7 MARZO 2018 - UFFICIO STAMPA - Provincia Regionale di Ragusa
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Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA 7 MARZO 2018 LA SICILIA
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA 7 MARZO 2018 LA SICILIA
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA 7 MARZO 2018 LA SICILIA
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA 7 MARZO 2018 G.D.S. SEGUE
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA 7 MARZO 2018
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA 7 MARZO 2018 G.D.S. SEGUE
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA 7 MARZO 2018
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Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA 7 MARZO 2018 G.D.S.
POLITICALOCALE 7/3/2018 Il restroscena Centrodestra ko, attacco a Musumeci I forzisti: “Il governatore si è disimpegnato”, in bilico gli equilibri dell’esecutivo di Palazzo d’Orleans antonio fraschilla Considerando le aspettative della vigilia del voto, in Sicilia c’è un vero sconfitto ancor più del Partito democratico renziano: il centrodestra, lo stesso che appena qualche mese fa aveva portato a termine la scalata a Palazzo d’Orleans. All’indomani di quel risultato, guardando al voto del 4 marzo, il coordinatore di Forza Italia Gianfranco Micciché diceva sicuro: « Con queste percentuali in Sicilia possiamo vincere nell’uninominale 28 a 0, non ci ferma nessuno » . Risultato? Il cappotto c’è stato, ma dei grillini. E anche alcuni collegi che sembravano sicuri, tanto che vi erano stati candidati senza paracadute esponenti di Forza Italia di spicco, alla fine sono andati ai 5Stelle. Nel centrodestra è già iniziato il rimpallo di responsabilità e le tensioni rischiano adesso di scaricarsi sul governo Musumeci: perché in casa Forza Italia l’ala più vicina a Micciché imputa lo scarso risultato « agli alleati scomparsi alle urne » e anche al governatore « assente del tutto da questa campagna elettorale » , mentre sul fronte della destra si alzano gli scudi per difendere Musumeci sottolineando come il risultato di domenica scorsa sia «la prova evidente che senza Nello il centrodestra avrebbe perso anche alle regionali ». Uno scontro a distanza tra due anime che non si sono mai amate all’interno della coalizione di governo, uno scontro che si accende non a caso alla viglia di appuntamenti “ delicati”: dalle nomine dei manager della sanità e delle società partecipate, entrambe rinviate da Musumeci a dopo il voto, alla Finanziaria che dovrà passare da una Sala d’Ercole che rischia di trasformarsi in una palude per il governatore. Ma su tutto c’è subito il mini rimpasto all’orizzonte con l’assessore ai Beni culturali Vittorio Sgarbi che potrebbe lasciare la poltrona per fare il senatore ( anche se lui ha sempre smentito questa possibilità): poltrona, questa, che vuole Forza Italia. E proprio dal partito di Berlusconi nell’Isola arrivano i principali malumori. A Siracusa uno dei volti storici tra i forzisti già domenica sera ha chiamato Micciché per ricordargli che « il pessimo risultato della coalizione è da imputare anche all’assenza di Musumeci » : « A questo punto che cosa ci ha portato stare al governo fino a oggi? » , ha detto al coordinatore di Fi nell’Isola. Micciché, dal canto suo, sui giornali ha sottolineato «l’ottimo risultato di Forza Italia che ha superato il 20 per cento in media in tutti i collegi». Tradotto: per i berlusconiani che guardavano a un 28 a 0 per loro, pensando poi di passare all’incasso a Palazzo d’Orleans, la debacle è colpa degli alleati. Il neodeputato Francesco Scoma, braccio destro di Micciché, fa un ragionamento chiaro e chiede la convocazione di un vertice di maggioranza: « Mi pare sia normale dopo una elezione fare il punto insieme agli alleati, vedere chi ha avuto più peso e chi meno, e cosa è cambiato dalle regionali — dice Scoma — per carità, la valanga 5 stelle è frutto anche del crollo del Pd: ma dalle urne viene fuori una Forza Italia forte, intorno al 20 per cento, mentre i nostri alleati sono
calati e di molto. A tutti ricordo, poi, che a breve ci aspettano altri appuntamenti elettorali, dalle amministrative alle provinciali e il prossimo anno le europee ». Insomma, Forza Italia chiederà spazio nella coalizione in vista di nomine, Finanziaria e mini rimpasto. Un’antifona già arrivata al cerchio magico di Musumeci. Non a caso il neosenatore Raffaele Stancanelli mette le mani avanti e lancia un messaggio chiaro al campo berlusconiano: « Alle regionali abbiamo vinto perché c’era un progetto politico serio, credibile e coerente incarnato da Musumeci. Grazie a Nello abbiamo bloccato l’avanzata dei 5Stelle. Musumeci ha salvato il centrodestra con la sua figura di rigore e coerenza, che ha tenuto anche nei primi mesi di governo con scelte limpide». Scelte che non sono piaciute a gran parte dei forzisti, a cominciare da quella di non voler nominare subito politici alla guida di spa ed enti controllati. Una cosa comunque è fuori di dubbio: la sconfitta del centrodestra accelererà una resa dei conti nella maggioranza che si annuncia dall’esito molto incerto. © RIPRODUZIONE RISERVATA I protagonisti Sopra il governatore Nello Musumeci sotto il presidente dell’Ars Gianfranco Micciché
POLITICALOCALE 7/3/2018 La polemica Dirigenti Pd alla resa dei conti e Orlando congela la nuova giunta Giusi Spica I dem che contestano Faraone chiedono ai vertici siciliani di fare “un passo indietro” Nel mirino anche il flop della scelta di Giambrone Per i ribelli dem, Fabio Giambrone, il fedelissimo del sindaco Leoluca Orlando, scelto come capolista del Pd a Palermo ma castigato dalle urne ( ha mancato l’elezione alla Camera), è solo l’ultimo esempio della «linea perdente» delle «candidature imposte dall’alto». Linea scelta dal segretario nazionale Matteo Renzi e del suo braccio destro nell’Isola Davide Faraone. Sono loro, secondo l’ala ribelle che racchiude i cosiddetti partigiani dem, tanti circoli territoriali e i veterani come Antonello Cracolici e Giovanni Panepinto, gli artefici della disfatta. Tutti chiedono un passo indietro ai responsabili e l’azzeramento dei quadri dirigenti siciliani. Orlando dopo il flop del suo candidato si è chiuso nel silenzio e studia le future mosse in vista del rimpasto della giunta comunale ( con nuovi assessori dem) che adesso è un percorso a ostacoli. Ma dal suo staff assicurano che i cambi di testimone ci saranno. « Il sindaco — sussurra un fedelissimo — ha scelto di aderire al Pd e non farà passi indietro solo perché non è stato eletto il suo candidato » . Ad attendere le mosse del primo cittadino sono anche i partigiani dem guidati dall’ex responsabile organizzazione del Pd Antonio Rubino che ieri sono venuti allo scoperto per chiedere l’azzeramento dei vertici e una fase di ricostruzione: «Orlando è un arricchimento per il Pd, purché non sia a disposizione di una sola parte del partito o, peggio, alla guida di una corrente». I partigiani dem che subito dopo la presentazione delle liste avevano dato il via alla “ resistenza passiva”, con militanti che si sono autosospesi in tutte le province, da Caltanissetta ad Agrigento a Messina, ricordano i numeri della disfatta: « Nel 2013 il partito aveva aletto 20 deputati e 4 senatori siciliani, oggi soltanto sei ( quattro deputati e due senatori)». Una Caporetto che riaccende il fronte anti- Faraone. Dopo l’uscita a caldo del deputato regionale Antonello Cracolici che ha additato Matteo Renzi e Davide Faraone come responsabili della sconfitta, ieri ha tuonato l’ex deputato regionale Giovanni Panepinto, big del partito nell’Agrigentino, che sin dall’inizio ha contestato la campagna acquisti di Faraone rivolta a uomini del centrodestra o di altri schieramenti piazzati nelle liste: «Ai tanti militanti, dirigenti e amministratori del Pd che sono in ogni paese della Sicilia dico che saremo presenti in tutte le sedi del partito e non ci faremo intimorire dall’arroganza » . Il sindaco renziano di Siracusa Giancarlo Garozzo replica a chi protesta: «Chi oggi attacca Renzi dimentica o fa finta di dimenticare chi ha guidato il Pd in Sicilia negli ultimi anni. Chi parla di opportunisti e scelte sbagliate dimentica probabilmente di essere il responsabile principale del disastro del proprio governo regionale». Un affondo nemmeno tanto velato verso chi, come Antonello Cracolici, ha fatto parte del governo Crocetta. © RIPRODUZIONE RISERVATA
CRONACA 7/3/2018 L’inchiesta Regione, soldi a Montante? Ecco i finanziamenti al setaccio La procura indaga sui fondi gestiti dai fedelissimi dell’ex presidente degli industriali SALVO PALAZZOLO L’inchiesta su Antonello Montante è a una nuova svolta. La procura di Caltanissetta indaga sui finanziamenti dell’assessorato regionale Attività produttive diretto negli ultimi anni da due fedelissime dell’ex vice presidente nazionale di Confindustria, Linda Vancheri e Mariella Lo Bello. Lunedì scorso, i poliziotti della squadra mobile nissena sono arrivati a Palermo per acquisire alcuni atti ben precisi negli uffici di via degli Emiri, quelli relativi ai fondi per Expo e per i progetti sponsorizzati dalla Unioncamere Sicilia diretta da Montante. Un fiume di soldi, milioni di euro, che potrebbe aver foraggiato imprese vicinissime all’influente manager oggi indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Ci sono quattro pentiti ad accusarlo di rapporti equivoci con esponenti della famiglia mafiosa di Serradifalco. E, adesso, l’ultimo blitz alla Regione proietta l’indagine Montante su un altro crinale delicato, quello delle relazioni politiche e societarie. Un intreccio che era stato già ipotizzato nell’avviso di garanzia notificato nel gennaio di due anni fa. I magistrati di Caltanissetta parlavano di una «gestione opaca di alcune società allo stesso Montante (in passato o ancora oggi) direttamente riconducibili». E le perquisizioni erano scattate anche nelle sedi di alcune aziende. Una di queste, l’Antico Torronificio nisseno, è stata l’unica ditta del settore a partecipare all’importante iniziativa “Sicily food project” gestita dall’assessorato Attività produttive. Una vetrina che ha messo in contatto 30 aziende siciliane con 36 buyer internazionali. E altre aziende che rappresentano l’eccellenza dell’agroalimentare in Sicilia sono rimaste fuori. Ora, l’inchiesta punta a verificare se quelle scelte furono pilotate da Montante, tramite il suo assessore di fiducia Linda Vancheri, lei stessa esponente di Confindustria. Le indagini dei sostituti procuratori Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso sono coperte da uno stretto riserbo. Non trapela nulla di più di quello che è segnato nell’ordine di esibizione di atti mostrato ai funzionari dell’assessorato Attività produttive. Nel provvedimento, che è firmato anche dal procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci, c’è solo quel riferimento ai finanziamenti, per Expo e Unioncamere, senza alcuna indicazione dell’ipotesi di reato per cui si procede. Potrebbe già esserci un nuovo filone dell’inchiesta condotta dalla squadra mobile diretta da Marzia Giustolisi, un filone di accertamenti che vanno oltre le accuse di mafia ed entrano nella fitta rete di relazioni istituzionali intrattenute da Montante, fino a pochi anni fa uno dei simboli della svolta antimafia di Confindustria e grande sostenitore della giunta Crocetta. Linda Vancheri è stata in carica dal novembre 2012 al luglio 2015. Con le sue dimissioni dal governo dell’Isola, si era
parlato di un disimpegno di Montante e della sua Confindustria dalla politica regionale. Erano i giorni in cui l’esponente di Confindustria si misurava con le prime avvisaglie dell’inchiesta per mafia, si dimise anche dall’agenzia per i beni confiscati. Adesso, ipotizza l’inchiesta di Caltanissetta, l’influenza di Montante sul governo Crocetta sarebbe proseguita attraverso un’altra fedelissima, Mariella Lo Bello, magari meno esposta della Vancheri, ma comunque ben inserita nella rete di relazioni del manager di Confindustria. E l’inchiesta prosegue. © RIPRODUZIONE RISERVATA L’industriale. Antonello Montante /
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA 3 MARZO 2018 LA SICILIA
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA 3 MARZO 2018 LA SICILIA
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA 3 MARZO 2018 LA SICILIA
Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA 3 MARZO 2018 LA SICILIA
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POLITICA 7/3/2018 Il caso Intese con M5S e leadership il Pd diviso va alla conta cresce la fronda anti Renzi Franceschini: niente accordo con Di Maio. Ma è scontro sul no assoluto a trattative La minoranza: referendum tra gli iscritti. Nuovo segretario senza fare le primarie, si tratta tommaso ciriaco, roma Un alleato, almeno uno Matteo Renzi prova a riconquistarlo in gran segreto al Nazareno. Con Graziano Delrio si ritrova faccia a faccia di buon mattino. Discutono, provano a chiarirsi. I delegati della direzione che fanno capo al ministro, d’altra parte, sono preziosi per evitare un clamoroso ribaltone interno. Ma al Nazareno lo scontro resta comunque violentissimo. I big vogliono la resa del segretario, senza condizioni. E sono pronti alla conta nei gruppi parlamentari, per scegliere due capigruppo che “ gestiscano” le consultazioni senza sbattere la porta in faccia al Quirinale, in caso di appello alla responsabilità di fronte allo stallo sul nuovo governo. Il nodo resta la possibilità di aprire una discussione con il M5S, senza il quale nessuna formula di governo è possibile. Per evitare la frantumazione, gli ambasciatori delle due cordate lavorano in queste ore anche a un clamoroso compromesso: il prossimo segretario non sarebbe scelto da un congresso, ma durante un’assemblea nazionale dem che dovrebbe tenersi in aprile, dopo le consultazioni. Non un reggente, quindi, ma una figura di compromesso destinata a durare fino alla scadenza naturale nel 2021. Sia chiaro, i rapporti sono deteriorati oltre il livello di guardia. Paolo Gentiloni si muove quasi come un oppositore del renzismo. Dario Franceschini pretende che il segretario abbandoni il timone a un traghettatore scelto dai rivoltosi. E anche Marco Minniti e Maurizio Martina, Anna Finocchiaro e Andrea Orlando sono ormai avversari del capo. Il partito è appeso a un filo, insomma. E così, la leadership renziana. « Mi sono dimesso, ho concesso la mia testa, cosa devo fare di più? Io sono fuori – scherza con gli amici – dimenticatevi di me». Un primo segnale di disgelo il segretario lo lancia nel pomeriggio. Decide di disertare la direzione di lunedì e affida al suo vicesegretario la relazione. E proprio Martina, in rotta con il capo, assicura che proporrà il “ no” a ogni accordo con i cinquestelle. Ma è soltanto un modo per allontanare la resa dei conti. Sulla carta, infatti, quasi tutti i big - ad eccezione delle minoranze di Emiliano e Orlando, che chiedono un referendum tra gli iscritti per decidere - sono ostili a un patto con il Movimento. «Non ho mai pensato sia possibile – sostiene Franceschini - L’unica strada giusta è andare all’opposizione. Nel Pd siamo e saremo tutti d’accordo su questo. Ma dovremo però ragionare degli errori compiuti e delle strade da scegliere per rifondare sia il partito che il nostro campo». Ecco il vero nodo che ritorna: il pensionamento anticipato del leader di Rignano. In molti gli voltano le spalle, in queste ore. Un pressing fortissimo che ruota attorno alla figura di Martina. C’è chi vorrebbe affidargli subito la transizione, per arrivare all’assemblea nazionale
d’aprile e scegliere senza ostacoli un successore di Renzi. Ma l’obiettivo del leader è evitare proprio questo scenario. Vuole il Pd all’opposizione, Renzi. Lasciare logorare gli altri al governo. Riorganizzarsi per elezioni anticipate. «Non accetterò mai un esecutivo con Di Maio, non esiste. Berlusconi e Salvini? Stessa risposta: mai con gli estremisti. Se qualcuno vuole proporre un accordo con loro, lo faccia in direzione». Il segretario, quindi, non ha intenzione di ascoltare gli eventuali richiami del Colle alla mediazione. Esattamente il contrario di quanto pensano i suoi avversari interni. La resa dei conti, però, si consumerà in due tempi. Il primo tempo è previsto in direzione, dove però i renziani contano sulla carta su numeri amplissimi. Certo, lo smarcamento di Martina e Franceschini – assieme ai dubbi di Delrio – rendono la partita più incerta. Ma il passaggio più delicato resta il secondo, e cioè la scelta dei prossimi capigruppo dem. Renzi, per adesso, assicura che non proporrà Maria Elena Boschi. Ma il problema è che il presidente del gruppo si vota a scrutinio segreto. E che a Palazzo Madama i renziani rischiano di non godere della maggioranza che tutti si aspettano. Proprio da questa considerazione nasce la mediazione a cui lavorano in queste ore i capi della diplomazia. La trattativa è ancora allo stato embrionale. Ma l’idea sarebbe quella di individuare due figure di compromesso per il ruolo di capigruppo alla Camera e al Senato. Una diretta espressione dei nuovi avversari del leader, l’altra più spostata sul renzismo. Entrambe, però, dovrebbero attestarsi sulla linea del “no” secco a ogni ipotesi di governo. Il secondo punto dell’accordo “ salva Pd” passerebbe dalla scelta di un profilo di mediazione per la nuova segreteria, da eleggere durante un’assemblea nazionale in aprile. Niente congresso né primarie, dunque, ma un accordo per gestire una legislatura d’opposizione. Lo statuto lo consente, a patto che il nuovo leader sia votato dai due terzi dell’assemblea. In teoria, i renziani sfiorano da soli questi numeri. Ma visto che i nemici si moltiplicano, servirebbe comunque un’intesa con il resto del partito. La carta è tenuta rigorosamente segreta, ma in queste ore i nomi fioccano: da Sergio Chiamparino a Nicola Zingaretti, passando per Carlo Calenda. Difficile però che il nome esca da questa terna. Serve un profilo capace di unire, così alto da evitare la disgregazione finale del Pd. “ Alla Veltroni”, spiegano gli ambasciatori per chiarire l’identikit. © RIPRODUZIONE RISERVATA Il segretario non parteciperà alla direzione di lunedì, lasciando la relazione al suo vice Martina
POLITICA 7/3/2018 Il personaggio Alla resa dei conti Calenda, il papa straniero con la regia di Gentiloni “Per ora mi iscrivo, poi...” GOFFREDO DE MARCHIS, ROMA L’operazione Calenda ha il copyright di Gentiloni. Lo dice l’interessato ai suoi collaboratori: «Ogni mia mossa è concordata con Paolo. Il mio punto di riferimento nel Pd è lui». Perché proprio il ministro dello Sviluppo Economico come figura da contrapporre a Renzi? Il premier pensa che sia l’unica personalità in grado tenere unito il partito: non compromesso con il passato, capace di aprirsi a mondi nuovi, non legato ai codici della vecchia sinistra, il solo in grado di portare dalla sua parte una fetta dei renziani e della loro cultura. Mentre il segretario dimissionario si dibatte nelle polemiche interne al partito sconfitto, aprendo una fase di totale introversione, Carlo Calenda può parlare “fuori” dal Pd risolvendone, in tempi medi, la crisi. Perciò Gentiloni battezza il nuovo percorso del ministro appena arriva la notizia della sua iscrizione al Partito democratico. «Grazie», twitta. Naturalmente il premier sapeva prima. La regia è tutta sua. Calenda, in sintonia con Gentiloni, da tempo si prepara a imboccare la strada della politica. Il suo interventismo sui social network, con una strategia di apertura assoluta e di risposte a tutto campo, non dipende un’improvvisa voglia smanettona. «Non so cosa resterà di questa mia attività sul web. Ma costruisco una popolarità che altrimenti da tecnico non avrei mai avuto», diceva qualche settimana prima del voto. Lunedì notte dopo la sconfitta e soprattutto dopo la conferenza stampa di Renzi, che non è piaciuta praticamente a nessuno, Gentiloni ha dato il via libera a Calenda. Primo passo: prendere la tessera del Partito democratico. E primo inciampo. «Ho scoperto che i termini del tesseramento sono chiusi e al circolo respingono la mia domanda. Pazzesco. Dobbiamo riaprire le porte del partito, vale per me e vale per tutti. Racconterò questa cosa in televisione». Stasera comincia la lunga marcia, adattata al secondo millennio: ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo. Ha sentito anche Renzi. «È stato molto affettuoso», riferisce Calenda agli amici. «Mi ha dato il benvenuto poi ci siamo mandati a quel paese come sempre». Sempre in armi contro i renziani (Boschi e Lotti sono stati i suoi nemici giurati in consiglio dei ministri), il ministro dello Sviluppo non riesce a parlare male del segretario. Non crede che il Pd debba ricominciare da zero, pensa che molta parte dell’esperienza del governo Renzi vada salvata. Non l’ex premier, però, che deve fare un passo di lato. È anche convinto che occorra «cambiare la linea» e in fretta possibilmente «perché — confessa ai suoi interlocutori — si andrà
a votare presto: fra sei mesi al massimo. Se zompa il Pd, zompa l’Italia. Siamo l’unico partito che ha una cultura di governo progressista». Non vuole mettere bocca nel caos che si è aperto nel Pd e ora si avvita sulle poltrone dei capigruppo e delle vicepresidente. «Mica sono matto. La politica né una brutta bestia». Non fa scalate alla segreteria, non si lancia verso le primarie. Per ora. «Il giorno in cui vorrò fare il leader del Pd, lo dico. Punto e basta». Non si permette di dettare la linea politica. Anzi, condivide il no agli inciuci, il non allearsi con nessuno, pronunciato da Renzi. Ma intorno a lui, cominciando da Gentiloni, si aggrega un’area che punta a costruirgli l’immagine di “Papa straniero”, più volte evocata nel centrosinistra. Del resto Calenda non ha mai messo piede al Nazareno. Per l’anno zero può essere un buon inizio. L’annuncio e il ringraziamento di Gentiloni Carlo Calenda ha annunciato su Twitter la sua intenzione di impegnarsi nel Pd. A strettissimo giro il “Grazie Carlo!” del premier “Entro nel Pd” Il ministro Carlo Calenda annuncia: “Mi iscrivo”
POLITICA 7/3/2018 La strategia M5S, senza aiuti dal Pd il piano è tornare al voto d’intesa con la Lega L’arma finale se mancano i numeri: nuova legge elettorale con Salvini Ma il leader spera nel ribaltone dem per far partire il suo governo Annalisa Cuzzocrea, Roma «È presto», ripete Luigi Di Maio a chi gli mette davanti i no del Pd alle offerte di dialogo del Movimento 5 stelle. «Aspettiamo - ripete il capo politico - vi ricordate quanto ci è voluto l’ultima volta? » . La guerra di logoramento è appena cominciata. E prevede anche un’arma da fine del mondo: « Se non ci faranno fare nulla, possiamo sempre votare una nuova legge elettorale insieme alla Lega e tornare alle urne. Continueremo a crescere. Di certo, è l’ultima cosa che vogliono». Non è questo, però, il tempo delle minacce. Questo è il tempo dell’attesa. La lettera a Repubblica dimostra la volontà di Luigi Di Maio di aprire una reale trattativa sul programma per un “ governo di cambiamento” (per quanto la formula ricordi quello fatto fallire ai tempi del mandato esplorativo di Pier Luigi Bersani). I 5 stelle si ritrovano paradossalmente nella stessa situazione a parti invertite. Di Maio lo sa, ma vuole dimostrare che il Movimento è cambiato. Che è maturo. Che le sue istanze non vengono da un’astrusa ideologia coltivata in rete, ma dal viaggio fatto mettendosi in ascolto del Paese e delle sue esigenze. Per questo, ripete i punti su cui vorrebbe far convergere il centrosinistra: lotta alla povertà e agli sprechi della politica, immigrazione e sicurezza, meno tasse per le pmi (e non è un caso che il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia lanci segnali di apprezzamento). Il piano A, quindi, tiene ferma la possibilità di offrire la presidenza della Camera a una figura di garanzia che attiri l’appoggio pd. I 5 stelle sono convinti che al Senato la spunterà invece il leghista Roberto Calderoli ( Paola Taverna, cui era stato offerto il ruolo di capogruppo, si sta preparando per quello di vicepresidente). E considera anche l’ipotesi di rafforzare la squadra di governo con innesti dem ( « Ci sono figure piuttosto deboli - racconta un deputato di peso - direi che alla candidata ministra dell’Interno possiamo rinunciare facilmente. E che Marco Minniti non ci dispiacerebbe affatto»). Il piano B vede la presidenza della Camera a un 5 stelle e - appunto - una guerra di logoramento il cui esito finale potrebbe essere o la capitolazione del Pd ( che estromette dai giochi Matteo Renzi) o un’intesa con la Lega sulla legge elettorale che rimandi il Paese al voto. Per la guida di Montecitorio - nonostante i rumors su Emilio Carelli - si sarebbe impuntato Roberto Fico. Cui Di Maio dovrà pur concedere qualcosa, ma che costituirebbe un problema vista la sua scarsa duttilità nel caso servisse fare un accordo col centrodestra. Del piano C, quello di un governo del presidente con dentro tutti, i 5 stelle per ora non vogliono sentir parlare. Né
pensano sia possibile, come diceva ieri l’economista della Lega Claudio Borghi, allearsi con tutto il centrodestra ( « Fare un governo dove siamo in minoranza? Non è un’opzione). A cena alla pizzeria La Pariolina, lunedì sera, Beppe Grillo scherzava con gli amici mentre Davide Casaleggio, Luigi Di Maio e Roberto Fico ( arrivato apposta da Napoli) si interrogavano sulla strategia. C’erano anche Riccardo Fraccaro, Paola Taverna, l’immancabile Pietro Dettori e - più tardi - il vicepresidente del Parlamento europeo Fabio Massimo Castaldo, che molto si sta muovendo per ritagliarsi un ruolo futuro. « Le dichiarazioni di Emiliano e dei suoi non bastano - ragionava il leader - bisogna tener d’occhio l’ala di Orlando e capire se hanno la forza di ribaltare la volontà di Renzi e delle truppe che si è portato in Parlamento » . L’idea lanciata dalla minoranza, di un referendum interno al Pd per decidere se accettare il dialogo con i 5 stelle, apre una breccia. Rafforzata dalle parole di Francesco Boccia, che ipotizza apertamento un appoggio esterno del Pd a un governo M5S. «C’è un capo politico, chiedete a lui » , rispondeva ieri Grillo prima di ripartire. Il gioco è in mano a Di Maio, che ai suoi dice: «L’importante è restare granitici. Si sfalderanno loro » . E che anche per questo, ha convocato tutti i nuovi eletti venerdì a Roma. Neanche a dirlo, all’hotel Parco dei Principi. A casa Tra selfie, incontri con militanti storici e supporter dell’ultima ora. Ieri Luigi Di Maio ha festeggiato la sua personale vittoria nell’uninominale in Campania (il 63,4% nel collegio di Acerra superando Vittorio Sgarbi) a Pomigliano d’Arco CESARE ABBATE/ ANSA
POLITICA 7/3/2018 Veti e aperture La base M5S sui social “Mai un posto ai dem” “ Salvini? Siamo simili” Muro di ostilità a un’alleanza con il Pd. “ E in ogni caso Renzi fuori” Invece sull’ipotesi Lega spunta un grafico con i punti di contatto carlo brunelli, roma Qual è la volontà della base dei 5 Stelle sul nodo alleanze? I social network sono la “piazza” in cui tradizionalmente i grillini discutono: e stavolta più che mai questa “piazza” è confusa sulla direzione da prendere. Gli attivisti mostrano per lo più freddezza nei confronti del Pd, solo raramente limitata a Matteo Renzi. Certo, ci sono anche pentastellati che accolgono con speranza la proposta di Michele Emiliano, e cioè allearsi, ma a due condizioni: il Pd dovrebbe dare sostegno alle proposte del M5s senza ricevere in cambio nessun posto di governo e in più dovrebbe essere “ epurato” dal renzismo. Così scrive un utente che riceve decine di apprezzamenti: «Va benissimo come proposta sennò qui non comandiamo mai questo Paese. Ma come disse Di Maio: senza allearsi ma appoggiare solo i programmi e senza quella m...a dei renziani!». Di Maio dovrebbe quindi convincere il Pd ad appoggiare i programmi del M5s senza allearsi formalmente. Un ministero a guida Pd sarebbe visto come un tradimento. Nei confronti della Lega l’atteggiamento è molto più articolato. Molti appoggiano la Lega, e sono già in circolo grafici fai- da- te che elencano i punti in comune ai due partiti: «Il popolo sovrano vuole riformare lo Stato perchè uniti si vince. 1° Vincolo di mandato. 2° Legge elettorale. 3° Fornero- Lavoro. 4° Banche- Reddito. 5° Europa- Sicurezza » scrive un militante. La Lega sembra essere il partito con cui gli elettori di Di Maio trovano più affinità. A chi formula rimostranze nei confronti di Salvini viene così risposto: « Tutti voi avete ragione, purtroppo però con il solo 33% non si può governare, funziona così. Io sono del Sud e lo odio, ma quanti noi del sud vogliamo aiutarli (i migranti- ndr) a casa loro? » . L’ostilità verso Renzi pesa, sulla “compatibilità” di Salvini con i 5stelle, ben più delle polemiche contro il Meridione della Lega negli anni ‘ 90. Anzi, chi discute in rete si augura che il M5S riesca a intercettare meglio le richieste dell’elettorato settentrionale: « Gli italiani del nord hanno votato Salvini perché ha saputo fare leva sull’intolleranza verso i migranti. Credo che il M5S avrebbe dovuto essere più attento all’esigenza dei cittadini del Nord, spiegando loro nei dettagli e coinvolgendoli nella proposta contenuta nei 20 punti del programma». Gianluca Paragone è il nome indicato da molti per mediare al tavolo delle trattative con la Lega. Chi meglio dell’ex- direttore de La Padania, candidato al Senato a Varese e sconfitto dal leghista Stefano Candiani, potrebbe aiutare i leader a superare le diffidenze? Eppure una buona fetta di elettorato grillino rifiuta l’ipotesi di allearsi con la Lega “nazionalizzata” addebitanto a Salvini
un deficit di affidabilità. Perchè - ricorda più d’uno - il leader leghista aveva detto che non sarebbe mai tornato con Berlusconi, e Forza Italia è da sempre considerata dalla base 5Stelle «un partito di ladri e mafiosi ». Ci sono anche voci più moderate. E gli indecisi, pronti ad aprire le porte a chiunque in nome di un bene più grande: « Io penserei al Paese » . C’è chi propone elezioni- bis: « Si torni al voto e prendiamo più del 51%». Su una cosa c’è l’unanimità: il M5S è il primo partito e per questo dal presidente della Repubblica ci si aspetta che non dia ad altri l’incarico di formare il nuovo governo. E qui i toni diventano ( va detto: dimenticando la Costituzione) perentori: «Mi auguro con tutto il cuore - si legge in uno dei post - che Mattarella capisca che se non vuole una rivoluzione deve dare il mandato di presidente del Consiglio a Di Maio, altrimenti ci sarà l’inferno. Non è giusto che con la nostra percentuale comandino loro!». Gli elettori pentastellati si dividono sul futuro C’è chi apre a chiunque per il bene del Paese CESARE ABBATE/ ANSA
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