Adriana Bianchin: le mie riflessioni all'incontro di oggi.

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Adriana Bianchin: le mie riflessioni all'incontro di oggi.
LABORATORIO LIBERO PENSIERO PER LA CULTURA DELLA CURA E LA SOCIETA’
                  FINZIONE O REALTA’ ovvero LA RICERCA DELLA FELICITA’
                             Riflessioni dopo l’incontro del 20-11-2020
                                  “La società abbisogna di cure?”

Adriana Bianchin: le mie riflessioni all’incontro di oggi.
Premesso che il mio guadagno di questa sera è stata l'aumentata
consapevolezza che i diritti umani sono essenzialmente un prodotto storico-
culturale, e cioè il risultato di una visione evolutiva dell'epoca e della società in
cui viviamo, l'interessante ed esaustivo intervento del prof. Carlo Beraldo ha
suscitato in me i seguenti interrogativi:
1) Come trasmettere alle nuove generazioni la consapevolezza che i
   summenzionati diritti vanno custoditi, tramandati, e difesi, in quanto
   conquiste mai date per scontate?
2) Come responsabilizzare i singoli alla cura e alla conservazione della propria
   salute, vivendo ciò come un giusto dovere in modo che, soltanto una volta
   espletato, si maturerebbe pienamente il diritto ad accedere a cure il cui costo
   può gravare, anche pesantemente, sull'intera compagine sociale?
3) C'è un non detto che, a mio modestissimo avviso, aleggia cupamente e
   tristemente su tutta la civiltà occidentale. Esso riguarda la relazione che essa
   intrattiene con le sue componenti più fragili e, per così dire, meno produttive:
   bambini, disabili, malati, anziani. In particolare, questi ultimi, dal momento
   che i bambini crescono e i malati possono guarire, in particolare gli anziani,
   dicevo, pur senza dichiararlo esplicitamente, e al di là dell'affezione dei
   singoli, vengono vissuti come uno scarto e un peso che grava
   improduttivamente sulla compagine sociale. Si tralascino i limitati esempi di
   “pantere grigie” in ottima salute fisica e mentale, non a caso ancora creative
   e produttive, e si pensi invece alla grande massa di quei loro coetanei, ad
   esempio ricoverati in quei ghetti eufemisticamente chiamati “case di riposo”.
   Ripeto, a mio modestissimo avviso, NON si è ancora pervenuti, né si cercano
   altre soluzioni, poiché cercarle, e magari trovarle, sconfesserebbe il non
   detto di cui sopra.
Come ho premesso a voce, sono consapevole d'esser stata provocatoria nel
mio intervento che, pur in accordo col relatore, in special modo sul tema degli
anziani, ha purtroppo suscitato, anche senza volerlo, alcune reazioni emotive
invece che serie proposte di soluzioni razionali, mentre mi pare si sia proprio
glissato sulla spinosa questione della responsabilità dei singoli rispetto alla cura
di quel preziosissimo patrimonio che è la propria salute. Spero dunque ci possa
essere ancora modo di confrontarsi, ovviamente quando e se ve ne sarà
l'occasione.
LABORATORIO LIBERO PENSIERO - FINZIONE O REALTA’ ovvero LA RICERCA DELLA FELICITA’ ‐ Ottobre 2020‐Febbraio 2021   1
Adriana Bianchin: le mie riflessioni all'incontro di oggi.
Carlo Beraldo: a proposito del rapporto giovani-anziani
Intendo riprendere anch’io l’interessante discussione che si è aperta venerdì
scorso, in sede di Laboratorio di libero Pensiero, dopo la mia presentazione sul
tema dei bisogni di cura in ambito sociale e poi proseguita con l’intervento scritto
di Adriana, dedicata al rapporto tra generazioni e, in particolare, tra giovani e
anziani. I due poli della discussione, sommariamente, è possibile indicarli nella
presenza o meno di una frattura esistenziale e di memoria tra giovani e anziani.
Mi permetto di proporre una riflessione un po’ più articolata sulla questione
prospettando che la relazione di affetto che può essere presente tra i soggetti
compresi nelle citate due generazioni non automaticamente conducono a una
memorizzazione delle storie di vita e della storia più in generale che le
generazioni più anziane hanno vissuto. Cerco di spiegarmi: sempre più gran
parte degli anziani, a motivo delle profonde trasformazioni che l’istituto familiare
e l’esercizio dei ruoli genitoriali hanno subito e continuano oggi a subire, sono
impegnati a svolgere funzioni sostitutive rispetto a quelle ufficialmente attribuite
ai genitori. Forte accentuazione di separazioni e divorzi1 con correlato aumento
di nuclei monogenitoriali, molte nascite al di fuori di rapporti consolidati2,
costante aumento (ed è sicuramente un dato positivo, a parte l’attuale e si spera
momentanea crisi) dell’impegno professionale da parte di ambo i genitori ed
altro ancora comportano, anche a causa di limitati servizi di accoglienza
educativo/ricreativi, il coinvolgimento dei “nonni” a supplenza educativa. Trova
quindi giustificazione l’affetto che molti ragazzi provano verso i propri nonni per
la loro dedizione avuta quand’erano bambini; è invece da dimostrare che tali
relazioni dense di componenti affettive si siano contraddistinte anche di
memorie e di riflessioni sui “tempi passati”. Va anche verificato, nell’ipotesi che
ciò eccezionalmente fosse avvenuto, se tali memorie hanno trovato sponda
negli insegnamenti che l’istituzione scolastica ha proposto ai medesimi ragazzi;
in proposito i dubbi sono più che legittimi.
Altro problema emerso nel dibattito di venerdì scorso ha riguardato l’assistenza
agli anziani che, spesso nelle situazioni di non autosufficienza e di solitudine
sono costretti a trascorrere l’ultima parte della loro esistenza nelle strutture
residenziali a loro dedicate. Anche qui il problema è insieme culturale e
demografico. Culturale perché è indubbio che l’odierna società ha una
considerazione oggettivamente assistenzialistica verso coloro che sono gravati

1
 Fenomeno che comporta ogni anno, per il solo Veneto circa 5.500 minori coinvolti dalla separazione legale dei genitori
a cui vanno aggiunti circa 4.000 minori coinvolti dal divorzio e a questi vanno ancora sommati le diverse migliaia di
minori – dato difficilmente quantificabile, ma solo ipotizzabile – coinvolti da separazioni di coppie genitoriali solo
conviventi – fonte ‐ istat 2018

2
    34% su circa 36.000 nati – istat 2018

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da deficit di autonomia (anziani non autosufficienti primariamente), e insieme
demografico perché la stragrande maggioranza degli anziani fanno ormai parte
di quei limitati generatori di prole avendo messo al mondo, quando è accaduto,
non più di uno o al massimo due figli, figli che a loro volta, se impegnati
professionalmente o con propria famiglia a carico difficilmente sono disponibili
a limitare o a eliminare impegni e oneri ormai caratterizzanti la propria esistenza.
Nel passato a fronte di dinamiche culturali ed esistenziali diverse e a una
pluralità di prole disponibile la dedizione ai propri genitori non più autonomi era
sicuramente favorita; ma quei tempi, ahimè, se ne sono andati e credo per
sempre.

Il suggerimento di Luciano Urbani
“Poco è stato fatto in questi mesi per intervenire seriamente sulle gravi
carenze di professionisti sanitari” - InfoNurse – 5 novembre 2020

Serafina Robertucci - OPI - Ordine delle Professioni Infermieristiche - Potenza

“Lo scenario 4, il peggiore previsto dall’Istituto Superiore di Sanità nel
documento Prevenzione e risposta al COVID-19; incombe perché è concreto il
rischio che le misure di contenimento del virus varate dal governo e dalle
governance regionali della Sanità; non riescano a invertire la curva dei contagi
e dunque a ridurre l’indice di trasmissibilità (Rt).

Per il Commissario all’emergenza COVID-19 Domenico Arcuri non si è ancora
raggiunto il livello di guardia nelle Rianimazioni; ma se si continua a non
controllare la diffusione del Coronavirus, il sovraccarico dei servizi assistenziali
metterà a rischio la tenuta del Servizio Sanitario”.

Serafina Robertucci, appena eletta presidente dell’ordine degli Infermieri di
Potenza, lancia l’allarme.

“Poco è stato fatto in questi mesi – sottolinea la rappresentante della categoria
più colpita dalla prima ondata – per intervenire seriamente sulle gravi carenze
di professionisti sanitari; portate alla luce da questa crisi sanitaria senza
precedenti. Non è un caso se abbiamo subito il triste primato del 47 % dei
contagiati sul totale dei casi in Sanità; visto che il personale spesso è stato
costretto a operare in scarsità di dispositivi di protezione individuale adeguati a
garantire la sicurezza”.

“Tutte le misure – spiega Serafina Robertucci – adottate nella prima fase della
pandemia (turni straordinari, mobilità tra reparti, bandi straordinari a tempo
determinato, reclutamento di personale in pensione,…) si sono dimostrate
insufficienti ad arginare questo evento di straordinaria gravità: nessuna infatti ha
agito sulle carenze strutturali del sistema, stremato da una ventennale cura

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feroce a base di tagli del personale e dei posti letto. Riproporle oggi servirebbe
solo a instaurare un sistema caratterizzato dalla precarietà: un “gigante dai piedi
di argilla”.

“A questo punto, invece – osserva la presidente dell’Ordine – bisogna affrontare
la questione strategica della carenza cronica di Infermieri. Nonostante tutto
abbiamo affrontato in prima linea, con grande senso di responsabilità e impegno
l’emergenza, pagando un prezzo umano altissimo. In termini di contagio, di
stress, di affaticamento: siamo i professionisti più esposti perché più vicini al
paziente. Ma i numeri sono impietosi.

Il taglio della spesa sanitaria non ha ridotto solo i posti letto, soprattutto di terapia
intensiva; ma ha determinato un grave deficit di infermieri, sia in ospedale sia
sul territorio. Un solo dato: nel Nord Europa ci sono dieci infermieri ogni 1000
abitanti, in Italia poco più della metà: 5,7 ogni mille abitanti. Occorre quindi
riorganizzare immediatamente il Servizio Sanitario, potenziando i servizi
territoriali, più vicini alle esigenze dell’utenza; per soddisfare le richieste di
continuità assistenziale, affidandone la gestione anche alla figura dell’Infermiere
di famiglia”.

“Continueremo a fronteggiare – conclude Serafina Robertucci – la seconda
ondata ma speriamo di ritornare presto a navigare in acque più tranquille. Ne
usciremo più consapevoli dell’importanza del lavoro di squadra, più pronti ed
elastici a sposare nuovi modelli organizzativi, più convinti che il faro dell’agire
quotidiano è riconoscere e gratificare la nostra splendida professione. I membri
del Consiglio Direttivo dell’OPI di Potenza; parte integrante della compagine
infermieristica, sosterranno i professionisti impegnati sul campo in questo
difficile momento, impegnandosi a percorrere tutte le strade per la tutela
professionale”.

Il commento di Luciano Urbani:
È caduta la foglia di fico?
Scoperta la sanità precaria ovvero il disastro incombente sottaciuto?

Sorprende questa dichiarazione in quanto la responsabilità di questa situazione
è si della politica ma soprattutto del management sanitario e in particolare della
pseudo dirigenza infermieristica che non ha fatto nulla per smarcarsi da questa
scelta anzi risulta connivente per mantenere la “carega”.

Ma la presidente Robertucci evita di dichiarare il vero problema del Sistema
Sanitario Nazionale: il medico di base o di famiglia è un imprenditore privato il
cui interesse personale è prioritario sull’interesse collettivo. Risultato è
l’instaurarsi di un regime di precarietà, perché non esiste una vera prevenzione
e assistenza territoriale.

Infatti già precedentemente a questa crisi, continuamente i pronti soccorso degli
ospedali erano affollati da pazienti soprattutto anziani che cercavano una

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risposta al bisogno di cura. È sempre più i reparti ospedalieri di ogni specialità
risultavano accampamenti di pazienti-profughi di altra specialità per mancanza
di posto letto con il risultato di compromettere l’efficacia del reparto stesso.

Infatti l’incidenza dell’assistenza a questi pazienti orfani di cura specifica sono a
totale carico degli infermieri del reparto che vengono distratti dal compito
precipuo diversamente dai medici che si occupano solo dei propri pazienti in
numero minore e di fatto hanno un impegno molto diminuito rispetto all’impegno
degli infermieri.

Quindi se in tempi normali l’ospedale era ridotto ad un accampamento, come
può oggi risultare la situazione in corso di pandemia?

Perché sembra che l’ospedale privato risulti migliore?

Perché il privato non ha gli obblighi del pubblico. Non ricovera pazienti di altri
reparti. Spesso non ha i servizi essenziali come la terapia intensiva o il servizio
di emodialisi.

Ma il più grande spreco in sanità è la certificazione ISO 9000 “la rivoluzione del
servizio di cura per l’applicazione dei principi di qualità”. Tutto molto bello ma
semplicemente virtuale. Infatti gli audit e le verifiche della implementazione della
qualità avviene solamente su parole scritte mai sulla realtà operativa.
Importante è pagare ogni anno la profumata tariffa per confermare il certificato
da appiccicare al muro.

Mancano medici? Si, soprattutto nel territorio come dipendenti del SSN, che
assieme agli infermieri si prendano cura del paziente a domicilio.

Quindi prendere atto che non c’è sanità senza infermieri: ne mancano 60 mila.

Il suggerimento di Luciano Urbani

"Presidente Fontana, noi infermieri ci aspettiamo
considerazione per la nostra professionalità"
VareseNews 13 novembre 2020

Lettera aperta degli Ordini professionali lombardi degli infermieri al Presidente
Fontana, una risposta alle parole di incoraggiamento inviate la scorsa settimana.
Tra i firmatari anche il Presidente dell'OPI Varese Aurelio Filippini.

Illustrissimo Presidente Attilio Fontana,

la ringraziamo per la stima che nutre nei nostri confronti e per il pensiero che ci
ha riservato tramite comunicazione del 04/11/2020.

Allo stato attuale dei fatti purtroppo non è pensabile che sia sufficiente.

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Sono davvero toccanti le parole usate da Papa Francesco e riprese nella
comunicazione, ma dal Presidente di Regione Lombardia decisamente ci si
aspetta che sia considerata la nostra competenza professionale oltre alla
"tenerezza" che contraddistingue il nostro agire.

Noi infermieri, da febbraio ad oggi, abbiamo prestato assistenza fin dall'esordio
della pandemia di COVID-19 negli ospedali e nei servizi del territorio:

     ? Abbiamo garantito sino allo stremo delle forze la riorganizzazione e
      la nostra presenza negli ospedali per assicurare l'assistenza e la cura ai
      cittadini;
     ? Abbiamo trasformato l’essenza delle strutture del territorio, progettate e
      organizzate per erogare servizi alle persone fragili e/o affette da
      patologie croniche, in reparti per acuti;
     ? Abbiamo garantito l’assistenza domiciliare anche con estrema
      difficoltà a reperire i DPI necessari;
     ? Siamo stati disponibili ad assistere i malati nei COVID Hotel a
      supporto degli ospedali;
     ? Abbiamo offerto collaborazione per poter sviluppare insieme strategie
      atte ad affrontare l’aspettata recrudescenza della pandemia anche
      analizzando le criticità emerse nella primavera;
     ? Consapevoli della necessità di professionisti a sostegno della rete
      erogativa a garanzia della risposta al bisogno di cura che “dobbiamo” ai
      cittadini, abbiamo accettato, temporaneamente, di snaturare il ruolo
      dell'infermiere di famiglia e comunità con logiche “Prestazionali”
      sovrapponibili a quelle al servizio di assistenza domiciliare integrata
      lontane da quanto descritto nel position statement di FNOPI.

Nessuno di noi si è tirato indietro nell’affrontare questa situazione e certamente
continueremo ad impegnarci con competenza e senso etico in quella che Lei ha
definito una lotta. Per tale motivo le chiediamo fatti concreti a supporto del nostro
operato per metterci nelle condizioni adeguate per poter continuare a garantire
l’assistenza al cittadino:

     ? Predisporre sistemi di processazione dei tamponi rino-faringei che
      rispondano quantitativamente alle necessità di contenimento dei positivi
      e restituzione precoce degli esiti;
     ? Riconoscimento delle competenze specifiche della professione.
      Ad esempio constatiamo, a malincuore, che nella delibera N° XI/3777
       in merito all'utilizzo dei tes antigenici, non è stata prevista la figura
      infermieristica, come possibile soluzione alle numerose somministrazioni
      necessarie e successiva lettura del test antigenico rapido;
     ? Definire percorsi continuativi di sorveglianza nelle strutture
      territoriali;

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 ? Messa a disposizione dei vaccini antiinfluenzali per tutto il personale
      sanitario del settore pubblico e del settore privato, anche operanti in
      regime di libera professione;
     ? Garantire a tutto il personale sanitario screening e sorveglianza
      sanitaria adeguata, per prevenire la diffusione del SARS-CoV-2 fra gli
      operatori in qualsiasi contesto di cura;
     ? Garantire la sicurezza delle cure, attraverso l’adeguato rapporto
      infermiere-paziente nei contesti ospedalieri. Nelle terapie intensive ogni
      infermiere deve assistere un massimo di due pazienti. Anche nei reparti
      di degenza, in particolare ove presenti pazienti ad elevata complessità
      assistenziale che necessitano di supporto respiratorio tramite CPAP è
      importante che il numero di infermieri sia adeguato. Ricordiamo che la
      letteratura scientifica indica come standard un rapporto di 1 infermiere
      ogni 6 assistiti per ridurre la mortalità e migliorare gli esiti delle cure in
      maniera sensibile;
     ? Riformare il Servizio Sanitario territoriale prevedendo il corretto
      inserimento dell’Infermiere di famiglia e Comunità, la comunicazione
      con tutti gli attori della cura territoriale (sanitati, sociosanitari e sociali) e
      le istituzioni locali ASST e ATS garantendo omogeneità su tutto il
      territorio;
     ? Garantire efficienti percorsi per la gestione extraospedaliera dei
      malati cronici di qualsiasi tipo e dei malati COVID-19;
     ? Intervenire nel soddisfacimento dei bisogni di screening, di cura dei
      pazienti elettivi, riaprendo i percorsi e dedicando adeguate risorse
      umane (prestazioni annullate e liste d’attesa);
     ? Adeguamento delle quote economiche riconosciute ai servizi del
      territorio in modo da permettere un’idonea retribuzione allineata al
      sistema pubblico;
        ? È oltremodo urgente concretizzare anche nei fatti i progetti che
         abbiamo portato all'attenzione di Regione Lombardia a supporto degli
         ospedali e del territorio. Quel territorio che risulta stremato non solo
         dall'epidemia ma anche dalla carenza di risorse infermieristiche, da una
         politica sanitaria che non ha saputo valorizzare le nuove idee proposte e
         ha scarsamente investito nella nostra professione.
Noi infermieri siamo sempre vicini ai cittadini con le nostre competenze per
continuare questa “lotta” fino in fondo ma per poterlo farlo è necessario un
supporto concreto.
Non siamo eroi ma professionisti che con competenza e serietà
continuano a mettere a disposizione degli altri il nostro servizio.
Non esiste Sanità senza Infermieri e senza azioni concrete da parte della
Regione, non possiamo continuare a combattere il COVID adeguatamente ed
efficacemente, nel rispetto delle condizioni di sicurezza per noi e per i nostri
assistiti».
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Adriana Bianchin: le mie riflessioni all'incontro di oggi.
Fatti o opinioni?
Luciano Urbani – dalle slides dell’incontro di venerdì
La Costituzione sancisce l’uguaglianza e la pari dignità sociale dei cittadini
“senza distinzione di condizioni personali e sociali e la tutela della salute
come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettivita`”

Il commento di Valter Fascio:
”Nessuno ha il coraggio di obbligare i privati a "mettersi al servizio" del pubblico,
neppure in questa fase della grave emergenza. Ed i privati ci lucrano pure...”

Oriana Fallaci:
"Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie; lo si fa per principio,
per sé stessi, per la propria dignità."
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Il suggerimento di Luciano Urbani

Né angeli né eroi, semplicemente: infermieri
Gennaro Grimolizzi - 13 Novembre 2020

“Non chiamateli eroi, ma semplicemente infermieri”. La professoressa Rosaria
Alvaro, Presidente del Corso di Laurea in Infermieristica e del corso di Laurea
magistrale in Scienze infermieristiche e Ostetriche dell’Università di Roma Tor
Vergata, è molto chiara. Negli anni si è creata una immagine attorno alla figura
dell’infermiere che spesso ha posto in secondo piano il grande ruolo sociale
svolto. Con la pandemia, però, le cose sono cambiate. L’infermiere è un pilastro
della professione sanitaria, come dimostrano i grandi sacrifici in corsia al fianco
dei medici. Con obiettivi chiari: curare al meglio i malati e salvare le loro vite.

Professoressa Alvaro, la pandemia sta ridisegnando la                                                             figura
dell’infermiere. È sempre più importante per il sistema sanitario?

«La pandemia ha reso visibile il lavoro degli infermieri. Improvvisamente tutti i
mass media hanno iniziato a parlare di medici e infermieri. Sono stati
quotidianamente intervistati infermieri nelle terapie intensive, infermieri che
rispondevano alle chiamate dei cittadini dal 118, infermieri degli ambulatori che
facevano i tamponi, coordinatori infermieristici che stavano organizzando le
strutture dell’emergenza, dirigenti infermieri che come responsabili del
personale dell’intera struttura sanitaria parlavano dell’emergenza clinica e
organizzativa. Finalmente i cittadini si sono resi conto che per una risposta
all’emergenza sanitaria il sistema si basa su due professioni complementari e
ambedue necessarie: i medici e gli infermieri. Sono quindi stati invitati a tanti
programmi televisivi sia medici che infermieri e si sono sostenuti ed integrati
dimostrando che l’obiettivo comune era la tutela della salute del cittadino. La
pandemia ha fatto vedere una figura infermieristica nuova diversa e
sconosciuta. Non quella che ancora oggi abbiamo nel nostro immaginario
collettivo e che ha reso negli anni la professione infermieristica una scelta
secondaria e finalizzata a trovare presto un lavoro, ma una professione
autonoma competente e necessaria».

Molti hanno definito “angeli” ed “eroi” gli infermieri perché in prima linea
a combattere la guerra contro il Coronavirus e a difendere il proprio Paese.
Si esagera?

«Angeli, eroi. No, semplicemente infermieri. Infermieri guidati dalla
consapevolezza di essere in grado di agire in modo autonomo e responsabile,

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consapevoli di avere le conoscenze teorico pratiche e quindi la formazione
necessaria da mettere al servizio dei cittadini e delle comunità perché il bene
del Paese Italia passa anche attraverso coloro che sono chiamati a curare e a
prendersi cura. I ruoli in cui si esplicano le funzioni infermieristiche,
dall’infermiere, al coordinatore, al dirigente vengono agite competenze
professionali specifiche che richiedono una formazione post base dai Master di
primo livello in area clinica o gestionale, alla laurea magistrale, al dottorato di
ricerca. Tutte le competenze agite richiedono una presa di responsabilità
richiesta non solo dalle normative vigenti ma soprattutto dal senso di
responsabilità legato al ruolo sociale che rivestono gli infermieri che oggi più che
mai si pongono come agenti attivi nel contesto sociale a cui appartengono e in
cui esercitano, promuovendo la cultura del prendersi cura e della sicurezza
quale garante delle persone che assiste. Concludo con un aforisma di uno
studente di infermieristica dell’ultimo anno di corso rimasto anonimo che ha
pubblicato questa frase per definire il senso della professione che stava per
intraprendere e che riassume il senso della professione “Salva una vita e sei un
eroe, salva cento vite e sei un infermiere”».

Ci è voluta una pandemia per rendersi conto del ruolo degli infermieri?

«Fortunatamente la considerazione pubblica della figura infermieristica sta
cambiando perché finalmente ci si rende conto quanto sia importante la
medicina del territorio e l’assistenza sul territorio. Una battaglia che gli infermieri
conducono da sempre, ad esempio attraverso l’infermiere di famiglia o di
comunità. Una figura, questa, in grado di incidere positivamente anche sugli
attuali scenari epidemiologici. Si tratta di evoluzioni importanti. Potrei dire:
meglio tardi che mai».

Ci sono sempre più giovani, nonostante il momento delicato, che
frequentano i vostri corsi?

«Il numero di giovani che studiano infermieristica è elevato, ma il fabbisogno di
infermieri nel nostro Sistema Sanitario Nazionale è talmente elevato che le
iscrizioni e quindi il numero dei laureati purtroppo non sono sufficienti a coprirlo.
Una situazione figlia di una politica poco lungimirante del passato, di una errata
programmazione. Le Università si stano impegnando fortemente per colmare
questo gap, mettendo a disposizione il maggior numero possibile di posti per i
corsi di Scienze Infermieristiche».

Si legge sempre più spesso che c’è una carenza di personale
infermieristico. Ma cosa vuol dire che “mancano gli infermieri”?

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«Le stime sugli infermieri che mancano al Sistema Sanitario Nazionale variano
a seconda delle federazioni o dei sindacati che le calcolano, ma in linea di
massima prima dell’epidemia si stimava una carenza di 50mila unità rispetto al
reale fabbisogno. La pandemia ha radicalmente cambiato le necessità degli
ospedali e delle altre strutture sanitarie, pertanto nonostante le assunzioni di
infermieri degli ultimi mesi questa carenza ancora sussiste in modo importante.
Secondo il rapporto OMS tra il 2013 e il 2018 il numero di infermieri nel mondo
è aumentato di 4,7 milioni. Ma questo lascia ancora una carenza globale di 5,9
milioni».

Cosa si sta facendo per aumentare il livello di preparazione di chi studia
Scienze Infermieristiche e si appresta ad andare a lavorare nelle strutture
sanitarie?

«Da parecchi anni ormai la formazione infermieristica vive e si evolve nelle
Università. I percorsi di studio sono molto impegnativi. L’articolazione in ambito
universitario prevede l’accesso al Corso di Laurea Triennale in Infermieristica.
La frequenza al corso è obbligatoria e sin dal primo anno lo studente è
impegnato in attività teoriche e in attività pratiche. L’impegno dello studente è a
tempo pieno e in questo corso di studi a differenza di tutti gli altri percorsi
universitari un credito formativo equivale a 30 ore e non a 25. Quindi uno
studente deve frequentare 5600 ore nei tre anni per poter accedere all’esame
finale e abilitarsi alla professione di infermiere. Dopo l’abilitazione può accedere
ai Master di primo livello in ambito organizzativo o clinico oppure accedere
sempre tramite concorso al Corso di laurea Magistrale in scienze
infermieristiche ed ostetriche e quindi al Dottorato di Ricerca o ad un Master di
Secondo livello».

È importante formarsi con dei Master?

«Certo. L’impegno delle Università è quello di sviluppare dei modelli educativi
sempre più innovativi in tutti i livelli formativi per mettere in condizione gli
infermieri di esercitare subito la professione nei diversi setting assistenziali e
con responsabilità ed autonomia commisurate al livello formativo. Tuttavia,
purtroppo ancora i Master conseguiti dagli infermieri soprattutto in ambito clinico
non hanno il giusto riconoscimento contrattuale e lavorativo per cui molti
infermieri che frequentano i master con l’unico obiettivo di diventare sempre più
competenti li frequentano a loro spese e dovendo superare molte difficoltà
organizzative familiari e lavorative. Il problema è che poi molto spesso non
ottengono il giusto riconoscimento economico e qualche volta vengono
impiegati in aree differenti dalle competenze acquisite».

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La ricerca è fondamentale per aumentare il livello della professionalità.
Quali iniziative state portando avanti nella sua università?

«Le Scienze infermieristiche di “Tor Vergata” sono state classificate dallo
Shangai Ranking’s, Global Ranking of Academic Subjects, al trentaseiesimo
posto nel mondo ed al primo posto in Italia. Questo non è poco se consideriamo
che il numero dei docenti strutturati di scienze infermieristiche a Tor Vergata è
di sole due unità. L’università Tor Vergata è leader in Italia nella disciplina
Infermieristica, anche perché ha investito tantissimo nella ricerca infermieristica.
La Scuola di Dottorato in Scienze Infermieristiche e Sanità Pubblica è molto
attiva e oggi sono più di settanta gli studenti iscritti. È proprio il Dottorato che ha
rappresentato un vero volano per l’attività scientifica professionale che ha
portato gli infermieri italiani ai vertici della ricerca internazionale. Non un
impegno meramente teorico, ma la ricerca intesa soprattutto come strumento
per migliorare la qualità delle prestazioni rese ai cittadini e la qualità di vita delle
persone sane e malate. Inoltre la collaborazione con il Centro di Eccellenza per
la Cultura e la ricerca Infermieristica dell’Ordine professionale di Roma, ci ha
dato la possibilità di avere molti assegnisti di Ricerca e borsisti che hanno
portato avanti le linee di ricerca orientate soprattutto in ambito clinico. Speriamo
in futuro di poter aumentare l’organico dei professori sia nell’Ateneo di Tor
Vergata ma anche a livello nazionale».

L’American Academy of Nursing l’ha nominata Fellow. Un prestigioso
riconoscimento alla sua grande esperienza e alla sua università…

«Questo riconoscimento è la testimonianza di quanto l’infermieristica italiana sia
impegnata nello sviluppo di politiche sanitarie orientate agli interessi dei cittadini
e di quanto stia facendo anche per migliorare la ricerca. Un riconoscimento
prestigioso per i nostri sforzi, a testimonianza che le nostre ricerche vengono
osservate con grande interesse da altri Paesi a sanità avanzata. Un orgoglio per
tutti gli infermieri italiani un traguardo che è stato possibile raggiungere grazie
ad un grande lavoro di squadra fatto negli anni con tutte le istituzioni: università,
ordini professionali e centri di ricerca. Oggi siamo solo cinque infermieri italiani,
Loredana Sasso, Alessandro Stievano, Gennaro Rocco, la sottoscritta ed Ercole
Vellone, ad aver avuto l’onore di ricevere questo riconoscimento ma mi auguro
che tantissimi infermieri italiani entrino a far parte dell’America Nursing
Association che è una delle più autorevoli e potenti organizzazioni degli Stati
Uniti».

Il commento di Luciano Urbani:
“La celebrazione degli impiegati: Rosaria Alvaro non ha mai fatto
l’infermiera”.

LABORATORIO LIBERO PENSIERO - FINZIONE O REALTA’ ovvero LA RICERCA DELLA FELICITA’ ‐ Ottobre 2020‐Febbraio 2021   12
Il commento di Valter Fascio
Mi spiace dover ribadire che si tratta di persone che non hanno mai lavorato,
vivono sul pianeta Urano e soprattutto non hanno mai lavorato in prima linea,
non si rendono neppure conto che nella realtà quotidiana (oggi più che mai)
l'infermiere - anche per colpa loro- non soltanto continua ad essere il tuttologo
oltreché il factotum di turno. Senza che gli pseudo-dirigenti infermieristici o quelli
cooptati dalle aziende o gli accademici universitari "fellows" del nulla cosmico,
"fellows" di carriere personali si siano mai lamentati o esposti, ne abbiano mai
scritto una parola in difesa dei colleghi meno "fortunati" e in prima linea.

Il contenuto di questa intervista è miserevole, descrive una professione che non
esiste, lo specchio opaco di una società confusa e ipnotizzata che non si è mai
accorta dell'importanza degli infermieri; altrimenti ora non li definirebbe sui mass
media e social "privilegiati" "dipendenti pubblici" e lamentosi "stronzi di turno".

L'intervista e piena di paroloni vuoti, frasi fatte e dette al vento, scontate e inutili
in questo frangente per aiutare la Professione "in guerra" (parole pronunciate
dal ministro della salute).

Non compare una frase che narri quello che sta succedendo o quello che è già
successo nella Professione. Non vi è parola che si discosti dal mainstream per
una richiesta urgente di riconoscimento economico e contrattuale. Infine, non
abbiamo bisogno di mummie professionali imbalsamate fuori dal tempo,
"fellows" del pensiero unico conformista come tutto il resto del Paese e del
mondo, bensì di qualcuno, anche uno soltanto dei nostri emeriti dirigenti che pet
una volta nella sua esistenza fittizia abbia un pensiero laterale nuovo e
finalmente vero ed autentico.

Le intellighenzie della professione che vivono nell'universo di Escher
dovrebbero rientrare alla base terra e prendere esempio (proprio in questi giorni
di guerra) dall’Abate armeno del Monastero di Davidank che si rifiuta di
abbandonare la sua Chiesa di fronte ai soldati turco-azeri che minacciano e
sparano: "La mia Chiesa è qua." La mia professione è qua! Non altrove nelle
stanze degli alti comandi delle torri d'avorio protette dai guardiani di Orwell.
Questo sarebbe il mantra che dovrebbero ripetere all’unisono tutti i vari fellows
del nulla... In prima linea, nell'ospedale e in mezzo ai colleghi che stanno
rischiando la propria vita e salute. Siamo stufi di quelli che non sanno guardare,
non vogliono vedere e sono sempre allineati. Stanchi delle collaborazioni
professionali resilienti ed uniformate, dei buonismi codardi e dei sincretismi
mainstream con politici, giornalisti e governanti di ogni sorta.

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Il suggerimento di Luciano Urbani

E’ così difficile abbandonare una narrazione della professione
infermieristica socialmente fallimentare?
Andrea Farris - REDAZIONE NURSE TIMES - 12/11/2020

Una professione è percepita socialmente come tale anche in base alla
narrazione che sa fare e imporre nella società di se stessa. Se dovessi fare un
video di presentazione della mia professione e del ruolo dell’infermiere di Area
Critica sarebbe più o meno così:

Sono Andrea Farris Infermiere. Dopo la Laurea in infermieristica e il Master in
Area Critica; ho lavorato per sette anni in Terapia Intensiva e ora lavoro presso
il servizio 118. Io sono quel professionista che è in grado di garantire il
mantenimento delle tue funzioni vitali di base durante la criticità; sono quel
professionista che ha la responsabilità di gestire le vie aeree artificiali e la
ventilazione mentre sei intubato in una rianimazione; sono quel professionista
che ha le capacità e la responsabilità di valutare costantemente il tuo stato di
salute e mettere in atto tutti gli interventi necessari a prevedere ed evitare
eventuali peggioramenti.

Sono il professionista che, dopo averti accompagnato nella fase più critica,
cederà la responsabilità della tua salute ad un altro collega; altrettanto
preparato, che ti accompagnerà nella guarigione e nella riabilitazione.

LABORATORIO LIBERO PENSIERO - FINZIONE O REALTA’ ovvero LA RICERCA DELLA FELICITA’ ‐ Ottobre 2020‐Febbraio 2021   14
Trenta secondi di video, dove si parla di formazione, competenze capacità e
responsabilità di una professione. Si perché una “professione intellettuale” è
percepita come tale nella società se viene associata a questi fattori acquisendo
autorevolezza.

E invece NO. Evidentemente sbaglio io nella mia visione di rilancio sociale
dell’infermiere.

Il web, ormai da 15 anni, pullula di video realizzati sia da organi professionali
che da singoli professionisti dove il copione è sempre lo stesso e sempre
fortemente impregnato di uno stantio spirito missionario: “Ho scelto di fare
l’infermiere per aiutare le persone”; “Ho scelto di fare l’infermiere perché è una
professione di servizio”; Ho scelto di fare l’infermiere per stare vicino ai pazienti”.

Cosa pensiamo di comunicare ai cittadini con queste iniziative dal punto
di vista della formazione, competenza e responsabilità? Assolutamente
nulla; e a dimostrarlo tutti i giorni c’è la continua discrepanza tra le
responsabilità acquisite dall’infermiere e la percezione “ancellare” che
l’utenza ha di noi.

Il motivo è semplice, un’affermazione del genere non comunica minimamente,
nella percezione di chi l’ascolta; la visione dell’infermiere come protagonista
attivo del percorso di cura; ma mantiene la percezione dell’infermiere come
figura marginale, non essenziale nel raggiungimento dell’obbiettivo salute.
Non è un caso se i nostri colleghi fisioterapisti, ostetriche e tecnici di radiologia
etc, avendo avviato ed avendo lavorato ad una narrazione differente della
propria professione; ad oggi hanno una considerazione sociale e una
autorevolezza superiore alla nostra. Tanto che molti colleghi mi hanno più volte
segnalato come l’utenza contesti alcune scelte infermieristiche su materie di
esclusiva competenza infermieristica; come la gestione della medicazione di
una tracheostomia con frasi de tipo “me l’ha detto il fisioterapista” oppure “me
l’ha detto il logopedista”; dando per scontata una scala gerarchica ideale di
competenze e preparazione di cui l’infermiere rappresenta l’ultimo anello.

E allora mi chiedo se non si possa fermare questa macchina propagandistica
fallimentare e, a bocce ferme; avviare un dibattito sul racconto che vogliamo
fare di noi stessi alla popolazione ponendoci obbiettivi di riconoscimento sociale
ben precisi e sulla base di questi elaborare con professionisti piani di marketing
strategici. Perché se questo cambiamento parte dagli organi professionali, dai
sindacati di categoria e dalle associazioni degli infermieri; allora in breve tempo
l’intera professione potrà cambiare la narrazione di se stessa e, con questa
rivoluzione, la sua percezione sociale.

LABORATORIO LIBERO PENSIERO - FINZIONE O REALTA’ ovvero LA RICERCA DELLA FELICITA’ ‐ Ottobre 2020‐Febbraio 2021   15
Il commento di Luciano Urbani:
“Ecco il super infermiere ER, lui sa veramente cosa è la professione!”

Il commento di Valter Fascio:
Quindi la professione è quello che dice lui... Ma lui lavora come ER. E gli
infermieri che lavorano in medicina, in psichiatria, in geriatria, al sert, alle cure
domiciliari, poliambulatorio, nelle rsa, nelle cooperative, cosa ne pensano? E
questo l'infermiere oggi?

Solite chiacchiere. La gente vede cosa fanno gli infermieri, sa quanto
guadagnano, da chi dipendono e che hanno autonomia decisionale zero...
Non è questione di fare i tecnici

Il problema dell'infermiere e il ruolo di tuttologo-factotum (che si porta dietro
dagli anni '70), figura spostabile da un reparto e da una specialità all'altra senza
problemi proprio come avviene in questi giorni. Se l'infermiere è il "supertecnico
della rianimazione" allora dovrebbe starsene SOLO in rianimazione. Durante
l'emergenza covid hanno messo infermieri psichiatrici in rianimazione! Quando
manca l'oss mettono un infermiere. Ci sono infermieri sul territorio che fanno gli
autisti per mancanza di autisti, le sociali per assenza delle sociali, impiegati per
mancanza di impiegati, centralinisti e portinai per mancanza delle relative figure,
triagisti quando nei supermercati usano i sorveglianti o il personale di
cooperative, fotocopisti-tecnici informatici perché se si inceppa un fax o una
stampante il medico non sa dove mettere le mani.

Se vale il discorso di questo novello ER agli infermieri non dovrebbero neppure
insegnare i medici all'università. Da li parte lo scandalo. Non dovrebbero essere
valutati dal primario e neppure dipendere da questi. Dovrebbero essere tutti
dirigenti esattamente come i medici e gli psicologi che sono laureati. Dovrebbero
percepire l'esclusività. Dovrebbero avere delle ore non assistenziali come i
medici per potersi aggiornare. Dovrebbero poter svolgere la libera professione.
Dovrebbero guadagnare quanto il medico. Dovrebbero stare nello studio come
il medico e a questo punto al letto del paziente andarci solo gli oss...

La gente queste cose le vede e la sa. Da questo dipende l'immagine e lo status
dell'infermiere. Non da poter fare lo ER o meno.

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Forse sarebbe utile leggere questo pensiero di Marcello Veneziani:

ll vero problema del nostro tempo (cfr. quindi delle professioni) il vero squilibrio,
è che non esiste un terreno comune in cui riconoscersi pur nelle differenti
sensibilità, non esistono più campi neutri e non esistono soprattutto ruoli di
mediazione; sono venute meno le figure, le istituzioni, gli arbitri super partes.
Per cominciare, un tempo quel terreno comune si chiamava civiltà, tradizione,
religione, scuola, educazione. Si potevano avere idee differenti, sensibilità
divergenti, ma c’era un mondo comune, c’era qualcosa che veniva accettato da
tutti come realtà, come natura e c’era qualcos’altro che apparteneva comunque
a tutti, tramite il linguaggio, l’uso e il costume delle generazioni, che chiamiamo
civiltà. Quel terreno comune, quel senso, è saltato, e per taluni il male della
nostra epoca diventa proprio la nostra civiltà, le nostre radici, il nostro modo di
essere, la scuola, l'educazione o mutatis mutandis la nostra realtà famigliare e
personale, quel che siamo in natura. Libertà, per costoro, è libertismo, liberarsi
dalla propria natura, liberarsi dalla propria civiltà e dai suoi pregiudizi. Il
progresso è inteso non come sviluppo di ciò che eravamo ma emancipazione
da ogni origine, liberazione dal passato, frattura rispetto alla provenienza; conta
dove io voglio andare, non da dove vengo né da che mondo comune
proveniamo. Conta soltanto lo sviluppo della tecnica (cfr. vedi il nostro novello
infermiere ER) la quale autopoietica distruggerà l'economia, che a sua volta oggi
ha già distrutto l'umano).

E fino qui già salta un primo importante universo condiviso, che pure poteva
essere declinato in modi differenti.

Ma il secondo, importante punto di mediazione che è saltato è rappresentato
dalle istituzioni, dai media, dai “terzi”. Un tempo si pensava che bene o male,
chi più chi meno, e magari ciascuno a suo modo, ma c’erano figure super partes,
istituzioni super partes; c’era qualcosa che somigliava all’informazione
“obiettiva”, c’era la garanzia della magistratura. Insomma si pensava che
esistessero luoghi “terzi” rispetto alle parti in campo e che fosse loro compito
tentare una mediazione e dare una minima garanzia.

Tutto questo è saltato, e la percezione comune rende questo squilibrio ancora
più marcato. La mediazione è saltata, e ogni tentativo di concordia e
pacificazione, avviene solo se accetti una precisa e non reversibile divisione dei
ruoli: loro governano, voi vi opponete; loro detengono il potere, voi siete fuori;
loro sono i padroni, voi siete i serventi.

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Repubblica 20 novembre 2020

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