Welfare state e sussidiarietà. La pubblica Istruzione.
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Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 Welfare state e sussidiarietà. La pubblica Istruzione. di DOMENICO TADDEO Scholar Centro Studi e Ricerche Tocqueville-Acton 1. Premessa Le problematiche connesse al rapporto tra teoria economica e legislazione sociale è un tema che ha attratto l’attenzione di più di uno studioso di scienze sociali ed economiche di qualsiasi orientamento politico e ideologico. Per di più isolare e delimitare l’oggetto dell’analisi è difficile, perché la materia interessa ogni ambito delle scienze sociali, e in quanto riferita all’uomo non può prescindere anche da questioni antropologiche e quindi etiche e morali. Il tema fu trattato anche da Einaudi nelle sue famose lezioni di politica sociale. Come brillantemente analizzato da Alberto Baffigi, in Einaudi per legislazione sociale devono intendersi tutti gli interventi dello stato nelle cose sociali. Il sistema economico di mercato è uno strumento che conduce a un equilibrio efficiente data un’iniziale distribuzione delle risorse. Se tale distribuzione non soddisfa determinati criteri di giustizia sociale, allora si apre lo spazio per l’intervento pubblico. Si tratta nella logica Einaudiana di un intervento dello stato che si avvale delle virtù allocative del mercato. Il modello teorico utilizzato è quello dell’equilibrio economico generale di Walras e Pareto. L’analisi si basa su quelli che più tardi sono diventati noti come il primo e il secondo teorema fondamentale dell’economia del benessere, i quali stabiliscono l’equivalenza logica tra l’equilibrio concorrenziale e l’ottimalità paretiana. Il sistema dei prezzi consente l’allocazione efficiente delle risorse e la massimizzazione della ricchezza prodotta. La concorrenza garantisce il raggiungimento dell’ottimo paretiano, e l’allontanamento dalle condizioni caratteristiche della libera concorrenza determina una distruzione di ricchezza. Qualora l’efficienza produttiva e distributiva scaturente dai meccanismi naturali di mercato, non coincida con l’equità desiderata dal punto di vista distributivo, in linea teorica è sempre possibile conseguire un numero indefinito di equilibri ottimali mediante opportune redistribuzioni di risorse fra gli individui. Le politiche distributive devono avere per scopo il trasferimento di potere d’acquisto attraverso prelievi fiscali che non modificano i normali incentivi di mercato (lump sum taxes and transfers). 1
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 Ma nella logica Einaudiana di un rigorosa distinzione fra mezzi e fini, per definire le politiche sociali da attuare sarà imprescindibile definire il significato di giustizia sociale. Concetto estraneo alla pura logica economica e che deve essere definito in sede politica. Il ruolo dell’economista è quello di esaminare criticamente la possibilità di attuare determinati fini posti in sede politica sui quali la scienza economica non ha molto da dire. La teoria economica può solo costituire un valido strumento operativo. Quanto sia possibile e auspicabile una rigorosa distinzione fra mezzi e fini è una materia delicata e vasta, ma importante è esplicitare costantemente i presupposti analitici e ideologici sottesi ad ogni analisi e proposta in campo di politica economica. Per Eianudi il liberalismo costituisce un ideale di vita e la giustizia sociale coincide con l’uguaglianza dei punti di partenza. Il fine generale prescelto, la costruzione di una società liberale, influenza e condiziona quindi la scelta dei mezzi. Lo stato deve intervenire nelle cose sociali per due ordini di motivi. Da una parte garantire che l’assetto della realtà economica sia il più possibile vicino a quello schema astratto della concorrenza, e quindi ciò implica la lotta ai monopoli e la concorrenza come bene pubblico da tutelare. Dall’altra intervenire attraverso opportune politiche redistributive affinché sia realizzata l’uguaglianza dei punti di partenza. Per Eianudi la libertà è un fine da garantire in ogni aspetto della vita sociale, e non può risolversi in una mera dichiarazione astratta di principi, ma bisogna dare a tutti gli attori sociali, i mezzi e le possibilità al fine di renderla effettiva, e da lì discende la legittimazione dello stato ad intervenire nel campo economico attraverso politiche redistributive. Einaudi è cosciente che il mercato è uno strumento neutrale; un impassibile strumento economico, il quale ignora la giustizia, la morale, la carità e tutti i valori umani. L’analisi non è solo posta sul funzionamento dei meccanismi di mercato, ma anche sulle dotazione iniziali di risorse che ogni individuo possiede nel momento in cui giunge al mercato e condiziona i vantaggi che possono ottenere da un libero processo di scambio. Conservatorismo e riformismo sembrano così convivere in una continua tensione da far si che il pensiero Einaudiano abbia molti punti in comune sia con il pensiero classico liberale che con quello sociale cristiano e quella forma di liberalismo comunitario di W. Ropke. Di fatto ciò che può sembrare solo sincretismo ideologico, discende dalla metodologia d’analisi adottata e dal principio epistemologico della separazione tra mezzi e fini, nella distinzione tra sfera produttiva e distributiva , e dalla non accettazioni della tesi che vuole 2
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 che la distribuzione dei redditi sia storicamente determinata, e che ogni intervento teso a raggiungere maggiore equità dal punto di vista redistributivo comprometta inevitabilmente l’efficienza paretiana. 2. Sviluppo storico del Welfare State Con la nascita e lo sviluppo del capitalismo e l’avvento delle società democratiche, l’intervento dello stato nel campo sociale ed economico è stato sempre più una necessità pratica. Se spesso si discute in campo teorico della legittimazione o opportunità di tale intervento, dal punto di vista pratico la necessità dell’intervento rende spesso meno distanti le posizioni teoriche, perché l’analisi verte più sull’entità e le modalità operative di tale intervento; Una questione di scelta dei mezzi più opportuni per il conseguimento di fini spesso contingenti e necessitati. Tale impostazione metodologica ha trovato nel tempo sviluppi in quella che è stata definita la New Welfare economics, e sia prima che dopo la pubblicazione delle lezioni sociali di Einaudi, la scienza economica ha molto dibattuto sui temi trattati data la loro perenne attualità. Dopo la seconda guerra mondiale con l’adozione dell’imployement act negli stati Uniti e il rapporto Beveridge in Gran Bretagna, le politiche keynesiane adottate dagli stati occidentali hanno garantito un lungo periodo di sviluppo economico e benessere sociale, garantendo nel contempo la libera iniziativa economica. Nell’analisi economica keynesiana sviluppatasi e perfezionatasi via via nel tempo, a differenza del sistema paretiano-Walrasiano, il meccanismo di mercato non era un sistema autoregolantesi in grado di conseguire da solo stabilità e crescita economica, garantendo altresì un soddisfacente sistema di equità sociale. Ma lo stato era tenuto ad intervenire in campo economico per far fronte a quelli che vengono definiti i fallimenti di mercato, sia micro che macro. Attraverso la gestione della domanda aggregata con politiche monetarie e fiscali, la funzione dello stato era quello di garantire la stabilizzazione e la crescita del ciclo economico. Dal punto di vista allocativo la funzione dello stato era garantire la produzione dei beni pubblici; ossia qui beni che per la loro caratteristica naturale il mercato non ha incentivo a produrre o produce in dimensione inadeguata, oppure nazionalizzando la produzione dei beni prodotti in regime di monopolio naturale. Altra importante funzione dell’intervento statale è la politica redistributiva. La politica redistributiva può essere realizzata attraverso molteplici modalità. Le principali sono o i trasferimenti monetari ( si pensi ai sussidi di disoccupazione, 3
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 pensione sociali etc), oppure l’erogazione diretta dei beni e servizi indispensabili in funzione dei bisogni dei cittadini ( servizi sanitari, scolastici etc.). Il modello di politica economica venutosi a creare, in pratica è risultato una sintesi delle posizioni di liberalismo sociale, riformismo socialista e pensiero sociale cristiano. Lo stato oltre a garantire la crescita e lo sviluppo, la produzione dei beni pubblici e la gestione diretta dei monopoli naturali, attraverso le politiche di Welfare State garantiva ai cittadini le prestazioni inerenti i principali diritti economici e sociali. Previdenza, assistenza, istruzioni e sanità, sono settori in cui lo stato svolgeva direttamente sia compiti di finanziamento che di produzione ed erogazione dei servizi che venivano erogati in base ai bisogni dei cittadini, e non in base alla loro capacità contributiva. Il sistema di Welfare State oltre a svolgere una funzione di giustizia sociale, attraverso il funzionamento dei stabilizzatori automatici svolge nel sistema economico keynesiano anche un ruolo di sostegno del sistema economico. Inoltre l’erogazione gratuita o quasi di servizi essenziali, di fatto aumenta il salario reale e libera le risorse che i lavoratori possono liberamente spendere nel mercato dei beni privati, e nel contempo può fare da freno ad ulteriori rivendicazioni salariali aumentando la competitività del paese nel mercato internazionale. Nell’analisi Keynesiana il problema redistributivo non assume un ruolo centrale. Lo scopo delle politiche economiche era quello di accrescere la ricchezza complessiva da ripartire fra gli attori sociali. Aumentando la torta da dividere ognuno avrebbe ricevuto una fetta più grande, o per lo meno non più piccola di quella a cui era stato abituato. Ciò che può sembrare la quadratura del cerchio però presenta non poche contraddizioni. Il finanziamento di una molteplicità di funzioni di cui lo stato si è fatto carico, ha portato inevitabilmente alla crescita del flusso di risorse finanziarie intermediate dallo stato, e la sua presenza sempre più massiccia e secondo alcuni invadente, in ogni settore della vita sociale ed economica. Con l’aumento dei debiti e deficit pubblici, la crisi economica degli anni settanta e l’avvento della stagflation ,il sistema economico keynesiano è stato oggetto di numerose critiche. non solo sul piano economico. Secondo M. Friedman. pioniere della teoria divenuta poi nota come supply side economcis, “non esistono pasti gratis”. Ogni erogazione gratuita di un servizio deve comunque essere finanziata. Il finanziamento del welfare state comporta inevitabilmente un alto livello di spesa pubblica e di tassazione. Le risorse così sottratte al settore privato pregiudicano l’efficienza produttiva e la massimizzazione del benessere sociale. Qualora poi alla 4
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 tassazione si preferisce il finanziamento monetario, si avranno tensioni inflazionistiche e quindi instabilità economica e perdita di competitività ed efficienza. La gestione dei servizi pubblici avviene al riparo delle logiche di mercato. Non operando lo stato in regime di libera concorrenza, viene a mancare la funzione del mercato quale gendarme dell’efficienza. L’apparato pubblico diventa mastodontico ed autoreferenziale. La presenza dello stato toglie spazio e risorse all’iniziativa privata. L’ingente massa di risorse viene gestita ai fini di consenso politico e comporta inevitabilmente fenomeni di parassitismo e assistenzialismo, clientelismo e corruzione etc, e quindi decadenza delle virtù civiche e morali. In quest’ottica lo stato più che risolvere i problemi è egli stesso un problema. Il ridimensionamento del ruolo dello stato, invece, libererebbe risorse per il settore privato. La pressione fiscale e le spese per il Welfare state devono essere drasticamente diminuiti, e i servizi ad esso relativo, prodotti ed erogati da privati in regime di libera concorrenza. Lo stato si deve solo limitare alla produzione dei beni pubblici puri ( difesa, ordine pubblico e amministrazione della giustizia) secondo la teoria dello stato minimo di Nozick. Secondo tale teoria, tra efficienza ed equità esiste un trade-off insanabile. Non c’è spazio nemmeno per la redistribuzione delle risorse per garantire l’uguaglianza dei punti di partenza secondo la logica di Einaudi. Ogni spostamento di risorse fatto dallo stato avviene secondo lo schema del secchio bucato: L’acqua che si perde nel tragitto è molto maggiore di quella arrivata a destinazione. Le tesi sostenute dai teorici della Supply sides economics e della public choice, sono il leit motiv che caratterizza la politica economica a partire degli anni ottanta. Ridimensionare il ruolo dello stato, sia come produttore diretto di beni e servizi, sia come regolatore dell’attività economica. Dismissioni del patrimonio pubblico, privatizzazioni, liberalizzazioni, deregulation e riforme strutturali per accrescere la flessibilità dei mercati. Forte è la spinta ad affidare completamente alla logica di mercato la gestione dei servizi tipicamente connesse al sistema di Welfare State; Si pensa ali settori della Sanità, istruzione e previdenza. Se il welfare state sia una palla al piede o una garanzia per la stabilità e crescita economica e la coesione sociale, è un discorso controverso e molto dibattuto dalla scienza economica. E’ questo un settore dove non sempre è possibile ed auspicabile, tenere distinte e separate la teoria economica dalle altre scienze sociali, nonché una rigorosa distinzione tra mezzi e fini. 5
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 Tocca alla politica o all’economia decidere se un pasto gratis deve essere erogato all’indigente? La teoria economica deve solo preoccuparsi di individuare il modo più efficiente di erogazione e finanziamento del servizio, oppure ha titolo nel decidere quali bisogni soddisfare secondo logiche di mercato o fini caritatevoli? L’economista non può mai disgiungere il suo ufficio critico dei mezzi da quello di dichiaratore dei fini. In quanto scienza sociale rivolto all’uomo e fatta da uomini, non può avere carattere avalutativo in campo morale. Lo studio rigoroso dei mezzi adottati deve sempre esplicitare il fine cui si perviene e l’assetto sociale ed economico desiderato e raggiungibile. Solo in questo modo la scienza economica può essere un’utile e indispensabile ausilio al politico, e non rivestire solo ex post una giustificazione ideologica di scelte effettuate sul piano politico. Spesso accade sul piano politico che i fini dichiarati non sono quelli effettivamente perseguiti, o per un processo di eterogenesi dei fini, quelli realizzati non coincidano sempre con quello preventivati. La scienza economica in quanto studio razionale dei fenomeni sociali ed economici, è chiamata sempre ad esplicitare le connessioni logiche intrinseche fra fini dichiarati e mezzi adoperati per perseguirli. Nella visione economica neoclassica-Walrasiana dell’equilibrio economico generale, tutti i beni e servizi vengono scambiati sul mercato in modo da massimizzare il benessere economico complessivo e soddisfare i bisogni del consumatore. Da ciò discende che ogni attore economico con il reddito che percepisce dalla sua partecipazione al processo economico, è in grado di soddisfare tutti i suoi bisogni. In questo contesto la privatizzazione dei servizi pubblici non costituirebbe una privazione del bisogno dei cittadini, ma aumenterebbe l’efficienza e il benessere sociale, grazie ad una loro gestione interamente affidata alle logiche di mercato. I meccanismi di mercato garantirebbero nel contempo sia l’efficienza produttiva che distributiva senza necessità di un intervento statale ai fini distributivi per garantire la giustizia sociale. Sia la scienza che la storia economica, hanno dimostrato che le condizioni perché si realizzi l’equilibrio economico neoclassico-Walrasiano, sono difficilmente realizzabili nelle società contemporanee. Ancor di più nel moderno contesto di globalizzazione e internalizzazione dell’economia, i prezzi dei beni e servizi vengono fissati su ambiti territoriali differenti. Se i salari dei lavoratori delle imprese esposte alla concorrenza internazionale vengono fissati sul mercato 6
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 internazionale, i prezzi di molti beni e servizi vengono fissati su ambiti territoriali locali. Pur accettando i presupposti neoclassici, niente garantisce che il salario di un lavoratore gli permetta di soddisfare tutti i bisogni essenziali e condurre una vita dignitosa. Privatizzare e abolire la garanzie del Welfare in questo contesto significherebbe lasciare insoddisfatti bisogni primari dell’uomo con aumento delle povertà ed emarginazione sociale. Dal punto di vista economico i beni e servizi legati al Welfare sono beni privati, in quanto rivali ed escludibili. Anzi proprio per loro la loro caratteristica economica di beni privati ed essenziali, è forte la pressione alla gestione privata. Un individuo razionale sarebbe disposto a dare tutto le sue sostanze per l’impellente necessità di un farmaco salvavita. Il prezzo sarebbe quindi fissato solo dalle condizioni di offerta del mercato, e in questi settori le caratteristiche dei mercati difficilmente soddisfano le ipotesi sottostanti la logica dell’equilibrio economico neoclassico-Walrasiano. Data anche la caratteristica di beni meritori ed alta esternalità positiva, l’offerta privata potrebbe essere inadeguata anche dal punto di vista di una logica Walrasiana-Paretiana. Per di più nelle società democratiche moderne gli istituti di welfare state soddisfano bisogni ritenuti socialmente rilevanti e rispetto ai quali l’offerta di mercato è inesistente o troppo costosa. Un settore in cui ci sono, o dovrebbero esserci, regole certe e diritti definiti da norme di legge. L’uomo non è solo un utente o un consumatore dei beni e servizi, ma un cittadino a cui la legge in determinati condizioni attribuisce un diritto soggettivo alla loro prestazione. Privatizzare gli istituti di Welfare State, non è solo una scelta economica, ma significa degradare l’uomo da cittadino a consumatore. Il soddisfacimento dei suoi bisogni essenziali dipenderà solo dalla sua capacità di reddito a dall’offerta di mercato. Al di là però delle innumerevoli dispute dottrinali, nelle società democratiche l’intervento statale a fini distributivi, come detto, ha quasi sempre assunto un carattere necessitato. D’altronde, consapevoli delle difficoltà di trasposizione di un modello teorico astratto nella realtà concreta, anche gli studiosi e i politici più legati alla visione classica liberale, non negano l’intervento statale ai fini distributivi, attraverso o il finanziamento diretto dei servizi o la distribuzione gratuita ai cittadini di voucher con i quali possono liberamente comprare sul mercato i servizi di Welfare. L’adesione a questa politica economica, pur non spinta alle estreme conseguenze del modello teorico, ha comunque determinato un ridimensionamento del ruolo dello stato nella gestione e finanziamento dei servizi di 7
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 Welfare, e correlativa diminuzione delle garanzie dei cittadini, con aumento di disuguaglianze e disparità sociali e l’avvento di una nuova società dei 2/3 come coniata dai sociologici. La diminuzione delle garanzie pubbliche è stato anche una delle causa dell’aumento dell’indebitamento privato, e come la crisi recente dimostra, l’indebitamento privato può causare gli stessi se non maggiori problemi rispetto all’indebitamento pubblico. Il conflitto fra efficienza produttiva e distributiva resta quindi non risolto. 3. Welfare Society La questione viene trattata anche nell’ultima Enciclica di Papa benedetto XVI Caritas in Veritate, ai punti 36 e 37. “ L’attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione della logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica. Pertanto, va tenuto presente che è causa di gravi scompensi separare l’agire economico, a cui spetterebbe solo produrre ricchezza, da quello politico, a cui spetterebbe di perseguire la giustizia mediante la distribuzione……. La giustizia sociale riguarda tutte le fasi dell’attività economica, perché questa ha sempre a che fare con l’uomo e con le sue esigenze. Il reperimento delle risorse, i finanziamenti, la produzione, il consumo e tutte le altri fasi del ciclo economico hanno ineluttabilmente implicazioni morali. Così ogni decisione economica ha una conseguenza di carattere morale. Tutto questo trova conferma anche nelle scienze sociali e nelle tendenze dell’economia contemporanea. Forse un tempo era pensabile affidare dapprima all’economia la produzione di ricchezza per assegnare poi alla politica il compito di distribuirla. Oggi tutto ciò risulta difficile, dato che l’attività economiche non sono costrette entro limiti territoriali, mentre l’autonomia dei governi continua ad essere locale. Per questo i canoni della giustizia devono essere rispettati fin dall’inizio, mentre si svolge il processo economico, e non già dopo o lateralmente…. La vita economica ha senz’altro bisogno del contratto, per regolare i rapporti di scambio tra valori equivalenti. Ma ha altresì bisogno di leggi giuste e di forme di ridistribuzione guidate dalla politica, e inoltre di opere che rechino impresse lo spirito del dono.” Le affermazioni di Papa Benedetto XVI, seppur in linea con lo sviluppo della Dottrina Sociale della Chiesa, rappresentano senz’altro una assoluta novità che meriterebbe molto di essere approfondita ed analizzata. 8
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 Fra il mercato e lo stato la dottrina sociale cristiana ha da sempre cercato di valorizzare un altro settore: La società civile. In base al principio di sussidiarietà formulato dalla Quadrigesimo anno di Pio XI “Come è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare”. In base al principio di sussidiarietà, una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenza, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune". Lo stato è al servizio della società, della quale deve favorire il "libero processo di auto-organizzazione”. Sul principio di sussidiarietà, caro alla dottrina sociale e cristiana e sui valori etici che devono caratterizzare ogni agire ( e pensiero) umano torna anche la Caritats in Veritate. “Occorre che nel mercato si aprono spazi per attività economiche realizzate da soggetti che liberamente scelgono di informare il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso rinunciare a produrre valore economico. Oltre allo stato e al mercato bisogna quindi valorizzare le energie creative della società civile… “ Accanto all’impresa privata orientata al profitto devono potersi radicare ed esprimere quelle organizzazioni produttive che perseguono fini mutualistici e sociali. E’ dal loro reciproco confronto sul mercato che si può attendere una sorta di ibridazione dei comportamenti d’impresa e dunque un attenzione sensibile alla civilizzazione dell’economia”. L’economia civile, in senso lato, sarebbe fatto da Enti ed imprese di varia natura, che pur operando sul mercato con criteri di economicità, non hanno l’obiettivo di massimizzare il profitto per distribuirli ai soci, ma prestare massima attenzione alla qualità dei servizi erogati, andando oltre la logica dello scambio degli equivalenti fine a se stesso, creando al contempo una relazione di reti sociali basate sui principi etici e morali, alimentando la solidarietà e la responsabilità dei cittadini per la giustizia e il bene comune. Se all’inizio l’economia civile si è sviluppata nei settori dove lo stato non arrivava e il mercato non aveva convenienza ad operare, svolgendo un ruolo di residualità o di supplenza soprattutto con il ricorso a forme di volontariato, negli ultimi anni è forte la 9
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 spinta ad allargarne gli spazi d’intervento, sostituendo lo stato nel campo dell’istruzione, sanità, assistenza, cultura, servizi al lavoro etc. Lo scopo è quello di creare un nuovo tipo di welfare gestito dai privati, superando la vecchia organizzazione burocratica e spersonalizzata dello stato e per questo incapace di cogliere i reali bisogni sociali. La libera autorganizzazione delle persone può realizzare strutture organizzative meno burocratiche, più flessibili, ampliare l’offerta dei servizi in base alle esigenze delle persone e della comunità di riferimento, e per di più si ritiene che siccome chi sceglie di lavorare in queste organizzazioni sia animato da una forte motivazione,“un supplemento d’anima” la qualità dei servizi erogati sarebbe senz’altro migliore. Al posto del Welfare state una Welfare Society. Il dibattito in Italia è molto animato e spesso caratterizzato da contrapposizioni ideologiche, visto che la maggior parte di tali associazioni nascono dal variegato mondo cattolico. Fino ad epoca recente si è ritenuto che servizio pubblico sia equivalente a servizio statale. Lo stato si prende cura sia del finanziamento che della gestione e dell’erogazione del servizio. Ma negli ultimi anni si è posta sempre più la distinzione fra pubblico e statale. Lo stato può limitarsi al finanziamento di un servizio, lasciandone la gestione ai privati e alle libere associazioni di cittadini. La gestione privata potrebbe essere più efficiente sia dal punto di vista dei costi che della qualità dei servizi erogati, con l’aumento quindi bel benessere collettivo. Siccome come detto “Non esistono pasti gratis”, il ruolo dell’economista è quello di cercare un sistema di regole certe per individuare quali sono le modalità di finanziamento e di gestione dei servizi più soddisfacenti in termini di efficacia ed efficienza, tenendo conto del contesto sociale ed economico di riferimento. Quali sono le caratteristiche che un Ente deve possedere per poter avere in gestione un servizio pubblico? Quali sono le modalità di concessione del finanziamento statale per il servizio pubblico?Quanta parte del costo del servizio deve essere addossato agli utenti e quanta allo stato? 10
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 Individuati gli obiettivi, gli strumenti possono essere i più vari e molteplici; Si può ricorrere all’uso di uno o pochi strumenti o una razionale combinazione di più strumenti. In Italia il quadro normativo ed economico risulta come sempre disorganico e confuso. Proprio a causa delle contrapposizione ideologiche, spesso si prendono provvedimenti contingenti e disparati, dettati dalla necessità, ma senza prestare attenzione ad una riorganizzazione e razionalizzazione della materia per sviluppare una nuova forma di gestione del Welfare. Tutti gli enti ed associazioni operanti nell’ambito dell’economia civile (Onlus, associazioni di volontariato, non profit etc.) godono spesso di agevolazioni fiscali in varie forme; Esenzioni d’imposta, possibilità di ricevere contributi direttamente da privati attraverso detrazioni fiscali, deduzioni, il 5 per mille etc.. Altre volte a seconda dei settori e dei contesti sociali in cui operano, hanno la possibilità di ricevere direttamente finanziamenti da parte di istituzioni pubbliche (Stato, regioni, province, comuni etc). Per di più spesso l’erogazione del servizio non dipende dalla libera domanda dei cittadini che si possono rivolgere all’ente ritenuto più efficiente, ma dalla concessione o appalto del servizio che l’Ente riceve da parte dei settori pubblici. Il quadro normativo è quindi molto eterogeneo e spesso incerto e contraddittorio. Per questo molte sono le critiche rivolte al vasto mondo del terzo settore. La nuova economia sociale secondo alcuni (Carlo Clericetti), non è altro che una nuova utopia sociale ed una nuova ideologia seppur in tono minore. Come in tutte le ideologie le relative pretese palingenetiche vengono asserite e mai dimostrate in pratica. La maggiore efficienza ed efficacia di un nuovo welfare gestito con i soldi pubblici non viene mai verificato nella realtà. L’apporto del supplemento d’anima dato dai volontari può essere solo residuale. Spesso dietro forme di volontariato si nascondono forme di sfruttamento dei lavoratori. Data la rilevanza del costo del lavoro che caratterizza questi settori, spesso la maggiore efficienza viene ottenuta solo a scapito delle diminuzioni delle garanzie e dei diritti dei lavoratori, senza che si realizzati quel vantato supplemento d ‘anima. Per di più queste nuove forme di imprese e gestione, realizzano uno strano ibrido tra ideologia e sottogoverno per la lotta ad accaparrarsi fondi pubblici. Se il finanziamento è 11
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 carico dello stato, nella logica delle cose nulla vieta che la spesa pubblica venga gestita solo ai fini del consenso politico (attività di lobbing, corruzione e clientelismo nella concessione di finanziamenti ed appalti etc) e nulla vieta che sotto le forme di impresa sociale, grazie anche alle varie agevolazioni fiscali e normative, si continui a perseguire logiche speculative compromettendo proprio quei fini tanto decantati che si volevano perseguire. Per un processo di eterogenesi dei fini, proprio l’economia sociale che vorrebbe superare la contrapposizione fra stato e mercato, rischierebbe di sommare entrambi gli inconvenienti. Gestione ai fini economici e speculativi della spesa pubblica, e lotta per accaparrarsi i relativi fondi; inquinando il contesto sociale ed economico di riferimento ed anche quelle realtà associative che si basano solo sullo spirito di servizio e responsabilità sociale in vista del bene comune. La maggiore efficienza ed efficacia sarebbe quindi compromessa, senza riuscire a risolvere i problemi del nuovo Welfare, che se da un lato deve soddisfare bisogni di cittadinanza via via crescenti, dall’altro deve diminuirne il costo dati i vincoli di finanza pubblica. Per un analisi delle situazione italiana le critiche di Carlo Clericetti non sono affatto da sottovalutare, ma da prendere in seria considerazione. Tante volte i fini effettivamente perseguiti non coincidono con quelli dichiarati, oppure non sempre i mezzi usati sono idonei a conseguire i fini prefissati. 4. Il principio di sussidiarietà applicato al settore della Pubblica Istruzione La Pubblica istruzione è il settore in cui sono più presenti le problematiche accennate e più accesa la contrapposizione ideologica. In base all’art. 34 della Costituzione l’istruzione è un diritto che la Repubblica deve riconoscere a tutti i cittadini. L’istruzione inferiore è obbligatoria e gratuita, ed è compito della Repubblica rendere effettivo il diritto allo studio per i capaci e i meritevoli anche se privi di mezzi economici. Anche se per logica economica l’istruzione è un bene privato, essendo rivale ed escludibile, per la nostra costituzione e la maggior parte delle democrazie contemporanee, esso viene elevato a un diritto del cittadino che lo stato deve garantire, e non quindi un bene che ogni 12
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 individuo può soddisfare sul libero mercato data l’offerta del servizio e le sue risorse a disposizione. Riguardo le modalità di garanzia e di erogazione del diritto, compito dello stato è quello di ampliare l’offerta formativa con l’istituzione delle scuole statali in ogni ambito territoriale, per rendere effettivo il diritto allo studio e la libera scelta delle persone della scuola cui accedere . Sempre al fine di garantire il diritto allo studio ed ampliare l’offerta formativa viene anche data la possibilità ai privati di istituire scuole ed istituti di educazione, “ma senza oneri per lo stato”. Questo inciso ha reso di fatto l’istruzione un monopolio statale. Dati i costi di finanziamento di una scuola privata essa è stata solo una forma residuale e d ‘elitè. Qui si prescinde da tutte le dispute e le problematiche giuridiche che si sono susseguite nel tempo riguardo all’inciso “senza oneri per lo stato”, ma si cerca di affrontare la questione solo da un punto di vista economico nel rispetto dei principi e delle norme costituzionali, col solo intento di poter fornire un utile argomento di discussione. Come detto, negli ultimi anni nell’ottica di ridimensionare e ridefinire il ruolo e i compiti dello stato, sempre più si è cercato di dissociare ciò che è pubblico da statale. Con la legge costituzionale n.3/2001 viene costituzionalizzato il principio di sussidiarietà, sia verticale che orizzontale. Vengono ridefinite le materie e le competenze fra i vari livelli di governo, e dalla disposizione e coordinazione di varie norme, nel settore dell’istruzione hanno diverse competenze i vari livelli di governo. Prescindendo dalle dispute giuridiche come detto, con vari interventi e provvedimenti, nel tempo si è allargato sempre più lo spazio per il finanziamento delle scuole non statali, ma senza mai procedere ad una razionalizzazione di tutto il settore e definire un quadro chiaro di competenza fra società civile e i vari livelli di governo. I costi di gestione complessivi delle scuole ed università sono elevati e più alti della media degli altri paesi avanzati, la qualità del servizio offerto scadente con ripercussioni sulle capacità competitive del nostro paese, dato il valore del capitale umano sempre più determinante nell’economia contemporanee. I vari tentativi di riforma che si sono 13
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 succeduti e sono allo studio, non sono riusciti secondo l’opinione prevalente ad arrestare la decadenza della scuola italiana. Date le difficoltà in cui versa il sistema scolastico, forte sono le istanze di chi vuole aumentare lo spazio dei privati nella gestione del servizio, ma non chiare le forme di finanziamento, né soprattutto la definizione di quanta parte del costo del servizio sia a carico delle risorse pubbliche, e quanta parte a carico dell’ utente, e come ripartire questo costo tra i vari livelli di governo. Prescindendo dall’analisi giuridica del sistema della scuola pubblica ( scuole statali e scuole non statali etc) le problematiche odierne riguardano di più l’aspetto economico del finanziamento ed erogazione del servizio, tenendo conto dei vincoli di finanza pubblica e dell’esigenza di ridurre i costi complessivi del servizio (Costi diretti per le scuole statali, finanziamenti, agevolazioni fiscali, etc per le scuole non statali). Negli ultimi anni sono aumentate sempre più le tasse d’iscrizione scolastiche, nonché i contributi legati ai servizi accessori richiesti. Una quota parte crescente del costo del servizio è stata spostata dalle finanze pubbliche agli utenti del servizio. Dall’altro canto per aumentare lo spazio dei privati nell’offerta formativa e ampliare le libertà di scelta dei cittadini, è cresciuto il contributo statale alle scuole private. Spesso sono le leggi dello stato a stabilire gli enti che devono essere finanziati e la legge finanziaria a stabilire la quantità di fondi da erogare. Talvolta sono anche le leggi regionali a stabilire contributi a determinate scuole o a concedere voucher o agevolazioni fiscali in favore di cittadini che scelgono le scuole private. Il costo d’accesso alle scuole private resta comunque molto più alto rispetto a quelle statali, costituendo ancora un settore d’elitè per quelle di eccellenza, o semplici dispensatori di titoli a pagamento per quelle di bassa qualità. Il quadro normativo è eterogeneo, confuso, incerto, con il rischio di pregiudicare i fini che si vogliono perseguire ed alimentare le contrapposizioni ideologiche presenti. 14
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 L’aumento delle tasse d’iscrizioni nelle scuole statali e dei contributi alle scuole private, può compromettere di fatto il diritto all’istruzione che la costituzione riconosce a tutti i cittadini anche se privo di mezzi, pregiudicando anche l’eguaglianza dei cittadini prevista dall’art. 3 Per di più anche nel campo dell’istruzione i risparmi in termini di efficienza e maggiore qualità del servizio sono spesso asseriti e mai dimostrati. Il finanziamento del servizio è ancora quasi totalmente a carico dello stato ed anche in questo settore si possono annidare fenomeni di sottogoverno per l’accaparramento di risorse pubbliche. Le risorse finanziare da destinare alla scuola privata, vengono per lo più stabilite annualmente con la legge finanziaria, ed in un quadro normativo incerto, si corre sempre il rischio che la spesa pubblica venga gestita ai fini del consenso politico, alimentando fenomeni di corporativismo, clientelismo e lobbing per accaparrarsi i finanziamenti pubblici. Se il primo obiettivo è il procacciamento di fonti di finanziamento, il sistema può diventare autoreferenziale con fenomeni di collusione e scadimento della qualità del servizio. Il sistema dei vuocher liberamente spendili su un mercato di concorrenza alla ricerca della scuola che offra migliore qualità, può comunque di fatto limitare l’accesso a coloro che son privi di mezzi, e compromettere l’universalità del diritto allo studio. La libertà di scelta dipende dai mezzi a disposizione e dall’offerta dei beni e servizi disponibili nell’ambito territoriale di riferimento. Con il sistema dei voucher niente garantisce che l’offerta formativa sia completa ed estesa su tutto il territorio nazionale. Per di più una loro gestione a livello regionale o locale può compromettere la garanzia dei livelli minimi dei diritti sociali che lo stato deve garantire su tutto il territorio nazionale. Un riassetto complessivo della materia richiederebbe di definire le rispettive competenze dei vari attori sociali, sia società civile che livelli di governo. Una volta riconosciuto il diritto allo studio come compito dello stato da garantire e soddisfare, e il riconoscimento degli enti, statali o non statali, come erogatori di servizi pubblici; l’inciso “senza oneri a carico a dello stato”, può essere interpretato definendo quali sono gli oneri da porre a carico delle finanze pubblico per il relativo servizio, indipendentemente dall’erogazione del servizio da parte di privati o di strutture pubbliche. Nel campo dell’istruzione i 2/3 e più del costo del servizio sono rappresentati da costi del personale. Il personale addetto è principalmente vincitore di concorso pubblico con lo 15
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 status quindi di pubblico dipendente, con i relativi diritti e doveri stabiliti dalla legge e dal contratto, e tutte le problematiche connesse alla gestione del personale pubblico. Burocratizzazione ed elevati costi organizzativi, uniformità di procedure e mancato riconoscimento dei meriti individuali. Mancanza di flessibilità organizzativa nell’offerta formativa, in quanto la vincita di un concorso dà automaticamente il diritto allo stipendio e alla cattedra, senza che gli studenti e le scuole possono scegliersi i propri insegnati, né gli insegnanti la scuola ritenuta più consona. Spesso la flessibilità organizzativa come in tutti i settori viene ottenuta allo scapito di riconoscimento delle garanzie legali. Anche nel settore scolastico vige una contrapposizione tra insiders ed outsiders , con forme perenni di precariato, se si pensa al personale sottopagato degli istituti privati, dispensatori di titoli di studio di bassa qualità, solo nella speranza di accumulare punteggio per entrare nel sistema di garanzia della scuola statale. In questo contesto lo stato potrebbe decidere di accrescere l’autonomia delle scuole facenti parte del sistema pubblico dell’istruzione ( scuole statali e non statali) ed accollarsi il costo del personale di tutto coloro che hanno superato un concorso pubblico di abilitazione all’insegnamento, in base ad un parametro stabilito fra studenti e personale. L’abilitazione non dà diritto automaticamente alla cattedra, ma ogni scuola può scegliersi i propri insegnati ed ogni insegnante la propria scuola facente parte del sistema pubblico nazionale. Lo stato si farebbe carico della contrattazione di primo livello e le singole scuole di quella di secondo livello in modo da premiare anche il merito individuale. Tutti gli altri costi connessi al servizio scolastico (compresa la contrattazione integrativa) sono a carico del bilancio delle scuole. Ogni istituto dovrebbe essere titolare di proprie risorse da reperire per lo più sul mercato. In questo contesto lo stato dovrebbe farsi garante dell’applicazione delle regole per garantire i diritti costituzionalmente riconosciuti, quali l’effettività del diritto allo studio e il rispetto dei diritti dei lavoratori. Tutti gli istituti che si avvalgono del personale pagato dallo stato che hanno superato il corso di abilitazione, devono garantire effettiva parità di accesso agli studenti. Lo stato fissa l’importo delle tasse d’iscrizioni per gli istituti statali ed anche per quelli non statali fino ad una determinata soglia di reddito o della dichiarazione Isee. Questo modo di finanziamento sarebbe alternativo sia al sistema dei voucher sia al sistema del finanziamento diretto delle scuole soggetto inevitabilmente a condizionamenti politici. In tal modo lo stato si accollerebbe il compito di coprire i costi più rilevanti della gestione scolastica, ma lasciando alla libera iniziativa dei soggetti sociali il 16
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 compito di aggregarsi e di gestirla con criteri più flessibili, e meno costi e disfunzioni burocratiche, in un sistema normativo di riconoscimento dei diritti costituzionalmente garantiti. Sempre al fine di coniugare flessibilità organizzativa e certezza dei diritti, si potrebbe stabilire quale quote dell’entrate proprie di un istituto devono essere destinate alla remunerazione della contrattazione di secondo livello del personale, quale al sostegno del diritto allo studio degli studenti, e il resto alla libera disposizione degli istituti. Gli istituti scolastici potrebbero reperire le proprie entrate direttamente dalla società civile: Non solo tasse d’iscrizioni, ma attraverso una riorganizzazione e razionalizzazione del sistema fiscale si potrebbe decidere quale parte delle tasse i cittadini possono destinare direttamente a determinati scopi ed enti senza l’intermediazione di risorse da parte dello stato. Un istituto questo di cui negli ultimi anni si fa sempre più uso ma le cui risorse sono disperse fra mille rivoli senza essere di molto aiuto a nessuno. In questo contesto, insieme ad uno snellimento delle procedure burocratiche, le libere associazioni dei cittadini e degli insegnati avrebbero la possibilità di crearsi le scuole consone ai loro bisogni. Si pensi alle scuole dell’infanzia e primarie di quartiere o nei paesi con difficoltà di mobilità, ed anche alla possibilità dei distretti industriali di creare propri istituti specializzati sia nella formazione che nella ricerca ricorrendo sia al personale pagato dallo stato che ai propri contributi. I ruoli dei vari attori sociali risulterebbero delimitati e definiti. Lo stato si accollerebbe l’onore dei costi legati al personale, la società civile la possibilità di creare e gestire gli istituti scolastici, e gli altri livelli di governo il compito di intervenire secondo il principio di sussidiarietà nelle realtà in cui è scarsa l’offerta formativa, sempre per rendere effettivo il diritto allo studio. La cooperazione e la competizione pubblico privato, non darebbe luogo a fenomeni di confusione e collusivi e di sottogoverno, ma tutti gli attori sociali sarebbero responsabilizzati per i compiti di rispettiva competenza. Le energie della società civile valorizzate e non sopraffatte da coloro che perseguono logiche mercantile sotto mentite spoglie. L’economia sociale non sarebbe quindi una terza via fra mercato e stato, un modo di gestione alternativo e residuale, ma viceversa un modo di ridefinire i rispettivi ambiti di competenza delle istituzioni pubbliche e del mercato, per valorizzare e non reprimere o ridimensionare, le energie creative del mercato e l’irrinunciabile ruolo a cui sono chiamati i pubblici poteri. Il tutto attraverso la ridefinizione del contesto normativo e socio 17
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 economico in cui operano, per indirizzare le dinamiche che regolano la loro azione verso il raggiungimento del bene comune, attraverso la responsabilizzazione di tutti gli attori sociali contribuendo quindi alla riduzioni dei fenomeni di sottogoverno ed assistenzialismo. 5. Conclusione Riguardo i costi del finanziamento per le finanze pubbliche, una riorganizzazione del settore può comportare anche risparmi di gestione, ma in questo come in tutti gli altri settori connessi al Welfare, la decisione non facile da prendere riguarda quanta parte del costo debba essere sopportata dagli utenti dei servizi e quanta dallo stato. Ma in economia una minore spesa di un soggetto equivale logicamente ad una minore entrata per un altro, e risolto un problema se ne presenta immancabilmente un altro non meno grave. Alla fin fine i problemi economici sono sempre problemi distributivi. Se per keynes importante era accrescere la torta da distribuire per aumentarne le fette che spettavano a ciascuno e quindi il problema distributivo era secondario, la storia ci ha insegnato che per varie ragioni ciò si è rivelato un utopia, anche tenendo conto che l’uomo è una persona che vive in società e che la povertà è un concetto storicamente determinato. L’uomo ha non solo bisogno dei beni che gli permettono di soddisfare i bisogni primari, ma in quanto essere sociale, quei beni e servizi che gli permettono di avere una vita dignitosa nel contesto sociale di riferimento. D’altro canto se è vero che non esistono pasti gratis, non è men vero che se l’organizzazione socio-economica non riesce a creare le condizioni perché tutti possano avere pasti disponibili come frutto del proprio lavoro, non si possono negare ai bisognosi le cure cui hanno bisogno in nome di superiore logiche economiche. Il problema dell’efficienza produttiva come ricordato nell’ultima enciclica Papale non può mai essere slegata dai problemi distributivi e di equità. Se l’economia deve essere al servizio dell’uomo e non viceversa, il ruolo dell’economia sociale cui fa riferimento la stessa enciclica è proprio quello di normativizzare regole etiche e morali in un quadro razionale che tenga conto delle dinamiche logiche sottostante l’azione dei vari attori sociali, al fine di incanalare le energie creative verso il raggiungimento del bene comune. Una nuova economia che nonostante i contributi di vari studiosi anche nella storia meno recente, deve essere ancora studiata e approfondita e che vede superata anche la logica einaudiana storicamente datata, in cui l’agire economico aveva il compito di produrre ricchezza e quello politico il compito di distribuirla. La storia economica e in special modo la crisi attuale, dimostra che i problemi 18
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 distributivi sono un tutt’uno con quelli produttivi. Per ridimensionare il ruolo dello stato nel processo di intermediazioni delle risorse, con tutte le problematiche ben evidenziati dagli studiosi, di ordine politico, morale ed economico, la sola via percorribile è non separare efficienza ed equità. L’agire economico deve farsi anche carico contemporaneamente dei problemi distributivi. Ciò non può essere rimesso solo al libero senso etico e morale degli attori sociali, ma dipende soprattutto dal contesto normativo in cui si svolge la loro opera. Il compito degli studiosi di scienze sociali e dei poteri pubblici è creare con sapienza ed intelligenza, il quadro normativo di riferimento, nella consapevolezza di vivere in un mondo ormai disincantato e liberato dalle ideologie. Ma le ideologie a ben vedere spesso sono legate più che ai fini ai mezzi usati per perseguirli, anche per mascherare fini reconditi non dichiarati. Inoltre per l’adesione fideistica che richiedono, spesso limitano di molto l’intelligenza creatrice degli uomini. Ma se vi è accordo sui fini perseguiti, l’intelligenza creativa dell’uomo troverà sempre gli strumenti più opportuni per conseguirli, selezionando i valori da perseguire e indicando la direzione da percorrere. 6. Bibliografia Teoria economica e legislazione sociale le testo delle lezioni di Einaudi Alberto Baffigi. Quaderni di Storia Economica. Banca D’Italia Blog di Carlo Clericetti Blogging in the Wind Enciclica Caritas in Veritate Benedetto XVI 19
Quaderno di Teoria, n. 21 – settembre 2010 CHI SIAMO Il Tocqueville-Acton Centro Studi e Ricerche nasce dalla collaborazione tra la Fondazione Novae Terrae ed il Centro Cattolico Liberale al fine di favorire l’incontro tra studiosi dell'intellettuale francese Alexis de Tocqueville e dello storico inglese Lord Acton, nonché di cultori ed accademici interessati alle tematiche filosofiche, storiografiche, epistemologiche, politiche, economiche, giuridiche e culturali, avendo come riferimento la prospettiva antropologica ed i principi della Dottrina Sociale della Chiesa. PERCHÈ TOCQUEVILLE E LORD ACTON Il riferimento a Tocqueville e Lord Acton non è casuale. Entrambi intellettuali cattolici, hanno perseguito per tutta la vita la possibilità di avviare un fecondo confronto con quella componente del liberalismo che, rinunciando agli eccessi di razionalismo, utilitarismo e materialismo, ha evidenziato la contiguità delle proprie posizioni con quelle tipiche del pensiero occidentale ed in particolar modo con la tradizione ebraico-cristiana. MISSION Il Centro, oltre ad offrire uno spazio dove poter raccogliere e divulgare documentazione sulla vita, il pensiero e le opere di Tocqueville e Lord Acton, vuole favorire e promuovere una discussione pubblica più consapevole ed informata sui temi della concorrenza, dello sviluppo economico, dell'ambiente e dell'energia, delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni, della fiscalità e dei conti pubblici, dell'informazione e dei media, dell'innovazione scientifica e tecnologica, della scuola e dell'università, del welfare e delle riforme politico-istituzionali. Oltre all'attività di ricerca ed approfondimento, al fine di promuovere l'aggiornamento della cultura italiana e l'elaborazione di public policies, il Centro organizza seminari, conferenze e corsi di formazione politica, favorendo l'incontro tra il mondo accademico, quello professionale-imprenditoriale e quello politico-istituzionale. 20
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