SHALE GAS E SHALE OIL: LA RIVOLUZIONE ENERGETICA IN GRADO DI MODIFICARE GLI SQUILIBRI COMMERCIALI MONDIALI

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SHALE GAS E SHALE OIL: LA RIVOLUZIONE ENERGETICA IN GRADO DI MODIFICARE GLI SQUILIBRI COMMERCIALI MONDIALI
SHALE GAS E SHALE OIL: LA RIVOLUZIONE ENERGETICA IN GRADO
DI MODIFICARE GLI SQUILIBRI COMMERCIALI MONDIALI
Fin dagli albori della rivoluzione industriale il fattore chiave del successo per l’affermazione di un
Paese è stata la sua capacità di approvvigionamento energetico. La maggiore parte degli economisti
è concorde nel ritenere che ciò che ha determinato la supremazia degli Stati Uniti a livello globale è
stata l’ampia disponibilità di fonti energetiche a basso costo. Si tratta di una storia antica nella quale
la parte del leone è stata svolta dai combustibili fossili, e tra essi in modo particolare il carbone, il
petrolio ed il gas naturale. L’inizio dello sfruttamento massiccio del carbone è associato alla
Rivoluzione Industriale, ma il suo utilizzo è ancora oggi fondamentale, tanto che circa un quarto
dell’elettricità di tutto il mondo viene prodotto in questo modo. L’industria petrolifera nacque
invece nel 1850 in Pennsylvania, negli Stati Uniti. L’industria crebbe lentamente durante la seconda
parte dell’Ottocento e il settore petrolifero non diventò di interesse nazionale fino agli inizi del
Ventesimo secolo. Il gas naturale viene invece estratto da giacimenti misti di gas e petrolio o di solo
gas, i più grandi dei quali si trovano nel Golfo Persico, anche se il Paese che singolarmente possiede
le maggiori riserve globali conosciute è la Russia. La scoperta, lo sviluppo e l’esaurimento dei
giacimenti fossili ha caratterizzato la storia dell’ultimo secolo in maniera determinante sia dal punto
di vista economico e sociale che da quello politico e militare. Lo storico embargo petrolifero dei
Paesi Arabi verso l’Occidente nel 1973 fu la causa scatenante dello shock petrolifero e del forte
rialzo dei prezzi del greggio a livello mondiale. Gli storici “accordi segreti” tra gli Stati Uniti e
l’Arabia Saudita hanno certamente assicurato una fonte energetica “quasi illimitata” agli Americani
in cambio della difesa militare degli interessi dei monarchi sauditi nell’Area Mediorientale. Oggi, se
possibile, ancora più di allora, gli interessi economici e politici relativi al controllo delle fonti di
approvvigionamento energetico risultano determinanti nell’affermazione della supremazia di un
Paese all’interno della sua Area di appartenenza o a livello mondiale. L’attuale disputa tra la Cina
ed il Giappone per il controllo delle isole Diaoyu-Senkaku, ricche di risorse di gas naturale e
petrolio, dimostra come la proprietà e lo sfruttamento dei combustibili fossili sia un tema
estremamente attuale nello scenario economico, con potenziali impatti sugli equilibri globali. Il
tema di fondo relativo alla proprietà dei combustibili fossili è la loro scarsità, problema centrale dal
quale si sviluppano innumerevoli studi che riguardano la loro esauribilità. E’ infatti la scarsità di un
bene utile e largamente utilizzato a causarne l’elevato valore, ragione per cui il controllo su di esso
diventa motivo di disputa, anche militare, per l’ottenimento o la salvaguardia di una supremazia
economica. E’, d’altro canto, il suo elevato valore a causare la ricerca di ogni fonte ad esso
alternativa, riducendo il monopolio o l’oligopolio dei detentori del bene stesso e rendendo, di fatto,
il bene più accessibile a tutti sul mercato di approvvigionamento. Tale ricerca, per quanto riguarda
le fonti energetiche alternative soprattutto al petrolio, è vastissima e rappresenta una delle sfide più
rilevanti a livello mondiale per il futuro dello sviluppo dell’umanità. Vi è però anche una ricerca,
anch’essa rilevante, riferibile all’efficientamento dei processi di estrazione, di lavorazione e di
trasporto dei combustibili fossili. Essa è orientata alla scoperta e alla messa in atto di nuove
modalità che possano rendere tanto più semplice ed economica l’estrazione quanto più ampia l’area
dei giacimenti sfruttabili per l’ottenimento del combustibile desiderato. In questo campo le risorse
messe in campo sono ingentissime ed i risultati spesso stupefacenti anche per gli esperti di settore,
tanto da rappresentare spesso delle nuove frontiere energetiche. I cosiddetti “shale gas” e “shale oil”
possono essere inquadrati all’interno di questo processo di ricerca, identificazione ed estrazione del

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SHALE GAS E SHALE OIL: LA RIVOLUZIONE ENERGETICA IN GRADO DI MODIFICARE GLI SQUILIBRI COMMERCIALI MONDIALI
petrolio e del gas con modalità diverse rispetto a quanto in precedenza effettuato, con l’obiettivo di
avere a disposizione fonti energetiche più ampie ma pur sempre fruibili. Pur rappresentando una
sfida epocale per l’uomo e quindi di sicuro interesse, la scoperta di una nuova frontiera energetica
fornisce elementi di rilievo per le sue imprescindibili conseguenze sull’economia globale. La
finalità di questa trattazione è infatti l’analisi di tali impatti nello scenario economico in termini
prospettici al fine di comprendere se e come lo “shale oil” e lo “shale gas” possano modificare gli
equilibri commerciali mondiali. A tale fine procederemo seguendo i punti sotto indicati:

   1.   Lo shale gas e lo shale oil: gli ingredienti della nuova frontiera energetica
   2.   Rischi ed opportunità delle rocce shale
   3.   Le superpotenze mondiali di fronte alla rivoluzione shale
   4.   Gli Stati Uniti verso l’indipendenza energetica?
   5.   Il riequilibrio della bilancia commerciale americana: impatti economici e finanziari

   1. La nuova frontiera energetica prende avvio dal gas naturale; gli Stati Uniti, a causa di
      un’estrazione in inesorabile decrescita, hanno rischiato di diventarne importatori netti a
      causa dell’aumento dei consumi. Ma la Mitchell Energy, una piccola società texana,
      nell’anno 2000 si gettò in un’avventura quasi pioneristica: lo sfruttamento di Barnett Shale,
      un giacimento di gas “tight” in Texas. L’avventura verteva sul tentativo di produrre gas da
      giacimenti non convenzionali, conosciuti ma fino a quel momento mai sfruttati per ragioni
      economiche ed assenza di adeguate tecnologie. Chiamati “shale” o “tight”, tali giacimenti
      sono costituiti da rocce calcaree, arenarie, quarzo ed argilla: se quest’ultima è predominante
      si parla di “shale”, in caso contrario si parla semplicemente di “tight”. Agli occhi di un
      profano le rocce in questione possono ricordare il granito o il cemento e nessuno potrebbe
      sospettare che esse in realtà contengono gas e petrolio in significative quantità. In effetti, per
      tutto il secolo scorso il bassissimo livello di porosità e di permeabilità di tali rocce ha reso di
      fatto impossibile estrarre le preziose fonti di energia che esse imprigionano a costi
      economicamente concorrenziali ed in quantità accettabili. Tale sfida è stata però raccolta,
      poco più di un decennio fa, dalla Mitchell Energy. L’azienda aveva sperimentato una nuova
      combinazione di due tecnologie già esistenti su giacimenti di shale gas, come osservabile
      nella figura sottostante: la perforazione orizzontale e il “fracking”, ossia la fratturazione
      idraulica.

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Nella perforazione orizzontale la trivella scava un pozzo in verticale nel sottosuolo, per poi
   deviare a novanta gradi ed entrare in lunghissimi ma poco spessi strati di rocce orizzontali
   che, come spugne solide, imprigionano gli idrocarburi. A questo punto interviene il
   fracking: mentre la trivella avanza vengono sparati acqua, sabbia e agenti chimici all’interno
   del pozzo ad intervalli regolari. L’acqua rompe la roccia, mentre la sabbia e gli agenti
   chimici impediscono che le fratture create si richiudano o implodano, evitando così la fuga
   in superficie di gas o petrolio. Dopo avere affrontato numerose difficoltà, la Mitchell Energy
   ebbe successo, dimostrando che gli sconfinati giacimenti shale degli Stati Uniti potevano
   essere sfruttati. Gli albori furono silenziosi, in quanto non furono in molti a credere che lo
   shale avrebbe potuto affermarsi come nuova frontiera energetica, e ciò per numerose
   ragioni: il gas estratto era solo una frazione minima di quello contenuto nel giacimento; la
   produzione, dopo una prima fase, declinava velocemente ed i costi parevano eccessivi. Più
   ancora, tutti, comprese le più importanti multinazionali petrolifere, sottovalutarono le
   immense dimensioni delle riserve shale. Ciò nonostante, numerose piccole società
   petrolifere non si fecero dissuadere dalle difficoltà, accettando l’avventura dello shale: il
   ritmo di sviluppo fu impressionante, superando i milletrecento nuovi pozzi ogni dieci giorni,
   tanto che quando un pozzo iniziava a declinare, la produzione era più che compensata da
   quelli nuovi. Così, partendo da zero nell’anno 2000, la produzione ha superato i cento
   miliardi di metri cubi di gas nel 2010, più dell’intero consumo annuo dell’Italia, attirando
   l’interesse delle grandi corporation, sempre più consapevoli che lo shale avrebbe davvero
   rappresentato una nuova frontiera energetica. Ma nel 2007, la caparbietà imprenditoriale a
   stelle e strisce aveva già individuato un nuovo obiettivo: lo shale oil. Fino a quel momento i
   più avevano ritenuto impossibile l’estrazione di petrolio da queste formazioni, in quanto la
   sua molecola, più grande di quella del gas, non avrebbe potuto fuggire dai pori di pochi nano
   micron a bassa permeabilità. Ma tra il 2006 ed il 2007, un’altra piccola compagnia – la EOG
   Resources – ripeté l’esperimento della Mitchell Energy a Bakken, un immenso giacimento
   di shale oil nel North Dakota. Ed anche allora, il piccolo miracolo si verificò, e gli scettici si
   dovettero ancora una volta ricredere. Dalle ultime rilevazioni, ad oggi il North Dakota è il
   terzo stato produttore di petrolio degli Stati Uniti, grazie ad una produzione di shale oil dal
   solo giacimento di Bakken di oltre 700.000 barili al giorno, più di quanto non ne produca il
   più grande giacimento del Kuwait.
2. L’esperienza petrolifera dello shale in North Dakota ha dato il via negli Stati Uniti ad una
   nuova corsa all’oro nero, in quanto il sottosuolo americano è decisamente ricco di potenziali
   giacimenti di shale oil. Gli esperti ritengono che ve ne siano almeno una ventina con risorse
   da estrarre paragonabili a quello di Bakken. La ricerca e le perforazioni hanno quindi subito
   una notevole accelerazione, con centinaia di nuovi pozzi alla settimana, in quanto negli Stati
   Uniti i diritti minerari sulle risorse del sottosuolo sono di proprietà dei privati cittadini, i
   quali hanno quindi un forte incentivo alla vendita o all’affitto di essi alle compagnie
   petrolifere. Negli Stati Uniti, inoltre, tale rivoluzione energetica è stata accompagnata da
   fondi privati, banche e venture capital che hanno finanziato le numerosissime iniziative dei
   pionieri dello shale, fino all’arrivo delle grandi multinazionali. Come ogni rivoluzione degna
   di tale nome, l’affermazione dello shale è stata costellata da numerosi interrogativi e
   problemi, tra i quali i più rilevanti riguardano l’impatto ambientale. Numerosi esperti
   ritengono infatti che le tecniche impiegate per l’estrazione di petrolio e di gas dalle rocce

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tight o shale provochino l’inquinamento delle falde acquifere. L’imputato numero uno è il
   fracking che, per alcuni, potrebbe provocare perfino delle scosse sismiche. Secondo
   l’osservazione empirica di questo decennio, i casi documentati di danni alle falde sono però
   pochissimi: su oltre un milione di operazioni di fracking, ne sono stati accertati solo qualche
   decina. Quanto ai terremoti, se ne sono registrati alcuni in Ohio nel 2011 in aree dove si
   effettuava il fracking. Si trattava però di fratturazione di pozzi finalizzata allo stoccaggio di
   acque reflue provenienti da altre parti degli Stati Uniti, un’attività decisamente più
   pericolosa rispetto a quella della perforazione finalizzata all’estrazione. Le acque sparate e
   stoccate sotto terra in quantità ingenti possono infatti provocare un distacco delle faglie ed il
   loro successivo scivolamento, cioè in sostanza possono generare dei piccoli terremoti. Il
   problema più rilevante dello shale sembrerebbe quindi essere proprio quello della
   generazione di ingenti quantità di acque reflue contenenti minerali tossici e, pare, perfino
   scorie radioattive, il cui smaltimento o trattamento fa emergere significative criticità.
   Nonostante tale ostacolo possa sembrare insormontabile, l’industria petrolifera a stelle e
   strisce lo sta affrontando anche come un’opportunità, in quanto sta incentivando la ricerca
   per la sperimentazione di nuove tecnologie per il trattamento delle acque reflue, con grandi
   speranze puntate sul grafene, un materiale che in futuro potrebbe rivoluzionare gran parte
   dei materiali di uso attualmente comune. Il tono delle polemiche da entrambi i lati è
   destinato a crescere: da una parte chi sostiene il sogno americano dell’indipendenza
   energetica e dall’altra chi teme una nuova catastrofe ambientale e la caduta di interesse
   verso le fonti rinnovabili di energia. Per il momento, però, negli Stati Uniti l’estrazione del
   gas e del petrolio shale non si ferma, anche se una Commissione del Dipartimento
   dell’Energia USA ha criticato la lenta presa di coscienza da parte delle major petrolifere dei
   problemi ambientali derivanti dal fracking e la mancanza di uno sforzo sufficiente per
   affrontare e risolvere le criticità emerse.
3. L’eldorado americano delle nuove frontiere del gas e del petrolio shale ha aperto una nuova
   dimensione per gli idrocarburi a livello planetario. I giacimenti shale, nel mondo, sono per
   lo più ancora sconosciuti ma, considerata l’esperienza statunitense, potrebbero essere
   immensi e soprattutto ancora vergini. Inoltre l’utilizzo del fracking potrebbe consentire di
   estrarre molto più gas e petrolio dai giacimenti tradizionali, dai quali ad oggi viene estratto
   esclusivamente il 35% degli idrocarburi. Secondo numerose fonti ritenute attendibili, tra le
   quali il Dipartimento all’Energia USA, la presenza di shale gas a livello mondiale sarebbe in
   grado di modificare radicalmente gli attuali equilibri tra Paesi importatori ed esportatori,
   come evidenziato nel grafico sottostante.

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Da esso si evince che la Cina e gli Stati Uniti, cioè le principali economie energivore
mondiali, non solo attuali ma anche tendenziali, detengono le più vaste risorse di shale gas a
livello globale (misurate in Tcf – Trillion cubic feet of gas). La ricerca per ora ha però
riguardato quasi esclusivamente il Nord America, cioè Stati Uniti e Canada. Ciò è avvenuto
per numerosi motivi, alcuni dei quali di natura prettamente tecnologica: solo in questi due
Paesi esistono mezzi di perforazione idonei ad effettuare la fratturazione idraulica su ampia
scala; si tratta di un fattore critico, in quanto i giacimenti tight e shale necessitano di una
perforazione intensiva per mantenere ed eventualmente aumentare la propria produzione.
Per gli Stati Uniti vi è inoltre un fattore normativo di rilievo già citato: le risorse del
sottosuolo sono di proprietà privata, mentre nella maggior parte degli altri Paesi del mondo i
diritti minerari sono di proprietà statale – ciò crea un divario di incentivi all’esplorazione
che avvantaggia lo Zio Sam a discapito delle altre nazioni. I legittimi dubbi sugli impatti
ambientali stanno inoltre facendo la differenza soprattutto nel Vecchio Continente, dove
l’estrazione del gas shale è stata recentemente bloccata. Proprio mentre in alcuni Paesi si
stava iniziando ad andare in avanscoperta, la Commissione Industria ed Energia del
Parlamento Europeo ha alzato i primi altolà di merito a causa delle incognite sull’ambiente,
sulla salute e sulla sicurezza dei processi estrattivi. L’attenzione della Commissione si è
focalizzata sulla necessità del varo preventivo di una serie di normative che dovrebbero
fornire adeguate garanzie del buon uso di questa tecnologia tanto sofisticata quanto invasiva.
In sintesi le considerazioni europee sono: prima studiare e verificare, poi approvare la
normativa ed infine, eventualmente, agire. Tale percorso, senza dubbio decisamente più
prudente rispetto a quanto verificatosi negli Stati Uniti, comporterà inevitabilmente il
trascorrere di numerosi anni in cui ciò che sembra essere una immensa ricchezza rimarrà
teorica. La tabella sottostante descrive il mercato del gas naturale in Europa ed è
comprensiva delle prime stime dello shale gas (valori espressi in trilioni di metri cubi).

     STATO           PRODUZIONE          CONSUMO         IMPORT/(EXPORT)         SHALE GAS
                                                                %              RECUPERABILE
    FRANCIA            0,00085              0,049               98                  5,10
   GERMANIA             0,0144              0,093               84                  0,23
    OLANDA               0,079              0,049              (62)                 0,48
   NORVEGIA              0,103             0,0045            (2.156)                2,40
 REGNO UNITO             0,059              0,088               33                  0,57
  DANIMARCA             0,0085             0,0045              (91)                 0,65
     SVEZIA                -               0,0011              100                  1,16
    POLONIA             0,0059              0,016               64                  5,30
    TURCHIA            0,00085              0,035               98                  0,42
    UCRAINA              0,020              0,044               54                  1,19
    LITUANIA               -               0,0028              100                 0,113
      ALTRI              0,014              0,027               50                  0,54
     TOTALE              0,305              0,365                                   13,0

L’osservazione dei dati fa comprendere che i due Paesi che possiedono le maggiori risorse
di shale gas sono la Polonia e la Francia. Se le forti remore della Francia paiono più che
giustificate, in quanto la riserva più rilevante si trova esattamente nel sottosuolo di Parigi e
quindi non sfruttabile, il territorio polacco dovrebbe rappresentare un obiettivo decisamente
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più abbordabile a causa della vastità delle ampie lande inabitate. Inevitabilmente colpisce
   l’atteggiamento tedesco: a fronte di riserve per circa 23 miliardi di metri cubi di shale gas
   recuperabile, la Germania ha promosso una moratoria totale, consentendo esclusivamente
   alcuni piccoli progetti sperimentali e minuziosamente monitorati sia dagli scienziati che
   dalle autorità pubbliche. Per quanto riguarda l’Italia, è stata addirittura l’Eni ad alzare le
   barricate maggiori alla ricerca nel settore shale. Le considerazioni del colosso energetico
   italiano sono lapalissiane: in un Paese dove le opposizioni locali spesso bloccano il sorgere
   di qualunque infrastruttura, e tra queste soprattutto di quelle energetiche, figuriamoci che
   cosa potrebbe accadere con i rischi del fracking e delle acque reflue, per i quali i dubbi sugli
   impatti geologici ed eco-sistemici sono tutt’altro che fugati. In Francia, paradossalmente, i
   sindacati e la confindustria presentano gli atteggiamenti più aperti verso lo shale, e ciò
   perché sono del tutto consapevoli delle ricadute occupazionali del settore, in grado, secondo
   le stime, di creare almeno centomila nuovi posti di lavoro in meno di un decennio. Ciò che,
   d’altra parte, sta già avvenendo negli Stati Uniti, dove la nuova frontiera dello shale – gas e
   oil – è diventata negli ultimi due anni il singolo fattore di maggiore crescita economica ed
   occupazionale.
4. La mappa delle risorse shale degli Stati Uniti, qui sotto riportata, dà l’idea della vastità del
   fenomeno e della capillarità della sua presenza nel Paese.

   E’ necessario tenere presente che il boom dello shale gas ha già consentito agli Stati Uniti di
   riconquistare il predominio mondiale della produzione di gas naturale. Essa ha continuato a
   crescere fino alla saturazione del mercato, con effetti dirompenti sui prezzi. All’inizio del
   2012, gli Statunitensi pagavano un metro cubo di gas un quinto di quanto pagato dagli
   Europei ed un ottavo di quanto pagato dai Giapponesi. I consumi degli Americani sono
   quindi cresciuti a discapito del carbone, di cui gli Stati Uniti sono divenuti esportatori
   sempre più attivi: nel primo semestre 2012 l’export ha raggiunto il record di 66,2 milioni di
   tonnellate, mettendo a segno un incremento del 24%. Oltre la metà di tali forniture si sono
   dirette verso l’Europa, la cui situazione, come esaminato nel punto precedente, è
   diametralmente opposta. Maria van Der Hoeven, direttrice dell’Agenzia Internazionale
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dell’Energia (AIE), ha dovuto infatti recentemente ammettere che “l’età d’oro del gas non
   riguarda il Vecchio Continente”. Il problema principale, sempre secondo la van Der
   Hoeven, è però il fatto che in Europa molti contratti di fornitura di gas sono indicizzati al
   petrolio; ciò comporta una resistenza dei prezzi verso l’alto ed una cannibalizzazione della
   domanda. Inoltre, tra pochi anni, gli Stati Uniti riusciranno anche ad esportare una parte del
   gas sotto forma liquida (Gnl). Il 4 ottobre 2012 il dipartimento dell’Energia USA ha infatti
   concesso il primo permesso all’export, per ora riservato ai diciannove Paesi legati agli Stati
   Uniti da accordi di libero scambio, tra i quali non vi è nessuna nazione europea. A tagliare
   tale traguardo è stata la Golden Pass Product, società posseduta al 70% da Qatar Petroleum
   International e al 30% da ExxonMobil, intenzionata a costruire impianti di liquefazione da
   15,6 milioni di tonnellate l’anno in quello che ad oggi è un rigassificatore in Texas. Secondo
   numerosi esperti, se il ritmo di crescita dello shale dovesse rimanere tale, entro il 2020 gli
   Stati Uniti potrebbero inoltre diventare il secondo produttore mondiale di petrolio – dopo
   l’Arabia Saudita – grazie ad una produzione totale, tra tight e shale, di oltre i 4 milioni di
   barili al giorno, più del doppio della produzione libica dell’era gheddafiana. Le potenziali
   conseguenze della rivoluzione shale sono però oggettivamente molto diverse nel caso del
   gas ed in quello del petrolio, a causa della diversa struttura dei rispettivi mercati. Quello
   petrolifero è un mercato globale, in quanto, grazie ai contenuti costi di trasporto e all’intensa
   attività di migliaia di intermediari, il greggio può raggiungere virtualmente tutti gli
   acquirenti. Il mercato petrolifero è quindi molto liquido e consolidato, in quanto se un
   produttore viene meno – vedasi il recente caso libico o l’attuale caso iraniano – altri possono
   rimpiazzarlo. Allo stesso modo, se un mercato si contrae, come sta avvenendo per quello
   europeo, le forniture possono essere reindirizzate verso Paesi in cui la domanda è in
   espansione, come la Cina. In un tale contesto la futura produzione petrolifera shale è
   destinata a diventare un elemento dell’equilibrio complessivo, prendendo il posto di parte
   della produzione convenzionale. Si tratta di un processo graduale ma inesorabilmente
   destinato a modificare la geografia dei flussi, in quanto ad oggi metà delle riserve disponibili
   sono concentrate in Medio Oriente, mentre le riserve shale sono per lo più presenti nel
   continente americano. Le rendite petrolifere sono quindi destinate in futuro ad indirizzarsi in
   maniera decrescente verso il Golfo Persico ed in maniera crescente verso il Nuovo Mondo.
   Nonostante l’impatto di tale rivoluzione energetica sia tutt’altro che trascurabile, secondo la
   maggior parte degli esperti gli Stati Uniti difficilmente riusciranno a perseguire la sempre
   agognata indipendenza energetica, e ciò almeno fino a quando la produzione mediorientale
   risulterà rilevante, cioè ancora per diversi decenni a venire.
5. In economia la bilancia commerciale è uno degli elementi principali della bilancia dei
   pagamenti. Nella contabilità nazionale la bilancia commerciale è un conto nel quale viene
   registrato l’ammontare delle importazioni e delle esportazioni di merci di un determinato
   Paese con il resto del mondo. Il saldo della bilancia commerciale corrisponde quindi alla
   differenza tra il valore delle esportazioni e quello delle importazioni di beni (non di servizi).

   BILANCIA COMMERCIALE = EXPORT MERCI – IMPORT MERCI

   Se il valore delle esportazioni supera quello delle importazioni si dice che la bilancia
   commerciale presenta un attivo; viceversa se il valore complessivo delle importazioni è

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maggiore di quello delle esportazioni la bilancia commerciale presenta un passivo. L’attivo
o il passivo della bilancia commerciale è un indicatore di fondamentale importanza della
solidità di un Paese e della sua ricchezza economica. Se, ad esempio, una nazione ha una
bilancia commerciale costantemente in passivo, ciò dimostra che essa vive al di sopra dei
propri mezzi, e per fare ciò abbisogna di capitali esteri, dei quali non potrebbe fare a meno.
Gli Stati Uniti da tempo presentano un quadro simile a quello sopra descritto; la figura
sottostante descrive il saldo della bilancia commerciale a stelle e strisce dal 1929 ai giorni
nostri: è facilmente osservabile che dal 1977 lo Zio Sam presenta un significativo disavanzo
della stessa, che è cioè in pesante passivo in quanto il valore delle importazioni supera
significativamente quello delle esportazioni.

Secondo numerosi osservatori economici una delle cause più rilevanti della crisi economica
e finanziaria che il mondo sta vivendo è da ricercarsi proprio in questo squilibrio della
bilancia commerciale di numerosi Paesi, in primo luogo degli Stati Uniti, che per decenni,
cioè almeno dal 1977, hanno continuato a vivere al di sopra delle proprie possibilità,
finanziando il disavanzo della bilancia commerciale con capitali stranieri. Ora, la teoria
economica afferma, senza timore di smentita, che un disavanzo della bilancia commerciale
non possa essere finanziato troppo a lungo e debba trovare un suo necessario riequilibrio in
una diminuzione delle importazioni accompagnata da un aumento delle esportazioni. La
naturale valvola di sfogo di tale riequilibrio è il tasso di cambio della moneta nazionale, che
dovrebbe deprezzarsi verso le monete di quei Paesi che risultano forti esportatori nei suoi
confronti. Tale regola, negli ultimi anni, ha comportato spesso delle crescenti aspettative di
deprezzamento del dollaro statunitense nei confronti di numerosi altri cross, ad esempio
verso la moneta cinese. Tuttavia, non è affatto certo che ciò si debba necessariamente
verificare, anche perché in questo modo si ridurrebbe significativamente lo stile di vita del
Paese che taglia drasticamente le proprie importazioni, con conseguenze a cascata sugli
esportatori e sulle loro economie. Il riequilibrio potrebbe anche avvenire con modalità
diverse, e cioè precisamente con una forte riduzione della bolletta petrolifera, premessa della
tanto auspicata autonomia energetica americana. Per comprendere il dato può essere utile
effettuare una disamina disaggregata dei suoi componenti: il deficit commerciale a stelle e
strisce messo a segno nel mese di luglio 2012 ammontava a 42 miliardi $: le esportazioni,
diminuite rispetto al mese precedente, sono state pari a 183,3 miliardi $ mentre le
importazioni hanno toccato la cifra di 225,3 miliardi $. Di tali 225,3 miliardi $, 25,8 $ sono
ascrivibili agli acquisti di petrolio dall’estero. A conti fatti, cioè, la bolletta petrolifera pesa,
da sola, per oltre il 50% del deficit complessivo della bilancia commerciale statunitense.
Una consistente riduzione della bolletta petrolifera e l’approdo in attivo della bolletta del gas
sarebbero quindi in grado di modificare, in via strutturale, il saldo della bilancia
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commerciale a stelle e strisce, riportandone il saldo in una condizione di potenziale
       equilibrio. Ciò che sta avvenendo da un punto di vista degli approvvigionamenti energetici
       presenta quindi dei rilevanti impatti economici e finanziari, in quanto tale evoluzione di
       scenario fa venire meno la necessità di un deprezzamento del dollaro statunitense mentre
       rende l’economia a stelle e strisce strutturalmente più solida e la sua spesa corrente più
       sostenibile nel tempo.

La disamina effettuata prende in esame l’attuale affermazione della nuova frontiera energetica dello
shale, cioè del gas e del petrolio ricavabile dalle rocce attraverso metodologie estrattive
tecnologicamente avanzate. L’avventura shale presenta dei rischi tutt’altro che trascurabili da un
punto di vista ambientale e dell’equilibrio dell’eco-sistema. Ciò nonostante gli Stati Uniti hanno
raccolto la sfida, mentre l’Europa ha deciso di bloccare sul nascere tale processo. Lungi dal voler
prendere le parti dei sostenitori o dei detrattori dello shale, esso rappresenta una novità rilevante
destinata a lasciare il segno nello scenario energetico globale. Gli Stati Uniti infatti si preparano a
godere dei vantaggi economici e finanziari della loro supremazia nella tecnologia shale, che
secondo alcuni osservatori li potrebbe portare vicini alla tanto agognata autonomia energetica. Tale
rivoluzione energetica, la cui affermazione sta già avvenendo, è destinata a portare con sé dei
mutamenti economici e finanziari che rendono, di fatto, sia l’economia statunitense che il biglietto
verde più forti rispetto agli ultimi decenni.

                                                                                 Gabriele Pinosa
                                                                                Go-Spa consulting

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