CENTRI STORICI E IMMIGRAZIONE

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alleo review © - alessandro dal lago

                          alessandro dal lago
                   CENTRI STORICI E IMMIGRAZIONE
                               La mancanza della dimensione culturale

Affronterò le questioni relative all'immigrazione e il loro rapporto con i centri storici e
le città. Dico subito che secondo me c'è un pericolo nei discorsi demografici (lo dico da
sociologo che fa uso molto parco della demografia), perché in fondo la demografia
lavora soprattutto su proiezioni, su modelli matematici che tengono raramente conto
di variabili politiche emergenziali o meno. Molto spesso quando si legge l'intervento di
un demografo che dice "la nostra popolazione sta invecchiando e diminuendo, mentre
quella del Maghreb sta aumentando e sarà il quadruplo della nostra tra 30 anni", molti
si immaginano una specie di onda di maghrebini in corsa verso l'Europa. Ma ciò signi-
fica poco, perché in realtà non ci dice niente della quota di popolazione disponibile
all'immigrazione, né ci dice nulla dei processi economici che potranno limitarla. C'è un
pericolo nella lettura ingenua di tutti i dati, e in particolare di quelli demografici. L'Italia
gode il singolare privilegio di essere un paese in cui le statistiche sono per lo più inat-
tendibili. Ci sono almeno tre fonti di dati sui fenomeni migratori: alcuni propongono
stime di massima, altri di minima, e altri medie. In particolare quelli di massima ven-
gono forniti dal Ministero degli Interni, che non brilla per "raffinatezza" statistica e con-
trollo dei dati. Quelle di media vengono date dalla Caritas, e quelle di minima (le più
attendibili) sono prodotte dall'ISTAT che tiene conto di un fenomeno di cui gli altri due
enti fino ad oggi non si sono interessati, e cioè i permessi di soggiorno scaduti, cioè il
fatto che tutta una serie di immigrati regolari hanno di fatto ingrossato le file degli irre-
golari per il problema dei permessi scaduti. Parlo di questo perché dovendo interveni-
re in un convegno che ha al centro del suo discutere la città, credo che i fenomeni
migratori, in quanto comportano problemi di convivenza delle cittadinanze, siano
importantissimi da sviscerare in questo contesto. Purtroppo la loro definizione esula
generalmente dall'ambito urbano, anche se in definitiva i fenomeni migratori si avver-
tono soprattutto in ambito urbano, e soprattutto nel centro-nord.

Il fatto sociale totale
Qual è il punto di partenza? È che noi - può sembrare una banalità - dimentichiamo
molto facilmente che quando siamo di fronte all'immigrazione non ci troviamo di fron-
te a un fatto puramente quantitativo, geografico o demografico. Piuttosto siamo di
fronte a quello che semplicemente si definisce un "fatto sociale totale", che vuol dire
non soltanto che ci troviamo di fronte a questioni economiche e politiche, all'impatto

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con le radicate culture urbane, ma anche a un fatto che produce un approccio di tipo
simbolico. In particolare, prima di essere lavoratori che hanno la loro storia, o disoc-
cupati, o in cerca di lavoro gli extracomunitari sono persone che rientrano nella cate-
goria degli stranieri. Ho sempre pensato, e forse un po' in polemica con alcune ten-
denze del discorso filosofico, che lo Straniero, quello con la S maiuscola, non esista
affatto. Potrà essere un eccellente tema di esercitazione metafisica, ma in definitiva
non incontriamo mai le categorie di fronte a noi, non incontriamo le astrazioni. Invece
esistono gli stranieri, stranieri che sono molto diversi tra loro, hanno origini diverse,
hanno culture diverse, e però vengono unificati da che cosa? Dal fatto di trovarsi in
Italia, ovviamente, ma soprattutto dal fatto di essere unificati da noi, popolazione resi-
dente, e quindi di essere categorizzati. Ora non sarebbe difficile mostrare come in
realtà noi quando parliamo di queste popolazioni ci troviamo di fronte a esseri umani,
che vengono categorizzati innanzitutto come stranieri, con una serie di definizioni, più
o meno offensive.

Extracomunitario, razza ed etnia. La società oligoetnica
Consideriamo per esempio la categoria extracomunitario: è noto che si applica agli
australiani, agli americani e agli svizzeri, cioè a tutti coloro che non fanno parte di un
paese dell'Unione Europea. Molte persone di queste nazionalità vivono in Italia, e
hanno un certo rilievo anche numerico. Per esempio gli americani sono circa 250.000:
è difficile che, quando si parla di immigrazione extracomunitaria, ci si riferisca agli
americani come problema sociale, questo vale anche per gli australiani e gli svizzeri.
Oppure possiamo usare questa parola, ma dovremmo dire quella quota di extracomu-
nitari che vengono dai paesi poveri. E quindi introduciamo in questa categoria una
distinzione che in realtà è molto più qualitativa, anche se giuridicamente non ha alcun
titolo, mentre invece la definizione extracomunitario ha, se non altro, una portata giu-
ridica. Il problema dell'immigrazione è una questione della società multirazziale. Anche
se non si è seguaci di quel biologo che ha dimostrato in modo brillante che non esiste
il concetto di razza, si deve convenire che, al di là delle differenze somatiche più evi-
denti, le razze sono in realtà mescolanze, per cui muta la composizione, ma non può
sussistere un definito e definitivo concetto di razza in senso stretto. È probabile che noi
italiani siamo molto più simili ai senegalesi, devo dire ad alcuni gruppi di senegalesi di
quanto siamo simili, non dico ai tedeschi, ma a molti latino-americani. Ma al tempo
stesso, anche se non vogliamo abolire il concetto di razza, non si può ammettere che
pure esistendo tale concetto abbia qualche importanza di tipo sociologico, politico,
morale. Quindi un concetto così poco flessibile non è un concetto sano e probabilmen-
te sarebbe meglio accantonarlo, eppure molti parlano di società multirazziale, tirando-
si dietro questa parola equivoca. Pensiamo pure all'idea di società multietnica, con un
maggiore e incauto aggrovigliarsi di senso attorno alla parola etnico. Gli antropologi

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sono cautissimi sul concetto di etnia e fanno bene. Che cosa sarà mai questa etnia?
Sarà un fattore linguistico, razziale (ma razziale non può esserlo, abbiamo detto), allo-
ra sarà un fatto storico: ad esempio un immigrato berbero magari di nazionalità maroc-
china e di cultura islamica; oppure di religione islamica, però di cultura urbana, quindi
compra e indossa i jeans come noi, gli piace il gioco del calcio, magari il sabato sera
tende - non dico a violare - a "sfumare" la prescrizione, o meglio il consiglio islamico
di non bere birra. È già difficile inglobare queste sfumature, queste possibili sfumatu-
re, in un concetto di etnia. Certo, esisterà una differenza che magari si esprimerà in
termini politici, i berberi non amano, per esempio, Re Assan, ma è lecito parlare di
etnia? Se non è lecito parlare di razza certamente anche il concetto di società multiet-
nica è abbastanza equivoco. Insomma - non vorrei apparire trascinato dalle parole -,
la società multietnica non s'è mai vista; società multietniche in senso stretto non esi-
stono. Potrei dire che possono esistere società oligoetniche, cioè società in cui esiste
una cultura dominante e delle culture marginali. Ormai da oltre quindici anni esistono
numerosi studi sul fallimento potenziale del famoso melting pot americano, ma (come
dice Mike Davies nel suo libro di cultura urbana sulla città di Los Angeles, La città di
quarzo) il problema sembra che il fallimento del melting pot sia avvenuto sul piano
politico, per la difficoltà di integrare (vi è una serie di motivi complessi) sia i neri sia i
latino-americani. Questa difficoltà però non riguarda tanto la questione razziale, e
tanto meno quella etnica, perché l'adattamento anche di altre culture o nazionalità
immigrate negli Stati Uniti, come gli italiani, gli irlandesi, gli ebrei, e poi i tedeschi, è
stato sempre estremamente complesso, doloroso e faticoso. È stato doloroso per alcu-
ni gruppi come i tedeschi o i giapponesi, che hanno subìto, benché cittadini americani,
profonde e gravi discriminazioni tra le due guerre e durante la Seconda Guerra
Mondiale. Se invece guardiamo all'Europa è difficile argomentare in maniera così diret-
ta, anche se proverò a distinguere brevemente tra alcuni modelli. Il modello francese,
che si potrebbe riassumere nelle relazioni fra la società francese e gli ospiti, che sono
stati perlopiù ospiti del cosiddetto Maghre, cioè dell'occidente del mondo arabo, tuni-
sini, marocchini e soprattutto algerini, che è stato quello della naturalizzazione, legata
anche al passato coloniale della Francia e che si potrebbe esprimere molto semplice-
mente per motivi di tempo nello slogan "diritti politici, ma non diritti sociali".
Paradossalmente, proprio dopo la guerra d'Algeria gli immigrati dal Nord Africa sono
stati confinati nella società francese in una condizione che non era (non è) quella di
parità. Il modello inglese (legato alla storia del Commonwealth) forniva diritti politici e
sociali, ma soltanto attraverso una radicale gerarchizzazione della società. È stato veri-
ficato e scritto che gli immigrati dalla Giamaica piuttosto che da altri possedimenti colo-
niali inglesi come il Pakistan o, a suo tempo, l'India, si sono assestati al livello più basso
della società inglese e lì sono rimasti, senza concrete possibilità di superare barriere
molto spesse. Il modello tedesco, apparentemente uno dei più integratori, lo è stato,

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sul piano formale, meno di tutti. Lo slogan che lo contraddistingue potrebbe essere
"diritti sociali, ma non diritti politici". Per esempio, un bambino turco, nato in una fami-
glia turca che vive in Germania da 20 anni, magari parla un tedesco molto più raffina-
to di un bambino nato da famiglia bavarese, però non ha diritti politici e, a seconda
delle emergenze, può essere espulso all'improvviso.

Il non-modello italiano: il problema simbolico
Esiste poi il quarto modello, che chiameremo il non modello italiano. Prima accennavo
al fatto che non esiste la società multietnica, e che al limite si può parlare di società
oligoetniche, ma forse adesso cambierei di nuovo questa parola con oligoculturali. Mi
riferisco al fatto che in Italia ci troviamo di fronte a una situazione molto particolare,
una situazione in cui l'elemento simbolico, e cioè proprio il peso dell'aspetto culturale
grava pesantemente. Numericamente, intanto, la stima di massima parla della pre-
senza di un milione e ottocentomila immigrati; la stima minima di un milione. In
entrambi i casi ci troviamo molto sotto la soglia media di presenza di immigrati da paesi
poveri nella UE. In Europa, generalmente, la presenza si aggira intorno al 4% (è una
media europea), con le punte della Germania, in cui, tempo fa, si è toccata la cifra del
10% di presenze. È chiaro che discutere di un problema del genere, presentandolo in
termini puramente quantitativi è distorto, perché i numeri non ci dicono nulla delle que-
stioni di adattamento, ma i numeri non ci dicono nulla anche quando io parlo di per-
cezione del fenomeno immigratorio, o meglio di "costruzione sociale dell'emergenza",
o "costruzione sociale del fenomeno". Con costruzione sociale del fenomeno si intende
l'idea che se ne fa l'opinione pubblica attraverso il corto circuito provocato dall'intera-
zione tra situazione locale, problema nazionale, suggestione dei media, e così via. Tale
idea, purtroppo, è indipendente, in senso stretto, dalla realtà quantitativa stessa e
anche dalla reale emergenza dei fenomeni. Facciamo due esempi contrapposti e indi-
cativi della "manipolazione" delle informazioni. Ricorderete che nel 1993 a Genova
alcuni cittadini di un intero quartiere cominciarono le ronde di controllo contro rumeni
ed albanesi. I giornali riportavano che le ronde erano scattate dopo che era avvenuto
uno stupro o supposto tale (infatti il fatto non era ancora passato in giudicato) ai danni
di una donna da parte di due rumeni. Insomma, un quartiere si è sollevato, alcuni gio-
vani si sono aggregati in ronde, contro vari profughi dell'Est, perché il loro comporta-
mento è sgradevole. Due di questi immigrati sono stati inseguiti e minacciati, e poi
sono finiti sotto un treno e sono morti. Subito dopo sulla stampa nazionale, in relazio-
ne anche ad un altro stupro avvenuto a Milano, ho letto di una "predisposizione natu-
rale dei balcanici alla violenza sessuale", che non so bene su quali dati statistici si
poggi. Sempre a Genova, nel luglio del 1995 una ragazza è stata aggredita e accoltel-
lata da un tossicodipendente italiano, e salvata da due rumeni che ne hanno impedito
praticamente l'omicidio. Non voglio entrare nel merito dei due fatti. Dico semplice-

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mente che nessuno si sognerà di dire che i rumeni (tutti i rumeni) sono salvatori delle
ragazze in difficoltà, mentre è più probabile (hanno fatto pure le ronde) che scatti,
quasi automaticamente, l'equazione: rumeni e balcanici stupratori. Capisco che il sal-
vataggio è un caso isolato e limite, ma si deve anche comprendere che ci si trova di
fronte a popolazioni immigrate che per motivi di povertà o di disagio sociale o di soli-
tudine o di abbandono, o di altro si trovano in difficoltà. E poi la stampa esagera, al
solito, un po' troppo. A seguito di queste vicende ho letto un articolo di Ceronetti, che
io come traduttore della Bibbia e come bizzarro intellettuale apprezzo e stimo, ma
come lettore di questioni sociali non posso condividere. Qual è la sua competenza in
tale campo? Il suo discorso delirante, o forse soltanto affabulatorio, sullo spermatozoo
omicida che viene dall'Est è inqualificabile. Ceronetti scrive di popolazioni assetate di
sangue che portano tra noi lo stupro, la violenza e l'omicidio. In molti grandi centri
urbani del nord, come a Torino oppure in alcune zone del centro storico di Genova, in
alcuni quartieri di Milano come a Porta Venezia, esiste un problema oggettivo di feno-
meni criminali legati all'immigrazione. Però è opportuno fare alcune distinzioni. Farò un
solo esempio, su cui sto lavorando in questo periodo, e riguarda il centro storico di
Genova che è una città lunga 38 chilometri (da Voltri fino a Nervi) ed ha un centro sto-
rico in cui abitano circa 70.000 persone. In questo centro storico, grande circa tre chi-
lometri per uno, (dalla Stazione Principe fino a Piazza Carignano), sono mobilitati per-
manentemente circa 500 fra poliziotti, finanzieri e carabinieri. Si tratta di pattuglie di
giovani, più o meno di leva, che non mi pare abbiano alcuna conoscenza del fenome-
no immigratorio in quanto tale. Loro sono lì per mantenere l'ordine che però non rie-
scono a mantenere perché riescono soltanto ad arrestare qualcuno in stato di ubria-
chezza oppure in flagranza di reato, mentre più che altro chiedono i documenti. La
media è di circa 50 controlli personali al mese sugli immigrati. Tutto questo non ha
alcun impatto benefico sul centro storico, perché i criminali riescono ad esercitare
comunque le loro attività illegali. Al momento sto conducendo una ricerca per l'Unione
Europea sul rapporto tra mercati illegali e reazioni xenofobe della popolazione e ho
dovuto cercare di capire bene soprattutto il problema dello spaccio di sostanze stupe-
facenti. Lo spaccio di droga si svolge in una zona limitatissima ben conosciuta, in cui
operano più che altro spacciatori maghrebini. Una zona di 100 metri per 50, una delle
zone più cupe e sinistre del centro, in cui operano una trentina circa di spacciatori
(cavalli come si dice nel gergo) spesso adolescenti. Ho parlato con il SIULP (uno dei
sindacati di Polizia) e dicono che per loro la strategia non può essere quella di contra-
stare direttamente lo spaccio, perché l'attacco diretto allo spaccio comporta molti pro-
blemi, tra cui poca gloria e molti rischi. Il vero problema non sono i piccoli spacciato-
ri, ma sta a monte. Una riprova palese delle parole del SIULP è il fatto che dopo l'u-
scita del decreto si è sparso la paura nei vicoli: tutti gli immigrati irregolari non circo-
lavano più; improvvisamente erano scomparsi, da un giorno all'altro, gli spacciatori

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maghrebini. Il fatto è che al loro posto abbiamo trovato 30 spacciatori bianchi, italiani
regolari, che facevano esattamente quello che facevano i maghrebini. Per arrivare più
direttamente alla questione dello slittamento simbolico dalla percezione della realtà
faccio l'esempio di 36 - dico trentasei - nomadi che a Genova sono diventati un pro-
blema sociale durante l'estate. Dei 36 nomadi, 18 sono bambini, e non credo neppure
possano essere definiti extracomunitari. Alcuni di loro, i bambini soprattutto, rubano,
ma dubito che, anche se fossero ladri tutti e 36, possano costituire un problema socia-
le. È curioso che mentre nel centro storico paradossalmente si è trovata una strana
forma di convivenza, nonostante difficoltà oggettive di ogni tipo, curiosamente la cit-
tadinanza si è mobilitata contro questi nomadi, che nessuno (dal sociologo al questo-
re) ritiene significativa. Quando dico che la nostra percezione sembra orientata da fat-
tori simbolici mi riferisco a questo. Che cosa è successo alla nostra società e alla nostra
cultura? Non esistono risposte brevi. Dico semplicemente che in questo tempo, da
quando i fenomeni migratori hanno cominciato a investire (non sono comunque gran-
di numeri, abbiamo detto) l'Italia non è stata tentata nessuna risposta culturale a nes-
sun livello della nostra società. Avere affrontato questi problemi a partire solo da una
risposta emergenziale (anche se necessaria, penso ad esempio ai centri di prima acco-
glienza) ha avuto un effetto negativo, perché equivale ad alimentare il pensiero che in
generale il fenomeno migratorio sia leggibile solo in termini di emergenza.

L'integrazione possibile
È certo che la scolarità dei senegalesi in Italia è molto più alta di quella della popola-
zione italiana della stessa età, perchè molto banalmente le cosiddette piattaforme
migratorie, cioè le città come Dakar nel caso del Senegal, oppure Rabat o Casablanca
nel caso del Marocco, non sono luoghi a cui afferiscono i disperati delle valli o della
savana, ma sono posti in cui si muovono soprattutto persone che hanno certo una
situazione economica terribile, ma che al tempo stesso hanno delle aspettative, e spes-
so anche un'istruzione. I senegalesi, nella grandissima maggioranza, parlano, oltre
all'italiano, anche un eccellente francese e, chiaramente, la loro lingua madre. Cioè,
sono trilingui, cosa scarsamente diffusa tra la popolazione italiana. I senegalesi hanno
una formazione di scuola media superiore, e in circa il 50% dei casi una laurea o un'i-
struzione universitaria. Poiché è noto che la nostra popolazione sta diminuendo e
invecchiando, chiedo perché mai non ci si è posti il problema di interpretare come
nostra risorsa, oltre che come speranza di vita per loro, il fatto che esistono quote di
popolazione immigrata che sono un bene sociale. Se oggi gli immigrati sono un milio-
ne e mezzo può darsi che tra 20 anni siano anche 4 milioni. Non mancherà certo lo
spazio fisico per loro. È il nostro spazio sociale e culturale che non è attrezzato

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