Sevgili Arsız Ölüm ovvero l'Istanbul "periferica" di Latife Tekin
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
LEA - Lingue e letterature d’Oriente e d’Occidente, n. 6 (2017), pp. 295-310 DOI: http://dx.doi.org/10.13128/LEA-1824-484x-22346 Sevgili Arsız Ölüm ovvero l’Istanbul “periferica” di Latife Tekin Tina Maraucci Università degli Studi di Firenze () Abstract The article examines Sevgili Arsız Ölüm (1983; Dear Shameless Death, 2001), the first novel by Latife Tekin. Considered one of the most original Turkish woman novelists, Tekin distinguished her writing in the 1980s by a specific representation of Istanbul and its cityscapes. I will illustrate how this novel was both aesthetically and politically con- ceived to reproduce the alienation of Anatolian rural migrants from an urban space and culture and their “peripheral” perspective on the city. I will focus on Tekin’s strategies of representing the city from women migrants’ points of view as a locus of feminine subordination, exclusion and alienation, both economically and morally, from urban space. Keywords: Istanbul, Latife Tekin, periphery, Turkish migration literature, urban landscape Nella generale penuria di studi dedicati ai processi di appropriazione estetica dello spazio nella letteratura turca moderna e contemporanea, si fa tuttora avvertire la pressoché totale assenza di approcci critici dedicati alla rappresentazione di Istanbul nella narrativa di LatifeTekin, scrittrice di estra- zione popolare e rurale tra le più rilevanti del filone narrativo sulla migrazione interna1. È un fatto certamente singolare se si considera l’implicita rilevanza che la riflessione sulla città assume nella prima produzione letteraria dell’au- 1 Latife Tekin nasce nel 1957 a Karacefenk, villaggio nella provincia centro anatolica di Kayseri, per trasferirsi a Istanbul nel 1966 dove completa la sua formazione. Diplomatasi nel 1974, sceglie di non proseguire gli studi e abbraccia la militanza politica nel clandestino Türkiye Komünist Partisi (Partito Comunista Turco). Nel 1997 si trasferisce nella cittadina di Gümüşlük, in provincia di Bodrum, dove ha dato vita alla Gümüşlük Akademisi (Accademia di Gümüşlük), un centro che si occupa di arte, letteratura, cultura, ecologia e ricerca scientifica. Tra le sue opere più recenti Aşkİşaretleri (1995; “Segnali d’amore”), Ormanda Ölüm Yokmuş (2001; “Nella foresta non c’è la morte”) e Unutma Bahçesi (2004; “Il giardino dell’oblio”); cfr. Sönmez 2012, 301-310. ISSN 1824-484X (online) http://www.fupress.com/bsfm-lea 2017 Firenze University Press
296 tina maraucci trice e che la critica curiosamente non avverte ancora l’esigenza di indagare in maniera specifica. A costituire oggetto privilegiato di analisi continuano ad essere infatti aspetti della sua poetica ritenuti più centrali, come lo sperimen- talismo delle forme, spesso frettolosamente assimilate a quelle del “realismo magico”, la natura esplicitamente politica dei suoi contenuti, centrati sui temi della povertà e della marginalità urbana, o la dirompente originalità delle sue scelte stilistiche (Parla 2008; Seyhan 2008, 165-177; Kekeç 2011; Balık 2013; Gürbilek 2014, 37-47). In effetti la città sembrerebbe configurarsi nella prosa di Tekin come un soggetto apparentemente secondario e tuttavia intimamente correlato all’intento di ricostruire la memoria, storica e personale, del processo di urbanizzazione turco tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento. Nella sua celebre trilogia Sevgili Arsız Ölüm (1983; Cara spudorata morte, 1988), Berci Kristin Çöp Masalları (1984; Fiabe dalla collina dei rifiuti, 1995) e Buzdan Kılıçlar (1989; Le spade di ghiaccio), l’autrice ripercorre infatti la parabola evolutiva della migrazione interna registrandone le profonde riper- cussioni tanto sul tessuto sociale quanto sul paesaggio urbano di Istanbul in una narrazione che evolve in maniera progressiva dall’individuale al corale. L’aspetto forse più significativo dell’elaborazione poetica di questa scrit- trice consiste nell’assoluta centralità accordata alla dimensione soggettiva. Tekin fa del proprio vissuto individuale di donna, di migrante e di scrittrice, il punto di partenza per elaborare una più ampia narrazione collettiva in cui il fenomeno migratorio interno costituisce la cifra allegorica per una rilettura critica dal progetto di edificazione nazionale kemalista (Belge 1998, 240-241; Irzık 2007)2. Muovendo da una prospettiva interna al mondo degli ex con- tadini anatolici di recente urbanizzazione, lo sguardo dell’autrice guadagna così una nuova, dirompente prospettiva sulla città restituita nelle forme e negli schemi linguistici e culturali della periferia, ossia di coloro che tanto geograficamente quanto culturalmente provengono dai margini della nazione. L’Istanbul “periferica” di Latife Tekin si rivela allora essere un oggetto di studio particolarmente indicato per investigare le dinamiche ideologiche e di potere sottese alle rappresentazioni letterarie dello spazio nazionale. Sulla base di questi presupposti è lecito interrogarsi sulle modalità con cui l’autrice restituisce il paesaggio urbano nei suoi tre romanzi sulla migrazione. Ad una disamina d’insieme, la trilogia sembra emergere come il sito di ela- borazione di una strategia rappresentativa della città piuttosto complessa che evolve in parallelo con il personale percorso formativo, umano e intellettuale, della scrittrice. La poetica urbana di Tekin può in altre parole essere conside- rata il risultato di un processo creativo distinto in tre momenti consecutivi, ciascuno dei quali ha il proprio corrispettivo nei tre testi, e la cui progressione 2 Qui inteso come il governo dei quadri nazionalisti legati a Mustafa Kemal che guidò la modernizzazione del paese tra gli anni Venti e Trenta del Novecento.
sevgili arsız Ölüm ovvero l’istanbul “periferica” di latife tekin 297 si presta ad essere complessivamente descritta in termini parabolici. Se l’espe- rienza soggettiva costituisce il punto di origine di tale processo, il passaggio dall’autobiografico al narrativo e dunque da una prospettiva egocentrata ad una collettiva ne rappresentano l’apice. Segue poi una fase “discendente” in cui Tekin rivede i presupposti politici fondanti la sua scrittura, con importanti ripercussioni anche sul piano estetico. Esporre nel dettaglio l’andamento parabolico di tale linea poetica richiede- rebbe una sede di discussione più estesa, ragion per cui nel presente contributo mi limiterò a prendere in esame la rappresentazione del paesaggio di Istanbul in Sevgili Arsız Ölüm. Diversi motivi giustificano la scelta di concentrarmi su quest’opera, in primis il fatto che essa viene a coincidere con la fase “proget- tuale” della poetica urbana di Tekin, quella cioè in cui vengono definiti e messi in atto i tratti essenziali della strategia rappresentativa sviluppata in seguito in chiave corale in Berci Kristin e Buzdan Kılıçlar. Nel romanzo la scrittrice racconta infatti, in una veste esplicitamente autobiografica, della difficoltà di entrare in una relazione estetica con la città, di trovare in essa e attraverso essa uno spazio e una lingua mediante cui esprimere il proprio punto di vista mar- ginale, di donna e di migrante. A rendere il testo particolarmente meritevole di attenzione è inoltre l’inedita prospettiva di genere con cui Tekin ricostruisce l’epopea della migrazione interna turca restituendo così il paesaggio urbano doppiamente “periferico”, marginalizzato sia fisicamente che culturalmente, delle ex contadine anatoliche migrate come lei in città. Partendo da queste premesse proverò ad isolare alcuni tratti distintivi della singolare poetica di Istanbul di Tekin nel tentativo di dimostrare come nell’opera la scrittrice fac- cia dello spazio urbano un locus dell’esclusione e della subalternità femminile ma al tempo stesso uno strumento di ribellione estetica e insieme politica ai canoni letterari e ai modelli identitari della cultura dominante. 1. La scrittrice figlia della migrazione La personalità umana e intellettuale di Latife Tekin può dirsi il risultato di un percorso formativo segnato da due eventi principali: il primo, e forse il fondamentale, è rappresentato dalla migrazione a Istanbul dove l’autrice si trasferisce all’età di nove anni al seguito della famiglia. In un’intervista rila- sciata ad Ayşe Saraçgil nei primi anni Novanta la scrittrice riporta un ricordo estremamente traumatico dell’esperienza, paragonata a una sorta di espatrio: Negli anni in cui i miei genitori si sono spostati a Istanbul, questo trasferimento era per molti versi simile all’andare a stabilirsi in un paese straniero. Io credo che quando siamo arrivati a Istanbul abbiamo provato lo stesso senso di lontananza di estraneità che più tardi avrebbero provato gli operai turchi emigrati in Germania. Vi era una grande differenza di lingua. Per avere la comunanza linguistica non basta che tutti parlino in turco. Noi eravamo arrivati in un paese sconosciuto a tutti noi, tranne che a mio padre che vi aveva precedentemente lavorato. Eravamo tesi, impauriti. […] Eravamo migliaia
298 tina maraucci che venivano in città in cerca di lavoro e non c’era nessuna possibilità che così tanta gente trovasse un impiego. La concorrenza per pochi posti e per poche opportunità faceva montare la tensione e la violenza. Tuttavia quando penso a quell’epoca, sono convinta che lo sfociare in violenza di tutte quelle difficoltà fosse dovuto in grande misura alla nostra ignoranza della cultura, delle regole, della lingua: il nostro essere muti. Tutto ciò che noi conoscevamo, e che io chiamo “il sapere della vita”, rimaneva nelle condizioni del contesto cittadino inadeguato. (Tekin in Saraçgil 1998, 448-449, trad. it. di Saraçgil) È interessante notare come nella memoria della scrittrice l’esclusione culturale, psicologica e emotiva dallo spazio urbano risulti essere per molti versi ancor più invalidante della marginalità socioeconomica e di genere. In ragione delle molte difficoltà culturali, identitarie e non ultime linguistiche cui gli ex contadini devono far fronte nel difficile adattamento al contesto cittadino, Tekin arriva a parlare del fenomeno migratorio interno degli anni Sessanta e Settanta in termini quasi assimilabili ad una migrazione esterna. È questo un aspetto singolare del processo di urbanizzazione turco del periodo conseguente le dinamiche di potere che definiscono la relazione cen- tro/periferia nell’ambito del progetto di edificazione nazionale kemalista. Il kemalismo, quale ideologia fondante il processo di costruzione della moderna nazione turca, basa la propria concezione del potere su una visione dicotomica della società i cui segmenti urbano e rurale, rispettivamente espressione dei settori moderno e tradizionale, restano rigidamente separati non solo fisica- mente ma soprattutto culturalmente (Saraçgil 2001, 245-258). Contrapposta all’urbanità, eletta a rappresentante esclusiva dei modelli e dei valori della moderna cultura nazionale, la ruralità, in ragione del perdurante legame con la tradizione, viene qui intesa come sinonimo di oscurantismo religioso e dunque di sottosviluppo economico, morale e culturale. Definite tra gli anni Venti e Trenta lungo tale asse dicotomico, le dinamiche di relazione centro/ periferia trovano d’altronde il proprio fondamento ideologico nel principio del populismo (halkçılık) kemalista il quale attribuisce alle élite urbane, laiche e istruite, la missione di guidare le masse anatoliche nella difficile transizione al moderno. Idealmente identificata come autentica depositaria dell’originario spirito nazionale turco, l’Anatolia rurale viene così percepita al tempo stesso come un soggetto profondamente “altro” e subalterno, la cui arretratezza giustifica in ultima analisi il ruolo delle élite repubblicane e nazionaliste quale avanguardia della modernizzazione. Iniziato al termine del secondo conflitto mondiale per raggiungere di- mensioni tutt’altro che trascurabili durante gli anni Sessanta e Settanta, l’esodo verso le grandi città, in particolare Istanbul, modifica il paesaggio urbano che si ritrova così ad esibire limiti e contraddizioni della modernizzazione kemalista. Agli inizi degli anni Ottanta, quando Latife Tekin esordisce sulla scena letteraria, i continui flussi migratori avevano ormai portato gli universi umani e culturali, urbani e rurali, a convivere e a scontrarsi nel comune spazio
sevgili arsız Ölüm ovvero l’istanbul “periferica” di latife tekin 299 metropolitano. Il divario culturale e psicologico tra questi due mondi, resosi manifesto in termini di stili di vita, linguaggio, costumi, credenze, valori e modelli identitari e comportamentali, si esprimeva in termini architetto- nico-urbanistici nella formazione di vaste cinture di emarginazione poste nell’immediata periferia suburbana e popolate da nuovi ceti popolari, in gran parte di estrazione rurale (ivi, 290-291). Le categorie oppositive urbanità/ruralità, modernità/tradizione, alta cultura/bassa cultura, su cui erano stati elaborati gli schemi e i modelli del canone nazionale, venivano poste in discussione dall’emergere del fenomeno dell’arabesk e dalle sue forme culturali ibride e liminali, risultanti dalla rea- zione della periferia al carattere elitario ed esclusivo della modernizzazione kemalista (ivi, 294-297). L’agenda letteraria di Latife Tekin appare pertanto sin dal principio mo- tivata dal desiderio di restituire un ambito di espressione dedicato alla realtà delle classi subalterne a cui appartiene e che sono per definizione escluse o marginalizzate dalla narrazione storica e dal canone nazionale. A tal proposito è essenziale rilevare come nella prospettiva della scrittrice il senso di disloca- zione e alienazione generati dall’impatto con il contesto urbano assumano, sul piano discorsivo, una dimensione prevalentemente linguistica. Lo si evince già dal passaggio sopracitato dove Tekin definisce se stessa, la sua famiglia e gli ex-contadini migrati in città come “muti”, privati cioè di una lingua con cui esprimere il proprio punto di vista ed entrare in relazione con la realtà urbana. Altrove la scrittrice darà ancor più corpo a questo senso di profonda emarginazione dettato dall’estraneità con la lingua della città, definita come “the language of the others, which filled the air with sounds and sentences, words, signs and implications […] giving out signals that made me feel I was a poor” (Tekin in Paker 2011, 152-153; Engl. trans. by Saliha Paker). La penna di Tekin muove dunque sin dagli esordi dalla volontà di scrivere in quella che la scrittrice chiama la “lingua di casa mia” (evimindili; Özer 2009, 38) per dar vita a un nuovo genere narrativo capace di restituire il punto di vista della povertà urbana nelle forme linguistiche e negli schemi culturali che le sono propri. È questa una lingua a cui la scrittrice conferisce un’esplicita essenza femminile nella misura in cui essa riproduce volutamente lo stile e il ritmo della lingua materna (Saraçgil 1995, 449). Per comprendere la singolare visione dell’autrice, in cui il turco acquisito della città e quello originario della ruralità, vengono a contrapporsi non come varianti interne a uno stesso sistema linguistico ma come due idiomi differenti appartenenti a due “nazioni” separate, è essenziale tenere a mente la singolare genesi storica del turco moderno. Prodotto dell’intensa opera di ingegneria linguistica realizzata dalle élite repubblicane tra il 1928 e il 1934, la nuova lingua nazionale nasce concepita come strumento primario per imprimere sembianza di omogeneità allo spa-
300 tina maraucci zio identitario della nazione. La riforma linguistica creava i presupposti per un’assimilazione forzata quanto ideale del territorio anatolico, la cui effettiva complessità ed eterogeneità etnica, culturale ma soprattutto linguistica veniva nei fatti ignorata (Saraçgil, Tarantino 2012, 219-224). Imposto dall’alto me- diante misure fortemente coercitive e percepito come alieno dalla maggioranza della popolazione in ragione della sua natura convenzionale e costruita, il turco viene così a caricarsi di ulteriori significati nel corso della sua evoluzione storica. Identificato come la lingua propria delle élite urbane modernizzate e dunque come strumento di potere ed esclusione culturale e morale delle masse rurali, esso arriva ad incarnare simbolicamente l’autoritarismo di stato, il controllo censorio, la limitazione delle libertà di espressione e soprattutto, come nel caso di Tekin, l’alienazione psicologica e culturale della periferia dal centro. Non è un caso dunque che la decisione della scrittrice di farsi porta- voce degli oppressi e degli emarginati passi, come spesso accade nel contesto turco, attraverso la rottura non solo con la tradizione estetica ma soprattutto con le forme linguistiche del canone letterario nazionale (Parla 2008, 27-40). 2. La militanza socialista e la prospettiva femminile Tra coloro a cui il potere e la cultura egemone non consente di esprimer- si, le donne assurgono a soggetto privilegiato nella poetica urbana di Tekin. La scelta di focalizzare sul punto di vista marginalizzato, per genere e per estrazione, delle migranti anatoliche matura nell’autrice come conseguenza di un secondo fondamentale momento formativo: la militanza nelle fila dell’İlerici Kadınlar Derneği (Unione delle Donne Progressiste), principale organizzazione femminile della sinistra turca degli anni Settanta. Come rileva Saraçgil nell’adesione al movimento socialista Tekin intravede la possibilità di risolvere il dissidio interiore che la vede combattuta, di integrarsi nel tes- suto urbano preservando al tempo stesso le proprie radici rurali e la propria appartenenza di classe (1995, 450). L’esperienza della militanza, conclusasi a seguito del golpe militare del 12 settembre 1980, si tradurrà tuttavia in un bilancio deludente e fortemente critico. Le speranze e i sogni infranti della militanza confluiranno successivamente nella scrittura del suo terzo romanzo Gece Dersleri (1986; Lezioni notturne). Appartenenti per lo più ai ceti medi urbani e pertanto distanti dalla realtà socioculturale delle masse, i militanti socialisti si rivelano agli occhi della scrittrice del tutto incapaci di leggere e interpretare le istanze e i bisogni delle classi popolari a cui si rivolgono. Supportata da una cultura politica dogmatica, “libresca” e maschile, in cui Tekin riconosce lo stesso carattere esclusivo della cultura d’élite, la sinistra turca si produce in una visione fortemente idealizzata delle classi popolari, percepite come un soggetto passivo, un’entità astratta priva di iniziativa e spirito vitale (Saraçgil 1995, 438-440).
sevgili arsız Ölüm ovvero l’istanbul “periferica” di latife tekin 301 Alla difficoltà di riconoscersi in tale immagine falsata contribuiscono anche le dinamiche di genere interne al movimento e le perplessità nutrite dall’autrice circa le effettive modalità di partecipazione femminile all’agone politico. Così Tekin racconta la sua esperienza di militante: Bir kadın örgütünde çalışıyordum In quegli anni lavoravo in un’organizzazione o yıllarda. Erkek diliyle, yoksul femminile. Cercavamo di entrare nei sogni kadınların düşlerine girmeye çalı- delle donne povere con la lingua degli uomini. şıyorduk. Politik kadınlar olarak, Come donne politiche non avevamo potuto Kendimşze bir dil kurabilmiş costruire una lingua che ci esprimesse. […] değildik. […] Erkeklerin konto- In altre parole non solo i poveri, anche le lünde, onların egemenliğinin, güç donne erano mute all’interno del movimento ilişkisinin, hiyerarşi tutkusunun politico. Era un movimento politico sotto hâkim olduğu bir polıtık hare- controllo maschile, dominato dalla loro ketti. Yüceltilen bütün değerler, egemonia, da rapporti di forza, dal culto della erkeklerin yücelttiği. Ancak onlar gerarchia. Tutti i valori che venivano promossi gibi davranarak o politik hareketin erano valori celebrati dagli uomini. Le donne içinde var olabiliyordu kadın- potevano esistere all’interno di quel movimen- lar. Yavaş yavaşö 12 Eylül’den to politico solo comportandosi come loro. bır süre oncesi kendi aramızda, […] A poco a poco prima del 12 settembre kadın olarak bu politik hareke- avevamo cominciato tra di noi a bisbigliare, tin içindeve dünyada var olmak a discutere della nostra esistenza in quanto üzerine mırıldanmaya, konuşmaya donne all’interno del movimento politico e a başlamıştık. […] Çok gençtik ama questo mondo. […] Eravamo molto giovani aynı hareketin içindeki erkeklerle ma in noi cominciava a formarsi la consapevo- eşitlenmemizi engelleyen şeyin lezza di ciò che ci impediva di essere alla pari bilinci oluşmaya başlamıştı bizde. con gli uomini che facevano parte dello stesso Taze kıpırtılardı bunlar, ne yazık movimento. Erano fermenti nuovi, peccato ki 12 Eylül, hissettiğimiz tüm bu che il 12 settembre non ci ha concesso di trar- şeylerden sonuç almamızı engel- re una conclusione da tutto questo sentire. Ci ledi. Bir dil kuramadan dağıldık. siamo disperse senza riuscire a costruire una (Tekin in Özer 2008, 112-113) lingua. (Traduzione propria) Le memorie dell’autrice riferiscono di un coinvolgimento femminile, che benché ammesso nella comune lotta per l’emancipazione delle classi po- polari, resta tuttavia vincolato a una posizione subalterna e marginale, a uno spazio d’azione fortemente limitato dall’autorità e dal controllo maschile. La lingua e la cultura politica della sinistra concepisce l’esistenza delle donne al suo interno esclusivamente nella veste politica di militanti la cui femminilità veniva di fatto negata o modellata sulle tradizionali funzioni sociali di madri, sorelle e compagne (Saraçgil 2001, 268-285). Escluse dagli ambiti decisionali e dalla riflessione teorica del movimento esse si ritrovano per Tekin ad essere private, come i poveri e in quanto povere, della possibilità di esprimere il loro
302 tina maraucci punto di vista per essere definite da schemi linguistici e modelli culturali che altri hanno prestabilito per loro. Sulla scorta di queste considerazioni critiche, che prendono altresì corpo a seguito nel violento clima di repressione politica messa in atto dal regime militare nei primi anni Ottanta, Tekin approda alla convinzione che la scrittura possa costituire l’unica alternativa all’ambito soffocante e perseguito della mi- litanza, per portare avanti il suo impegno politico a livello individuale (Tekin in Savaşır 1987, 134-135). La ricerca di forme e strategie narrative capaci di restituire il punto di vista femminile delle nuove classi popolari formatesi a seguito della migrazione interna, costituiscono il fondamento estetico e insieme politico di Sevgili Arsız Ölüm. L’opera, narra la storia della piccola Dirmit costretta ad abbandonare il natio villaggio dell’entroterra anatolico per trasferirsi in città insieme alla famiglia. La vicenda personale della ragazza, unica tra i fratelli a ricevere un’istruzione grazie alla quale riesce ad integrarsi, seppur con mille difficoltà, nel contesto urbano, viene ricostruita attraverso il conflitto ideologico che la vede opporsi all’ambiente chiuso e oppressivo della famiglia, dominato dalla tradizione e dalla superstizione. Il bisogno di affermare la propria individualità si accompagna tuttavia in Dirmit al timore e al senso di colpa dettati dalla consapevolezza che il prezzo da pagare per l’emancipazione sarà l’allontanamento dal proprio mondo e la perdita ine- sorabile delle proprie radici. Scissa tra la metropoli, che insieme la attrae e la respinge, e il villaggio d’origine da cui è stata sradicata e che è diventato suo malgrado un luogo altrettanto alieno, Dirmit non riesce a dare un senso alla propria esistenza e a definire la propria identità. Nel dissidio interiore della giovane protagonista, “una ragazza disubbidiente che non accettava consigli: in casa diversa dai suoi familiari, fuori casa diversa dalla gente”3, si ritrova così espressa la sofferta condizione di Tekin, la cui vocazione letteraria scaturisce precisamente dall’urgenza di dar voce alla propria soggettività ibrida e liminale, situata nell’interstizio tra urbanità e ruralità. 3. Una rappresentazione in “assenza” Pubblicato nel 1983, Sevgili Arsız Ölüm è stato recepito in maniera controversa dagli ambienti della critica dando luogo ad un acceso dibattito. Esponenti autorevoli nel panorama degli studi letterari turchi hanno infatti giudicato negativamente l’opera che appariva troppo elementare nel suo im- pianto strutturale, a tratti quasi ingenua, priva di coerenza interna e di elementi ritenuti indispensabili per attribuirle un effettivo valore artistico. In effetti il romanzo può dirsi caratterizzato da una generale tendenza all’astrazione che si 3 Trad. it. di Dussi, Marazzi in Tekin 1988, 132; “Evin içinde evden ayrı, dışarıda elden ayrı, laf dinlemez, nasihat almaz birkız” (Tekin 2014 [1983], 136).
sevgili arsız Ölüm ovvero l’istanbul “periferica” di latife tekin 303 evince in particolar modo se ad essere indagate nello specifico sono le modalità di rappresentazione dello spazio-tempo. Secondo Berna Moran, probabilmente il più importante storico della letteratura turca moderna e contemporanea, la ribellione di Tekin al canone realista dominante il romanzo turco sin dalla sua genesi tardo-ottocentesca si realizza proprio attraverso tale tendenza (1994, 75-91). In altri termini l’intento di elaborare una nuova narrativa capace di restituire il punto di vista delle classi subalterne, e in particolare delle ex con- tadine urbanizzate, conduce l’autrice a recuperare insieme alla lingua, al ritmo e allo stile anche i cronotopi letterari propri dei generi tradizionali dell’epica e della favolistica orale. Ne consegue una narrazione diretta e spontanea del processo di urbanizzazione costruita non solo da una prospettiva interna ma attingendo altresì a una tradizione culturale di cui le donne si rivelano le prin- cipali depositarie. Ed è riportando alla luce questa memoria di genere della migrazione che Tekin ottiene di restituire lo sguardo “periferico” sulla città di coloro che per identità sessuale e culturale ne vivono i margini. Concepito per riflettere, nella forma oltre che nel contenuto, il senso di dislocazione e smarrimento generato dall’impatto con la metropoli, Sevgili Arsız Ölüm è suddiviso in due parti: nella prima si racconta la storia della famiglia di Dirmit, dall’unione dei genitori fino alla partenza dal villaggio; il trasferimento in città e il difficile adattamento del nucleo familiare al nuovo contesto occupano invece la seconda parte. Un primo dato che emerge chiaro dalla comparazione tra le due parti è l’impiego da parte dell’autrice di due diverse strategie di rappresentazione spaziale. Il villaggio di Alacüvek, da cui la famiglia di Dirmit proviene, viene descritto da Tekin con maggiore accuratezza e dovizia di dettagli. Benché di fatto inesistente e intriso di elementi fantastici è tuttavia un luogo dotato di una propria concretezza, riconducibile ad una topografia e a una geografia reali. Con la sua vegetazione, gli animali, i suoni, le tradizioni, i riti quotidiani, magici e scaramantici della sua sorprendente umanità è in grado di riprodurre suggestivamente nell’immaginario del lettore il paesaggio e l’atmosfera del villaggio anatolico. La rappresentazione dello spazio urbano invece contrasta nettamente per il suo alto grado di astrazione e indefinitezza. È in proposito assai indicativo il fatto che Tekin non fornisca il nome della città o del quartiere in cui la famiglia si trasferisce. È solo in ragione della forte impronta autobiografica dell’opera e di alcuni piccoli dettagli come la menzione dell’arrivo a bordo di un traghetto o il riferimento alla presenza di diversi colli che è lecito supporre si tratti di Istanbul. Lo sguardo “periferico” che sia l’autrice che la sua protagonista rivolgono alla città si traduce così in una rappresentazione “in assenza” del paesaggio urbano, orientata cioè non dalla descrizione ma dall’omissione e il cui significato può essere in parte dedotto dal confronto con la rappresentazione del paesaggio rurale. Il paesaggio di Alacüvek è fatto in larga misura di spazi esterni, di sce- nari naturali popolati di spiriti e presenze sovrannaturali armonicamente
304 tina maraucci integrati con i pochi spazi umani descritti in una rappresentazione quasi olistica dell’esistenza. Tekin pone grande enfasi nel sottolineare il contatto continuo e diretto, il rapporto quasi simbiotico che l’intera comunità del villaggio intrattiene sia con il mondo metafisico che con quello naturale, dotato di tratti antropomorfi e percepito quasi come estensione diretta della sfera privata, familiare e domestica. Ed è in virtù di questa continua osmosi tra interno ed esterno, di questo rapporto intimo con l’ambiente circostante che Dirmit trascorre la propria infanzia spensierata, libera di girovagare tra i campi parlando con gli animali, le piante, i fiori, immersa in un contesto rassicurante e protettivo. Il paesaggio naturale e “fantastico” di Alacüvek sa essere infatti benevolo, accogliente, materno, sa nutrire, accudire, persino punire, redarguire, ascoltare e consolare la giovane protagonista. È a questo mondo di natura e magia che Dirmit rivolge l’ultimo accorato commiato prima di essere strappata al villaggio: O gün Dirmit köyun yamacında, Quel giorno Dirmit visitò una a una tarlasında ne kadar ot ağaç varsa tutte le erbe e gli alberi che crescevano hepsinş tek tek yokladı. Üçoluk’ta sul pendio e nel campo del villaggio. Si yüzünü yıkadı. Sat Deresi’nden ken- lavò il viso a Üçoluk. Si tuffò nell’acqua dini suya attı. Kurbağalarla vırakaldı, del torrente Sat. Gracidò con le rane, kamışlardan başına cin külahı ördü. intrecciò canne e ne fece un berretto co- Savanı’da biçilmiş merayı dolaştı. nico. A Savmani si aggirò per il pascolo Göçmen kuşların boş bırakıp gittiği falciato. Cantò, intonò canti funebri yuvaların başında türkü çağırdı, ağıt presso i nidi che gli uccelli migratori yaktı. [...] Sessiz sessiz köyün içinde avevano lasciato vuoti quando erano gezindi. Ceviz ağaçlarına tırman- partiti. […] Gironzolò per il villaggio dı, damlarda dolandı. Okula indi, tutta silenziosa. Si arrampicò sugli alberi ağıla çıktı. [...] Kümesin arkasından di noci, si aggirò per i tetti. Andò alla dolanıp kavak ağaçlarının altında scuola e poi all’ovile. […] Passò dietro oturdu. Servi ağaçlarının dalına asıldı. il pollaio e si fermò sotto i pioppi. Si Sökülüp bir kenara yığılmış çedenle- attaccò ai rami dei cipressi. Strinse tra le rin, hıyarların, fasulyelerin kurumuş mani le foglie e i ramoscelli dei cetrioli, dallarını, yapraklarını avcunun içine dei fagiolini raccolti e ammonticchiati aldı. Ufalayıp ufalayıp rüzgârın ardı da una parte, li sminuzzò e ne sparse i sıra savurdu. Karınca deliklerinden, resti al vento. Chiamò i cin dai formicai toprak yarıklarından içeri, cinlere e dalle crepe della terra e gridò loro di bağırdı. Cinler yukarı cağırdı. Çıkıp venire in superficie. Poi andò a sedersi kireç boyalı armut ağacının çatal sul ramo dell’albero di pere sporco di dalına oturdu. [...] Küllüğü arkasında calce. […] Vide dietro la concimaia un koca bir kamyon, kamyonun üstünde grosso camion e sopra il camion suo babasını gördü. Görür görmez “Güp!” padre. Appena lo vide saltò giù con un diye yere atladı. […] tonfo. […]
sevgili arsız Ölüm ovvero l’istanbul “periferica” di latife tekin 305 Atlarken ayağı kaydı, su yolunun Saltando scivolò e ruzzolò nel corso d’acqua. içine yuvarladı. Birden kulağına All’improvviso le risuonò all’orecchio una voce ince, titrek bir ses çalındı. Sesin sottile e tremolante. Girò il capo nella direzione geldiği yere başını çevirdi. Su da cui proveniva la voce. Lungo il corso d’acqua yolun kenarında adını bılmediği, vide che la stava guardando un fiore rosso dal daha önce bu köyün bahçelerinde gambo sottile di cui non sapeva il nome e che hiç görmediği incecik boynunu non aveva mai visto prima nei giardini del villag- okşadı. Çiçek nazlı nazlı başını gio. Si curvò e sfiorò il fiore con le dita. Accarezzò salladı. Gözlerini yumdu. Ağır ağır le sue foglie e il suo sottilissimo gambo. Il fiore soludu. Dirmıt çiçeğin yanından mosse il capo con molta grazia. Socchiuse gli oc- kalktı. Koşmaya başladı. Çiçek chi. Respirò lentamente. Dirmit si alzò. Comin- arkası sıra ince, titrek bir sesle ciò a correre. Il fiore con voce sottile e tremolante bağırdı: le gridò dietro: “Güle, güle Dirmit kız...”. “Arrivederci, fanciulla Dirmit”. (Trad. it. di (Tekin [2014 [1983]], 69-73) Dussi, Marazzi in Tekin 1988, 66-69) Giunti in città Dirmit e la sua famiglia si ritrovano a fare i conti con una realtà estranea, con un mondo sconosciuto con il quale non è possibile stabi- lire nessuna forma di comunicazione. Per usare una metafora suggestiva che tuttavia ben si presta a rendere il disagio e lo smarrimento generato da questa totale assenza di relazione con l’esterno, la città si presenta ai loro occhi come un testo scritto in una lingua che essi non conoscono. Più che come uno spazio fisico, Tekin restituisce lo spazio urbano come un labirinto semiotico, una sorta di Babele contemporanea in cui i migranti faticano ad orientarsi perché incapaci di leggerne e interpretarne i segni, i simboli, i codici significanti. Dirmit è la sola a cercare per quanto può di entrare in contatto con questa nuova realtà riproducendo le stesse modalità di interazione che nel villaggio le permettevano di relazionarsi con l’ambiente esterno ma che in città non producono alcun risultato. La ragazza si rivolge così ai pochi angoli di verde che ha a disposizio- ne nel tentativo di “naturalizzare” lo spazio urbano, di renderlo familiare entrando in una relazione emotiva con ciò che resta del paesaggio naturale della città: Sabah uyanır uyanmaz yataktan fırlama- La mattina, appena sveglia cominciò a ya, koşa koşa sokağın bitimindeki ağaçlik schizzare fuori dal letto e ad andare di corsa parka gitmeye başladı. […] Çocuklar al parco alberato situato alla fine della strada. demirlerden demirlere atlarken, Dirmit […] Mentre gli altri bambini saltavano yere eğilip tanıdığı, bildiği otları aramaya da una sbarra all’altra, Dirmit si chinava a koyuldu. […] At kestanesi altına sere cercare le erbe che conosceva. […] Divenne serpe uzanmış, ince yapraklarınn kol inseparabile dal trifoglio che si era sistemato kol çevresine yayamış, kuşkuş otunun sotto l’ippocastano e, ramificando, aveva yanından ayrılmaz oldu. Sabahları gidip sparso tutt’intorno le sue sottili foglie. La kuşkuş otunun başına oturdu. mattina andava a sedersi accanto al trifoglio.
306 tina maraucci Geceleri, burnunu süt ve çakıldak Di notte, appoggiato il naso al lenzuolo che kokan yorganına dayayıp derin sapeva di latte e caccola di pecora, ansima- derin solundu. Bir umutla evle- va profondamente. Speranzosa, cercò di rin, sokağın, caddelerin arasına rintracciare con la mente frammenti del suo sıkışıp kalmış, köyünden tanıdığı villaggio rimasti intrappolati fra le case, le bölük pörcük parçalar aradı. strade, i viali. Ma mentre era assorta in que- Aranırken elindekilerden de oldu. sta ricerca venne privata di ciò che aveva in Kuşkuş otu kurudu. Yorganında- mano. Il trifoglio appassì. L’odore di latte e ki süy ve çakıldak kokusu uçup caccola di pecore che c’era sul suo lenzuolo gittı. (Ivi, 77) svanì. (Trad. it. ivi, 73) In città lo spazio esterno è ostile, minaccioso, in gran parte accessibile solo agli uomini i quali, sprovvisti degli strumenti e del sapere necessari per potervisi imporre, si sentono minati nel profondo della loro mascolinità. Perlopiù disoccupati, impossibilitati a provvedere al sostentamento familia- re, si ritrovano frustrati, privati delle certezze identitarie più profonde dalla perdita della loro tradizionale funzione sociale di patriarchi. Il bisogno di riaffermare il loro potere e la loro autorità si esprime così in maniera violenta e aggressiva, inasprendo il controllo sulle mogli e sulle figlie (Saraçgil 2001, 297-300). Non a caso nel romanzo la graduale assimilazione di Dirmit alle forme, alle pratiche e agli stili di vita della cultura urbana viene vista dalla madre Atiye prevalentemente come una minaccia all’integrità morale della ragazza, all’onore e alla rispettabilità della famiglia. Il paesaggio urbano di Sevgili Arsız Ölüm si compone pertanto quasi solo di interni. L’appartamento in cui la famiglia vive costituisce infatti l’ambien- tazione quasi esclusiva del romanzo. Tekin descrive però la casa non come un luogo di affetti, di calore familiare, di intimità e protezione ma come uno spazio angusto, promiscuo, violento e opprimente. Raramente i personaggi maschili del romanzo varcano i confini del quartiere addentrandosi nello spazio urbano solo per esigenze di lavoro. Il caffè gestito da uno dei migranti stessi, punto di ritrovo per disoccupati e piccoli criminali, emerge così nella poetica urbana di Tekin come uno dei luoghi simbolo dell’emarginazione maschile, socioeconomica e culturale, dei ceti popolari. Ancor più alienate sono le figure femminili, le quali non si spingono quasi mai al di fuori delle mura domestiche tranne che per brevi sortite. In molte contribuiscono all’e- conomia familiare mediante il lavoro, ma svolgono perlopiù in casa le loro attività di sarte e ricamatrici. La loro è un’esistenza condotta nell’invisibilità e nel silenzio, confinate ai margini fisici oltre che culturali della città. Benché emarginate e subalterne, è tuttavia proprio alle donne che Tekin attribuisce la funzione fondamentale di garantire la sopravvivenza del grup- po. Il sapere arcaico, la memoria orale e rurale di cui sono portatrici le rende infatti capaci, seppur mediante il ricorso alla superstizione e alla magia, di
sevgili arsız Ölüm ovvero l’istanbul “periferica” di latife tekin 307 esercitare un grande potere sia verso l’interno, lo spazio emotivo e domestico, preservando l’unità familiare dal pericolo della disgregazione, sia verso l’esterno fornendo ai singoli membri gli strumenti per elaborare le strategie individuali di resistenza e adattamento al contesto urbano (ivi, 300-302). Nel romanzo è infatti la madre Atiye, vero fulcro narrativo dell’opera, a tenere insieme la famiglia, a dirimerne i conflitti interni per salvaguardarne l’unione. È sempre lei che di fronte alla difficoltà del marito di trovare lavoro: […] uğursuzluk saydığından […] proibì ai figli di sedersi con le mani fra çocuklarının ellerinş bacaklarının le gambe, poiché riteneva che portasse male. arasında alıp oturmalarını Ogni volta che Huvat usciva per andare al yasakladı. Her Huvat’ın kahveye caffè, lei gli pregava e soffiava dietro. [...] çıkışında, arkasında okuyup Quando Huvat si sedeva mettendo il viso üfledi. […] Huvat elini yüzüne tra le mani, impediva alle figlie e alla nuora alıp oturdukça, evin kısmeti- di farsi le trecce, perché potevano portar ni bağlıyorlar diye, kızlarının, male alla casa. Arrivò ad affermare che il gelinın saçlarını ördürmedi. İşi, bere l’acqua seduti, lo stare troppo al gabi- oturacak su içmenin, helada fazla netto, il coricarsi e lo svegliarsi tardi fossero durmanın, geç yatıp geç kalkma- un ostacolo alla loro buona sorte. Sulla por- nın kısmeterini kapadığını söyle- ta appese un enorme cartello con su scritta cek kadar ileri götürdü. Kapının la preghiera dell’abbondanza. Dichiarò che üstüne koca bir levha, bereket non avrebbe considerato suo figlio colui che duası astı. Besmelesiz eşikten atla- avesse attraversato la soglia senza recitare il yana evlat demeyeceğini açıkladı. bismillah. (Tekin 2014 [1983], 81) (Trad. it. di Dussi, Marazzi in Tekin 1988, 77) Nell’universo femminile di Sevgili Arsız Ölüm, Dirmit, l’unica tra le donne della famiglia ad uscire quotidianamente di casa per recarsi a scuola, costituisce il tramite e il canale di comunicazione tra questi due mondi altri- menti separati: quello esterno, urbano e maschile, e quello interno, rurale e femminile. La poesia e la strada, metafora quest’ultima della presa di coscienza politica della ragazza, emergeranno infine come le chiavi principali che le permetteranno di uscire dal dilemma identitario che la affligge per attribuire un senso al proprio sé, alla propria storia e alla città in cui vive. È a questo punto ormai conclusivo del romanzo che la visione urbana della scrittrice, manifestandosi nella sua natura esplicitamente ermeneutica, viene altresì a rappresentare quella irriducibile dicotomia tra “noi” e “loro” che per Tekin è il “segreto”, il significato del testo “periferico” di Istanbul. Dirmit racconta alla madre Atiye come dalla consapevolezza delle proprie radici e della propria appartenenza di classe anche il paesaggio urbano cominci ad acquisire una forma e un significato ai suo occhi. È questo un passaggio cruciale del romanzo che varrà la pena di citare ampiamente:
308 tina maraucci “Bizim damdan öyle çok ev görünü- “Dal nostro tetto si vedono talmente tante case, yor ki, kız, hele gecelri ışıl ışıl yanıyor soprattutto di notte, ogni parte è completamen- her taraf,” [...] Dirmit gözleri yerde, te illuminata.” […] Dirmit con gli occhi bassi damdan görünen çoğu evlerin geceleri disse che le tende della maggior parte delle case perdelerinin açık olduğunu, kendi ken- che si vedevano dal tetto erano aperte, che lei dine niye o evletrin perdelerinin çekil- si domandava come mai in quelle case non si mediğini sorduğunu, önceleri bir türlü chiudessero le tende; che all’inizio non riusciva anlayamadığını, sonra sonra yıldızlaraö assolutamente a capire, ma che in seguito, a ayaö denıze sora sora cevabını buldu- forza di interrogare le stelle, la luna e il mare, ğunu söyledi. “Duvarlarında çiçekli aveva trovato una risposta. “Le loro pareti sono kâğıtlar var, tavanlarından da rengârenk ricoperte di carte fiorite, dalla maggior parte ışıklar saçan lambalar sarkıyor çoğunun, dei loro soffitti pendono lampade variopinte.” kız,”[...] Dirmit, Atiye’ye neredeyse […] Dirmit, ignara del fatto che stava per far inme indireceğinden habersiz, onların venire un colpo ad Atiye, disse che loro apri- gece olunca perdelerini ardına kadar vano completamente le tende al calar del sole, açtıklarını, ama kendilerinin hava kar- invece a casa sua si chiudevano le tende prima madan perdelerini çektiklerini söyledi, dell’imbrunire. “E perché?”, chiese. […] Dirmit “Niye kız? ” dedi. [...] Dirmit “Bizim continuò: “Perché mamma sulle nostre pareti duvarlarımızda parmak işaretleri var ci sono dei segni fatti con le dita”. Disse che da ondan, kız anne”, dedi. Seyit’in eve la ragione per cui Seyit appena giunto a casa gelir gelmez “Çekin şu perdeleri!” diye gridava “Chiudete quelle tende!” Era che lui se bağırmasının utançtan ileri geldiğini ne vergognava. […] Disse che nella loro strada söyledi.[…] Sokaklarında kendi evlerıy- in undici case, compresa la loro, si chiudevano le birlikte on bir evin perdesinin hava le tende prima dell’imbrunire. […] Disse: “Per kararmadan çekildiğini söyledi. [...] ora vedo l’interno delle case che stanno sulla “Şimdilik bizim sokaktaki evlerin içini nostra strada ma ben presto vedrò l’interno di görüyorum, ama yakında, tüm evlerin tutte le case”. […] “Una mattina, mentre stavate içini göreceğim ha,” dedi. [...] Dirmit, dormendo, sono salita sul tetto” spiegò Dirmit. “Bir sabah siz uyurken dama çıkmış- […] Poi continuò raccontando che si era seduta tım, kız,” dedi. Sırtını bacaya verip appoggiando la schiena al comignolo. Guardan- oturduğunu, gözüne hiç bir pencerede, do intorno non le era saltata agli occhi neanche balkonda ınsan çarpmadığını, o zaman una persona a un balcone o a una finestra e her şeyin bir tuhaf geldiğini söyledi. allora tutto le era parso molto strano. […] Disse […] Kat kat evlerin, sıra sıra damların, che le case a più piani, i tetti allineati, gli alberi, ağaçların, uzakta durup duran denizin il mare in lontananza apparvero ai suoi occhi gözüne daha önce hiç görünmemiş gibi come non le erano mai apparsi prima di allora. göründüğünü söyledi. “O sabahtan “Da quella mattina in poi esitai a salire sul tetto sonra bir zaman, dama çıkıp evlere, a contemplare le case, le strade, il mare. Poi yollara, denize bir çekindim,” dedi. spiegò che non aveva fatto altro che pensare ma Durmadan düşündüğünü ama niye non era riuscita a scoprire perché avesse tanta korktuğunu bir türlü çıkaramadığını, paura, e che alla fine aveva deciso che le case, il sonunda evlerin, denizin, yolların mare e strade celavano agli uomini un segreto insanlardan önemli bir sır sakladıkları- importante. Disse: “La città, vedendomi sul na karar verdiğini söyledi. “Şehir benş tetto mentre tutti dormivano ha pensato che herkes uyurken damda görünce, bu sırrı io avrei scoperto quel segreto e l’avrei rivelato çözeceğimi sanıp bile bile korkuttu,” a tutti e per questo mi ha messo tanta paura dedi. […] Sonra “Ben de ona inat onun addosso.” […] Poi esclamò: “E io per dispetto sırrını çözüp açığa vurmazsam,” dedi. vedrai se non scopro e rivelo a tutti il suo segre- (Ivi, 234-235) to!”. (Trad. it. ivi, 231-232)
sevgili arsız Ölüm ovvero l’istanbul “periferica” di latife tekin 309 Pensato in chiave esplicitamente autobiografica, Sevgili Arsız Ölüm è co- struito sulla netta identificazione tra la vicenda personale dell’autrice e quella della sua giovane protagonista. Tanto il trascorso quanto il percorso evolutivo di Tekin e Dirmit vengono così a sovrapporsi nel racconto di un tormentato processo di emancipazione e individualizzazione segnato dall’esperienza migratoria e dal formarsi di una spiccata coscienza politica, di genere e di classe. In virtù di tale stringente coincidenza, le modalità con cui entrambe le figure, quella reale della scrittrice e quella fittizia del personaggio, riusci- ranno a stabilire una relazione estetica con il paesaggio urbano, seguiranno un itinerario simile per approdare ad analoghi esiti. Al termine del romanzo, dotata finalmente di una lingua con cui definire la propria identità e punto di vista sulla città, Dirmit potrà non solo costruirsi un ambito d’espressione individuale nella Babele metropolitana ma al tempo stesso dar voce all’uni- verso popolare e subalterno, femminile e dislocato, a cui appartiene. Così, con Sevgili Arsız Ölüm, Latife Tekin potrà affermare la propria soggettività e prospettiva liminale traducendo nello spazio letterario del centro il testo collettivo, marginale e “periferico “di Istanbul. Riferimenti Bibliografici Balık Macit (2013), Latife Tekin’in Romancılığı (La narrativa di Latife Tekin), Ankara, Akçağ. Belge Murat (1998) Edebiyat Üstüne Yazılar (Scritti sulla letteratura), Istanbul, İletişim. Gürbilek Nurdan (2014 [1996]), Ev Ödevi (Compiti a casa), Istanbul, Metis. Irzık Sibel (2007), “Narratives of Collectivity and Autobiography in Latife Tekin’s work” in Olcay Akyıldız, Halim Kara, Börte Sagaster (eds), Autobiographical Themes in Turkish Literature: Theoretical and Comparative Perspectives, Würzburg, Ergon Verlag, 157-163. Kekeç Nuran (2011), “Karnavaldan Büyülü Gerçekçiliğe: Berci Kristin Çöp Masallari” (Dal carnevale al realismo magico: Fiabe dalle colline dei rifiuti), Millî Folklor 91, 210-220. Moran Berna (1994), Türk Romanına Eleştirel Bir Bakış III (Uno sguardo critico al romanzo turco III), Istanbul, İletişim. Özer Pelin (2009), Latife Tekin Kitabı (Il libro di Latife Tekin), İstanbul, İletişim. Paker Saliha (2011), “Translating ‘the shadow class (…) condemned to movement’ and the Very Otherness of the Other: Latife Tekin as Author-Translator of Sword of Ice” in Dimitris Asimakoulas, Margaret Rogers (eds), Translation and Opposition, Bristol-Buffalo-Toronto, Multilingual Matters, 146-159. Parla Jale (2008), “The Wounded Tongue: Turkey’s Language Reform and the Can- onicity of the Novel”, PMLA, 123/1, 27-40. Saraçgil Ayşe (1995), “Latife Tekin e la psicologia della povertà”, in Istituto Uni- versitario Orientale (a cura di), Un ricordo che non si spegne. Scritti di docenti e collaboratori dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli in memoria di Alessandro Bausani, Napoli, Dipartimento di Studi Asiatici, 437-464. — (2001), Il maschio camaleonte. Strutture patriarcali nell’Impero ottomano e nella Turchia moderna, Milano, Mondadori.
310 tina maraucci Saraçgil Ayşe, Tarantino Angela (2012), “Costruire la nazione con la lingua e la letteratura: la Turchia e la Romania”, Romania, 25, 205-246. Savaşır Iskender (1987), “Yazı ve Yoksulluk” (Scrittura e povertà), Defter, 1, 133-148. Seyhan Azade (2008), Tales of Crossed Destinies: The Modern Turkish Novel in a Com- parative Context, New York, MLA. Sönmez Ayten (2012), “Latife Tekin”, in Burcu Alkan, Çimen Günay Erol (eds), The Dictionary of Literary Biography 373, Turkish Novelists Since 1950, Gale, Washington, 301-310. Tekin Latife (2014 [1983]), Sevgili Arsız Ölüm, İstanbul, İletişim. Trad. it. di Edda Dussi, Ugo Marazzi (1988), Cara spudorata morte, nota critica di Sema Postacioğlu, Firenze, Giunti. Trans. by Mel Kenne, Saliha Paker (2001), Dear Shameless Death, London-New York, Maryon Boars. — (1984), Berci Kristin Çöp Masalları, İstanbul, İkinci Adam Yayınevi. Trad. it. e a cura di Ayşe Saraçgil (1995), Fiabe dalle colline dei rifiuti, con la collaborazione di Aglaia Viviani, Firenze, Giunti. — (1989), Buzdan Kılıçlar (Le spade di ghiaccio), İstanbul, Adam. — (1995), Aşkİşaretleri (Segnali d’amore), İstanbul, Metis Yayınları. — (2001) Ormanda Ölüm Yokmuş (Nella foresta non c’è la morte), İstanbul, Alfa Yayıncılık. — (2004) Unutma Bahçesi (Il giardino dell’oblio), İstanbul, İletişim Yayınları.
Puoi anche leggere