Sevgili Arsız Ölüm ovvero l'Istanbul "periferica" di Latife Tekin

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LEA - Lingue e letterature d’Oriente e d’Occidente, n. 6 (2017), pp. 295-310
                                              DOI: http://dx.doi.org/10.13128/LEA-1824-484x-22346

                      Sevgili Arsız Ölüm
        ovvero l’Istanbul “periferica” di Latife Tekin
                                        Tina Maraucci
          Università degli Studi di Firenze ()

             Abstract
             The article examines Sevgili Arsız Ölüm (1983; Dear Shameless Death,
             2001), the first novel by Latife Tekin. Considered one of the most
             original Turkish woman novelists, Tekin distinguished her writing in
             the 1980s by a specific representation of Istanbul and its cityscapes. I
             will illustrate how this novel was both aesthetically and politically con-
             ceived to reproduce the alienation of Anatolian rural migrants from an
             urban space and culture and their “peripheral” perspective on the city.
             I will focus on Tekin’s strategies of representing the city from women
             migrants’ points of view as a locus of feminine subordination, exclusion
             and alienation, both economically and morally, from urban space.
             Keywords: Istanbul, Latife Tekin, periphery, Turkish migration literature,
             urban landscape

     Nella generale penuria di studi dedicati ai processi di appropriazione
estetica dello spazio nella letteratura turca moderna e contemporanea, si fa
tuttora avvertire la pressoché totale assenza di approcci critici dedicati alla
rappresentazione di Istanbul nella narrativa di LatifeTekin, scrittrice di estra-
zione popolare e rurale tra le più rilevanti del filone narrativo sulla migrazione
interna1. È un fatto certamente singolare se si considera l’implicita rilevanza
che la riflessione sulla città assume nella prima produzione letteraria dell’au-

      1
        Latife Tekin nasce nel 1957 a Karacefenk, villaggio nella provincia centro anatolica di
Kayseri, per trasferirsi a Istanbul nel 1966 dove completa la sua formazione. Diplomatasi nel
1974, sceglie di non proseguire gli studi e abbraccia la militanza politica nel clandestino Türkiye
Komünist Partisi (Partito Comunista Turco). Nel 1997 si trasferisce nella cittadina di Gümüşlük,
in provincia di Bodrum, dove ha dato vita alla Gümüşlük Akademisi (Accademia di Gümüşlük),
un centro che si occupa di arte, letteratura, cultura, ecologia e ricerca scientifica. Tra le sue opere
più recenti Aşkİşaretleri (1995; “Segnali d’amore”), Ormanda Ölüm Yokmuş (2001; “Nella foresta
non c’è la morte”) e Unutma Bahçesi (2004; “Il giardino dell’oblio”); cfr. Sönmez 2012, 301-310.

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                                                                      http://www.fupress.com/bsfm-lea
                                                                         2017 Firenze University Press
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trice e che la critica curiosamente non avverte ancora l’esigenza di indagare
in maniera specifica. A costituire oggetto privilegiato di analisi continuano ad
essere infatti aspetti della sua poetica ritenuti più centrali, come lo sperimen-
talismo delle forme, spesso frettolosamente assimilate a quelle del “realismo
magico”, la natura esplicitamente politica dei suoi contenuti, centrati sui temi
della povertà e della marginalità urbana, o la dirompente originalità delle sue
scelte stilistiche (Parla 2008; Seyhan 2008, 165-177; Kekeç 2011; Balık 2013;
Gürbilek 2014, 37-47). In effetti la città sembrerebbe configurarsi nella prosa
di Tekin come un soggetto apparentemente secondario e tuttavia intimamente
correlato all’intento di ricostruire la memoria, storica e personale, del processo
di urbanizzazione turco tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento. Nella
sua celebre trilogia Sevgili Arsız Ölüm (1983; Cara spudorata morte, 1988),
Berci Kristin Çöp Masalları (1984; Fiabe dalla collina dei rifiuti, 1995) e
Buzdan Kılıçlar (1989; Le spade di ghiaccio), l’autrice ripercorre infatti la
parabola evolutiva della migrazione interna registrandone le profonde riper-
cussioni tanto sul tessuto sociale quanto sul paesaggio urbano di Istanbul in
una narrazione che evolve in maniera progressiva dall’individuale al corale.
      L’aspetto forse più significativo dell’elaborazione poetica di questa scrit-
trice consiste nell’assoluta centralità accordata alla dimensione soggettiva.
Tekin fa del proprio vissuto individuale di donna, di migrante e di scrittrice,
il punto di partenza per elaborare una più ampia narrazione collettiva in cui
il fenomeno migratorio interno costituisce la cifra allegorica per una rilettura
critica dal progetto di edificazione nazionale kemalista (Belge 1998, 240-241;
Irzık 2007)2. Muovendo da una prospettiva interna al mondo degli ex con-
tadini anatolici di recente urbanizzazione, lo sguardo dell’autrice guadagna
così una nuova, dirompente prospettiva sulla città restituita nelle forme e
negli schemi linguistici e culturali della periferia, ossia di coloro che tanto
geograficamente quanto culturalmente provengono dai margini della nazione.
L’Istanbul “periferica” di Latife Tekin si rivela allora essere un oggetto di studio
particolarmente indicato per investigare le dinamiche ideologiche e di potere
sottese alle rappresentazioni letterarie dello spazio nazionale.
      Sulla base di questi presupposti è lecito interrogarsi sulle modalità con cui
l’autrice restituisce il paesaggio urbano nei suoi tre romanzi sulla migrazione.
Ad una disamina d’insieme, la trilogia sembra emergere come il sito di ela-
borazione di una strategia rappresentativa della città piuttosto complessa che
evolve in parallelo con il personale percorso formativo, umano e intellettuale,
della scrittrice. La poetica urbana di Tekin può in altre parole essere conside-
rata il risultato di un processo creativo distinto in tre momenti consecutivi,
ciascuno dei quali ha il proprio corrispettivo nei tre testi, e la cui progressione

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      Qui inteso come il governo dei quadri nazionalisti legati a Mustafa Kemal che guidò la
modernizzazione del paese tra gli anni Venti e Trenta del Novecento.
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si presta ad essere complessivamente descritta in termini parabolici. Se l’espe-
rienza soggettiva costituisce il punto di origine di tale processo, il passaggio
dall’autobiografico al narrativo e dunque da una prospettiva egocentrata ad
una collettiva ne rappresentano l’apice. Segue poi una fase “discendente” in
cui Tekin rivede i presupposti politici fondanti la sua scrittura, con importanti
ripercussioni anche sul piano estetico.
      Esporre nel dettaglio l’andamento parabolico di tale linea poetica richiede-
rebbe una sede di discussione più estesa, ragion per cui nel presente contributo
mi limiterò a prendere in esame la rappresentazione del paesaggio di Istanbul
in Sevgili Arsız Ölüm. Diversi motivi giustificano la scelta di concentrarmi su
quest’opera, in primis il fatto che essa viene a coincidere con la fase “proget-
tuale” della poetica urbana di Tekin, quella cioè in cui vengono definiti e messi
in atto i tratti essenziali della strategia rappresentativa sviluppata in seguito
in chiave corale in Berci Kristin e Buzdan Kılıçlar. Nel romanzo la scrittrice
racconta infatti, in una veste esplicitamente autobiografica, della difficoltà di
entrare in una relazione estetica con la città, di trovare in essa e attraverso essa
uno spazio e una lingua mediante cui esprimere il proprio punto di vista mar-
ginale, di donna e di migrante. A rendere il testo particolarmente meritevole
di attenzione è inoltre l’inedita prospettiva di genere con cui Tekin ricostruisce
l’epopea della migrazione interna turca restituendo così il paesaggio urbano
doppiamente “periferico”, marginalizzato sia fisicamente che culturalmente,
delle ex contadine anatoliche migrate come lei in città. Partendo da queste
premesse proverò ad isolare alcuni tratti distintivi della singolare poetica di
Istanbul di Tekin nel tentativo di dimostrare come nell’opera la scrittrice fac-
cia dello spazio urbano un locus dell’esclusione e della subalternità femminile
ma al tempo stesso uno strumento di ribellione estetica e insieme politica ai
canoni letterari e ai modelli identitari della cultura dominante.

1. La scrittrice figlia della migrazione
      La personalità umana e intellettuale di Latife Tekin può dirsi il risultato
di un percorso formativo segnato da due eventi principali: il primo, e forse
il fondamentale, è rappresentato dalla migrazione a Istanbul dove l’autrice si
trasferisce all’età di nove anni al seguito della famiglia. In un’intervista rila-
sciata ad Ayşe Saraçgil nei primi anni Novanta la scrittrice riporta un ricordo
estremamente traumatico dell’esperienza, paragonata a una sorta di espatrio:
      Negli anni in cui i miei genitori si sono spostati a Istanbul, questo trasferimento
era per molti versi simile all’andare a stabilirsi in un paese straniero. Io credo che quando
siamo arrivati a Istanbul abbiamo provato lo stesso senso di lontananza di estraneità che
più tardi avrebbero provato gli operai turchi emigrati in Germania. Vi era una grande
differenza di lingua. Per avere la comunanza linguistica non basta che tutti parlino in
turco. Noi eravamo arrivati in un paese sconosciuto a tutti noi, tranne che a mio padre
che vi aveva precedentemente lavorato. Eravamo tesi, impauriti. […] Eravamo migliaia
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che venivano in città in cerca di lavoro e non c’era nessuna possibilità che così tanta gente
trovasse un impiego. La concorrenza per pochi posti e per poche opportunità faceva
montare la tensione e la violenza. Tuttavia quando penso a quell’epoca, sono convinta
che lo sfociare in violenza di tutte quelle difficoltà fosse dovuto in grande misura alla
nostra ignoranza della cultura, delle regole, della lingua: il nostro essere muti. Tutto ciò
che noi conoscevamo, e che io chiamo “il sapere della vita”, rimaneva nelle condizioni
del contesto cittadino inadeguato. (Tekin in Saraçgil 1998, 448-449, trad. it. di Saraçgil)

      È interessante notare come nella memoria della scrittrice l’esclusione
culturale, psicologica e emotiva dallo spazio urbano risulti essere per molti
versi ancor più invalidante della marginalità socioeconomica e di genere. In
ragione delle molte difficoltà culturali, identitarie e non ultime linguistiche
cui gli ex contadini devono far fronte nel difficile adattamento al contesto
cittadino, Tekin arriva a parlare del fenomeno migratorio interno degli anni
Sessanta e Settanta in termini quasi assimilabili ad una migrazione esterna.
      È questo un aspetto singolare del processo di urbanizzazione turco del
periodo conseguente le dinamiche di potere che definiscono la relazione cen-
tro/periferia nell’ambito del progetto di edificazione nazionale kemalista. Il
kemalismo, quale ideologia fondante il processo di costruzione della moderna
nazione turca, basa la propria concezione del potere su una visione dicotomica
della società i cui segmenti urbano e rurale, rispettivamente espressione dei
settori moderno e tradizionale, restano rigidamente separati non solo fisica-
mente ma soprattutto culturalmente (Saraçgil 2001, 245-258). Contrapposta
all’urbanità, eletta a rappresentante esclusiva dei modelli e dei valori della
moderna cultura nazionale, la ruralità, in ragione del perdurante legame con
la tradizione, viene qui intesa come sinonimo di oscurantismo religioso e
dunque di sottosviluppo economico, morale e culturale. Definite tra gli anni
Venti e Trenta lungo tale asse dicotomico, le dinamiche di relazione centro/
periferia trovano d’altronde il proprio fondamento ideologico nel principio
del populismo (halkçılık) kemalista il quale attribuisce alle élite urbane, laiche
e istruite, la missione di guidare le masse anatoliche nella difficile transizione
al moderno. Idealmente identificata come autentica depositaria dell’originario
spirito nazionale turco, l’Anatolia rurale viene così percepita al tempo stesso
come un soggetto profondamente “altro” e subalterno, la cui arretratezza
giustifica in ultima analisi il ruolo delle élite repubblicane e nazionaliste quale
avanguardia della modernizzazione.
      Iniziato al termine del secondo conflitto mondiale per raggiungere di-
mensioni tutt’altro che trascurabili durante gli anni Sessanta e Settanta, l’esodo
verso le grandi città, in particolare Istanbul, modifica il paesaggio urbano
che si ritrova così ad esibire limiti e contraddizioni della modernizzazione
kemalista. Agli inizi degli anni Ottanta, quando Latife Tekin esordisce sulla
scena letteraria, i continui flussi migratori avevano ormai portato gli universi
umani e culturali, urbani e rurali, a convivere e a scontrarsi nel comune spazio
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metropolitano. Il divario culturale e psicologico tra questi due mondi, resosi
manifesto in termini di stili di vita, linguaggio, costumi, credenze, valori e
modelli identitari e comportamentali, si esprimeva in termini architetto-
nico-urbanistici nella formazione di vaste cinture di emarginazione poste
nell’immediata periferia suburbana e popolate da nuovi ceti popolari, in gran
parte di estrazione rurale (ivi, 290-291).
      Le categorie oppositive urbanità/ruralità, modernità/tradizione, alta
cultura/bassa cultura, su cui erano stati elaborati gli schemi e i modelli del
canone nazionale, venivano poste in discussione dall’emergere del fenomeno
dell’arabesk e dalle sue forme culturali ibride e liminali, risultanti dalla rea-
zione della periferia al carattere elitario ed esclusivo della modernizzazione
kemalista (ivi, 294-297).
      L’agenda letteraria di Latife Tekin appare pertanto sin dal principio mo-
tivata dal desiderio di restituire un ambito di espressione dedicato alla realtà
delle classi subalterne a cui appartiene e che sono per definizione escluse o
marginalizzate dalla narrazione storica e dal canone nazionale. A tal proposito
è essenziale rilevare come nella prospettiva della scrittrice il senso di disloca-
zione e alienazione generati dall’impatto con il contesto urbano assumano,
sul piano discorsivo, una dimensione prevalentemente linguistica. Lo si evince
già dal passaggio sopracitato dove Tekin definisce se stessa, la sua famiglia e
gli ex-contadini migrati in città come “muti”, privati cioè di una lingua con
cui esprimere il proprio punto di vista ed entrare in relazione con la realtà
urbana. Altrove la scrittrice darà ancor più corpo a questo senso di profonda
emarginazione dettato dall’estraneità con la lingua della città, definita come
“the language of the others, which filled the air with sounds and sentences,
words, signs and implications […] giving out signals that made me feel I was
a poor” (Tekin in Paker 2011, 152-153; Engl. trans. by Saliha Paker).
      La penna di Tekin muove dunque sin dagli esordi dalla volontà di
scrivere in quella che la scrittrice chiama la “lingua di casa mia” (evimindili;
Özer 2009, 38) per dar vita a un nuovo genere narrativo capace di restituire
il punto di vista della povertà urbana nelle forme linguistiche e negli schemi
culturali che le sono propri. È questa una lingua a cui la scrittrice conferisce
un’esplicita essenza femminile nella misura in cui essa riproduce volutamente
lo stile e il ritmo della lingua materna (Saraçgil 1995, 449). Per comprendere
la singolare visione dell’autrice, in cui il turco acquisito della città e quello
originario della ruralità, vengono a contrapporsi non come varianti interne a
uno stesso sistema linguistico ma come due idiomi differenti appartenenti a
due “nazioni” separate, è essenziale tenere a mente la singolare genesi storica
del turco moderno.
      Prodotto dell’intensa opera di ingegneria linguistica realizzata dalle élite
repubblicane tra il 1928 e il 1934, la nuova lingua nazionale nasce concepita
come strumento primario per imprimere sembianza di omogeneità allo spa-
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zio identitario della nazione. La riforma linguistica creava i presupposti per
un’assimilazione forzata quanto ideale del territorio anatolico, la cui effettiva
complessità ed eterogeneità etnica, culturale ma soprattutto linguistica veniva
nei fatti ignorata (Saraçgil, Tarantino 2012, 219-224). Imposto dall’alto me-
diante misure fortemente coercitive e percepito come alieno dalla maggioranza
della popolazione in ragione della sua natura convenzionale e costruita, il
turco viene così a caricarsi di ulteriori significati nel corso della sua evoluzione
storica. Identificato come la lingua propria delle élite urbane modernizzate
e dunque come strumento di potere ed esclusione culturale e morale delle
masse rurali, esso arriva ad incarnare simbolicamente l’autoritarismo di stato,
il controllo censorio, la limitazione delle libertà di espressione e soprattutto,
come nel caso di Tekin, l’alienazione psicologica e culturale della periferia dal
centro. Non è un caso dunque che la decisione della scrittrice di farsi porta-
voce degli oppressi e degli emarginati passi, come spesso accade nel contesto
turco, attraverso la rottura non solo con la tradizione estetica ma soprattutto
con le forme linguistiche del canone letterario nazionale (Parla 2008, 27-40).

2. La militanza socialista e la prospettiva femminile
      Tra coloro a cui il potere e la cultura egemone non consente di esprimer-
si, le donne assurgono a soggetto privilegiato nella poetica urbana di Tekin.
La scelta di focalizzare sul punto di vista marginalizzato, per genere e per
estrazione, delle migranti anatoliche matura nell’autrice come conseguenza
di un secondo fondamentale momento formativo: la militanza nelle fila
dell’İlerici Kadınlar Derneği (Unione delle Donne Progressiste), principale
organizzazione femminile della sinistra turca degli anni Settanta. Come rileva
Saraçgil nell’adesione al movimento socialista Tekin intravede la possibilità
di risolvere il dissidio interiore che la vede combattuta, di integrarsi nel tes-
suto urbano preservando al tempo stesso le proprie radici rurali e la propria
appartenenza di classe (1995, 450). L’esperienza della militanza, conclusasi
a seguito del golpe militare del 12 settembre 1980, si tradurrà tuttavia in un
bilancio deludente e fortemente critico. Le speranze e i sogni infranti della
militanza confluiranno successivamente nella scrittura del suo terzo romanzo
Gece Dersleri (1986; Lezioni notturne). Appartenenti per lo più ai ceti medi
urbani e pertanto distanti dalla realtà socioculturale delle masse, i militanti
socialisti si rivelano agli occhi della scrittrice del tutto incapaci di leggere
e interpretare le istanze e i bisogni delle classi popolari a cui si rivolgono.
Supportata da una cultura politica dogmatica, “libresca” e maschile, in cui
Tekin riconosce lo stesso carattere esclusivo della cultura d’élite, la sinistra
turca si produce in una visione fortemente idealizzata delle classi popolari,
percepite come un soggetto passivo, un’entità astratta priva di iniziativa e
spirito vitale (Saraçgil 1995, 438-440).
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     Alla difficoltà di riconoscersi in tale immagine falsata contribuiscono
anche le dinamiche di genere interne al movimento e le perplessità nutrite
dall’autrice circa le effettive modalità di partecipazione femminile all’agone
politico. Così Tekin racconta la sua esperienza di militante:

 Bir kadın örgütünde çalışıyordum         In quegli anni lavoravo in un’organizzazione
 o yıllarda. Erkek diliyle, yoksul        femminile. Cercavamo di entrare nei sogni
 kadınların düşlerine girmeye çalı-       delle donne povere con la lingua degli uomini.
 şıyorduk. Politik kadınlar olarak,       Come donne politiche non avevamo potuto
 Kendimşze bir dil kurabilmiş             costruire una lingua che ci esprimesse. […]
 değildik. […] Erkeklerin konto-          In altre parole non solo i poveri, anche le
 lünde, onların egemenliğinin, güç        donne erano mute all’interno del movimento
 ilişkisinin, hiyerarşi tutkusunun        politico. Era un movimento politico sotto
 hâkim olduğu bir polıtık hare-           controllo maschile, dominato dalla loro
 ketti. Yüceltilen bütün değerler,        egemonia, da rapporti di forza, dal culto della
 erkeklerin yücelttiği. Ancak onlar       gerarchia. Tutti i valori che venivano promossi
 gibi davranarak o politik hareketin      erano valori celebrati dagli uomini. Le donne
 içinde var olabiliyordu kadın-           potevano esistere all’interno di quel movimen-
 lar. Yavaş yavaşö 12 Eylül’den           to politico solo comportandosi come loro.
 bır süre oncesi kendi aramızda,          […] A poco a poco prima del 12 settembre
 kadın olarak bu politik hareke-          avevamo cominciato tra di noi a bisbigliare,
 tin içindeve dünyada var olmak           a discutere della nostra esistenza in quanto
 üzerine mırıldanmaya, konuşmaya          donne all’interno del movimento politico e a
 başlamıştık. […] Çok gençtik ama         questo mondo. […] Eravamo molto giovani
 aynı hareketin içindeki erkeklerle       ma in noi cominciava a formarsi la consapevo-
 eşitlenmemizi engelleyen şeyin           lezza di ciò che ci impediva di essere alla pari
 bilinci oluşmaya başlamıştı bizde.       con gli uomini che facevano parte dello stesso
 Taze kıpırtılardı bunlar, ne yazık       movimento. Erano fermenti nuovi, peccato
 ki 12 Eylül, hissettiğimiz tüm bu        che il 12 settembre non ci ha concesso di trar-
 şeylerden sonuç almamızı engel-          re una conclusione da tutto questo sentire. Ci
 ledi. Bir dil kuramadan dağıldık.        siamo disperse senza riuscire a costruire una
 (Tekin in Özer 2008, 112-113)            lingua. (Traduzione propria)

     Le memorie dell’autrice riferiscono di un coinvolgimento femminile,
che benché ammesso nella comune lotta per l’emancipazione delle classi po-
polari, resta tuttavia vincolato a una posizione subalterna e marginale, a uno
spazio d’azione fortemente limitato dall’autorità e dal controllo maschile. La
lingua e la cultura politica della sinistra concepisce l’esistenza delle donne al
suo interno esclusivamente nella veste politica di militanti la cui femminilità
veniva di fatto negata o modellata sulle tradizionali funzioni sociali di madri,
sorelle e compagne (Saraçgil 2001, 268-285). Escluse dagli ambiti decisionali
e dalla riflessione teorica del movimento esse si ritrovano per Tekin ad essere
private, come i poveri e in quanto povere, della possibilità di esprimere il loro
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punto di vista per essere definite da schemi linguistici e modelli culturali che
altri hanno prestabilito per loro.
      Sulla scorta di queste considerazioni critiche, che prendono altresì corpo
a seguito nel violento clima di repressione politica messa in atto dal regime
militare nei primi anni Ottanta, Tekin approda alla convinzione che la scrittura
possa costituire l’unica alternativa all’ambito soffocante e perseguito della mi-
litanza, per portare avanti il suo impegno politico a livello individuale (Tekin
in Savaşır 1987, 134-135). La ricerca di forme e strategie narrative capaci di
restituire il punto di vista femminile delle nuove classi popolari formatesi
a seguito della migrazione interna, costituiscono il fondamento estetico e
insieme politico di Sevgili Arsız Ölüm. L’opera, narra la storia della piccola
Dirmit costretta ad abbandonare il natio villaggio dell’entroterra anatolico
per trasferirsi in città insieme alla famiglia. La vicenda personale della ragazza,
unica tra i fratelli a ricevere un’istruzione grazie alla quale riesce ad integrarsi,
seppur con mille difficoltà, nel contesto urbano, viene ricostruita attraverso
il conflitto ideologico che la vede opporsi all’ambiente chiuso e oppressivo
della famiglia, dominato dalla tradizione e dalla superstizione. Il bisogno di
affermare la propria individualità si accompagna tuttavia in Dirmit al timore
e al senso di colpa dettati dalla consapevolezza che il prezzo da pagare per
l’emancipazione sarà l’allontanamento dal proprio mondo e la perdita ine-
sorabile delle proprie radici. Scissa tra la metropoli, che insieme la attrae e la
respinge, e il villaggio d’origine da cui è stata sradicata e che è diventato suo
malgrado un luogo altrettanto alieno, Dirmit non riesce a dare un senso alla
propria esistenza e a definire la propria identità. Nel dissidio interiore della
giovane protagonista, “una ragazza disubbidiente che non accettava consigli:
in casa diversa dai suoi familiari, fuori casa diversa dalla gente”3, si ritrova così
espressa la sofferta condizione di Tekin, la cui vocazione letteraria scaturisce
precisamente dall’urgenza di dar voce alla propria soggettività ibrida e liminale,
situata nell’interstizio tra urbanità e ruralità.

3. Una rappresentazione in “assenza”
     Pubblicato nel 1983, Sevgili Arsız Ölüm è stato recepito in maniera
controversa dagli ambienti della critica dando luogo ad un acceso dibattito.
Esponenti autorevoli nel panorama degli studi letterari turchi hanno infatti
giudicato negativamente l’opera che appariva troppo elementare nel suo im-
pianto strutturale, a tratti quasi ingenua, priva di coerenza interna e di elementi
ritenuti indispensabili per attribuirle un effettivo valore artistico. In effetti il
romanzo può dirsi caratterizzato da una generale tendenza all’astrazione che si

       3
         Trad. it. di Dussi, Marazzi in Tekin 1988, 132; “Evin içinde evden ayrı, dışarıda elden
ayrı, laf dinlemez, nasihat almaz birkız” (Tekin 2014 [1983], 136).
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evince in particolar modo se ad essere indagate nello specifico sono le modalità
di rappresentazione dello spazio-tempo. Secondo Berna Moran, probabilmente
il più importante storico della letteratura turca moderna e contemporanea, la
ribellione di Tekin al canone realista dominante il romanzo turco sin dalla sua
genesi tardo-ottocentesca si realizza proprio attraverso tale tendenza (1994,
75-91). In altri termini l’intento di elaborare una nuova narrativa capace di
restituire il punto di vista delle classi subalterne, e in particolare delle ex con-
tadine urbanizzate, conduce l’autrice a recuperare insieme alla lingua, al ritmo
e allo stile anche i cronotopi letterari propri dei generi tradizionali dell’epica
e della favolistica orale. Ne consegue una narrazione diretta e spontanea del
processo di urbanizzazione costruita non solo da una prospettiva interna ma
attingendo altresì a una tradizione culturale di cui le donne si rivelano le prin-
cipali depositarie. Ed è riportando alla luce questa memoria di genere della
migrazione che Tekin ottiene di restituire lo sguardo “periferico” sulla città di
coloro che per identità sessuale e culturale ne vivono i margini.
      Concepito per riflettere, nella forma oltre che nel contenuto, il senso di
dislocazione e smarrimento generato dall’impatto con la metropoli, Sevgili
Arsız Ölüm è suddiviso in due parti: nella prima si racconta la storia della
famiglia di Dirmit, dall’unione dei genitori fino alla partenza dal villaggio; il
trasferimento in città e il difficile adattamento del nucleo familiare al nuovo
contesto occupano invece la seconda parte. Un primo dato che emerge chiaro
dalla comparazione tra le due parti è l’impiego da parte dell’autrice di due
diverse strategie di rappresentazione spaziale. Il villaggio di Alacüvek, da cui la
famiglia di Dirmit proviene, viene descritto da Tekin con maggiore accuratezza
e dovizia di dettagli. Benché di fatto inesistente e intriso di elementi fantastici
è tuttavia un luogo dotato di una propria concretezza, riconducibile ad una
topografia e a una geografia reali. Con la sua vegetazione, gli animali, i suoni,
le tradizioni, i riti quotidiani, magici e scaramantici della sua sorprendente
umanità è in grado di riprodurre suggestivamente nell’immaginario del lettore
il paesaggio e l’atmosfera del villaggio anatolico.
      La rappresentazione dello spazio urbano invece contrasta nettamente per
il suo alto grado di astrazione e indefinitezza. È in proposito assai indicativo
il fatto che Tekin non fornisca il nome della città o del quartiere in cui la
famiglia si trasferisce. È solo in ragione della forte impronta autobiografica
dell’opera e di alcuni piccoli dettagli come la menzione dell’arrivo a bordo
di un traghetto o il riferimento alla presenza di diversi colli che è lecito
supporre si tratti di Istanbul. Lo sguardo “periferico” che sia l’autrice che la
sua protagonista rivolgono alla città si traduce così in una rappresentazione
“in assenza” del paesaggio urbano, orientata cioè non dalla descrizione ma
dall’omissione e il cui significato può essere in parte dedotto dal confronto
con la rappresentazione del paesaggio rurale.
      Il paesaggio di Alacüvek è fatto in larga misura di spazi esterni, di sce-
nari naturali popolati di spiriti e presenze sovrannaturali armonicamente
304                                 tina maraucci

integrati con i pochi spazi umani descritti in una rappresentazione quasi
olistica dell’esistenza. Tekin pone grande enfasi nel sottolineare il contatto
continuo e diretto, il rapporto quasi simbiotico che l’intera comunità del
villaggio intrattiene sia con il mondo metafisico che con quello naturale,
dotato di tratti antropomorfi e percepito quasi come estensione diretta della
sfera privata, familiare e domestica. Ed è in virtù di questa continua osmosi
tra interno ed esterno, di questo rapporto intimo con l’ambiente circostante
che Dirmit trascorre la propria infanzia spensierata, libera di girovagare tra
i campi parlando con gli animali, le piante, i fiori, immersa in un contesto
rassicurante e protettivo. Il paesaggio naturale e “fantastico” di Alacüvek sa
essere infatti benevolo, accogliente, materno, sa nutrire, accudire, persino
punire, redarguire, ascoltare e consolare la giovane protagonista. È a questo
mondo di natura e magia che Dirmit rivolge l’ultimo accorato commiato
prima di essere strappata al villaggio:

 O gün Dirmit köyun yamacında,              Quel giorno Dirmit visitò una a una
 tarlasında ne kadar ot ağaç varsa          tutte le erbe e gli alberi che crescevano
 hepsinş tek tek yokladı. Üçoluk’ta         sul pendio e nel campo del villaggio. Si
 yüzünü yıkadı. Sat Deresi’nden ken-        lavò il viso a Üçoluk. Si tuffò nell’acqua
 dini suya attı. Kurbağalarla vırakaldı,    del torrente Sat. Gracidò con le rane,
 kamışlardan başına cin külahı ördü.        intrecciò canne e ne fece un berretto co-
 Savanı’da biçilmiş merayı dolaştı.         nico. A Savmani si aggirò per il pascolo
 Göçmen kuşların boş bırakıp gittiği        falciato. Cantò, intonò canti funebri
 yuvaların başında türkü çağırdı, ağıt      presso i nidi che gli uccelli migratori
 yaktı. [...] Sessiz sessiz köyün içinde    avevano lasciato vuoti quando erano
 gezindi. Ceviz ağaçlarına tırman-          partiti. […] Gironzolò per il villaggio
 dı, damlarda dolandı. Okula indi,          tutta silenziosa. Si arrampicò sugli alberi
 ağıla çıktı. [...] Kümesin arkasından      di noci, si aggirò per i tetti. Andò alla
 dolanıp kavak ağaçlarının altında          scuola e poi all’ovile. […] Passò dietro
 oturdu. Servi ağaçlarının dalına asıldı.   il pollaio e si fermò sotto i pioppi. Si
 Sökülüp bir kenara yığılmış çedenle-       attaccò ai rami dei cipressi. Strinse tra le
 rin, hıyarların, fasulyelerin kurumuş      mani le foglie e i ramoscelli dei cetrioli,
 dallarını, yapraklarını avcunun içine      dei fagiolini raccolti e ammonticchiati
 aldı. Ufalayıp ufalayıp rüzgârın ardı      da una parte, li sminuzzò e ne sparse i
 sıra savurdu. Karınca deliklerinden,       resti al vento. Chiamò i cin dai formicai
 toprak yarıklarından içeri, cinlere        e dalle crepe della terra e gridò loro di
 bağırdı. Cinler yukarı cağırdı. Çıkıp      venire in superficie. Poi andò a sedersi
 kireç boyalı armut ağacının çatal          sul ramo dell’albero di pere sporco di
 dalına oturdu. [...] Küllüğü arkasında     calce. […] Vide dietro la concimaia un
 koca bir kamyon, kamyonun üstünde          grosso camion e sopra il camion suo
 babasını gördü. Görür görmez “Güp!”        padre. Appena lo vide saltò giù con un
 diye yere atladı. […]                      tonfo. […]
sevgili arsız Ölüm   ovvero l’istanbul “periferica” di latife tekin               305

 Atlarken ayağı kaydı, su yolunun          Saltando scivolò e ruzzolò nel corso d’acqua.
 içine yuvarladı. Birden kulağına          All’improvviso le risuonò all’orecchio una voce
 ince, titrek bir ses çalındı. Sesin       sottile e tremolante. Girò il capo nella direzione
 geldiği yere başını çevirdi. Su           da cui proveniva la voce. Lungo il corso d’acqua
 yolun kenarında adını bılmediği,          vide che la stava guardando un fiore rosso dal
 daha önce bu köyün bahçelerinde           gambo sottile di cui non sapeva il nome e che
 hiç görmediği incecik boynunu             non aveva mai visto prima nei giardini del villag-
 okşadı. Çiçek nazlı nazlı başını          gio. Si curvò e sfiorò il fiore con le dita. Accarezzò
 salladı. Gözlerini yumdu. Ağır ağır       le sue foglie e il suo sottilissimo gambo. Il fiore
 soludu. Dirmıt çiçeğin yanından           mosse il capo con molta grazia. Socchiuse gli oc-
 kalktı. Koşmaya başladı. Çiçek            chi. Respirò lentamente. Dirmit si alzò. Comin-
 arkası sıra ince, titrek bir sesle        ciò a correre. Il fiore con voce sottile e tremolante
 bağırdı:                                  le gridò dietro:
       “Güle, güle Dirmit kız...”.                “Arrivederci, fanciulla Dirmit”. (Trad. it. di
 (Tekin [2014 [1983]], 69-73)              Dussi, Marazzi in Tekin 1988, 66-69)

      Giunti in città Dirmit e la sua famiglia si ritrovano a fare i conti con una
realtà estranea, con un mondo sconosciuto con il quale non è possibile stabi-
lire nessuna forma di comunicazione. Per usare una metafora suggestiva che
tuttavia ben si presta a rendere il disagio e lo smarrimento generato da questa
totale assenza di relazione con l’esterno, la città si presenta ai loro occhi come
un testo scritto in una lingua che essi non conoscono. Più che come uno spazio
fisico, Tekin restituisce lo spazio urbano come un labirinto semiotico, una
sorta di Babele contemporanea in cui i migranti faticano ad orientarsi perché
incapaci di leggerne e interpretarne i segni, i simboli, i codici significanti.
      Dirmit è la sola a cercare per quanto può di entrare in contatto con questa
nuova realtà riproducendo le stesse modalità di interazione che nel villaggio le
permettevano di relazionarsi con l’ambiente esterno ma che in città non producono
alcun risultato. La ragazza si rivolge così ai pochi angoli di verde che ha a disposizio-
ne nel tentativo di “naturalizzare” lo spazio urbano, di renderlo familiare entrando
in una relazione emotiva con ciò che resta del paesaggio naturale della città:

 Sabah uyanır uyanmaz yataktan fırlama-          La mattina, appena sveglia cominciò a
 ya, koşa koşa sokağın bitimindeki ağaçlik       schizzare fuori dal letto e ad andare di corsa
 parka gitmeye başladı. […] Çocuklar             al parco alberato situato alla fine della strada.
 demirlerden demirlere atlarken, Dirmit          […] Mentre gli altri bambini saltavano
 yere eğilip tanıdığı, bildiği otları aramaya    da una sbarra all’altra, Dirmit si chinava a
 koyuldu. […] At kestanesi altına sere           cercare le erbe che conosceva. […] Divenne
 serpe uzanmış, ince yapraklarınn kol            inseparabile dal trifoglio che si era sistemato
 kol çevresine yayamış, kuşkuş otunun            sotto l’ippocastano e, ramificando, aveva
 yanından ayrılmaz oldu. Sabahları gidip         sparso tutt’intorno le sue sottili foglie. La
 kuşkuş otunun başına oturdu.                    mattina andava a sedersi accanto al trifoglio.
306                                tina maraucci

 Geceleri, burnunu süt ve çakıldak    Di notte, appoggiato il naso al lenzuolo che
 kokan yorganına dayayıp derin        sapeva di latte e caccola di pecora, ansima-
 derin solundu. Bir umutla evle-      va profondamente. Speranzosa, cercò di
 rin, sokağın, caddelerin arasına     rintracciare con la mente frammenti del suo
 sıkışıp kalmış, köyünden tanıdığı    villaggio rimasti intrappolati fra le case, le
 bölük pörcük parçalar aradı.         strade, i viali. Ma mentre era assorta in que-
 Aranırken elindekilerden de oldu.    sta ricerca venne privata di ciò che aveva in
 Kuşkuş otu kurudu. Yorganında-       mano. Il trifoglio appassì. L’odore di latte e
 ki süy ve çakıldak kokusu uçup       caccola di pecore che c’era sul suo lenzuolo
 gittı. (Ivi, 77)                     svanì. (Trad. it. ivi, 73)

      In città lo spazio esterno è ostile, minaccioso, in gran parte accessibile
solo agli uomini i quali, sprovvisti degli strumenti e del sapere necessari per
potervisi imporre, si sentono minati nel profondo della loro mascolinità.
Perlopiù disoccupati, impossibilitati a provvedere al sostentamento familia-
re, si ritrovano frustrati, privati delle certezze identitarie più profonde dalla
perdita della loro tradizionale funzione sociale di patriarchi. Il bisogno di
riaffermare il loro potere e la loro autorità si esprime così in maniera violenta
e aggressiva, inasprendo il controllo sulle mogli e sulle figlie (Saraçgil 2001,
297-300). Non a caso nel romanzo la graduale assimilazione di Dirmit alle
forme, alle pratiche e agli stili di vita della cultura urbana viene vista dalla
madre Atiye prevalentemente come una minaccia all’integrità morale della
ragazza, all’onore e alla rispettabilità della famiglia.
      Il paesaggio urbano di Sevgili Arsız Ölüm si compone pertanto quasi solo
di interni. L’appartamento in cui la famiglia vive costituisce infatti l’ambien-
tazione quasi esclusiva del romanzo. Tekin descrive però la casa non come
un luogo di affetti, di calore familiare, di intimità e protezione ma come uno
spazio angusto, promiscuo, violento e opprimente. Raramente i personaggi
maschili del romanzo varcano i confini del quartiere addentrandosi nello
spazio urbano solo per esigenze di lavoro. Il caffè gestito da uno dei migranti
stessi, punto di ritrovo per disoccupati e piccoli criminali, emerge così nella
poetica urbana di Tekin come uno dei luoghi simbolo dell’emarginazione
maschile, socioeconomica e culturale, dei ceti popolari. Ancor più alienate
sono le figure femminili, le quali non si spingono quasi mai al di fuori delle
mura domestiche tranne che per brevi sortite. In molte contribuiscono all’e-
conomia familiare mediante il lavoro, ma svolgono perlopiù in casa le loro
attività di sarte e ricamatrici. La loro è un’esistenza condotta nell’invisibilità
e nel silenzio, confinate ai margini fisici oltre che culturali della città.
      Benché emarginate e subalterne, è tuttavia proprio alle donne che Tekin
attribuisce la funzione fondamentale di garantire la sopravvivenza del grup-
po. Il sapere arcaico, la memoria orale e rurale di cui sono portatrici le rende
infatti capaci, seppur mediante il ricorso alla superstizione e alla magia, di
sevgili arsız Ölüm   ovvero l’istanbul “periferica” di latife tekin            307

esercitare un grande potere sia verso l’interno, lo spazio emotivo e domestico,
preservando l’unità familiare dal pericolo della disgregazione, sia verso l’esterno
fornendo ai singoli membri gli strumenti per elaborare le strategie individuali
di resistenza e adattamento al contesto urbano (ivi, 300-302). Nel romanzo
è infatti la madre Atiye, vero fulcro narrativo dell’opera, a tenere insieme la
famiglia, a dirimerne i conflitti interni per salvaguardarne l’unione. È sempre
lei che di fronte alla difficoltà del marito di trovare lavoro:

 […] uğursuzluk saydığından                […] proibì ai figli di sedersi con le mani fra
 çocuklarının ellerinş bacaklarının        le gambe, poiché riteneva che portasse male.
 arasında alıp oturmalarını                Ogni volta che Huvat usciva per andare al
 yasakladı. Her Huvat’ın kahveye           caffè, lei gli pregava e soffiava dietro. [...]
 çıkışında, arkasında okuyup               Quando Huvat si sedeva mettendo il viso
 üfledi. […] Huvat elini yüzüne            tra le mani, impediva alle figlie e alla nuora
 alıp oturdukça, evin kısmeti-             di farsi le trecce, perché potevano portar
 ni bağlıyorlar diye, kızlarının,          male alla casa. Arrivò ad affermare che il
 gelinın saçlarını ördürmedi. İşi,         bere l’acqua seduti, lo stare troppo al gabi-
 oturacak su içmenin, helada fazla         netto, il coricarsi e lo svegliarsi tardi fossero
 durmanın, geç yatıp geç kalkma-           un ostacolo alla loro buona sorte. Sulla por-
 nın kısmeterini kapadığını söyle-         ta appese un enorme cartello con su scritta
 cek kadar ileri götürdü. Kapının          la preghiera dell’abbondanza. Dichiarò che
 üstüne koca bir levha, bereket            non avrebbe considerato suo figlio colui che
 duası astı. Besmelesiz eşikten atla-      avesse attraversato la soglia senza recitare il
 yana evlat demeyeceğini açıkladı.         bismillah.
 (Tekin 2014 [1983], 81)                   (Trad. it. di Dussi, Marazzi in Tekin 1988, 77)

      Nell’universo femminile di Sevgili Arsız Ölüm, Dirmit, l’unica tra le
donne della famiglia ad uscire quotidianamente di casa per recarsi a scuola,
costituisce il tramite e il canale di comunicazione tra questi due mondi altri-
menti separati: quello esterno, urbano e maschile, e quello interno, rurale e
femminile. La poesia e la strada, metafora quest’ultima della presa di coscienza
politica della ragazza, emergeranno infine come le chiavi principali che le
permetteranno di uscire dal dilemma identitario che la affligge per attribuire
un senso al proprio sé, alla propria storia e alla città in cui vive. È a questo
punto ormai conclusivo del romanzo che la visione urbana della scrittrice,
manifestandosi nella sua natura esplicitamente ermeneutica, viene altresì a
rappresentare quella irriducibile dicotomia tra “noi” e “loro” che per Tekin
è il “segreto”, il significato del testo “periferico” di Istanbul. Dirmit racconta
alla madre Atiye come dalla consapevolezza delle proprie radici e della propria
appartenenza di classe anche il paesaggio urbano cominci ad acquisire una
forma e un significato ai suo occhi. È questo un passaggio cruciale del romanzo
che varrà la pena di citare ampiamente:
308                                     tina maraucci

“Bizim damdan öyle çok ev görünü-             “Dal nostro tetto si vedono talmente tante case,
yor ki, kız, hele gecelri ışıl ışıl yanıyor   soprattutto di notte, ogni parte è completamen-
her taraf,” [...] Dirmit gözleri yerde,       te illuminata.” […] Dirmit con gli occhi bassi
damdan görünen çoğu evlerin geceleri          disse che le tende della maggior parte delle case
perdelerinin açık olduğunu, kendi ken-        che si vedevano dal tetto erano aperte, che lei
dine niye o evletrin perdelerinin çekil-      si domandava come mai in quelle case non si
mediğini sorduğunu, önceleri bir türlü        chiudessero le tende; che all’inizio non riusciva
anlayamadığını, sonra sonra yıldızlaraö       assolutamente a capire, ma che in seguito, a
ayaö denıze sora sora cevabını buldu-         forza di interrogare le stelle, la luna e il mare,
ğunu söyledi. “Duvarlarında çiçekli           aveva trovato una risposta. “Le loro pareti sono
kâğıtlar var, tavanlarından da rengârenk      ricoperte di carte fiorite, dalla maggior parte
ışıklar saçan lambalar sarkıyor çoğunun,      dei loro soffitti pendono lampade variopinte.”
kız,”[...] Dirmit, Atiye’ye neredeyse         […] Dirmit, ignara del fatto che stava per far
inme indireceğinden habersiz, onların         venire un colpo ad Atiye, disse che loro apri-
gece olunca perdelerini ardına kadar          vano completamente le tende al calar del sole,
açtıklarını, ama kendilerinin hava kar-       invece a casa sua si chiudevano le tende prima
madan perdelerini çektiklerini söyledi,       dell’imbrunire. “E perché?”, chiese. […] Dirmit
“Niye kız? ” dedi. [...] Dirmit “Bizim        continuò: “Perché mamma sulle nostre pareti
duvarlarımızda parmak işaretleri var          ci sono dei segni fatti con le dita”. Disse che
da ondan, kız anne”, dedi. Seyit’in eve       la ragione per cui Seyit appena giunto a casa
gelir gelmez “Çekin şu perdeleri!” diye       gridava “Chiudete quelle tende!” Era che lui se
bağırmasının utançtan ileri geldiğini         ne vergognava. […] Disse che nella loro strada
söyledi.[…] Sokaklarında kendi evlerıy-       in undici case, compresa la loro, si chiudevano
le birlikte on bir evin perdesinin hava       le tende prima dell’imbrunire. […] Disse: “Per
kararmadan çekildiğini söyledi. [...]         ora vedo l’interno delle case che stanno sulla
“Şimdilik bizim sokaktaki evlerin içini       nostra strada ma ben presto vedrò l’interno di
görüyorum, ama yakında, tüm evlerin           tutte le case”. […] “Una mattina, mentre stavate
içini göreceğim ha,” dedi. [...] Dirmit,      dormendo, sono salita sul tetto” spiegò Dirmit.
“Bir sabah siz uyurken dama çıkmış-           […] Poi continuò raccontando che si era seduta
tım, kız,” dedi. Sırtını bacaya verip         appoggiando la schiena al comignolo. Guardan-
oturduğunu, gözüne hiç bir pencerede,         do intorno non le era saltata agli occhi neanche
balkonda ınsan çarpmadığını, o zaman          una persona a un balcone o a una finestra e
her şeyin bir tuhaf geldiğini söyledi.        allora tutto le era parso molto strano. […] Disse
[…] Kat kat evlerin, sıra sıra damların,      che le case a più piani, i tetti allineati, gli alberi,
ağaçların, uzakta durup duran denizin         il mare in lontananza apparvero ai suoi occhi
gözüne daha önce hiç görünmemiş gibi          come non le erano mai apparsi prima di allora.
göründüğünü söyledi. “O sabahtan              “Da quella mattina in poi esitai a salire sul tetto
sonra bir zaman, dama çıkıp evlere,           a contemplare le case, le strade, il mare. Poi
yollara, denize bir çekindim,” dedi.          spiegò che non aveva fatto altro che pensare ma
Durmadan düşündüğünü ama niye                 non era riuscita a scoprire perché avesse tanta
korktuğunu bir türlü çıkaramadığını,          paura, e che alla fine aveva deciso che le case, il
sonunda evlerin, denizin, yolların            mare e strade celavano agli uomini un segreto
insanlardan önemli bir sır sakladıkları-      importante. Disse: “La città, vedendomi sul
na karar verdiğini söyledi. “Şehir benş       tetto mentre tutti dormivano ha pensato che
herkes uyurken damda görünce, bu sırrı        io avrei scoperto quel segreto e l’avrei rivelato
çözeceğimi sanıp bile bile korkuttu,”         a tutti e per questo mi ha messo tanta paura
dedi. […] Sonra “Ben de ona inat onun         addosso.” […] Poi esclamò: “E io per dispetto
sırrını çözüp açığa vurmazsam,” dedi.         vedrai se non scopro e rivelo a tutti il suo segre-
(Ivi, 234-235)                                to!”. (Trad. it. ivi, 231-232)
sevgili arsız Ölüm   ovvero l’istanbul “periferica” di latife tekin             309

      Pensato in chiave esplicitamente autobiografica, Sevgili Arsız Ölüm è co-
struito sulla netta identificazione tra la vicenda personale dell’autrice e quella
della sua giovane protagonista. Tanto il trascorso quanto il percorso evolutivo
di Tekin e Dirmit vengono così a sovrapporsi nel racconto di un tormentato
processo di emancipazione e individualizzazione segnato dall’esperienza
migratoria e dal formarsi di una spiccata coscienza politica, di genere e di
classe. In virtù di tale stringente coincidenza, le modalità con cui entrambe
le figure, quella reale della scrittrice e quella fittizia del personaggio, riusci-
ranno a stabilire una relazione estetica con il paesaggio urbano, seguiranno
un itinerario simile per approdare ad analoghi esiti. Al termine del romanzo,
dotata finalmente di una lingua con cui definire la propria identità e punto
di vista sulla città, Dirmit potrà non solo costruirsi un ambito d’espressione
individuale nella Babele metropolitana ma al tempo stesso dar voce all’uni-
verso popolare e subalterno, femminile e dislocato, a cui appartiene. Così,
con Sevgili Arsız Ölüm, Latife Tekin potrà affermare la propria soggettività
e prospettiva liminale traducendo nello spazio letterario del centro il testo
collettivo, marginale e “periferico “di Istanbul.

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— (1989), Buzdan Kılıçlar (Le spade di ghiaccio), İstanbul, Adam.
— (1995), Aşkİşaretleri (Segnali d’amore), İstanbul, Metis Yayınları.
— (2001) Ormanda Ölüm Yokmuş (Nella foresta non c’è la morte), İstanbul, Alfa
     Yayıncılık.
— (2004) Unutma Bahçesi (Il giardino dell’oblio), İstanbul, İletişim Yayınları.
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