URBI ET ORBI Bartolomeo Bèrtulu Porcheddu - IL PAPA PARLA MEZZO IN SARDO e MEZZO IN LATINO, MA NON LO SA - Bartolomeo Bèrtulu Porcheddu

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URBI ET ORBI Bartolomeo Bèrtulu Porcheddu - IL PAPA PARLA MEZZO IN SARDO e MEZZO IN LATINO, MA NON LO SA - Bartolomeo Bèrtulu Porcheddu
Bartolomeo Bèrtulu Porcheddu

               URBI ET ORBI
IL PAPA PARLA MEZZO IN SARDO e MEZZO IN LATINO, MA NON LO SA.

              IN DUE PAROLE LA NASCITA DI ROMA

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URBI ET ORBI Bartolomeo Bèrtulu Porcheddu - IL PAPA PARLA MEZZO IN SARDO e MEZZO IN LATINO, MA NON LO SA - Bartolomeo Bèrtulu Porcheddu
URBI ET ORBI

    IL PAPA PARLA MEZZO IN SARDO e MEZZO IN LATINO, MA NON LO SA.

                           IN DUE PAROLE LA NASCITA DI ROMA

   «Urbi et Orbi» furono le prime parole che papa Pio XI riuscì a pronunciare
affacciandosi alla finestra esterna che dà sulla Piazza di San Pietro, subito dopo la sua
elezione al soglio pontificio, avvenuta il 7 giugno 1929. Essendo il primo sovrano del
nuovo Stato della Città del Vaticano, grazie ai Patti Lateranensi firmati con il
Governo Italiano guidato da Benito Mussolini, con voce rotta dall’emozione diede la
benedizione e impartì l’Indulgenza “plenaria”. Fino a qual momento, i papi
succedutisi all’evento della Breccia di Porta Pia (1870) che avevano perso in guerra
lo Stato della Chiesa si erano affacciati sul cortile interno della loggia, per mostrare al
mondo che erano prigionieri entro la loro città murata. Quindi Pio XI si rivolse, Urbi,
alla Città, e Orbi, al Mondo1.

   Urbi (alla Città) è nella lingua latina il dativo (complemento di termine) di Urbs
(nominativo singolare), sostantivo femminile della III declinazione, che significa tra
gli altri “Città”. Orbi (al Mondo) è invece il dativo latino (complemento di termine)
di Orbis (nominativo singolare), sostantivo maschile della III declinazione, che
significa tra gli altri “Cerchio”, riferito, nella accezione più vasta del termine, al
territorio del Circondario più ampio della Città, che poteva arrivare fino al resto del
Mondo. L’uscita in –s del nominativo e quella in –i del dativo sono uguali alle
corrispondenti desinenze del greco. Il “caso” ablativo singolare, Urbe per Urbs e
Orbe per Orbis, era tra le 12 voci della declinazione latina quella che più delle altre si
avvicinava alla lingua parlata. I Romani avevano aggiunto un caso in più, l’ablativo,
rispetto ai cinque del greco, proprio per non slegare del tutto il parlato dallo scritto 2.

   «Benché fossi un ragazzino, li vedo ancora dentro i miei occhi quei traditori della
lingua dei Patres (Padri, Antenati)» avrebbe detto Marco Pòrtzio Catone (Marcus
Porcius Cato), quando all’età di sei anni, accompagnato dal padre, avrebbe assistito a
Roma nel 240 a.C. ai fasti solenni per la vittoria dei Romani sui Cartaginesi nella
prima guerra punica. Nelle prime file gli Scipioni, ramo della potentissima famiglia
dei Cornelii. Questi, dopo la cerimonia, si felicitarono con Livio Andronico, uno
schiavo greco fatto prigioniero a Taranto e ospitato nella Capitale dalla gens Livia

1
 Lentini Gerlando, Pio XI, l’Italia e Mussolini, Città Nuova Editrice, Roma, 2008, p. 16.
2
 Porcheddu Bartolomeo, Il latino è lingua dei Sardi – Su latinu est limba de sos Sardos, Lincom Europa, Monaco di
Baviera, 2018, pp. 66-69.
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come un liberto d’onore, quando, davanti alle maggiori autorità della Città, presentò
la sua prima opera teatrale in lingua latina “comune”, che Tito Livio chiamerà
qualche secolo dopo nella sua Ab Urbe Condita con la dizione di “Componimento
Regolato”3.

   Nessuno dei presenti capì un’acca di quello che Livio Andronico aveva detto, ma
questo in quel momento non aveva importanza, perché, avrebbero detto Senatori,
Consoli e Censori: «La nuova lingua statuale invaderà il mondo nei prossimi anni,
sarà studiata e parlata da tutti, e sostituirà il greco nei grandi poemi epici». Parole
queste che fecero presa su guerrieri nati per combattere e con una sola aspirazione
nella testa: il concetto dell’immortalità storica. Tutti i grandi comandanti romani
sognavano di diventare dei personaggi leggendari come Achille o Agamennone.
Pertanto, fu facile convincerli del fatto che unendo la lingua sarda, idioma delle loro
origini, a quella greca, i maestri della penna avrebbero fatto scivolare più
velocemente le loro vicende sulla pergamena indelebile della storia 4.

  In quel frangente si stava mettendo in pratica la decisione già presa di utilizzare la
nuova lingua statuale che aveva inserito nella radice sarda il morfema nominale
greco, chiamato “caso”, che vuol dire “caduta”, calco latino del greco πτῶσις (ptosis).
Poco tempo dopo, Marco Portzio Catone si oppose ferocemente alla ellenizzazione
della lingua latina e, forse anche per questo, litigò violentemente con Publio Cornelio
Scipione, detto l’Africano. Catone quindi riparò e militò per un breve periodo in
Sardegna, lontano dal Circolo degli Scipioni5. Catone fu ricordato in seguito anche
dallo Scrittore Marziale (Marcus Valerius Martialis: 40-104 d.C.) nei suoi Epigrammi
come colui che odiava la Lingua Latina Comune. «Un Catone non entrerà mai nel
mio teatro» avrebbe detto e scritto Marziale nel prologo alle sue opere teatrali, dopo
che molti Romani gli avevano contestato i testi recitati nella lingua dello Stato6.

   La lingua latina “comune” però non cadde immediatamente nello sfacelo, come era
accaduto all’impero, perché venne abbracciata dalla nuova religione, chiamata
Cristiana poiché professava la parola di Cristo, che aveva messo radici a Roma, dopo
essere migrata dalla Palestina. «Roma caput Mundi (Roma capo del Mondo» diceva
l’Alto Clero di Cristo, ripetendo più o meno la frase scritta da Tito Livio: «Roma
caput orbis terrarum sit (Roma capo/capitale del circolo terrestre/mondo sia)»7. Il
latino comune non era certo una lingua popolare e solo chi poteva permettersi un

3
  Tito Livio (Titus Livius), Ab Urbe Condita, Liber XX, 1.
4
  Porcheddu Bartolomeo, Roma colonia sarda, Authorpublishing, Sassari, 2020, p. 508.
5
  Scardigli Barbara – Manfredini Mario, Vite Parallele: Plutarco. Aristide. Catone, Bur Rizzoli, Milano, 2013, p. 267.
6
  Marziale (Marcus Valerius Martialis), Epigrammaton, Liber I, Prologus 0.
7
  Tito Livio (Titus Livius), Ab Urbe Condita, Liber I, 16.
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Litterator privato che gli insegnasse la grammatica poteva distinguere un nominativo
da un dativo, vale a dire un soggetto da un complemento di termine. Pertanto,
conquistato e perso l’impero, i cittadini Romani ereditarono dai loro Cesari un ibrido
incomprensibile nella forma scritta e un miscuglio di dialetti nella lingua parlata 8.

   In poco tempo, la memoria storica dei Romani si spense piano piano, tanto che
nessuno era più in grado di comprendere neanche il significato di Urbe, neppure chi,
come Varrone (Marcus Terentius Varro: 116 a.C. – 27 a.C.), era considerato tra i
grandi letterati del primo secolo avanti Cristo. A tale proposito, citando il
Settentrione segnato dalla costellazione dell’Orsa o del Carro, Varrone scrive: «I
Greci chiamano questa costellazione “Carro”, mentre noi appelliamo queste sette
stelle “Triones”». Poi aggiunge: «Triones sono chiamati dai bifolchi i buoi»9.
Varrone aveva quindi associato il “Carro” ai “Sette” buoi che lo trainavano. Egli non
aveva compreso che in presenza di una consonante iniziale sorda /t/ seguita da una
liquida /r/, per una questione di metatesi (spostamento all’interno di parola della
consonante liquida), solitamente, la vocale che accompagnava la consonante sorda
veniva sincopata (fatta fuori). Per cui, Triones era in origine Turriones (Grandi
Torri)10.

8
  Aulo Gellio (Aulus Gellius), Noctes Atticae, I, 84.
9
  Varrone (Marcus Terentius Varro), De Lingua Latina, Liber VII, 4.
10
   Porcheddu Bartolomeo, Roma colonia sarda, Cit., p. 79.
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Nella lingua sarda delle origini, attraverso il latino, si ottiene quindi Sete
Turriones per Septem Triones. Ancora oggi, una località nel territorio di Ossi (SS) è
chiamata “Sos Turriones”. In altre parole, la costellazione del Carro o dell’Orsa
segnava il Settentrione per mezzo di sette stelle che rappresentavano sette grandi
torri. La grande torre nuragica costituiva la singola stella del cielo trasposta sulla terra
e veniva chiamata “Pula”, come l’odierna cittadina di Pula nel Cagliaritano, mutuata
dai Greci con un calco in “Polis” 11. Gli storici, che ancora pensano che la Polis sia di
origine greca, si saranno beccati figuratamente qualche frecciata scoccata dall’arco di
Orione, l’arciere celeste dell’omonima costellazione. Oppure, come si faceva un
tempo per educare i bambini, Orione avrà preferito stendere sul loro deretano un paio
di cinghiate.

   La Cintura di Orione avrebbe fatto del male agli educandi, perché era formata da
tre stelle appuntite che costituivano una Trìpula, termine che i Sardi avevano
sonorizzato in Trìbula e che i Greci avevano ripreso in Tripolis. In antichità, il
toponimo Trìbula esisteva in Liguria, nel Lazio e in Campania. Ancora oggi, Trìpoli è
la capitale della Libia e il Tribulaun è la montagna dell’Alto Adige con tre cime 12. La
Trìbula era in sardo il forcone a tre denti con cui si separava il grano dalla Pula.
Roma era in origine una Trìbula, vale a dire una città costruita intorno a tre monti o
colli sacri, sui quali campeggiava il Turrione, Palatu (Palatino) o Nuraghe, ed è per
questo che la leggenda della sua fondazione narra degli abitanti appartenenti a tre
Tribù, il cui termine è composto del sostantivo Tribu[la] troncato della sillaba
finale13.

   Il Grande e Piccolo Carro raffigurato nella costellazione dell’Orsa maggiore e Orsa
minore è tracciato da sette stelle che disegnano un carro o una nave da corsa. Il nome
Orsa è per questo solo una corruzione del latino Ursa, che in origine aveva la
consonante iniziale /c/ a sostegno della vocale /u/: Cursa. Ancora oggi, in parte della
variante sarda del Nuorese, la consonante sorda /C/ iniziale viene fatta fuori per
aferesi, come nell’esempio di “su Casu” (il formaggio) che diventa “su ‘asu”. Quindi
il Piccolo e il Grande Carro erano destinati alla Corsa, ossia al combattimento. Il
timone del Carro era costituito dalla “Barra”o “Asse” fissata alla “Bara” o “Carena”.
Non bisogna dimenticare che la bara odierna dove giace il defunto è la riproposizione
del carro o della imbarcazione dove il soldato aveva militato14.

11
   Hansen Morgens Herman, Polis: introduzione alla città-stato dell’antica Grecia, Oxford University Press, Oxford,
2006, p. III.
12
   https://www.suedtirolerland.it/it/cultura-e-territorio/natura-e-paesaggio/montagne/alpi-dello-stubai/tribulaun/
13
   Porcheddu Bartolomeo, Roma colonia sarda, Cit., p. 423.
14
   Porcheddu Bartolomeo, Roma colonia sarda, Cit., pp. 76-81.
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La stella più luminosa del Carro Minore che è posta all’estremità della barra si
chiama Polare, come Pularisone (nel Comune di Belvì) e Pularisoni (nel Comune di
Gadoni), e segna il Polo Nord Celeste. La punta della barra è unita al Giogo
attraverso un anello, oggi di ferro, che in sardo viene chiamato “Bùssulu”, da cui è
derivato il nome della Bussola. A seguito della “Precessione degli Equinozi”, vale a
dire della rotazione non lineare dell’asse terrestre che gira come una trottola, la stella
Kochab, che si trova in posizione opposta a quella Polare, ha dato per diverso tempo
l’indicazione del Polo Nord15. La stella arancione Kochab è un adattamento al nome
originario che gli Arabi hanno tramandato fino ai nostri giorni, ma che, è evidente, si
tratta di un sostantivo sardo. Nell’Isola, infatti, Cocco si trova sia nell’onomastica sia
nel frutto arancione, tondo e dello stesso colore della stella, che si chiama Barra-
Cocco (Albicocca), da “bara” o “barra” e da “cocco” (telaio). Per questo, la “scocca”,
che prende ugualmente il nome dalla stella, è l’intelaiatura del carro da guerra, dal
quale l’arciere “scoccava” le frecce 16.

15
   Gaspani Adriano – Cernuti Silvia, L’astronomia dei Celti: stelle e misura del tempo tra i Celti, Keltia Editrice, Aosta,
1997, p. 148.
16
   https://www.cognomix.it/mappe-dei-cognomi-italiani/COCCO/SARDEGNA
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Come in un innesto “maschio” e “femmina”, il manico si legava alla carena. Il
carro o la nave presentavano una parte concava e una parte convessa, a seconda del
fatto che il mezzo fosse rispettivamente messo in posizione normale o capovolto.
Similmente per il Nuraghe, se la torre era vista dall’interno nella parte concava era
una Pula o Turre di genere femminile, mentre se era osservata dall’esterno nella parte
convessa era un Turru o Turrione di genere maschile. Pertanto, anche la costellazione
del Carro da [C]Ursa era ambivalente. In sardo, il manico dell’aratro, il timone della
nave o le redini del carro vengono chiamati [B]urbu, nome che rappresenta
figuratamente anche il membro maschile. All’opposto, la [B]urba è invece l’organo
genitale femminile. Quindi in Sardegna troviamo ad esempio il villaggio nuragico di
S’Urbale (Teti) e l’Altipiano di Badde Urbara (Santu Lussurgiu)17.

   Il fenomeno linguistico secondo cui le consonanti /b/ e /v/ sono intercambiabili si
chiama “Betacismo”. Per mezzo di questa norma linguistica, a seconda della località,
lo stesso nome viene pronunciato ad esempio Binu o Vinu (vino). Le due consonanti
iniziali, se precedute da una parola che termina per vocale, solitamente, subiscono
un’aferesi, vale a dire vengono eliminate: quindi “su ‘inu”. Un’altra particolarità
linguistica, secondo cui una consonante viene detta tecnicamente “liquida”, si ha
quando la /r/ sostituisce la /l/ nei nessi consonantici (due consonanti nella stessa
sillaba). Ad esempio, troviamo il sostantivo “Flore” (fiore) nella Sardegna
settentrionale, in opposizione a “Frore” nella Sardegna centro meridionale. Entrambe
le consonanti liquide /r/ e /l/, sempre a seconda della località, possono muoversi
all’interno di parola generando il processo linguistico che si chiama “metatesi”:
pedra, preda e perda (pietra)18.

   Nel caso volessi applicare il betacismo anche alla lingua italiana, potrei
trasformare “Bulbo” in “Vulva”, cambiando la consonante /b/ in /v/, compresa la
desinenza finale –a che mi dà il genere femminile, opposto a quello maschile. Allo
stesso modo, in sardo, scambiando la liquida /r/ con la /l/ e utilizzando il betacismo,
posso trasformare l’italiano “Bulbo” nel sardo “Burbu” e “Vulva” in “Burba”. Ad
esempio, il logudorese “truvare” (spingere) si trasforma nel nuorese “turbare” (che
oltre a spingere significa anche fare l’amore. Una donna dis-turbata solitamente non
fa l’amore perché ha il ciclo). In altre parole, tutti questi termini hanno una sola
radice che muta dal maschile al femminile solo cambiando la desinenza finale. Tutto
si svolge come in un gioco amoroso in cui il maschio e la femmina ruotano avvolti

17
     Santoni Vincenzo, Il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, Banco di Sardegna, Sassari, 1989, p. 98.
18
     Porcheddu Bartolomeo, Grammatica de sa Limba Sarda Comuna, Logosardigna, Sassari, 2011, pp. 41-42.
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uno sull’altra come le stelle nel firmamento, come la donna e l’uomo nel cerchio
della vita o come il rullo del telaio nell’ordito19.

   Questo abbraccio è tradotto in sardo, tra gli altri, con il nome di Sorbu o S’Orbu.
S’Orbu, in latino Orbis (nominativo singolare) e Orbi (dativo singolare), è in sardo
l’amore figurato, ovverosia la ruota del telaio su cui è avvolto il filo dell’ordito. Per
questo i pianeti “orbitano” e sono attratti dal sole, come la donna dall’uomo e
viceversa. Di fronte alle grandi forze della natura, l’uomo è vulnerabile e il suo filo
della vita è come quello della trama, che può spezzarsi da un momento all’altro. Nella
cultura popolare sarda, la “Filonzana” è la “Zana” o “Jana” (Fata) che tiene questo
“filo”20. «Maledetto sia colui che cercando l’immortalità personale ha ucciso la lingua
degli avi, mandandola nel dimenticatoio dei posteri» avrebbe sicuramente detto
Catone ai fautori del sardo-latino grecizzato21.

   «Domani» avrebbe potuto dire “Il Vecchio Censore” «Forse scorderemo che Roma
era in origine una Trìpula, nata su tre monti, come la “Cintura di Orione”, e divenuta
durante la Repubblica una Urba, che a Roma per volere del Senato chiamiamo Urbe,
dopo aver esteso la sua pianta agli altri quattro colli, consacrandosi così a divenire
sulla terra “costellazione delle sette stelle del Piccolo e Grande Carro”»22. Chi ha
abbracciato la nuova lingua di stato ha fatto in modo che si spegnessero man mano
anche le stelle del firmamento celeste per vedere nel cielo una sola luce. Ne è
conseguito che oggi i discepoli di Cristo, saliti al soglio pontificio per dispensare la
benedizione Urbi et Orbi, non sanno che quelle parole vengono dalla memoria
primordiale dei Sardi e ignorano pertanto che Urbi viene da Urba e Orbi da Orbu. Se
solo sapessero che Urba è il luogo da cui nasce la vita e Orbu il cerchio in cui è
racchiuso l’Amore […], la benedizione "Urba" e "Orbu" sarebbe davvero "planetaria"
(pulanetaria) e l’indulgenza “plenaria” (pulenaria)23.

     PS: per casualità, l’articolo, senza la copertina, è composto di sette pagine.
19
   Rubattu Antoninu, Dizionario Universale della Lingua di Sardegna, Vol. I, Seconda Edizione, Edes, Sassari, 2016, p.
684.
20
   Angius Vittorio – Spano Giovanni, Grammatica e Vocabolario dei dialetti sardi, Archivio Fotografico Sardo, Nuoro,
2002, p. 229.
21
   Hornblower Simon – Spawfort Antony – Eidinow Ester, The Oxford companion to Classical civilization, Oxford
University Press, Oxford, 2014, pp. 120-240.
22
   Porcheddu Bartolomeo, Roma colonia sarda, Cit., p. 111.
23
   Porcheddu Bartolomeo, Roma colonia sarda, Cit., p. 104.
                                                           7
BIBLIOGRAFIA

Angius Vittorio – Spano Giovanni, Grammatica e Vocabolario dei dialetti sardi, Archivio Fotografico
Sardo, Nuoro, 2002.

Aulo Gellio (Aulus Gellius), Noctes Atticae, I, 84.

Gaspani Adriano – Cernuti Silvia, L’astronomia dei Celti: stelle e misura del tempo tra i Celti, Keltia
Editrice, Aosta, 1997.

Hansen Morgens Herman, Polis: introduzione alla città-stato dell’antica Grecia, Oxford University
Press, Oxford, 2006.

Hornblower Simon – Spawfort Antony – Eidinow Ester, The Oxford companion to Classical
civilization, Oxford University Press, Oxford, 2014.

Lentini Gerlando, Pio XI, l’Italia e Mussolini, Città Nuova Editrice, Roma, 2008.

Marziale (Marcus Valerius Martialis), Epigrammaton, Liber I, Prologus 0.

Porcheddu Bartolomeo, Grammatica de sa Limba Sarda Comuna, Logosardigna, Sassari, 2011.

Porcheddu Bartolomeo, Il latino è lingua dei Sardi – Su latinu est limba de sos Sardos, Lincom
Europa, Monaco di Baviera, 2018.

Porcheddu Bartolomeo, Roma colonia sarda, Authorpublishing, Sassari, 2020.

Rubattu Antoninu, Dizionario Universale della Lingua di Sardegna, Vol. I, Seconda Edizione, Edes,
Sassari, 2016.

Santoni Vincenzo, Il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, Banco di Sardegna, Sassari, 1989.
Scardigli Barbara – Manfredini Mario, Vite Parallele: Plutarco. Aristide. Catone, Bur Rizzoli, Milano,
2013.

Tito Livio (Titus Livius), Ab Urbe Condita, Liber I, 16.

Tito Livio (Titus Livius), Ab Urbe Condita, Liber XX, 1.

Varrone (Marcus Terentius Varro), De Lingua Latina, Liber VII, 4.

                                                      8
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