Tutto quello che hai visto ricordalo, perchè tutto quello che dimentichi ritorna a volare nel vento - ic belludi
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75^ GIORNATA DELLA MEMORIA 27 GENNAIO 1945 – 27 GENNAIO 2020 Tutto quello che hai visto ricordalo, perchè tutto quello che dimentichi ritorna a volare nel vento. Versi di un canto del Popolo Navajo Vaccarino (Piazzola sul Brenta), domenica 2 febbraio 2020 Contributo alle celebrazioni della 75^ Giornata della Memoria degli alunni dell’Istituto Comprensivo “L. Belludi” di Piazzola sul Brenta
Testo scritto per la 75^ “Giornata della Memoria” da Emma Chiarotto Battono alla porta, urlano, urlano così forte, in modo così brutale che non riesco a reagire. Non piango, non mi dispero. Fisso la porta di legno che trema sotto ai colpi. Continuano a battere, non si stancano. Urlano e la mia bambina si tappa le orecchie e guarda la madre con occhi sgranati, confusi. É una brava bambina, è innocente, non ha fatto nulla, io non ho fatto nulla, noi ebrei non abbiamo fatto nulla di male. Perché i tedeschi ci odiano così tanto? Prendo in braccio mia figlia e la coccolo, non voglio che guardi, così le poso la testa sulla mia spalla. Prendo per mano mia moglie e vado ad aprire la porta. Mi strappano Rosa dalla mani e mi colpiscono ripetutamente con il calcio del fucile. Sento mia figlia piangere e mia moglie urlare il suo nome. Poi sento gli ordini acidi, sprezzanti delle SS. Mi strattonano, mi spingono giù dalle scale. Mi fischiano le orecchie e la vista è tutta appannata per lo shock. Mi arrivano altri colpi allo stomaco e alla testa. Mi trascinano fuori dal condominio e mi fanno salire sul retro di un camion. Non vedo più la mia famiglia. Poco dopo sono all’interno di un carro merci per il bestiame. Il vagone è chiuso quasi del tutto, puzza di paura e di sudore; è tutto buio, siamo in troppi qui dentro, tutti ammassati e spaventati. Dopo un viaggio atroce, durato per quelli che mi sono sembrati giorni di pura agonia, il portone scorrevole si apre con violenza. La pallida luce del sole mi colpisce, mi acceca e in un attimo vengo estratto con la forza dal vagone. Cerco disperatamente mia moglie e mia figlia. Mi faccio spazio nel caos della folla. Non le vedo. Urlo i loro nomi, urlo più forte che posso. Una debole risposta arriva a me. La seguo disperatamente. Le vedo, le stanno portando via. Stanno dividendo i bambini e le donne dagli uomini. Corro per raggiungerle ma mi bloccano e la folla mi inghiotte nuovamente. Ci spogliano, ci buttano addosso acqua gelida, ci fanno indossare un leggero e rozzo camiciotto a righe che appare come una divisa da detenuto; mi rasano tutto il corpo e infilo ai piedi degli zoccoli di legno. Ci fanno mettere in fila, minacciandoci e trattandoci come bestie. Ci schedano tutti, uno per uno, chiedendoci per l’ultima volta il nostro nome. Da oggi saremo tutti solo un numero. 170543. Guardo l’avambraccio arrossato. Mi hanno marchiato. Il mio numero ha sei cifre; non voglio immaginare quanti come me in questo momento sono disorientati, terrorizzati, sviliti e privati della loro identità di esseri umani. Non riesco a immaginare la mia Rosa con questo marchio sul braccio. Anzi, ho paura di non poter più godere del suo bel sorriso. Ho paura che non la rivedrò correre, crescere, giocare; non sentirò più il suo cuore battere. Non dormo, lavoro e lavoro… Mangio quel poco pane nero e acqua sporca che ci danno solo una volta al giorno. Lavoro, lavoro ininterrottamente, al freddo, tra il fango, la neve, le buche e i cadaveri. Non posso chiamare per nome nessuno, non posso parlare, non posso fermarmi, non posso tirare un respiro di sollievo. Non ho cura di me stesso e sono sottoposto a violenza ininterrotta. Il mio corpo non mi regge più, la mia anima è persa. Non riconosco più la libertà, l’umanità, la dignità, la speranza. Sono uno schiavo, un pezzo di carne destinato prima o poi al macello. Un nuovo giorno, che in fondo non sarà mai meglio di ieri. Sto trasportando la carriola con i corpi di chi non ce l’ha fatta o è stato brutalmente eliminato, la schiena è a pezzi. Ribalto la carriola e i corpi sprofondano nella fossa comune... Quasi non la vedevo. Il suo corpicino inanimato, sporco, coperto di lividi e di fango. È lì. Immobile, non si muove, non respira. La guardo. Dovevo proteggerla… dovevo proteggerla! Quel giorno dovevamo fuggire. L'ho condannata a una morte atroce! Mi butto dentro la fossa, urlo, spezzato in due. L’abbraccio stretta: non voglio lasciarla da sola di nuovo, non voglio abbandonarla. Mi appoggio la sua testolina sulla spalla. La cullo ancora una volta. Nella mia disperazione nera penso che giaccia lì, inerte, perché di sicuro, povera piccola, vorrà riposare, stanca delle ingiustizie e delle brutalità, stanca della vita in questo campo. La guardo bene. Quanto l’amo! Non voglio lasciarla in questa fossa scavata nella terra gelida. Voglio addormentarmi al suo fianco, come facevo tutte le sere, quando le raccontavo la favola della buona notte. Voglio chiudere gli occhi con lei. Non mi importa più di nulla, voglio solo starle accanto in un posto dove non ci sia più né paura né dolore. Dunque, quando ci portano nel grande locale delle docce e ci chiudono ermeticamente dentro, tutti urlano e piangono, ma io non li sento. Io guardo verso l'alto, aspettando di respirare per l’ultima volta l’odore amaro, ma per me dolce, della Morte.
Come animali pronti per il macello pressati dentro a un carro merci piombato alcuni ancora mentono a loro stessi alcuni ancora pensano “C’è speranza” diretti verso il nulla eterno diretti in un luogo da cui non c’è ritorno. Si narravano storie di possibili fughe gli ottimisti credevano di poter ancora scappare. Dopo giorni di ombra rivedeste la luce, ma era fredda e inumana: riflettori impietosi che esponevano la morte delle vostre speranze nella notte e nel buio del campo di sterminio. Una volta giunti alla fine del viaggio: a destra fame, tortura, dolore e la disperazione di una lenta agonia, a sinistra, il destino in una stanza enorme e chiusa vi sussurra i suoi segreti con il sibilo del gas fatale. La sorte un percorso casuale vi obbliga a seguire, spezzando cuori vecchi o appena sbocciati spezzando amori nuovi ma mai dimenticati. Chi si salva è spogliato di ogni suo avere, spogliato di nome e anima, un numero, un oggetto è soltanto. Paura, miseria, disperazione ecco tutto ciò che gli resta. Sono vivi, ma un funebre sudario ormai annebbia i loro occhi, un velo nero di cenere per sempre deposto su ogni istante, incontro, luogo, emozione. Solo in pochi continuano a procedere a testa alta, loro la vita non la vogliono lasciare si impongono di essere forti e di continuare a ricordare, perché ombre silenti non vogliono diventare. Si impongono di essere forti per poter raccontare come finirono all’inferno ancor vivi e ne uscirono con il marchio indelebile del Male impresso per sempre nei corpi e nelle anime. E oggi grazie a ognuno di quegli uomini, donne, bambini che sono stati obbligati, per non venir portati via dalla morte, a reggersi aggrappati al filo spinato della vita fino a sanguinare, oggi, grazie a loro, noi siamo qui e sappiamo che tutto questo mai dovremo dimenticare guardando nell’abisso dove si nasconde quell’orrore buio annidato sempre nel cuore di chi odia. Poesia scritta per la 75^ Giornata della Memoria da Irene Ceccato
L’umanità è ancora malata della stessa malattia che ha portato alla costruzione dei campi per lo sterminio di milioni di persone e all’attuazione sistematica e scientifica di tale sterminio. Però ora possiamo individuarne i sintomi e rivelarli al mondo, per impedire che il morbo mortale ci avveleni di nuovo tutti corrodendoci fino alle radici del nostro essere. Ecco cosa ci dice Primo Levi, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwiz. “Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo. In questo libro se ne descrivono i segni: il disconoscimento della solidarietà umana, l’indifferenza ottusa o cinica per il dolore altrui, l’abdicazione dell’intelletto e del senso morale davanti al principio d’autorità, e principalmente, alla radice di tutto, una marea di viltà, una viltà abissale, in maschera di virtù guerriera, di amor patrio e di fedeltà a un’idea.” Primo Levi - “L’asimmetria e la vita” E noi, possiamo fare qualcosa per fermare il contagio del male? Noi, così pochi, piccoli, disarmati, deboli? Anche noi, così giovani, inesperti, spesso ingenui? Lo scrittore Italo Calvino ci risponde di sì. Possiamo farlo essendo più consapevoli delle nostre azioni quotidiane, perché è di tante vite singole, di tanti umili gesti personali, di tante buone opere anonime e poco visibili che è fatta la storia. “Forse non farò cose importanti, ma la storia è fatta di piccoli gesti anonimi, forse domani morirò, magari prima di quel tedesco, ma tutte le cose che farò prima di morire e la mia morte stessa saranno pezzetti di storia, e tutti i pensieri che sto facendo adesso influiscono sulla mia storia di domani, sulla storia di domani del genere umano.” Italo Calvino - “Il sentiero dei nidi di ragno”
Anche Liliana Segre, senatrice a vita, superstite dei campi di sterminio e grande testimone italiana dell’olocausto, esorta in particolare noi giovani a non rinunciare mai a lottare per una vita libera e giusta, in cui trionfi sempre la legalità e il bene:
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