coltivare, l’allevare, il catalogare, il mettere ordine. Ritengo che la propensione epimeletica dell’essere umano sia fortemente influenzata dalla nostra natura, dalla particolare traiet- toria filogenetica che la nostra specie ha intrapreso. Può sembrare che questo riconduca l’epimelesi a una sorta di determinismo innato e di riduzionismo biologico, ma non è così. Se leggiamo il retaggio motivazionale non come una struttura comportamentale già definita ma come una copula — un progetto verso il mondo — l’espressione epimeletica non è prefissata. La motivazione è una progettualità, incardinata sì su un verbo – desiderio, che tuttavia chiede una specificazione ontopoietica, vale a dire che si rende di- sponibile a evolvere e ad assumere specificazioni espressive assai libere e spesso impredittibili. L’orientamento motivazionale definisce la coordinata predicati- 19
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