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Università degli studi di Cagliari Facoltà di Scienze Corso di Laurea in Fisica Sviluppo e test di un sistema automatizzato di analisi Raman micro-SORS per i beni culturali Relatori Candidato Dott. Daniele Chiriu Tullia Carla David Prof. Carlo Maria Carbonaro Anno Accademico 2018/2019
Indice Introduzione 3 1 Il micro-SORS e le sue applicazioni 4 2 Richiami teorici 8 2.1 La spettroscopia Raman . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8 2.2 Cenni sulla teoria dei gruppi puntuali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12 2.3 Nozioni di ottica geometrica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 2.4 L’importanza della profondità di campo . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16 3 Apparato strumentale 17 3.1 Laser . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 3.2 I filtri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18 3.3 Il monocromatore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18 3.4 Il rivelatore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 3.5 Lo Stage controller . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 4 Costruzione del software "MS-SPEC" 21 4.1 Il VI per l’elaborazione digitale del segnale e per il salvataggio dei dati 22 4.2 Il software "MS-SPEC" . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23 5 Il campione 25 5.1 Descrizioni generali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25 5.2 Procedura di realizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26 5.3 La pittura su tavola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26 5.4 Il blu oltremare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 6 Procedura sperimentale e analisi dei dati 29 6.1 Acquisizione dei dati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 6.2 Analisi dei dati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 6.2.1 Le misure acquisite con l’obiettivo con ingrandimento 20X. . . . 31 6.2.2 Le misure acquisite con l’obiettivo con ingrandimento 50X. . . . 43 Conclusioni 48 Appendice 49 2
Introduzione L’Italia è uno dei Paesi più ricchi al mondo dal punto di vista del patrimonio artistico e culturale. Le innumerevoli opere d’arte presenti sul nostro territorio, i monumenti delle nostre città, i documenti che raccontano la Storia della nostra civiltà costituiscono nel loro insieme un tesoro dal valore inestimabile. È importante quindi tutelare e salvaguardare tali ricchezze al fine di conservare la nostra memoria e la nostra identità nazionale. Ad oggi, sono tante le metodologie impiegate nell’analisi e nello studio dei beni culturali. Tuttavia, recentemente ha suscitato parti- colare interesse una tecnologia innovativa: il micro-SORS. Si tratta di una tecnica spettroscopica non distruttiva e non invasiva che permette di ricevere informazioni dagli strati presenti al di sotto della superficie del campione analiz- zato. In questo lavoro di tesi, il micro-SORS verrà utilizzato per lo studio stratigrafico di una tavola pittorica realizzata all’interno della scuola di restauro dell’ "Opificio delle Pietre Dure", quindi è volto ad una sua applicazione nel campo dei beni culturali ed artistici. È importante sottolineare che tale tecnica, essendo versatile, ha infiniti campi di appli- cazione tra cui, ad esempio, quello medico, farmaceutico e forense. Inoltre, a seguito di alcuni fatti storici recenti, il micro-SORS si è dimostrato molto utile nel campo dei controlli di sicurezza, vista la sua enorme praticità. Uno dei principali obiettivi di questo lavoro di tesi è stato quello di automatizzare tra- mite l’ambiente di sviluppo integrato LABVIEW l’apposito apparato strumentale e di verificarne l’effettivo funzionamento. Pertanto, la tesi si aprirà con un capitolo introduttivo dedicato alla tecnica micro-SORS e alle sue potenzialità. Un’intera sezione verrà dedicata ai principi teorici che stanno alla base del suo funzionamento tra cui quelli relativi alla spettroscopia Raman e all’ot- tica geometrica. Verrà poi presentata una sezione descrittiva dell’apparato strumentale e della sua automazione tramite LABVIEW. Infine, verrà trattata la parte sperimentale e l’analisi dei dati. 3
Capitolo 1 Il micro-SORS e le sue applicazioni Il micro-SORS (micrometre scale Spatially Offset Raman Spectroscopy) è una tecnica spettroscopica nata di recente (2014) ad opera di un gruppo di ricercatori dell’ICVBC- CNR di Milano e del Central Laser Facility, STFC - RAL, Oxfordshire. Si tratta di una tecnica laser che sfrutta i principi teorici dello scattering Raman e quelli della microscopia ottica, uniti al "defocusing" del SORS, ossia al processo di defocaliz- zazione di un oggetto dalla posizione di fuoco del fascio della sorgente eccitatrice che nel caso del SORS avviene in scala macroscopica; è un metodo non invasivo e non distrut- tivo che consente di ottenere informazioni sulla composizione del campione analizzato e di studiarne la stratigrafia direttamente dalla superficie senza ricorrere a processi di sezionamento. Inoltre, è una tecnica versatile che opera su più fronti: nel campo dei be- ni culturali [4], nelle scienze forensi, nelle applicazione biomediche, in ambito biologico e medicale con, ad esempio, l’analisi di materiali biologici come ossa, tessuti e sangue. L’approccio del SORS e del micro-SORS è quello di acquisire il primo spettro seguendo la spettroscopia Raman convenzionale ed i successivi eseguendo una defocalizzazione tramite l’allontamento del campione dalla posizione di fuoco. Ciò che distingue le tecniche SORS e micro-SORS è la lunghezza del passo utilizzato per la defocalizzazione: nel primo caso è dell’ordine del millimetro (10−3 m), mentre nel secondo è dell’ordine del micrometro (10−6 m) [5]; ma si tenga presente che il principoi di funzionamento è lo stesso. Nella figura 1.1 viene riportato uno schema indicativo che mostra il confronto tra la spettroscopia Raman convenzionale e la tecnica micro-SORS. A sinistra, la confi- gurazione riportata è quella di una tipica misura Raman, infatti il campione si trova esattamente nella posizione di fuoco; a destra, invece, viene riportata la configurazione di una misura che sfrutta la defocalizzazione: il campione non si trova nella posizione di fuoco, ma dista da essa di una quantità ∆z. Il "defocusing" può essere fatto in due modi differenti a seconda dell’ordine cronologico con cui si susseguono la messa a fuoco e l’allontanamento del campione con conse- guente defocalizzazione. Si può scegliere di eseguire dapprima la messa a fuoco del campione e procedere successivamente con la defocalizzazione, oppure si può adottare il procedimento inverso: si acquisisce il segnale partendo da una posizione defocaliz- zata e ci si avvicina via via alla posizione di focus per svolgere l’ultima misura. La seconda opzione può dar luogo a qualche problema: vi è la possibilità che l’obiettivo 4
Figura 1.1: Confronto tra la configurazione per una misura di spettroscopia Raman convenzionale e per una di micro-SORS. Ciò che cambia è la distanza del campione rispetto alla posizione di focus. ed il campione possano venire a contatto l’uno con l’altro e ciò potrebbe recare danno ad entrambi; è, inoltre, possibile che con questo procedimento, i segnali micro-SORS misurati possano essere confusi con il segnale Raman di una zona torbida del campione, situata nell’intervallo di profondità scelto. L’allontanamento del campione dalla posi- zione di focus comporta non solo la defocalizzazione dell’illuminazione laser, ma anche la defocalizzazione delle aree di raccolta del segnale Raman della superficie, che inevi- tabilmente tendono ad allargarsi. La prima acquisizione dovrebbe fornire uno spettro Raman avente come contributo dominante quello dello strato superficiale del campione e che concettualmente deve corrispondere ad una misura di offset spaziale zero nell’a- nalisi SORS convenzionale. La seconda misura, acquisita a seguito della defocalizzazione, dovrebbe fornire uno spettro Raman che abbia un significativo aumento del contributo dovuto agli strati sottostanti. Al fine di acquisire uno spettro di superficie in cui sia effettivamente presente solo il contributo del segnale superficiale, si utilizzano dei diaframmi a diametro fisso o va- riabile denominati "pinhole" che permettono di schermare il segnale proveniente dagli strati situati a profondità variabili. Quando la sorgente laser giunge sulla superficie del campione analizzato, i fotoni interagiscono tramite urti elastici ed anelastici con le molecole che lo compongono ed una piccola parte di essi viene diffusa anelasticamente per effetto Raman. Quanto i fotoni riescano a penetrare all’interno del campione dipende dall’apertura numerica (NA) dell’obiettivo del microscopio adoperato e quindi dalla profondità di campo; dal coefficiente di assorbimento del materiale che costituisce il campione; e per ultimo, ma non di meno importanza, dalla lunghezza d’onda della sorgente eccitatrice. Con la defocalizzazione, il cono di luce descritto dai raggi della sorgente eccitatrice sulla superficie del campione tenderà ad allargarsi tanto più lo sperimentatore allontanerà il campione dalla posizione di fuoco. Il contributo proveniente dal cono di luce sarà ap- prezzabile solamente quando la circonferenza da esso descritta avrà diametro inferiore 5
o al massimo uguale al raggio del disco di Airy generato dall’immagine. Segue che il passo da adottare per effettuare le misure di micro-SORS dipenderà inevi- tabilmente dalla profondità di campo dell’obiettivo. In particolare, la penetrazione dei fotoni è pari alla metà della profondità di campo. Attraverso una semplice manipolazione matematica che prevede la sottrazione dello spettro della superficie dallo spettro defocalizzato, si ottiene lo spettro Raman dello strato sottostante. Allo stesso modo, è possibile ricavare lo spettro Raman dello strato superficiale eseguen- do il processo inverso, mediante la sottrazione dello spettro defocalizzato dallo spettro dell’immagine per offuscare il segnale proveniente dal sottostrato. Come esempio applicativo del micro-SORS, si riporta un lavoro condotto da alcuni ricercatori del dipartimento di Fisica dell’Università di Cagliari [7] su un frammento appartenente ad un affresco murario proveniente dalla Chiesa di San Giuseppe (situata nel capoluogo sardo) la quale, nel 1943, venne bombardata e resa inagibile a causa dei gravi danni strutturali riportati. Il lavoro ha permesso di fornire supporto per lo studio della composizione dei materiali e dei pigmenti utilizzati negli affreschi della Chiesa, diventata negli ultimi anni oggetto di interesse scientifico. Nel campione si è riscontrata la presenza di Calcite, Gypsum, Anhydrite, Ematite e Grafite. Nella figura 1.2 vengono mostrati gli spettri acquisiti Figura 1.2: Spettri acquisiti tramite la tecnica micro-SORS che mettono in risalto l’aumento di intensità della Calcite che si trova al di sotto dello strato pittorico. 6
Figura 1.3: A sinistra, lo schema della stratigrafia realizzato grazie all’analisi degli spettri acquisiti tramite la tecnica di micro-SORS. A destra, la foto del frammento proveniente dalla Chiesa di San Giuseppe su cui sono state condotte le analisi. con il "defocusing" in cui è possibile osservare la presenza di un aumento di intensità del picco della Calcite (indicato con la freccia a 1087 cm−1 ), presente al di sotto dello strato visibile, in corrispondenza delle profondità a 80 µm, 600 µm e 2400 µm. È proprio qui che si vede il vantaggio di questa tecnica: a seguito della normalizzazione degli spettri rispetto ad una riga di un composto presente in superficie si possono stu- diare i rapporti di intensità ed individuare gli strati; nel lavoro, oltre al grafico, viene riportata per conferma una tabella con i valori numerici corrispondenti alle intensità dei picchi del composto superficiale, a quelle di un composto che sta sul fondo ed il loro relativo rapporto. Una volta identificati gli strati si esegue la sottrazione dello spettro acquisito con la pi- nhole per evidenziare il segnale proveniente solo dallo strato che si vuole esaminare; ed una volta ricavata la stratigrafia, è possibile realizzare lo schema indicativo della distri- buzione degli strati. In figura 1.3 si riportano lo schema identificato per la stratigrafia del frammento analizzato e la foto del campione. 7
Capitolo 2 Richiami teorici 2.1 La spettroscopia Raman La spettroscopia Raman affonda le sue radici nel 1928, quando Chandrasekara Venkata Raman durante i suoi esperimenti sul benzene osservò per la prima volta l’effetto che porta il suo nome, e che a seguito della sua formalizzazione gli valse il premio Nobel per la Fisica nel 1930. Si tratta di una tecnica spettrosco- pica non invasiva e non distruttiva che si basa sullo studio dell’interazione tra la radiazione elettromagnetica e la ma- teria [12]; che permette sia di analizzare la struttura delle molecole, sia di identi- ficare una vasta gamma di sostanze che si trovano allo stato solido, liquido e gas- soso [6]. Una delle principali caratteri- stiche che rendono la spettroscopia Ra- man particolarmente interessante è che i campioni che vengono analizzati non Figura 2.1: Il fisico indiano Chandrasekara richiedono una procedura elaborata di Venkata Raman accanto al suo spettroscopio preparazione come accade, ad esempio, con cui condusse i suoi esperimenti. in tecniche come la termoluminescenza (OSL), la diffrazione di raggi X (XRD) in cui i campioni, per poter essere analizzati, hanno bisogno di essere resi sottoforma di polveri. Dal punto di vista sperimentale, la tecnica consiste semplicemente nell’irraggiare un campione con una sorgente di luce monocromatica e nell’esaminare la luce diffusa dal campione, raccolta per mezzo di uno spettrometro. Quando un fascio di luce monocromatica viene inviato su un campione, i fotoni possono interagire a livello molecolare con la materia attraverso processi di as- sorbimento, diffusione, di riflessione e trasmissione. In questo lavoro di tesi, ci si è occupati di processi di diffusione (in inglese "scattering"). Questi possono essere di due tipologie : elastici o anelastici. Nel primo caso si parla di diffusione Rayleigh, mentre nel secondo caso si parla di diffusione Raman o effetto 8
2.1. La spettroscopia Raman Figura 2.2: Schema illustrativo dei processi di diffusione : in rosso viene rappresentata la diffusione Rayleigh, in arancione ed in viola scuro la diffusione Raman, rispettivamente Stokes e anti-Stokes) Raman. L’effetto Raman è un processo di diffusione anelastica per il quale lo spostamento in frequenza della radiazione diffusa rispetto alla banda Rayleigh è caratteristico e co- stante per una determinata sostanza; ed è, inoltre, indipendente dalla frequenza della radiazione incidente. Tale fenomeno si verifica in seguito all’interazione tra un fotone ed una molecola, nel caso in cui il primo abbia energia minore della differenza energetica tra il primo stato elettronico eccitato ed il "ground level" elettronico della molecola. Un fotone con energia hν0 che interagisce con una molecola, può proseguire il suo cammino con la medesima energia (in questo caso si parla di diffusione Rayleigh), con energia hνR(St) dove ν0 >νR(St) , oppure con energia hνR(aSt) dove ν0
2.1. La spettroscopia Raman Figura 2.3: Schema indicativo di uno spettro Raman: al centro è presenta la banda Rayleigh corrispondente alla diffusione elastica del segnale, ai lati sono presenti le righe Stokes e Anti-Stokes che corrispondono alla diffusione anelastica. La grandezza che vien misurata in uno spettro Raman è il Raman shift, indicato come ∆ν̃ = ν̃0 ± ν̃ e misurato in cm−1 , dove ν̃0 e ν̃ si riferiscono rispettivamente al numero d’onda associato alla radiazione incidente e a quella emessa per effetto Raman (ciò è valido sia per righe Stokes che Anti-Stokes). Esso rappresenta la differenza tra la frequenza Stokes (o Anti-Stokes) della radiazione emessa e la frequenza della radiazione incidente. Ogni sostanza possiede un suo spettro caratteristico che potremmo paragonare ad un’impronta digitale. A prescindere dalla lunghezza d’onda eccitatrice lo spettro Ra- man non varia, ciò che può variare è l’intensità del segnale che dipende dalla popolazione dei livelli. Classicamente, per studiare lo scattering Raman si considera una molecola come un dipolo vibrante.[6] Il dipolo viene generato dall’interazione della molecola con un’onda elettromagnetica che ha l’intensità del campo elettrico variabile nel tempo: E = E0 cos(2πν0 t) (2.1) in cui E0 rappresenta l’ampiezza massima, ν0 è la frequenza dell’onda elettromagnetica e t il tempo. Il momento di dipolo elettrico viene rappresentato dalla seguente equazione: p(E) = p0 + αE = p0 + αE0 cos(2πν0 t) (2.2) in cui il primo addendo rappresenta il momento di dipolo permanente (o intrinseco) della molecola, mentre il secondo rappresenta il contributo dovuto al momento di dipolo indotto generato dalla radiazione incidente. La quantità α è chiamata polarizzabilità elettronica e per una molecola vibrante assume la forma di un tensore di rango due: α = αij 10
2.1. La spettroscopia Raman Detto q lo spostamento atomico dovuto alla vibrazione, si ha che la polarizzabilità e il momento di dipolo dipendono da q, e per piccole oscillazioni si può sviluppare in serie di Taylor: Q X ∂ p̄ p̄(q) = p̄(0) + qn + ... n=1 ∂q 0 Q (2.3) X ∂αij αij (q) = αij (0) + qn n=1 ∂q 0 dove Q è il numero di modi normali di vibrazione e p̄(0) e α(0) sono il momento di dipolo, la polarizzabilità nella posizione di equilibrio q=0 e qn l’n-esimo modo normale. I modi normali di vibrazione e l’ampiezza del campo elettrico dell’onda elettromagnetica incidente vengono espressi come segue: qn (t) = qn0 cos(ωn t) (2.4) Ē(t) = Ē0 cos(ωt) dove ω e ωn sono rispettivamente le pulsazioni di oscillazione del campo elettromagnetico e del n-esimo modo di vibrazione. Sostituendo le equazioni 2.3 e 2.4 nell’espressione del momento di dipolo riportata in precedenza, si ottiene: Q X ∂ p̄ p̄(t) = p̄0 + qn0 cos(ωn t) + αij (0)Ē0 cos(ωt) n=1 ∂qn 0 Q (2.5) 1 X ∂αij + Ē0 qn0 [cos(ω + ωn )t + cos(ω − ωn )t] 2 n=1 ∂qn 0 nella quale il primo termine rappresenta il momento di dipolo permanente (intrinseco) della molecola; il secondo ne rappresenta lo spettro infrarosso (IR), le cui intensità dipendono dalla variazione del momento di dipolo (ovvero ∂ p̄/∂qn ); il terzo rappresenta lo scattering Rayleigh del sistema, ed infine l’ultimo termine descrive lo scattering Raman, per il quale le intensità sono proporzionali alla variazione della polarizzabilità ∂α/∂qn . Questa relazione mostra che la spettroscopia Raman e la spettroscopia IR sono tecniche complementari e, inoltre, essendo lo scattering Raman un processo che deriva dal secondo termine dello sviluppo in serie per la polarizzabilità, ne consegue che le intensità osservate sono minori rispetto ad altri fenomeni. Si ha quindi che, data la suddetta complementarità, ci sono transizioni che sono Raman attive, IR attive o entrambe. Supponendo una transizione da un autostato Ψn ad uno Ψm si ha che la probabilità di transizione fornisce indicazioni sui processi; probabilità zero sarà quella relativa a transizioni proibite. Tale probabilità è proporzionale al modulo quadro del transition moment, definito come: Z+∞ Mnm = Ψ∗m p̄ Ψn dq (2.6) −∞ 11
2.2. Cenni sulla teoria dei gruppi puntuali Seguendo il filo logico introdotto con le equazioni 2.3 e 2.5 si può notare che la compo- nente di transition moment dipendente dalla polarizzabilità risulta essere: Z+∞ Z+∞ ∂αij αij,nm = ∗ Ψm αij (0) Ψn dq + Ψ∗m qn Ψn dq (2.7) ∂qn 0 −∞ −∞ Il primo termine del secondo membro, data l’ortonormalità degli autostati, è non nullo per n = m, mentre il secondo, assumendo potenziale armonico, è non nullo per m = n ± 1. Perciò è evidente che la regola n = m descrive lo scattering Rayleigh, mentre m = n ± 1 è relativa all’effetto Raman. La trattazione completa che fornisce le intensità delle componenti Stokes e anti-Stokes è stata formulata da Placzek [15]: 2 2π 2 h (ν̃0 − ν̃)4 St ∂αij Iν,ij = gν c ν̃[1 − e−hcν̃/kB T ] ∂qn 0 2 4 2 (2.8) aSt 2π h (ν̃0 + ν̃) ∂αij Iν,ij = gν c ν̃[ehcν̃/kB T − 1] ∂qn 0 dove T indica la temperatura alla quale si calcolano le intensità riportate. È interessante notare che facendo il rapporto tra le due si ottiene che, come detto in precedenza, l’intensità relativa dipende dalla popolazione dei livelli, ovvero dalla temperatura: aSt Iν,ij (ν̃0 + ν̃)4 − khν̃T St = e B (2.9) Iν,ij (ν̃0 − ν̃)4 In conclusione, è importante sottolineare il fatto che la frequenza di vibrazione propria della molecola è indipendente dalla lunghezza d’onda della radiazione eccitatrice, in- fatti la distanza delle righe Stokes (e di quelle anti-Stokes) dalla Rayleigh è sempre la stessa per una data molecola. La scelta della lunghezza d’onda di eccitazione diventa importante quando sono presenti altri fenomeni che possono influire sulla misura. Nel caso presente, avendo un campione in cui sono presenti composti organici, la lunghezza d’onda più appropriata è senza dubbio quella a 1064 nm. Questa lunghezza d’onda infatti consente di limitare i fenomeni di fluorescenza che creano non pochi problemi alla rivelazione del segnale Raman a cui si è interessati. 2.2 Cenni sulla teoria dei gruppi puntuali Gli atomi collocati in una molecola rappresentano la struttura o configurazione di equi- librio della molecola stessa. Questa configurazione è invariante per un certo numero di operazioni geometriche dette gruppi di simmetria. Si definisce elemento di simmetria di una molecola la trasformazione tale per cui la configurazione finale è perfettamente sovrapponibile a quella originale. Gli elementi di simmetria sono i seguenti: • Identità (I) 12
2.3. Nozioni di ottica geometrica • Assi di rotazione (Cn ) • Piani di simmetria (sigma) • Centri di simmetria o di inversione (i) • Assi di roto-riflessione (Sn ) L’identità è un’operazione di simmetria per cui la configurazione finale è identica a quella iniziale. Gli assi di rotazione sono indicati con Cn , dove n è l’ordine maggiore ◦ dell’asse di rotazione, che stabilisce l’angolo di rotazione secondo l’espressione 360 n . I piani di simmetria sono piani che dividono la configurazione di equilibrio di una molecola in due parti speculari e si indicano con la lettera greca sigma. Possono essere di tre tipi: orizzontali, verticali e diedri(diagonali). Il centro di simmetria o di inversione costituisce il punto medio che unisce le linee rette passanti per ogni atomo della molecola. L’asse di roto-riflessione costituisce l’operazione per la quale a seguito di una rotazione e successiva riflessione di una molecola, questa riassume la configurazione iniziale. L’insieme degli elementi di simmetria di una molecola costituisce un gruppo puntuale (point group). Ad ogni gruppo puntuale è associata una tavola dei caratteri. La tabella dei caratteri contiene al suo interno tutti gli elementi di simmetria del gruppo puntuale a cui si riferisce, assieme ad una descrizione, di come vari oggetti o funzioni matematiche si trasformino attraverso le corrispondenti operazioni di simmetria. Figura 2.4: Tabella dei caratteri del gruppo di appartenenza dell’Anhydrite Le operazioni che inducono una trasformazione nel sistema possono essere rappresentate in forma matriciale, tali matrici sono dette rappresentazioni. Dalle tabelle di carattere è possibile determinare quali saranno i modo vibrazionali IR e Raman attivi. 2.3 Nozioni di ottica geometrica La differenza tra la spettroscopia Raman e la tecnica SORS (micro-SORS) risiede nella defocalizzazione, in inglese "defocusing". 13
2.3. Nozioni di ottica geometrica Il "defocusing" è il progressivo allontanamento spaziale di un oggetto dalla posizione di fuoco individuata dall’obiettivo del microscopio. In questo capitolo si richiameranno alcune nozioni di ottica geometrica utili per la comprensione della tecnica micro-SORS. Per sfruttare al massimo le potenzialità e la flessibilità della spettroscopia Raman è vantaggioso accoppiare uno spettrometro con un microscopio ottico. Il microscopio ottico è uno strumento in grado di restituire immagini ingrandite di oggetti molto piccoli, rivelando dettagli non visibili ad occhio nudo. Alla base del suo funzionamento vi è l’ottica geometrica, nonchè le lenti. Una lente è un elemento ottico che a seconda della sua conformazione può concentrare o far divergere i raggi di luce che gli passano attraverso. Le lenti più comuni sono quelle aventi le due superfici (diottri) opposte costituite idealmente da porzioni di superfici sferiche con raggi di curvatura differenti. Questa caratteristica permette di classificarle in lenti sferiche convesse e lenti sferiche concave. In figura 2.5 viene mostrato il funzionamento di una lente biconvessa (a Figura 2.5: A sinistra, schema illustrativo di una lente binconvessa; a destra, schema illustrativo di una lente biconcava. sinistra) e di una biconcava (a destra). La retta passante per il centro geometrico della lente viene definito asse ottico, mentre i raggi R1 ed R2 sono i raggi di curvatura dei diottri. Con f viene indicata la distanza focale, ossia la distanza della posizione di focus dal centro della lente; mentre, con d viene indicato il suo spessore. La lente biconvessa possiede entrambi i diottri convessi e ha la capacità di far convergere un fascio di raggi paralleli all’asse ottico, in un unico punto chiamato fuoco (focus). Al contrario, quella biconcava ha entrambi i diottri concavi e permette di far divergere un fascio collimato. Per ricavare la distanza focale si utilizza la formula: 1 n 1 1 (n − 1)d = ( 0 − 1)[ − + ] f n R1 R2 nR1 R2 In questa espressione matematica compaiono le quantità n ed n’, che sono rispettiva- mente l’indice di rifrazione del mezzo di cui è fatta la lente e l’indice di rifrazione del mezzo in cui la lente è immersa. Alla luce di quanto detto fino a quì, a seconda della forma della lente il fuoco assume una posizione diversa. In particolare, si osserva che l’angolo dei raggi uscenti dal fuoco è uguale a quello dei raggi incidenti, perciò questi divergeranno descrivendo una superficie via via maggiore nel piano di incidenza. Esten- dendo il discorso ad un sistema tridimensionale, ciò che viene descritto da questi raggi 14
2.3. Nozioni di ottica geometrica Figura 2.6: Dischi di Airy e risoluzione spaziale. sul piano di incidenza è una circonferenza, quindi ciò che essi formano nel complesso è un cono di luce avente altezza uguale alla distanza focale f e apertura pari a 2θ, se con θ si indica l’angolo compreso tra l’asse ottico ed i raggi luminosi uscenti dal fuoco. Se si moltiplica il seno di θ (semi angolo dell’apertura del cono) per l’indice di rifrazione n del mezzo in cui è immersa la lente (nel nostro caso aria), si ottiene l’ apertura numerica NA: N A = nsinθ Tale quantità riveste un ruolo importante in microscopia dal momento che contribuisce al potere risolutivo della lente, inevitabilmente limitato dagli effetti della diffrazione. In generale, se si indica con λ la lunghezza d’onda della sorgente luminosa, il potere risolutivo di un microscopio viene definito come segue: 1, 22λ R= N Acondensatore + N Aobiettivo dove 1,22 è il rapporto tra il primo zero dell’ordine uno della funzione di Bessel e π. Nella formula sono presenti le aperture numeriche del condensatore ottico e dell’obiet- tivo. Il condensatore ottico è un sistema di lenti che permette di focalizzare il fascio di luce sul campione, mentre l’obiettivo è un sistema di lenti che ne fornisce un’ im- magine ingrandita. Quando si parla di potere risolutivo di un microscopio ottico si fa riferimento alla sua capacità di distinguere due punti molto vicini tra loro. Tanto più il potere risolutivo è maggiore, tanto più lo strumento è in grado di apprezzare i dettagli. Come detto precedentemente, la presenza di un’apertura è limitata dal fenomeno della diffrazione, ragion per cui in un sistema reale non si parla di punti ottici, ma si associa ad ogni punto reale focalizzato un disco di Airy. In figura 2.6 si possono distinguere i dischi di Airy che sono i cerchi centrali e l’Airy pattern che è l’insieme dei cerchi concentrici la cui distanza dal centro dipende dalla loro intensità. Più i dischi di Airy sono piccoli e maggiore è la risoluzione spaziale: se la distanza tra i picchi è maggiore rispetto al raggio dei dischi di Airy si parla di punti risolti. Al contrario, si parla di punti non risolti qualora il raggio dei dischi sia maggiore della distanza tra i picchi.[23] 15
2.4. L’importanza della profondità di campo 2.4 L’importanza della profondità di campo Si consideri un sistema ottico (figura 2.7) Figura 2.7: Schema di funzionamento di due sistemi ottici, ciò che li distingue è la presenza del diaframma nel sistema con oculare B. avente un obiettivo Ob che focalizza un oggetto puntiforme nel fuoco O’ che si trova a distanza infinita. Supponiamo quindi di approssimare l’immagine dell’oggetto punti- forme ad un disco di Airy di diametro pari a c. L’immagine risulterà focalizzata in una porzione di spazio delimitata da due piani pa- ralleli posti ciascuno ad una distanza P dal fuoco O’, chiamata profondità di fuoco. Se però si considerano anche i lati dell’oggetto osservato, allora si parla di profondità di campo intendendo la distanza presente tra il più vicino ed il più lontano punto che ap- pare nitido (a fuoco) nell’immagine [16]. Tra apertura numerica e profondità di campo vi è una stretta correlazione [21], espressa tramite la seguente formula: λ ∆z = q (2.10) 4n(1 − 1 − ( NnA )2 dove λ è la lunghezza d’onda della sorgente eccitatrice, n l’indice di rifrazione e NA l’apertura numerica. In figura 2.7 l’oculare A possiede un semi angolo pari ad α, mentre l’oculare B ha un semi angolo uguale ad α’
Capitolo 3 Apparato strumentale L’apparato strumentale utilizzato per le misure di micro-SORS è composto da un blocco compatto dedicato all’acquisizione del segnale proveniente dal campione e da un blocco che si occupa dell’automazione per il defocusing. Per l’acquisizione del segnale si è fatto uso di un sistema accoppiato in fibra composto da una sorgente laser Cleanlaze, da un microscopio ottico dotato di camera e dallo spettrometro I-Raman EX. 3.1 Laser Il laser, acronimo dell’espressione inglese "light amplification by stimulated emission of radiation" è un dispositivo in grado di produrre un fascio di luce coerente.[20] Esso è composto fondamentalmente da tre componenti: • un mezzo attivo • un sistema di pompaggio • un risonatore ottico Il suo funzionamento si basa sullo sfruttamento della capacità di un dato materiale (mezzo attivo) in grado di emettere radiazione elettromagnetica una volta eccitato. Nel caso specifico, il laser possiede come mezzo attivo un cristallo di Nd:YAG, ossia un cristallo di Ittrio e Alluminio (YAG) drogato con Neodimio (Nd). Tale materiale, una volta opportunamente attivato, produce fotoni con un’energia che cade nel range del vicino infrarosso (NIR): la sorgente eccitatrice del sistema utilizzato ha per l’appunto una lunghezza d’onda pari a 1064,35 nm. La seconda componente è il sistema di pompaggio, che permette di fornire l’energia necessaria all’attivazione del mezzo; può essere costituito da lampade ad intermittenza o da un array di diodi laser che operano nel range compreso tra gli 800 nm e i 900 nm. Infine, l’ultima componente è quella del risonatore ottico, ossia una cavità dotata di pareti interne riflettenti e di un’unica parete semiriflettente. Il suo scopo è quello di raccogliere la luce e di concentrarla in un fascio che viene successivamente inviato ad un sistema di lenti e specchi che permettono di regolarne la posizione, la concentrazione e l’ampiezza. Tra le caratteristiche fondamentali della radiazione laser vi sono la monocromaticità e 17
3.2. I filtri la coerenza: la prima garantisce l’acquisizione di spettri ad alta risoluzione, la seconda consente di ottenere una radiazione elettromagnetica i cui fotoni possiedono la stessa fase di quelli che hanno provocato l’emissione.[20] Il fatto che il laser sia accoppiato con il microscopio permette di concentrare il fascio su una zona ristretta del campione (si parla dell’ordine dei micrometri). Ciò permette di limitare la dispersione del segnale Raman che viene raccolto in direzione opposta rispetto al fascio laser (fascio incidente e segnale Raman hanno direzioni di propagazione parallele, ma verso opposto). 3.2 I filtri A causa del segnale diffuso elasticamente dal materiale del campione che si sta analiz- zando, occorre un sistema che sia in grado di tagliare le frequenze della riga Rayleigh che altrimenti, vista la sua intensità, offuscherebbe totalmente il segnale Raman. Per farlo, si utilizzano filtri speciali di due tipologie : notch ed edge. Il primo consente di tagliare esclusivamente le frequenze della banda Rayleigh, mentre il secondo elimina le frequenze da quelle della banda Rayleigh in giù. Una volta oltre- passato il sistema di filtraggio, il fascio viene inviato all’interno di un monocromatore. 3.3 Il monocromatore Il monocromatore è uno strumento utilizzato per separare le lunghezze d’onda presenti in un fascio policromatico. Esso è dotato di un sistema ottico composto da specchi piani o concavi, a seconda della geometria di costruzione, e da un mezzo dispersivo: il reticolo di diffrazione. Quest’ultimo non è fisso ma può essere ruotato consentendo in questo modo di separare le lunghezze d’onda dei raggi che compongono il fascio originario [17]. Lo specchio che si trova poco prima della fenditura di uscita è posizionato in maniera tale che a tale fenditura vi giungano solo i fotoni aventi energia corrispondente alla lunghezza d’onda che si vuole considerare. Ogni monocromatore possiede alcuni parametri caratteristici: la risoluzione spettrale, la banda passante e la luminosità. La risoluzione spettrale è la capacità del monocromatore di separare due linee spettrali adiacenti. Analiticamente si esprime con la formula: λ R= δλ Essa viene determinata dalla larghezza spettrale δλ del fascio in uscita, che nei monocro- matori dipende dal numero di tratti presenti sul reticolo di diffrazione, dalla lunghezza del cammino ottico della luce all’interno del monocromatore e dalla larghezza delle fenditure. La banda passante è una diretta conseguenza della struttura del monocro- matore. Non è possibile produrre un raggio perfettamente monocromatico, ragion per cui ciò che si osserva è che il fascio di luce uscente dal monocromatore è caratterizzato da una larghezza a metà altezza che indica un intervallo ristretto di lunghezze d’onda in esso contenute. La luminosità fornisce un’informazione sulle performance del mo- nocromatore in termini di quantità di luce che riesce ad attraversarlo. Ciò dipende 18
3.4. Il rivelatore ovviamente dalla fenditura d’entrata del segnale luminoso e dall’angolo solido entro il quale lo strumento recepisce il segnale secondo la relazione: L = AΩ con A = sezione d’ingresso e Ω = angolo solido sotteso dall’apertura. Il fascio mono- cromatico uscente dal monocromatore viene inviato verso un rivelatore. 3.4 Il rivelatore Nel caso specifico, il rivelatore utilizzato è costituito da una serie di fotodiodi connessi insieme in un array lineare di pixel [24]. Un fotodiodo è un diodo a semiconduttore caratterizzato da una giunzione p-n drogata asimmetricamente, funziona come sensore ottico: riconosce la lunghezza del fotone che assorbe trasformando l’evento in un segnale di corrente. È quindi un trasduttore, ossia un dispositivo in grado di convertire un segnale luminoso in un segnale elettrico. Conoscere il materiale di cui sono fatti i fotodiodi aiuta a capire l’intervallo di azione per cui sono stati progettati. In particolare, il sistema utilizzato possiede come rivelatore un InGaAS array, un semiconduttore a base di Arseniuro di Indio e Gallio che è in grado di lavorare nell’intervallo dell’infrarosso. Per valutare l’efficienza e le prestazioni di un rivelatore si è soliti utilizzare due parametri: l’efficienza quantica e la responsività. L’efficienza quantica può essere definita come la capacità del rivelatore di generare un fotoevento per ogni fotone che lo colpisce. La responsività è definita come il rapporto tra la fotocorrente generata e la potenza della radiazione incidente. 3.5 Lo Stage controller Il blocco che si occupa dell’automazione per il defocusing è composto da uno Stage Controller che permette di inviare i comandi per il movimento del motorino. I due sistemi per l’acquisizione del segnale e per il movimento di defocalizzazione sono stati assemblati per poter realizzare un setup sperimentale adatto alle misure di micro-SORS (figura 3.1). La parte superiore del microscopio è stata montata su un apposito supporto a sua volta fissato sulla flangia del motorino. Il tutto è sorretto mediante una serie di connettori regolabili fissati ad un’asta rigida che grazie ad una base magnetica resta ben salda sul banco ottico. Oltre al movimento automatizzato lungo l’asse z è possibile spostarsi sul piano xy grazie a due manopole adibite alla regolazione fine. Il software realizzato in questa tesi ed utilizzato per l’acquisizione delle misure e per l’elaborazione dei dati è stato battezzato come "MS-SPEC". 19
3.5. Lo Stage controller Figura 3.1: Setup sperimentale costruito per le misure di micro-SORS. 20
Capitolo 4 Costruzione del software "MS-SPEC" Uno degli obiettivi principali di questo lavoro di tesi consiste nella realizzazione di un software in grado di automatizzare l’apparato strumentale predisposto per le misure di micro-SORS. Come affermato nel capitolo dedicato all’apparato strumentale, il sistema è composto da un blocco compatto dedicato all’acquisizione del segnale (lo spettrometro) e da uno dedicato al movimento per il defocusing (Stage Controller). Il software "MS-SPEC" è stato costruito mediante l’uso di LabVIEW (Laboratory Virtual Instrumentation Engineering Workbench), ossia l’ambiente di sviluppo integrato per il linguaggio di programmazione visuale della National Instruments volto alla progettazione di sistemi per lo sviluppo di applicazioni di test, misura e controllo con accesso rapido all’hardware e ai risultati. Si riportano qui di seguito i passaggi svolti per la sua realizzazione: • creazione di due VI indipendenti per il controllo dello spettrometro e dello Stage Controller, intitolate rispettivamente "IRamanEXLabVI"e"GSC-01LabVI". • unione e sincronizzazione dei due VI per effettuare le misure di micro-SORS. • creazione di una parte dedicata ad una pre-elaborazione del segnale acquisito e al relativo salvataggio dei dati. • realizzazione del software "MS-SPEC". In questo capitolo ci si soffermerà in particolar modo sugli ultimi due passaggi per i quali verrà esposta la procedura utilizzata per la loro realizzazione. Per approfon- dire ed avere un quadro generale sulla costruzione e l’architettura del software "MS- SPEC" è possibile consultare l’appendice A in cui si spiegano nel dettaglio quali scelte e considerazioni stanno alla base dell’intero software. 21
4.1. Il VI per l’elaborazione digitale del segnale e per il salvataggio dei dati 4.1 Il VI per l’elaborazione digitale del segnale e per il salvataggio dei dati In questa sezione viene esposta la procedura di realizzazione del VI 1 che permette di effettuare il filtraggio ed il salvataggio del dato. Come verrà visto nella sezione seguen- te, con il software "MS-SPEC" è possibile salvare il dato su cui è stata già eseguita un’elaborazione : uno smooth di tipo "Moving Average" e la sottrazione del Dark. In Figura 4.1: Elaborazione e salvataggio del dato Block Diagram figura 4.1 si riporta il diagramma a blocchi del suddetto VI: le variabili locali "Pixel- Intensity Raw data" e "Pixel-Intensity Dark" rappresentano gli array in uscita dalle "Call library function node" visti nella sezione "Il VI per il controllo dell’IRamanEX", ossia rispettivamente il dato grezzo dell’intensità del segnale acquisito proveniente dal campione a seguito dell’irraggiamento con la sorgente laser e di quella del "Dark". I due segnali vengono introdotti all’interno di un filtro che permette di eseguire uno smooth di tipo "Moving Average". Il filtraggio dei dati è molto utile quando l’acquisizione di un segnale può essere influen- zata da disturbi o da errori di approssimazione, sia dei rivelatori, sia dei convertitori analogico-digitali, che tendono a falsare i valori acquisiti; contribuisce alla riduzione del rapporto segnale/rumore senza però modificare o distorcere il vero segnale. In particolare, il filtro "Moving Average" sostituisce ad ogni punto dello spettro, la media tra un numero di punti sperimentali adiacenti ad esso. Il passaggio successivo è la sottrazione tra il segnale ed il background (Dark), sul quale è stato eseguito lo stesso processo di smoothing. Il segnale risultante viene inviato ad un oggetto in grado di estrarre la parte a cui lo sperimentatore è interessato. Grazie a questo, è possibi- le rimuovere la riga di eccitazione della sorgente dagli spettri da analizzare, cosa che andrebbe comunque fatta in un secondo momento durante l’analisi dei dati. Mediante alcuni convertitori, l’array monodimensionale viene trasformato in un array bidimesio- nale di cui viene fatta la trasposta subito prima di essere inviato all’interno del "Case Structure"(rettangolo evidenziato in verde). Il senso di questa parte del programma 1 In LabVIEW un Virtual Instrument (VI) è un file di codice con cui opera il linguaggio. 22
4.2. Il software "MS-SPEC" Figura 4.2: "MS-SPEC" Block Diagram è quello di poter salvare i dati in colonna, una per ogni spettro acquisito, permetten- do allo sperimentatore di avere un unico file dati. Essendo il software "MS-SPEC" costruito appositamente per misure micro-SORS, è chiaro che l’utente può ritrovarsi ad acquisire centinaia di spettri per poter fare un’accurata analisi stratigrafica, perciò nell’ottica di semplificare il lavoro dello sperimentatore stesso si è pensato anche ad una ottimizzazione della gestione dei dati. 4.2 Il software "MS-SPEC" Il software "MS-SPEC" è stato realizzato appositamente per le misure di micro-SORS. Nell’ appendice A viene ampiamente discussa la procedura iniziale per la sua realizza- zione, partendo dalla descrizione dei VI preparate dagli sviluppatori delle case madri fino alla costruzione dei programmi "IRamanEXLabVI" e "GSC-01LabVI", in grado di gestire indipendentemente i due strumenti. Viene inoltre descritta nel dettaglio anche la procedura di unione e sincronizzazione dei due programmi. Nella sezione precedente si è parlato della parte relativa alla pre-elaborazione del dato con annesso salvataggio. In questa sezione verrà descritta l’architettura di "MS-SPEC". Si riporta il diagramma a blocchi per agevolare la comprensione di quanto verrà detto. Osservando la figura si nota che il software è dotato di una parte dedicata all’acquisizione del Dark (figura 4.2 in alto a sinistra) e di una invece con cui si può manovrare lo Stage Controller (figura 4.2 in altro a destra). Inoltre, si osserva che: il VI per la sincronizzazione è sta- to incorporato all’interno di un "Case Structure" gestito tramite il booleano "Acquire Data" (si rimanda all’ appendice A per la descrizione di questa parte di programma); il VI per la pre-elaborazione del segnale e del salvataggio dei dati è stato inserito in corrispondenza del frame contenente la funzione per la lettura dei dati da parte dello spettrometro. Si aggiunge che, per quanto riguarda quest’ultimo, mediante l’uso delle variabili locali si può eseguire la sottrazione tra l’array che contiene i dati dell’ultima acquisizione e quello che contiene i dati del background che si acquisisce una sola volta prima di accendere la sorgente LASER. Nella figura 4.3 viene mostrato il pannello fron- 23
4.2. Il software "MS-SPEC" Figura 4.3: "MS-SPEC" Front Panel tale del software, ossia ciò che l’utente vede durante il suo utilizzo. Nella barra in alto, partendo da sinistra, viene chiesto allo sperimentatore di inserire il path (percorso) del file su cui vuole salvare i dati, il tempo di integrazione per l’acquisizione degli spettri, la direzione in cui vuole che il motorino di muova, la lunghezza ed il numero di passi. Con il tasto "DARK", il software acquisisce il rumore di fondo o background ; con il tasto "Play" acquisisce il segnale proveniente dal campione su cui si stanno compiendo le misure. Il tasto "O" comunica allo Stage Controller di ritornare all’origine meccanica del sistema, mentre il tasto "F" permette allo sperimentatore di impostare una posi- zione di focus. Il tasto con la freccia verde permette di ritornare alla posizione di focus impostata precedentemente e il tasto con l’occhio indica la posizione in cui si trova in quel momento lo Stage Controller. Il tasto "Stop" termina qualsiasi processo sia in cor- so. I due grafici presenti sul front panel permettono allo sperimentatore di visualizzare gli spettri Raman (quello grande) e lo spettro del "Dark". In particolare, sul primo è possibile usufruire di un cursore per conoscere le coordinate di un determinato punto. Inoltre, sono presenti due segnali luminosi che evidenziano l’avvenuta comunicazione con gli strumenti ed una barra di caricamento che si riavvia ad ogni nuova acquisizio- ne. In aggiunta, sono presenti un indicatore numerico che mostra il numero di passi svolti dall’inzio della misura ed uno che mostra la posizione durante l’acquisizione; un indicatore invece mostra la posizione corrente in seguito alla richiesta mediante tasto e un altro indica la coordinata della posizione di focus impostata dall’operatore. Infine, sono presenti altri due segnali luminosi che permettono a chi esegue le misure di sapere se lo Stage Controller ha ben risposto ai comandi di "ritorna all’origine meccanica" e al "ritorna alla posizione di focus". 24
Capitolo 5 Il campione 5.1 Descrizioni generali Il campione è una tavola pittorica (figura 5.1 a sinistra) con supporto in legno provenien- te dalla scuola di restauro dell’"Opificio delle Pietre Dure" che è utilizzata per studiare la diversa resa delle tonalità di blu oltremare con l’uso di: tempera ad olio, tempera grassa, gomma arabica ed olio di lino. Il campione è quindi suddiviso in quattro parti ed in ciascuna di esse si può osservare la tecnica stratigrafica applicata. In particolare, si è scelto di effettuare uno studio della zona in cui è stata adoperata la tempera grassa. La conoscenza preliminare del campione è assai utile nello studio stratigrafico, perchè ciò consente di raccogliere un insieme di informazioni che offrono preziosi suggerimenti sia sulla scelta delle zone di interesse sulle quali eseguire le misure, sia sull’impostazione della lunghezza del passo da adottare per la defocalizzazione. Figura 5.1: A sinistra, foto del campione in cui sono visibili i quattro tipi di tecniche pittoriche adoperate. A destra, ingrandimento della zona sulla quale sono state condotte le misure di micro-SORS. 25
5.2. Procedura di realizzazione 5.2 Procedura di realizzazione Sul supporto in legno è stata stesa una base di gesso mescolato ad un composto organico, probabilmente si tratta di colla animale che viene usata per saturare la porosità del legno in maniera tale che il supporto sia sufficientemente liscio e idoneo a ricevere il pigmento. La zona analizzata (figura 5.1 a destra) è caratterizzata da tre strati realizzati con diverse modalità di stesura del colore. Lo strato superficiale si presenta di colore blu intenso ed è visibilmente lucido, lo strato sottostante presenta delle sfumature bianche e azzurre ma ha superficie opaca, infine lo strato che sta a contatto con l’imprimitura, realizzato con la tecnica del "rigatino", è costituito da una fitta trama rigata di colore bianco e azzurro. Come si può vedere dalla figura il legante adoperato per stendere il pigmento è la "tempera grassa", ossia un’emulsione a base di tuorlo d’uovo e olio di lino. 5.3 La pittura su tavola La pittura su tavola affonda le sue radici ai tempi dell’antica Grecia [22]. Sebbene non ci siano pervenuti reperti pittorici risalenti a quest’epoca a causa della rapida degradazione dei supporti, sappiamo grazie a fonti letterarie che questo genere di pittura veniva ampiamente utilizzato in passato. Plinio, nel suo "Naturalis Histo- ria", descrive i passaggi per la realizzazione di questo genere di opere e racconta, senza scendere troppo nei dettagli, alcune tecniche di esecuzione come l’encausto e la tempera. Altre fonti letterarie forniscono una descrizione dettagliata sulle tecniche impiegate nel- la preparazione dei supporti lignei che variano in base al tipo di tecnica pittorica che dovranno ricevere. In ogni caso, la maggior parte delle opere su tavola pervenuteci risale al Medioevo, periodo in cui oltrettutto la pittura a tempera raggiunge l’apice del suo impiego, per poi essere sostituita quasi completamente dalla pittura ad olio. La fonte principale per lo studio della tempera su tavola è il Libro dell’Arte di Cennino Cennini, in cui l’autore svela i segreti della tecnica: dalla scelta del legno per il supporto al tipo di gesso da impiegare per l’imprimitura, dalla scelta dei pigmenti alla loro stesura con i vari utensìli ed ai tempi di asciugatura. I supporti lignei, rigorosamente in legno di pioppo, venivano realizzati incollando gli assi con caseina, calce e cavicchi (spine) di legno; mentre le linee di connessione venivano ricoperte con strisce di tela di lino. Ad una prima mano di colla (generalmente colla di coniglio o colla ottenuta dalla bollitura di pergamena, nota come "colla carnicci") ne seguiva una di gesso a macinatura grossa e colla, che dopo l’asciugatura formavano nell’insieme una superficie bianca e irregolare che andava accuratamente levigata. Talvolta, tra la prima mano di colla e quella di colla mista a gesso, veniva aggiunta un tela di lino. Successivamente si passavano fino a otto strati incrociati di colla e gesso sempre più fine, per poi rifinire la superficie e prepararla a ricevere il pigmento. Questo procedimento, chiamato imprimitura, aveva una duplice funzione: la prima era quella di rimediare alla porosità del legno che po- teva compromettere il risultato finale dell’opera, la seconda era quella di fungere da cuscinetto al fine di assorbire le tensioni del legno e quindi di filtrare i movimenti delle fibre legnose. Con il termine tempera, che deriva dall’italiano arcaico "tèmpra" ossia 26
5.4. Il blu oltremare mescolare, viene indicata la tecnica pittorica che prevede l’uso dell’acqua per sciogliere i colori e l’uso di emulsioni di uovo, latte, colle, gomme, resine, cere, lattice di fico e lacche, come leganti. In base al tipo di sostanze impiegate, le tempere possono essere distinte in due grandi gruppi: tempere magre e tempere grasse. • Le tempera magre usano come legante una gelatina, una colla vegetale o una sostanza derivata dalla caseina che si presenta come un film opaco tendente a schiarire con l’essicamento. I pigmenti in polvere vengono dispersi in emulsioni che si trovno in fase acquosa. • La tempera grassa usa come leganti gli stessi delle tempere magre, ma la compo- nente dominante è quella oleo-resinosa che rende il colore più fluido. Per la realizzazione della tempera, i pigmenti organici ed inorganici venivano mescolati insieme al tuorlo d’uovo (talvolta albume) e successivamente applicati al di sopra della superficie levigata attraverso piccoli tratti. La superficie dipinta diventava in questo modo compatta ed elastica ed in alcuni casi, l’artista poteva scegliere di aggiungere un tocco brillante alla sua opera tramite una sorta di lucidatura con l’uso di un pigmento trasparente in grado di riflettere la luce in proporzione al numero ed alla densità degli strati applicati. Questa operazione viene definita in linguaggio tecnico ’velatura’. Uno tra i più celebri artisti che utilizzò la tempera grassa per realizzare i propri capolavori su tavola fu Sandro Botticelli (1445-1510) [14]. Lo testimoniano le recenti analisi ese- guite dall’"Opificio delle Pietre Dure" di Firenze su una grande quantità di opere che hanno permesso di scoprire i segreti delle sue tecniche e di ripercorrere le procedure di realizzazione delle sue opere. Il metodo seguito nella bottega del maestro è molto simile a quello riportato sul Libro dell’arte di Cennino Cennini menzionato precedentemente. Per le sue opere, il Botticelli usava tavole in legno di pioppo che in un primo momento venivano cosparse di colla animale. Successivamente applicava due diverse stesure di gesso misto a colla: la prima di queste stesure era più spessa e porosa, mentre la seconda era più compatta grazie all’abbondante quantità di legante e alla macinatura più fine del gesso. Prima di procedere con la stesura dei colori, l’artista eseguiva un disegno a carboncino che gli permetteva di individuare le forme e di impostare la composizione. Talvolta, capitava che applicasse un’imprimitura colorata a base di pigmento uovo ed olio, in prospettiva dell’effetto cromatico finale. Fatto ciò, proseguiva con il ripasso del disegno a carboncino con l’inchiostro a carbone, in modo tale che divenisse definitivo e fosse ben visibile. Successivamente, Botticelli passava al vero e proprio strato pittorico con i pigmenti disciolti in un’emulsione a base di olio e uovo (tempera grassa). Il tutto veniva ricoperto da uno strato di pigmento mescolato a olio e resina. In seguito, proce- deva con i contorni e terminava il dipinto con la stesura di una vernice a base di chiara d’uovo. 5.4 Il blu oltremare Il blu oltremare è un pigmento ricavato dal minerale lapislazzuli [2], dal latino lapis che significa "pietra" e lazulus che è una forma latinizzata della parola persiana "blu". 27
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