12 FEBBRAIO 2018 - UFFICIO STAMPA - Provincia Regionale di Ragusa

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UFFICIO STAMPA

12 FEBBRAIO 2018
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Rassegna Stampa del LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI RAGUSA   12 FEBBRAIO 2018

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Verso le elezioni

Destra in lite sui programmi ma Salvini la unirà
in piazza
Forza Italia congela le sue proposte per mascherare le differenze. Il 24 a Milano il leader
leghista sfida il raduno antifascista Pd- Leu- Anpi: Meloni dice sì, anche Berlusconi tentato

carmelo lopapa,

roma
Le battute tipo « Matteo è solo pirotecnico » e «sono più le cose che ci uniscono», i «Forza Milan», i sorrisi tirati e i
siparietti a beneficio di telecamere tra Silvio Berlusconi e Matteo Salvini alla fine quasi coprono le distanze. Che però tra
i due restano intatte, dal governo che verrà ( « Voglio Cottarelli » , «Non si parla di nomi») al condono edilizio, alle
pensioni, all’Europa. Ma almeno le apparenze sono salve, nei pochi minuti in cui il Cavaliere e l’aspirante premier si
incrociano a “ Mezz’ora in più” su Rai-Tre. Due interviste separate, il leader forzista in studio con Lucia Annunziata e il
leghista in collegamento da Verona.
E siccome i tre, con Giorgia Meloni, rischiano di non calcare nemmeno un palco insieme in campagna elettorale ( come
già avvenuto in autunno in Sicilia), pur promettendo di governare l’Italia uniti, ecco il possibile colpo di scena. Sta
maturando dietro le quinte in queste ore. Berlusconi e Salvini confermano che non parteciperanno alla manifestazione
“anti-inciucio” che Giorgia Meloni ha organizzato per domenica prossima a Roma. Il leader della Lega invece allarga
ora «a tutti» l’invito a Piazza Duomo a Milano per sabato 24 febbraio: è la contro manifestazione annunciata dopo che il
Pd di Renzi ha lanciato quella « antifascista » , con l’Anpi e con Leu, per lo stesso giorno a Roma sulla scia dei fatti di
Macerata. La candidata premier di Fratelli d’Italia spiega ai suoi che, nonostante lo sgarbo di quei due nei suoi
confronti, se invitata a Milano andrà. Berlusconi a questo punto ci sta pensando ( anche perché sarebbe arduo motivare
un forfait nella sua città). Se andasse in porto, quella del 24 sarebbe la prima e unica uscita pubblica dei tre, a una
settimana dal voto: di fatto la manifestazione di chiusura del centrodestra apparentemente unito.
Per il resto le divergenze continuano a proliferare. Tanto è vero che Forza Italia – si scopre adesso era pronta da giorni
a presentare in conferenza stampa il suo programma elaborato con un pool da Renato Brunetta, dopo quello di
coalizione in 10 punti. La Lega ne ha uno tutto suo, di lotta più che di governo, in 73 pagine consultabili sul sito, col
titolo “ La rivoluzione del buonsenso”. Decisivo lo stop da Arcore: erano talmente tante le divergenze dall’alleato su
economia, Europa, pensioni e tanto altro che rischiava di esplodere il caso. Programma forzista “congelato”.
Berlusconi e Salvini in tv si ritrovano d’accordo sul «fascismo che è morto » e sulla linea dura sugli immigrati. « Hanno
un’attitudine ai reati impareggiabile, rischiamo l’invasione epocale » ha rilanciato l’ex premier, adesso convinto che « i
5 Stelle non vinceranno » . Poi, l’ennesimo coniglio dal cilindro del Cavaliere: «Abbiamo pronto un ministero per la
Spending review per Carlo Cottarelli, non so se ci dirà di sì... » . Il “ cacciatore di sprechi”, che tanto piace anche ai
grillini, non apre né chiude. « Qualunque dichiarazione sarebbe incompatibile con il mio incarico attuale di direttore
dell’Osservatorio sui conti pubblici » , taglia corto. Per Berlusconi dovrebbe far parte di un « governo di 20 ministri
con 12 tecnici». Sul dopo voto visioni sempre difformi tra i leader. Niente governo di scopo a guida Gentiloni, precisa
l’uomo di Arcore, ma senza maggioranza « è la Carta che dice che un governo in carica deve esserci e con quello si
torna al voto». E Salvini: « Secondo voi io posso dare fiducia a un governo Gentiloni? ». Meloni come lui: «Senza
maggioranza si torna a votare», chiude da Barbara D’Urso. Per non dire degli abusi edilizi, che per Salvini «devono
essere rasi al suolo», altro che condono. È il festival dei distinguo. « Ma una sintesi alla fine la troviamo » , dicono i
due salutandosi in tv, senza dare l’impressione di esserne tanto convinti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Per il governo il capo degli azzurri evoca come ministro Cottarelli.
Il tagliatore di sprechi: “Ogni mia parola sarebbe inopportuna”
BENVEGNU’ E GUAITOLI/ IMAGOECONOMICA
I leader a confronto a In mezz’ora
Silvio Berlusconi e Matteo Salvini intervistati per 90 minuti in due momenti distinti da Lucia Annunziata su Raitre
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Cinquestelle

Le Iene: una decina i grillini coinvolti nei finti
rimborsi
Nella puntata in onda sul sito pressing su Lezzi e Buccarella. La grana del candidato
massone: il Movimento lo ripudia

DARIO DEL PORTO MATTEO PUCCIARELLI

Almeno una decina di parlamentari coinvolti e fra loro due eletti di peso. Alla fine l’anticipazione delle “Iene” sui furbetti
delle restituzioni del M5S è andata in onda ieri sera, ma solo sul sito della trasmissione di Italia 1. E al termine del
servizio l’inviato Filippo Roma fa intendere che la seconda puntata, dopo Andrea Cecconi e Carlo Martelli, coinvolgerà
due parlamentari di spicco del Movimento: ovvero Barbara Lezzi e Maurizio Buccarella. Lo stile da iena non mente,
troppe e insistenti le domande a questi ultimi due con davanti presente Luigi Di Maio, durante una iniziativa pubblica dei
Cinque Stelle in Puglia. Insomma, la restante parte del servizio promette nuove rivelazioni sul caso. La fonte anonima
che ha vuotato il sacco con le “ Iene”, infatti, ha spiegato che il numero di eletti coinvolti nella vicenda — con
l’abitudine cioè di far finta di versare sul fondo per il microcredito una parte di stipendi e diaria — «tocca le due cifre».
Anche in questi casi sono in ballo decine di migliaia di euro non versati. Le cifre precise però non sono state indicate.
C’è poi un altro particolare da tenere in conto nella guerra di cifre che va avanti da giorni. La tabella del ministero dello
Sviluppo economico conferma la restituzione di 23,2 milioni di euro da parte del M5S nel corso della legislatura, ma la
discrepanza tra quanto dichiarato dai parlamentari e quanto effettivamente versato si allarga se si considera che in quel
fondo vanno anche i contributi dei consiglieri regionali di Emilia- Romagna, Liguria, Trentino e Veneto.
C’è anche un’altra grana che agita le acque nel M5S: un quarto futuro possibile parlamentare che per un motivo o per
l’altro è già virtualmente fuori dal Movimento. Si tratta dell’avvocato Catello Vitiello, in corsa nel collegio Campania 3
e, come riportato dal Mattino, risultato iscritto in passato a una loggia massonica. Un’adesione vietata nel Movimento. I
vertici del M5S hanno invitato Vitiello a dimettersi una volta eletto, ma lui ha risposto che la sua esperienza nella loggia
massonica «appartiene al passato e si è conclusa in tempi non sospetti » . « E quindi vado avanti per la mia strada».
Da qui la successiva risposta del vertice dei 5Stelle: « Vitiello è diffidato dall’utilizzo del simbolo del M5S » . In realtà il
collegio in questione non era dei più appetibili per i 5Stelle, con il centrodestra dato in vantaggio. In ogni caso, l’area di
Roberto Fico è in ebollizione: Vitiello viene infatti considerato legato al candidato premier Luigi Di Maio e a quest’ultimo
è quindi attribuita la “ colpa” di averlo messo in lista.
In prima fila sull’economia
Barbara Lezzi è tra i parlamentari chiamati in causa dalle Iene per mancate restituzioni dell’indennità
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Il retroscena
Il Movimento al bivio

Le larghe intese dividono i 5Stelle scontro sul sì
a un premier esterno
Nel fronte dei contrari Grillo e gli ortodossi. A favore invece i “ governisti” guidati da Di
Maio pronto anche al passo indietro: “Perché se restiamo fuori pure stavolta, non reggiamo
più”

CLAUDIO TITO,

C’è un interrogativo che al di là della propaganda di questa campagna elettorale sta dilaniando il M5S più di qualsiasi
altra questione.
È una domanda che va all’origine del Movimento ed è alla base dello scontro sotterraneo in corso tra “governisti” e
“ortodossi”. Ed è anche una delle ragioni del plastico allontanamento di Beppe Grillo da questa competizione. È
possibile sostenere un governo di larghe intese guidato da un presidente del Consiglio che non sia grillino? È possibile il
passo indietro di Di Maio come hanno sostanzialmente fatto tutti gli altri leader di partito? È questo il vero quesito con
cui i vertici pentastellati stanno facendo i conti. Perché modifica la natura della forza politica così come l’avevano
immaginata Gianroberto Casaleggio con Beppe Grillo e soprattutto ne cambia la prospettiva. Fino ad ora un dato è
sempre emerso con evidenza: l’impossibilità di “costituzionalizzare” il M5S.
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ROMA
Di farlo uscire da una sorta di integralismo fideistico per farlo entrare nel corretto e istituzionale mercato della politica.
Questo elemento sta diventando il nucleo più profondo della lite interna. Le mosse compiute da Di Maio verso formule
che richiamano le larghe intese o il modello della Grosse Koalition tedesca (per ultimo le dichiarazioni rilasciate a
Londra) rappresentano una sorta di tappa di avvicinamento.
Contestata, però, dai cosiddetti “ortodossi” e dallo stesso comico genovese. Che non si sente in sintonia con questo
approccio e non nasconde in privato e in pubblico le sue preoccupazioni. Basta pensare a quel che ha detto sabato
scorso rilanciando la riduzione dell’orario di lavoro. A molti dei “governisti” riproporre il cavallo di battaglia con cui
Fausto Bertinotti agitò a lungo i sonni del centrosinistra targato Romano Prodi, è apparso un modo per bloccare
qualsiasi tipo di dialogo e assestare un colpo alla strategia di comprensione avviata dal candidato premier grillino nei
confronti di imprenditori e mondo della finanza.
Il punto di partenza di Di Maio è quello che accomuna le riflessioni di tutti gli altri partiti: l’attuale legge elettorale non
garantirà la vittoria di nessuno. «Ma se restiamo fuori anche stavolta è la paura che da tempo non nasconde - noi non
reggiamo più». Nella sostanza l’ala governista è convinta che la scelta protestataria non possa durare a lungo. Anche
perché la prossima volta i protagonisti nel campo 5Stelle non saranno in ogni caso gli stessi. La chance di Di Maio,
nella sostanza, si gioca solo nel 2018, a meno che non riesca a diventare una parte di questa ennesima transizione
italiana.
Ma “non restare fuori” significa anche mettere nel conto l’ulteriore passo di lato rispetto a quel che ufficialmente i
grillini sostengono. Passando dal «dateci il mandato di formare il governo e poi cercheremo la maggioranza in
Parlamento» ( come ieri sera ha ribadito ad esempio Di Battista), all’idea, appunto, di consentire la nascita di un
esecutivo guidato da una figura “esterna” e “accettabile” per la base grillina. Come fu , ad esempio, per le cosiddette
quinarie di tre anni fa. Un personaggio che resti a Palazzo Chigi il tempo necessario per cambiare la legge elettorale e
affrontare le scadenze europee. Avendo la certezza di poter tornare alle elezioni, quando il programma limitato sarà
completato, proprio perché nella maggioranza ci sarà anche il M5S.
È chiaro che una linea di questo tipo - che qualcuno chiama del “tutto e subito” stravolge non solo gli obiettivi fin qui
esternati dai pentastellati, ma scombussola tutte le formule ipotizzate sin qui in relazione a governi tecnici e istituzionali.
Ne allarga lo spettro, a destra e a sinistra. Dalla Lega a LeU.
Del resto, in molti sono convinti che il “sistema” tenderà comunque a “costituzionalizzare” un partito che potrebbe
rappresentare almeno un quarto degli elettori. A scongelare una forza che fino ad ora si è collocata in una specie di
isola irraggiungibile e a utilizzarla soprattutto se nessuna coalizione politica riuscirà - come sembra - a conquistare la
maggioranza dei seggi parlamentari. A renderla un’interlocutrice concreta nelle prossime consultazioni.
Una linea, però, contestata alla radice dagli “ortodossi”, che continuano a considerare impraticabile il dialogo con uno
qualsiasi degli altri soggetti politici. Anzi, i grillini della prima ora insistono a usare il concetto del “tutto e subito” in
senso opposto: vincere subito e assumere il comando dell’intero governo.
Mettendo sullo stesso piano la mediazione e gli inciuci, o la lottizzazione. E nello stesso tempo rimproverano all’attuale
vertice di non aver vigilato adeguatamente sulla composizione illibata e senza passato delle liste (perché chi è senza
passato può agire solo sul presente disegnato da Grillo o Casaleggio). E di averli esposti a una figuraccia sul caso dei
mancati versamenti sul conto corrente del Ministero del Tesoro.
Si tratta dunque di un braccio di ferro il cui esito è ancora da definire. Non è un caso che ogni apertura fatta da Di
Maio sia accompagnata da una chiusura che lo risucchia nella retorica grillina e nelle richieste oltranziste e “bloggiste”
della base.
Ma dopo le elezioni, se i sondaggi di questi giorni verranno confermati, il nodo composto dalla somma di queste paralisi
sarà sciolto gordianamente.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il 5 marzo il M5S potrebbe dover sciogliere il nodo e decidere se sostenere un esecutivo a tempo, con un premier
diverso dal proprio candidato ma accettabile per la base. Come fu per le quirinarie di 3 anni fa
QUARTAPAGINA                                                                                               12/2/2018

Sotto la lente
Le elezioni e l’economia

Nel programma Pd un conto da pagare di 56
miliardi
Maggiori uscite per circa 40 miliardi, la più corposa è lo scorporo dal deficit di spese
“mirate” Ridurre il cuneo contributivo porta minori entrate per 12 miliardi Le
privatizzazioni sono irrealistiche

ROBERTO PEROTTI

Questa affermazione è fattualmente scorretta.
Attualmente il costo medio del debito è il 3,1 per cento, la crescita nominale del Pil il 2 per cento, l’avanzo primario l’
1,7 per cento del Pil, e il rapporto debito pubblico / Pil il 130 per cento. È facile verificare che con questi numeri il
rapporto debito pubblico / Pil rimarrebbe praticamente stabile. Con una politica fiscale « moderatamente espansiva » ,
diciamo un avanzo primario dell’ 1 per cento del Pil invece dell’ 1,7 per cento attuale, il rapporto aumenterebbe. È vero
che l’inflazione probabilmente aumenterà, e con essa il tasso di crescita del Pil nominale, ma anche il tasso di interesse
probabilmente aumenterà.
In un articolo per il Foglio del 14 gennaio 2018, Luigi Marattin enuncia uno strumento per contribuire a raggiungere
l’obiettivo di riduzione del debito: un programma di dismissioni tra i 36 e 72 miliardi in un decennio, cioè tra 4 tra 7
miliardi l’anno.
Questo è un obiettivo estremamente ambizioso ( negli ultimi tre anni le dismissioni immobiliari sono state 700 milioni,
circa lo 0,05 per cento del Pil), soprattutto in mancanza della benché minima indicazione su come ottenerlo – e le
dismissioni non si improvvisano, richiedono anni.
A meno che non si voglia usare un veicolo come il progetto Capricorn di Cassa Deposti e Prestiti – di cui ha parlato
Matteo Renzi in una sua intervista ieri al Sole 24 Ore che è formalmente fuori dal perimetro delle Amministrazioni
Pubbliche, ma di fatto è pubblico a tutti gli effetti. Una privatizzazione solamente di facciata.
In ogni caso, anche se avesse successo, questo programma di dismissioni ridurrebbe il rapporto debito/ Pil di circa 4
punti percentuali al massimo.
(1-continua)
roberto. perotti@ unibocconi. it
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Quanto costa il programma elettorale del Pd?
La somma dei costi è di almeno 56,4 miliardi (oltre il 3 per cento del Pil), di cui 39,7 miliardi di maggiori spese e 16,7
miliardi di minori tasse. A questa cifra bisogna però aggiungere svariati ma imprecisati miliardi da ben trenta voci di
maggiori spese e cinque voci di minori entrate, la cui quantificazione è impossibile in assenza di dettagli. Inoltre, il
programma del Pd non indica coperture.
Di seguito commento brevemente le maggiori proposte, in particolare quelle di cui ho stimato personalmente i costi in
assenza di indicazioni nel programma, divise tra maggiori spese e minori entrate. La voce principale è un piano di aiuti
alle famiglie, 240 euro di detrazione Irpef mensile per i figli a carico fino a 18 anni e 80 euro per i figli fino a 26 anni,
che raggiunge anche gli autonomi e gli incapienti, ad un costo stimato dal Pd di 9 miliardi.
Il programma del Pd prevede poi almeno 150 ore di formazione durante la vita di ogni lavoratore: la mia stima è di un
costo annuo di 2 miliardi.
Per quanto riguarda il reddito di inclusione, con la legge di Bilancio 2018 vengono stanziati 2,75 miliardi dal 2020; la
mia stima del costo del raddoppio è dunque di 2,75 miliardi. Il Pd propone l’innalzamento del livello di contribuzione
alla cooperazione allo 0,3% del Pil.
Oggi per gli aiuti pubblici allo sviluppo l’Italia spende 3,1 miliardi. Per arrivare allo 0,3 per cento del Pil, 5,3 miliardi,
stimo quindi un costo di 2,2 miliardi.
Il « ritorno a Maastricht » significa lo scorporo dal calcolo del deficit entro il tetto del 3% del Pil di spese « mirate e
chiaramente identificabili » .
Questa misura va letta insieme alla prossima, l’ « emissione di Eurobond per finanziare progetti su capitale umano,
ricerca e infrastrutture, fino al 5% del Pil dell’Eurozona » .
La quota dell’Italia sarebbe il 5 per cento del Pil italiano; sull’arco della legislatura, significa l’ 1 per cento l’anno, cioè
18 miliardi.
Tra le minori entrate, la voce maggiore è la riduzione del cuneo contributivo dal 33 al 29 per cento per lavori a tempo
indeterminato, di un punto percentuale all’anno per quattro anni. La mia stima è di almeno 12 miliardi. Le altre due
maggiori misure di riduzioni di entrate sono la riduzione dell’aliquota Ires dal 24 al 22 percento ( 2,8 miliardi), e
l’estensione alle partite Iva del bonus 80 euro ( 1,9 miliardi).
Il programma del Pd non identifica coperture, eccetto per il punto 95 del Programma breve: « Recuperare un punto di
Pil nell’arco della prossima legislatura attraverso la digitalizzazione della Pa » , su cui non vengono forniti ulteriori
dettagli.
Il Programma lungo enuncia però un ambizioso obiettivo di riduzione del debito: « Ridurre gradualmente ma stabilmente
il rapporto tra debito pubblico e Pil al valore del 100% entro i prossimi 10 anni » . Per raggiungerlo, basterebbe la «
crescita attuale » anche in presenza di « politiche fiscali moderatamente espansive » .
POLITICA                                                                                                    12/2/2018

Il Viminale e le piazze

Minniti dopo Macerata “La democrazia è forte e
freneremo i violenti”
La preoccupazione di un effetto domino innescato da fatti isolati Oggi dal carabiniere ferito a
Piacenza: brutalità ingiustificabile

goffredo de marchis,

roma
« E’ un segno di forza della nostra democrazia» che un sabato difficile, grazie « all’impegno straordinario delle forze
dell’ordine » e ai « cittadini scesi in piazza » , sia passato senza traumi. Il ministro dell’Interno Marco Minniti racconta
i suoi timori per una giornata poco normale, «per certi versi unica: 150 manifestazioni in tutta Italia, non contando i
normali comizi elettorali » . In strada è scesa la sinistra per manifestare contro il razzismo e la destra per ricordare le
foibe. Al Viminale hanno avuto paura dell’effetto domino: un focolaio in un punto e, via social, il possibile contagio nel
resto del Paese. « Anche a Macerata è andata bene » , il principale centro d’interesse dopo l’omicidio di Pamela
Mastropietro e gli spari di Luca Traini. La macchia è stata Piacenza, con 5 carabinieri feriti. «Ecco, quello che mi sento
di dire è che la violenza non c’entra nulla con la difesa dei principi della Costituzione e dei valori antifascisti». Le
immagini dell’agente pestato a terra da attivisti dei centri sociali a volto coperto hanno scioccato il ministro. Oggi
Minniti andrà a fare visita a quel carabiniere, poi parteciperà a un evento sulla sicurezza insieme a Matteo Renzi. « A
parti invertite sarebbe successa l’ira di dio » , commentano al Viminale. Perciò è importante, in un discorso generale,
non lasciare l’antifascismo nelle mani dei violenti, come quelli in azione nella città emiliana. Occorre evitare che la
battaglia contro la violenza sia portata avanti dalle destre, dai populisti. Sarebbe il colmo. «Mancano 20 giorni alle urne,
bisogna fermare questa macchina prima che sia troppo tardi», è la preoccupazione maggiore del titolare dell’Interno.
La risposta di Macerata e dei suoi 20 mila manifestanti è stata giusta e salutare. Minniti non entra nella polemica sui cori
sbagliati. Per chi si occupa dell’ordine pubblico è sufficiente registrare con soddisfazione come il corteo sia stato
pacifico. Se ha qualcosa da dire sulla politica, anche sull’assenza del Pd nella città marchigiana, il ministro lo farà oggi
nel suo discorso a Firenze.
Minniti prende così atto di un corteo senza incidenti e dimentica le polemiche dell’ultima settimana. Polemiche che al
Viminale non hanno capito e non sanno se siano frutto di una strategia studiata a tavolino o di un gigantesco equivoco.
Più la prima della seconda, è il sospetto. E’ stata l’Anpi insieme con le altre associazioni (Cgil, Arci, Libera) ad
avvertire il ministero di voler revocare la manifestazione accogliendo l’appello del sindaco. Mercoledì, da Pesaro,
Minniti le ha ringraziate e ha colto l’occasione per avvertire tutti gli altri che non avrebbe permesso cortei a Macerata.
Un invito rivolto direttamente a Forza Nuova, se non altro perché, a quel punto, era l’unica sigla ad aver chiesto il
permesso di sfilare. Poi altre forze di sinistra hanno deciso di scendere in piazza lo stesso. Il Viminale ha valutato e ha
dato il via libera. Ma Minniti è finito nel mirino comunque, accusato di aver messo sullo stesso piano i militanti fascisti
e quelli di sinistra, l’attentato agli stranieri del leghista Traini e la necessità di regolare i flussi migratori. Il paradosso è
che nello stesso momento in cui attaccavano il ministro, i leader e i rappresentanti delle forze di sinistra chiedevano alla
Prefettura e alla Questura garanzie sull’ordine pubblico e sullo svolgimento senza problemi del corteo a Macerata.
Ci saranno altre giornate complicate da qui al 4 marzo? Sabato sono stati impiegati 5000 agenti. « Una presenza forte
ma discreta, una cintura di sicurezza efficace ma non invadente», dicono al ministero. Ha funzionato e la speranza è
che non serva ancora. Ma la dinamica degli scontri di Piacenza preoccupa: l’obiettivo era andare verso la nuova sede di
Casa Pound per scatenare una reazione a catena anche lontano dall’Emilia. Tutto questo ha poco a che fare con
l’antifascismo e la Costituzione. «La violenza va fermata, punto». Non è solo l’opinione di Minniti. Il governo,
attraverso la piacentina Paola De Micheli, ha espresso la solidarietà al militare ferito. « Anche da parte di Gentiloni,
siamo con lei » , gli ha detto la sottosegretaria al telefono. « Lo so, lo dica al presidente » , ha risposto il carabiniere.
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