Alle origini del calcio - Filodiritto

Pagina creata da Viola Magnani
 
CONTINUA A LEGGERE
Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752
                                               Direttore responsabile: Antonio Zama

                                   Alle origini del calcio
                                                   09 Marzo 2020
                                                 Giovanni Tarantino

L’estate 2019 passerà alla storia del calcio italiano come quella in cui (tra le varie trattative) l’ex juventino
Antonio Conte è approdato sulla panchina dell’Inter, mentre l’ex napoletano Maurizio Sarri è andato alla
Juventus. C’è chi ha ricordato che Antonio Conte, leccese d’origine, ha allenato anche il Bari e chi tende a
sminuire i clamori notando come storicamente certi movimenti ci siano sempre stati e che non è una novità
il passaggio da una sponda a un’altra avversa. In tema Juve-Inter c’erano già stati i casi di Trapattoni,
Lippi e tra gli altri, andando indietro nel tempo, anche il due volte campione del mondo Giovanni Ferrari,
allenatore sia della Juventus che dell’Ambrosiana-Inter, dopo essere stato giocatore (in entrambi i casi per
cinque stagioni) dei bianconeri e dei nerazzurri.
Oggi, tuttavia, casi del genere sono commentati e giustificati alla luce di una precisa espressione semantica,
che esalta la “professionalità”, il professionismo alla base di una scelta che il linguaggio ultrà, senza troppi
fronzoli, giudica un tradimento. Professionismo: tutto è lecito. A un ragazzino nato nel 2005, e che segue
il calcio, sembrerà assolutamente normale che un ex allenatore vincente al Milan vada alla Juventus, che un
ex allenatore della Juve vada all’Inter, che un ex allenatore della Roma, autore della frase «Mai alla Juve»,
finisca poi regolarmente alla Juve.
Secondo Eduardo Galeano «ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa lì ricomincia la storia del
calcio». Vale allora la pena prendere per mano questo bambino immaginario e condurlo fino alle origini del
football. Per scoprire che il calcio è roba da dilettanti. Almeno ai suoi primordi.

   «Il pericolo, per noi moderni, sta nella tendenza a considerare
   tutte le teorie degli altri tempi e dovute ad altre condizioni come
   assolutamente prive di valore e nel ritenere valevoli solo le
   nostre. Noi ci consideriamo come quelli che primi raggiunsero
   nuovi ed originali punti di vista, ma “nihil sub sole novum”, dice
   il vecchio adagio, e non dobbiamo dimenticare la critica di
   Mefistofele: “Nulla si può pensar di dritto o torto che pensato
   non abbia il mondo antico”».
È una frase di James Richardson Spensley, tra le tante cose fondatore della sezione football (avviata nel
1896) del Genoa Cricket & Football club 1893. La frase di Spensley compare in epigrafe al sontuoso
L’età dei pionieri. Football 1898-1908, curato dalla Fondazione Genoa, ed è tratta da Teosofia moderna,
un libretto dello stesso Spensley – che oltre a essere footballer, fu anche medico, filantropo, studioso di
lingue, filosofie e religioni antiche
, e tra i padri dello scoutismo – recentemente ristampato dall’editore genovese Fabrizio Calzia.
L’eclettismo di Spensley, valutato oggi, traccia differenze abissali con l’immagine che noi abbiamo dei
calciatori.
Genera curiosità scoprire che Spensley, nei suoi anni da calciatore, ha ricoperto posizioni in campo
indicativamente corrispondenti (non esisteva ancora una precisa numerazione delle maglie) ai numeri 5, 3,
1. Mediano, difensore, soprattutto portiere: questo era lecito nel calcio dilettantistico dell’età dei
pionieri. Emilio Colombo, quando Spensley morì in guerra nel novembre 1915, lo ricordò così sullo
Sport illustrato:

   “Sembrava un uomo maturo, lento nei movimenti, invece,
   giuocava bene, era agilissimo, fortissimo. Un preciso colpo
   d’occhio; un’ottima presa, un sicuro coraggio. Fu il primo ad
   insegnare ai nostri portieri la respinta. Guidava la sua squadra,
   l’allenava, la capitanava. Giocatore amava presentarsi in maglia
   bianca e molte volte anche in leggera maglietta rosa”.
Ma non solo, perché in perfetta linea con lo spirito dilettantistico del tempo, Spensley «quando si decise ad
abbandonare il campo di giuoco diventò un arbitro apprezzato e desiderato, perché preciso e
imparziale. Arbitro, appariva in campo in costume blu scuro, filettato in rosso». Ritiratosi in Campetto,
nelle camere dell’hotel Union in cui viveva, «tra i suoi bronzi, le sue miniature, a studiare, a ricercare, a
vivere tutta la sua profonda vita d’artista», Spensley ha anche ispirato una poesia di Edoardo Sanguineti.
Fu arbitro e anche allenatore dell’Andrea Doria. Perché in quel contesto, dove forse fu lo spontaneismo
più che il dilettantismo a farla da padrone, Spensley arbitrò tra le altre anche una Andrea Doria-Torino (0-
0) e una Torino-Milan (1-1) del campionato 1907. Non diversamente da Herbert Kilpin, fondatore del
Milan, e Franz Calì dell’Andrea Doria, primo capitano della Nazionale. Calciatori e arbitri allo stesso
tempo.
Emergeva, in generale, lo spirito che ha contraddistinto l’epoca dei gentleman-amateur, come lo hanno
descritto gli storici Antonio Papa e Guido Panico nella loro Storia sociale del calcio in Italia, «di uno
sportsman, eroe dell’athleticism, impastato di agonismo e di fair play, un insieme di vitalità e di
correttezza, di spensieratezza e di eleganza».
C’è chi ha azzardato paragoni tra Spensley e il brasiliano Socrates, entrambi medici prestati al calcio.
Chissà, tuttavia, che lo spirito del calcio pionieristico Socrates non l’abbia percepito nel 1988 quando ha
indossato la maglia rosa-marrone (pink-chocolate) del Corinthian Casuals, club dilettantistico di Londra,
fondato nel 1882 come Corinthian Fc e poi fusosi nel 1939 con il Casuals. È la squadra cui il Corinthians
paulista, quello brasiliano, deve il proprio nome e la propria maglia bianca: nel 1988 si giocò
un’amichevole celebrativa di questa amicizia, con diretta tv seguita da 15 mila spettatori, con Socrates –
capitano dei paulisti – che giocò metà partita con gli inglesi.
Ma cosa c’entra il Corinthian Casuals col dilettantismo dei pionieri e con l’etica gentleman amateur?
Praticamente tutto. Il Corinthian osteggia essenzialmente una regola: quella del calcio di rigore.
Perché, come ha spiegato Alessandro Polenghi nel corso di una puntata della trasmissione radiofonica
C’era una volta o rei , «nessun gentleman commetterebbe deliberatamente e volontariamente un fallo».
Pertanto, era ritenuta inutile perfino la presenza di un arbitro.
Il Corinthian giocava quindi senza l’arbitro. Era il “Corinthian style”, modus operandi del club che ha
fornito diversi giocatori alla Nazionale inglese ottocentesca e contribuito allo sviluppo del “pass game” nel
calcio. Da statuto, rispettato ancora oggi – il Corinthian Casual milita in Non League, nella Isthmian
League – è proibita la partecipazione a competizioni a premi. Inoltre, il Corinthian Casuals ha sempre
rifiutato di entrare nella Football League, ossia nel professionismo.
Quando nel 1895 Thomas M.M. Hemy dipinse Calcio d’angolo, uno dei primi quadri dedicati al calcio
, raffigurò un gruppo di giocatori di Sunderland e Aston Villa raggruppati alla rinfusa all’interno di un’area
di rigore semicircolare. Il calcio dei pionieri, giova ricordarlo, era solo «calci». I vecchi reportage
raccontano non di due squadre schierate in campo ma di due gruppi, di undici uomini ciascuno, senza
alcuno schema degno di questo nome.
Si passò in breve tempo al cosiddetto “dribbling game”, la cui invenzione si deve al Corinthian, una
delle due squadre che diede vita al Corinthian Casuals, basato esclusivamente sull’azione personale, sulla
forza più che sulla tecnica. Escluso il portiere, tutti i giocatori erano ammassati in mezzo al campo senza un
criterio ben preciso, fino a quando la fase primordiale dell’«uno contro tutti» venne superata grazie agli
scozzesi del Queen’s Park di Glasgow, con l’evoluzione al “passing game”. Fine dei lanci alla viva il
parroco e inizio di un gioco basato su un’idea più razionale. Ma nemmeno per sogno questo significò un
avvicinamento al professionismo: anzi, quelli del Queen’s Park professionisti non lo vollero diventare
mai.
La più antica squadra scozzese, fondata nel 1867, è rimasta fedele al proprio motto latino (sui motti latini
nel mondo anglosassone cfr): Ludere causa ludendi, giocare per il gusto del gioco. Perché risale alla
fondazione del club, che ha tuttora diritto a giocare ad Hampden Park, stadio della Nazionale scozzese, la
regola per cui i calciatori non sarebbero mai stati pagati per giocare. Regola che fa del Queen’s Park
l’unica società amatoriale della Scottish Professional Football league. Idee che resistono nel tempo:
ispirandosi a Ludere causa ludendi,il Palermo calcio popolare, squadra di Prima categoria, ha avviato nel
2019 la propria campagna tesseramenti.
Se oggi, in qualunque parte del mondo si assista a una partita di calcio, esiste la regola del fuorigioco, una
porta delimitata da una traversa, il calcio d’angolo, la rimessa in gioco, il calcio di punizione, la durata
della gara fissata a novanta minuti, tutto questo lo si deve ad amatori (fieri di essere rimasti tali).
Lo Sheffield Football club, fondato nel 1857, oggi militante nell’ottava divisione del calcio inglese, è il
club calcistico più antico al mondo. Nathaniel Creswick e William Prest, tra i fondatori del club, varando
le Sheffield rules, hanno dato un codice universale al calcio moderno per come noi lo conosciamo.

   «Not for money, but for the love of the game»,
ripete ancora oggi il presidente Richard Tims, intervistato dal filmmaker Victor Vegan nel documentario
Where it all began. Da dove tutto ebbe inizio. In Inghilterra fino al 1880 le finaliste di FA Cup erano
formate da ex allievi dei college. Già dagli anni Settanta dell’800, tuttavia, il denaro aveva iniziato a
circolare sotto forma di rimborsi spese e premi di trasferimento, e il professionismo in Inghilterra venne
sdoganato nel 1885.
Da noi bisognerà aspettare ufficialmente il 2 agosto 1926, la riforma dell’ordinamento calcistico italiano
introdotta con la Carta di Viareggio che in primis apriva al professionismo. Il documento divideva
infatti i calciatori in due categorie, dilettanti e non-dilettanti. Dietro la definizione “non-dilettanti”, si
celava quello che fino a quel momento era stato percepito come un malcostume di ambiguità diffuso,
ovvero il riconoscimento di numerosi precedenti di calciomercato avvenuti clandestinamente. Il
primissimo, il passaggio di Renzo De Vecchi dal Milan al Genoa nel 1913 per 24 mila lire, poi quello
di Virginio Rosetta dalla Pro Vercelli – che era rimasta fedele ai valori del dilettantismo – alla Juventus,
nel 1923, per 50 mila lire. Perfino il Guerin Sportivo reagì con sarcasmo:

   “Da oggi, mercé gli sforzi combinati juventino-vercellesi, è
   possibile determinare il valore di una squadra: quella vercellese
   vale 550.000 lire” (50.000 × 11).
Se è vero, come ha scritto Eduardo Galeano, che laddove un bambino prende a calci qualcosa lì
«ricomincia la storia del calcio», è altrettanto vero che, simbolicamente, da quelle 50 mila lire pagate per
il professionista Rosetta riparte la storia del calcio moderno, così come oggi lo conosciamo.
Ma alla fine di questo lungo viaggio, sperando di non averlo stremato insieme al lettore, ci piace pensare
che il bambino immaginario che abbiamo fin qui condotto sappia ora chi erano Spensley, lo Sheffield Fc,
o il Corinthian Casuals. Che magari, se tifoso interista, oltre a sapere di Antonio Conte allenatore della
sua squadra, sappia anche che Achille Gama Malcher, brasiliano nato a Parà, tra i fondatori
dell’Internazionale nel 1908, successivamente si è dedicato all’arbitraggio, perché a quei tempi si poteva
fare.
Oppure, se tifoso juventino, che un giorno vedesse una foto di un vecchio capitano bianconero, che
campeggiava anche sulla copertina della rivista Hurrà: Carlo Bigatto, posa da guerriero, baffi da pirata e
in testa uno strano copricapo alato. Prima centravanti, poi mediano, fu soprannominato “l’ultimo dei
dilettanti”. Rifiutò sempre di essere stipendiato dalla Juventus, non volle mai premi. Una scelta di
autonomia forse dettata dal vizio del fumo, «una condizione privilegiata che gli permetteva di fare quello
che voleva». Ebbene Bigatto fa parte della storia della Juventus. Da molto, molto tempo prima di Cristiano
Ronaldo.

TAG: calcio, storia, Sport (disciplina sportiva)

Avvertenza
La pubblicazione di contributi, approfondimenti, articoli e in genere di tutte le opere dottrinarie e di
commento (ivi comprese le news) presenti su Filodiritto è stata concessa (e richiesta) dai rispettivi autori,
titolari di tutti i diritti morali e patrimoniali ai sensi della legge sul diritto d'autore e sui diritti connessi
(Legge 633/1941). La riproduzione ed ogni altra forma di diffusione al pubblico delle predette opere
(anche in parte), in difetto di autorizzazione dell'autore, è punita a norma degli articoli 171, 171-bis, 171-
ter, 174-bis e 174-ter della menzionata Legge 633/1941. È consentito scaricare, prendere visione, estrarre
copia o stampare i documenti pubblicati su Filodiritto nella sezione Dottrina per ragioni esclusivamente
personali, a scopo informativo-culturale e non commerciale, esclusa ogni modifica o alterazione. Sono
parimenti consentite le citazioni a titolo di cronaca, studio, critica o recensione, purché accompagnate dal
nome dell'autore dell'articolo e dall'indicazione della fonte, ad esempio: Luca Martini, La discrezionalità
del sanitario nella qualificazione di reato perseguibile d'ufficio ai fini dell'obbligo di referto ex. art 365
cod. pen., in "Filodiritto" (https://www.filodiritto.com), con relativo collegamento ipertestuale. Se l'autore
non è altrimenti indicato i diritti sono di Inforomatica S.r.l. e la riproduzione è vietata senza il consenso
esplicito della stessa. È sempre gradita la comunicazione del testo, telematico o cartaceo, ove è avvenuta
la citazione.

                               Filodiritto(Filodiritto.com) un marchio di InFOROmatica S.r.l
Puoi anche leggere