Esiste ancora il diritto di proprietà?
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da: “Centootto L” n.3 – 1983 pag.8 Osvaldo de Tullio Esiste ancora il diritto di proprietà? Alle innumerevoli compressioni, limitazioni e vanificazioni finora perpetrate ai danni della proprietà nelle sue varie forme, stanno per aggiungersi tentativi legislativi di modificare sostanzialmente la stessa struttura del diritto. Se a qualcuno, amante di curiosità statistiche, venisse in mente di fare un censimento delle parole più frequentemente usate in politica - e non soltanto qui - la palma del primato spetterebbe certamente al termine “Costituzione”. E, tutto sommato, il risultato potrebbe considerarsi lusinghiero se esso stesse a significare un sincero, costante ed effettivo riferimento, di quelli che ne parlano, ai princìpi fondamentali del vivere civile, che quel documento esprime. La realtà, invece, è ben diversa. E non soltanto perché la Costituzione viene quasi sempre citata a sproposito ed estraendone surrettiziamente soltanto le cose che convengono - o che sembrano convenire - ma anche perché la sua interpretazione è generalmente distorta adattando – per di più male - princìpi generali al proprio tornaconto personale. Non v’è dubbio, però, che il primato delle citazioni pacificamente le spetti. Ad essa si richiamano i partigiani della Resistenza, che, nei suoi confronti, avanzano financo pretese di paternità. Ma vi fanno frequente ricorso anche gli epigoni del fascismo e, direi, tutte le categorie dei cittadini: gli scioperanti e quelli che vorrebbero regolato e limitato lo sciopero; i partiti politici ed i sindacati, nonché tutti coloro che di questi contestano lo strapotere; i cittadini tartassati dalle imposte e gli evasori. Il coro è, poi, generale quando si tratti di diritto al lavoro, di assistenza sanitaria, di tutela del paesaggio, di ecologia, della indipendenza del giudice, etc. Anche camorristi, mafiosi e delinquenti comuni si distinguono nell’invocare i suoi sacri ed inalienabili princìpi. 277
In realtà di questa nostra Costituzione si parla molto, ma si fa scarsa e cattiva applicazione, per quanto essa non sia da buttar via. Il fatto è, invece, che in molti, troppi punti essa è quasi totalmente inapplicata. Anzi non mancano materie in cui il comportamento dei pubblici poteri, ivi compreso quello legislativo, sembra addirittura contro la Costituzione, nel suo spirito e nella sua lettera. E’ il caso, ad esempio, del diritto di proprietà. Solennemente recepito dall’ordinamento costituzionale, esso riceve nella pratica tali e tante menomazioni e limitazioni, di fatto e di diritto, da poter essere oggi considerato poco più di un nudum nomen, essendosi andati al di là di quegli aggiustamenti che la stessa Costituzione prevede a cagione della sua indubbia funzione sociale. Un nudum nomen del quale, però, qualcuno comincia ad arrossire, tanta è la canea per lunghi anni montata da mestatori e rivoluzionari in sedicesimo aggiogati al carro di interessate politiche, rivolte contro un istituto che, nelle sue normali e più diffuse dimensioni, premia il lavoro e l’imprenditorialità dei migliori cittadini, costituendo la non eliminabile struttura portante di ogni società che rifiuti le aberranti, ingiuste, distruttive ed antieconomiche ideologie collettivistiche. Così, mentre milioni di italiani vengono additati come sfruttatori e biechi padroni ed esposti alla pubblica riprovazione per il fatto di aver dedicato sudati risparmi alla costruzione di una casa di abitazione (prima o seconda che sia) o di una fabbrichetta, ebbene, a conferma di ciò, il potere politico e quello sindacale combattono una nobile gara di cecità e di imprevidenza nel colpire al massimo e nella maniera più cruenta ogni sia pur minima manifestazione della proprietà. E, mentre le disposizioni sul (cosiddetto) equo canone da un lato non premiano con un giusto reddito il proprietario e dall’altro tolgono ogni disponibilità del bene, diminuendone grandemente il valore, una raffica di eventi punitivi si abbattono quotidianamente sulla proprietà in genere: dalla occupazione di fabbriche alla impossibilità di una seria ed oculata gestione di queste, ai tributi che troppo facilmente ed improvvisamente colpiscono la 278
proprietà edilizia, alle enormi spese manutentorie, al paventato ritorno ai Comuni di una autonoma facoltà impositiva. Ad illustrare quanto pervicace e meditato sia il proposito dei governanti valga l’ultimo atto, ancora in corso di recita, di una triste commedia su cui ebbe ad alzarsi il sipario tanti anni fa, quando una legge dello Stato partorì l’amena trovata che un metro quadrato di suolo a Capri o al centro di Roma valesse quanto altrettanto suolo coltivato a patate a Roccacannuccia; e che, quindi, quando il terreno di Capri veniva espropriato non il suo valore effettivo, magari a suo tempo pagato dal proprietario doveva essere corrisposto, ma il valore di quel suolo fittiziamente considerato agrario. Il che, moralità e giustizia a parte, significava stravolgere e violare una norma costituzionale di solare limpidezza, l’art.42, che dispone che la proprietà può essere, sì, oggetto di espropriazione per motivi di pubblico interesse, ma a patto che allo sfortunato proprietario venga corrisposta una indennità, che deve essere determinata con criteri quanto meno di serietà e non di truffaldina spensieratezza come accade, invece, quando si paghi uno per un bene che valga mille. E tutto questo anche per evitare che si abbiano a determinare guerre fra vicini nella rincorsa ad evitare l’espropriazione, già abbastanza dannosa e sgradita anche al di fuori della ipotesi della totale vanificazione del valore del bene. Rettamente, pertanto, la Corte Costituzionale, chiamata a decidere se fosse o meno rispondente alla Costituzione quel modo di determinare l’indennità, ebbe a rispondere negativamente, affermando che l’indennizzo doveva necessariamente avere a riferimento il valore effettivo del bene sul mercato e che, in ogni caso, non poteva essere impunemente ed apoditticamente parificato il bene di maggior pregio a quello di vile valore e che, quindi, trattandosi di cose diverse, diverso ne doveva essere il trattamento. Governo e Parlamento, però, non recepirono né la lezione impartita né l’invito a votare un nuova più giusta disciplina. Intanto, le espropriazioni continuavano per la necessità di costruire gli impianti necessari alla vita sociale. Continuavano del pari, però, il cronico stato di instabilità governativa e la conclamata incapacità di dare serie 279
risoluzioni ai problemi del Paese fra i quali, modesto quanto si vuole, ma importante per milioni di cittadini e di enti pubblici, quello di stabilire validi e giusti criteri nel problema in esame. Sicché Governo e Parlamento non seppero fare di più che prendere atto - né potevano fare diversamente - della dichiarata illegittimità della norma e prometterne una nuova e definitiva (che, a distanza di anni, non è ancora venuta!). Intanto ne emanava una provvisoria, a mezzo della quale continuava ad essere pagato agli espropriati il già fissato indennizzo di valore agrario, ma solo a titolo di acconto di quella che sarebbe stata la indennità definitiva da fissare con una futura legge. Tutto a posto formalmente, secondo una tecnica nella quale andiamo sempre più perfezionandoci. Ma nulla di risolto nella sostanza. E nulla di risolto per tanti anni, finché un altro cittadino non ha ritenuto di adire ancora una volta la Corte Costituzionale per chiederle quanto dovesse durare il regime provvisorio di acconto salvo conguaglio, affacciando la non infondata tesi che se la riserva di provvedere non fosse stata sciolta - né esistono organi che possano sostituirsi al Parlamento nell’emanare una legge - la Costituzione e la prima decisione sarebbero state sostanzialmente eluse e vanificate. La Corte Costituzionale gli ha dato ragione ed ora Governo e Parlamento si trovano nella necessità di provvedere senza indugio. Vengono così fuori strane teorie ammantate di fumosi intenti sociologici per disapplicare ancora una volta Costituzione e princìpi del diritto, nell’intento di sfuggire agli oneri economici enormemente aggravatisi per effetto della pluriennale inerzia. Siamo così alle incaute sottilizzazioni e agli irrazionali bizantinismi di chi vuole distinguere proprietà del suolo e diritto sul soprassuolo, quasi che la facoltà di costruire sul primo non sia la naturale esplicazione del diritto di proprietà ma una graziosa concessione del potere pubblico e, pertanto, non suscettibile di espropriazione e, quindi, di indennizzo (o, al massimo, meritevole di una tenue indennità rapportata al minore contenuto del diritto del privato). Per ora si limitano a questo facendo salve le piantagioni di pomodoro che non sembra, al momento, debbano anch’esse essere oggetto di 280
concessione. Ma non è detto che anche qui non abbiano ad intervenire audacie innovative. Ma, di grazia, quando la “Costituente riconobbe” e garantì la proprietà privata a quale proprietà faceva riferimento se non a quella che nella scienza giuridica, nella pratica, nella comune opinione, nelle leggi, nella tradizione romanistica era pacificamente ritenuta? E, quindi, ad una proprietà che comprendeva anche la facoltà di costruire, beninteso con tutte le limitazioni, i vincoli e gli oneri aliunde derivanti? 281
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