Scuola Diocesana di Formazione
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Scuola Diocesana di Formazione Seminario Vescovile – Via Palestro n. 40 – 43036 Fidenza (Parma) San Vincenzo de’ Paoli: predicazione, formazione del clero e promozione umana Settimo incontro: 11 gennaio 2021 – P. Nicola Albanesi C.M. ____________________________________________________________________ Premesse di metodo L’esperienza spirituale di S. Vincenzo è la sorgente delle sue realizzazioni (attività e fondazioni). Non si muove in riferimento ad una dottrina o ad una visione delle cose. Lui stesso non propone una dottrina o una sintesi spirituale. S. Vincenzo ha semplicemente vissuto una “esperienza di vita” all’origine di quel “modo cristiano di vivere” che egli ha cercato di trasmettere a coloro che erano stati contagiati come lui dalla carità di Cristo verso i poveri. Si deve dunque far riferimento, per conoscere il pensiero di S. Vincenzo, non tanto agli scritti, quanto all’esperienza umana e spirituale che emerge dalle sue lettere, dai suoi racconti, dai pochi schemi di predicazione che sono arrivati a noi. Ha scritto solo lettere e regolamenti. Le lettere per necessità di governo e di direzione spirituale. I regolamenti per fissare l’intuizione carismatica del momento e concretizzarla in regole di attività e di comportamento, in carte d’intenti, per ordinare una attività collettiva e dirigerla verso il suo fine: seguire Cristo evangelizzatore e servitore dei poveri! Si tratta allora di andare alla ricerca di avvenimenti, incontri con persone, scontri con la dura realtà della vita, attraverso i quali S. Vincenzo ha incontrato Dio e ha trovato la sua via per seguire Cristo. E Cristo lo ha consegnato ai poveri. Di conseguenza, in uno studio di questo tipo bisognerà essere attenti ai contesti, alle circostanze, all’ambiente culturale e sociale dentro il quale il linguaggio di S. Vincenzo si è formato e da cui è scaturita la sua esperienza di vita. Con il fine dichiarato, di stare molto attenti a non trasformare l’esperienza di vita di S. Vincenzo in “vincenzianesimo”. Il programma dell’esposizione Dopo aver illustrato l’esperienza di conversione (o per meglio dire di evoluzione religiosa) di S. Vincenzo, ci si soffermerà sulla via cristiana che ha aperto: fondere insieme, nella missione, evangelizzazione e carità, annuncio evangelico e promozione umana. Un punto di vista molto moderno, che ha fatto scuola, e ha segnato un’epoca. A partire da alcune esperienze fondanti S. Vincenzo prende coscienza della sua vocazione e missione. 1. Folleville (1617) e la Missione (predicazione itinerante nelle campagne – fondazione della Congregazione della Missione – il catechismo – le missioni popolari) 2. Chatillon (1617) e la Carità (nascita delle “Carità” – l’attività a favore dei poveri – fondazione della Compagnia delle Figlie della Carità) 3. Beauvais (1628) e la formazione del clero (esercizi per gli ordinandi, conferenze del martedì, seminari, riforma del pulpito) Il processo di scoperta della sua vocazione e le modalità con cui ha dato avvio alle sue “attività” e alle “fondazioni” permettono di cogliere gli elementi fondamentali della sua esperienza cristiana. 1
Le tappe principali della sua vita 1581: Nascita a Pouy, nella Lande Fa il pastore – riceve la tonsura e gli ordini minori – studia a Dax e a Tolosa 1600: Ordinazione presbiterale 1608: Arriva a Parigi e si stabilisce a Rue de Seine 1609: Elemosiniere della Regina Margot Tentazione contro la fede e incontro con Bérulle 1612: Parroco a Clichy 1613: Cappellano della Famiglia Gondi 1617: L’anno decisivo. Fondazione della prima Carità Le esperienze fondanti di Folleville (la Missione) e Chatillon (La Carità) _____________________________ 1618: A Parigi – inizia le missioni e la fondazione delle Carità nelle campagne Incontro con S. Francesco di Sales e Duval 1619: Cappellano delle Galere 1620: Esperienza di Montmirail (la Riforma della Chiesa) 1621: Esperienza di Mâcon (la Carità) 1622: Esperienza di Marchais (la Missione) 1625: Fondazione della Congregazione della Missione Si stabilisce nel Collegio dei Bons Enfants di cui è Rettore 1628: Incontro con il vescovo di Beauvais (la Formazione del clero) 1632: Insieme ai suoi primi compagni si stabilisce nel Priorato di S. Lazzaro 1633: Fondazione delle Figlie della Carità e inizio delle Conferenze del martedì _______________________________ 1634: Fondazione della Carità dell’Hotel-Dieu 1638: Inizia l’opera dei Trovatelli 1643: Entra al Consiglio di Coscienza 1645: Inizia la Missione in Barberia 1646: Invia i missionari in Irlanda e Scozia 1648: Inizio della Missione in Madagascar 1650: Campagna di aiuti in Piccardia e Champagne 1652: Contrasti con Mazarino. Allontanato dal Consiglio di Coscienza 1653: Fondazione dell’Ospizio del Nome di Gesù 1660: Morte a Parigi 2
1. L’esperienza di conversione di un prete povero che Dio ha consegnato ai poveri Nato a Pouy, nelle Lande francesi in Guascogna, il 24 aprile 1581, da una famiglia di contadini, poveri ma non indigenti, sognò una vita agiata, ma si trovò sulla strada più sbagliata per raggiungerla: il sacerdozio. Di intelligenza vivace, la famiglia lo avviò agli studi ecclesiastici. Il padre si indebitò per farlo studiare e investì su di lui per sistemare la famiglia da un punto di vista economico. Si fece ordinare a 19 anni da un Vescovo anziano e cieco, aggirando le nuove norme tridentine che fissavano a 24 anni il limite minimo per poter essere ordinati. Vincenzo aveva fretta di bruciare le tappe per trovare un buon beneficio e poter vivere in maniera dignitosa insieme alla sua famiglia. Non era un grande ideale. Più tardi, ripensando a questo periodo, si paragonerà ad un ragno intento a tessere la sua tela. I primi 10 anni di sacerdozio, fino al 1610, Vincenzo li passa cercando di sistemarsi. Si mantiene facendo il precettore. Arriva perfino a progettare di diventare Vescovo. Per questo cerca appoggi e soldi. Giunto a Parigi alla fine del 1608, per poco ebbe finalmente l’impressione di essere arrivato a realizzare il suo sogno, anche se la strada era stata lunga e faticosa. Cristo però era in agguato. All’improvviso lo sorprese, lo svegliò da quel triste miraggio, gli aprì gli occhi sulla realtà della vita e sulla dignità sacerdotale. Determinanti furono alcune esperienze che fece a Parigi fino al 1617. In questa città tocca il fondo. A 30 anni diventa elemosiniere della regina Margot, ex- moglie di Enrico IV di Navarra. Non era un incarico particolarmente prestigioso: era solo un modo per vivere. Si stabilisce nel quartiere dei Guasconi ed è costretto a dividere la sua camera con un suo compaesano. E’ accusato ingiustamente di furto. S. Vincenzo sperimenta la condizione dei poveri che non hanno credito, non hanno voce né risorse, ma che comunque sono colpevoli. Alla corte della regina conosce un vecchio teologo assalito da tentazioni fortissime contro le fede. S. Vincenzo si sostituisce nella tentazione di ateismo. Ma entra lui in una notte oscura. Copiò il Credo su un foglio di carta e se lo mise al collo, vicino al cuore. La tentazione durò 4 lunghi anni. Vincenzo fece la risoluzione di far visita ai malati dell’Ospedale della Carità. La tentazione svanì. I poveri lo avevano guarito. Nello stesso periodo incontra un maestro spirituale, il Cardinale Pierre de Bérulle, che diventerà suo direttore di coscienza, uno dei più grandi riformatori della Chiesa di Francia. Alla sua scuola scopre finalmente la bellezza del suo sacerdozio. Si appassiona all’attività pastorale nella parrocchia di Clichy, dove il Cardinale lo aveva inviato, impara a pregare, a coltivare la sua vita interiore. 1. La scoperta di Cristo nei poveri Come a S. Francesco d’Assisi, Cristo apparve sotto le spoglie del lebbroso, così a S. Vincenzo si mostrò sotto gli stracci dei poveri di Parigi. Prima i mendicanti per strada, quando faceva l’elemosiniere, poi i malati dell’Ospedale della Carità dei Fatebenefratelli, i “galeotti”, quando era Cappellano delle Galere, i miserabili dei bassifondi, i ricoverati dell’Hotel-Dieu, il più grande ospedale di Parigi. Il nome richiamava il Paradiso, ma in realtà nascondeva l’inferno. Vi si portavano i mendicanti a morire. Prima Vincenzo li aveva continuamente incontrati per strada. Aveva fatto loro l’elemosina per conto della Regina Margot, ma non li guardava, era come cieco. Ora in quel lazzaretto li vedeva per la prima volta. Cristo gli aveva finalmente aperto gli occhi. Vincenzo ne rimase sconvolto, toccato, sensibilizzato! 3
Da quel momento in poi cessò di guardare i poveri con gli occhi umani e imparò a “girare la medaglia” e vedervi con gli occhi della fede il volto di Cristo. Dalla carne del povero, Dio irruppe nella vita di Vincenzo che scoprì e comprese definitivamente la sua vocazione. Da quell’istante ogni povero fu per lui Cristo. «Non devo considerare i poveri dal loro aspetto, né dalla loro apparente mentalità. Spesso non hanno quasi la fisionomia delle persone ragionevoli, talmente sono rozzi e materiali. Ma rigirate la medaglia, e vedrete con i lumi della fede che il Figlio di Dio, il quale ha voluto essere povero, ci è raffigurato da questi poveri». (XI 19, 32) Imparò a camminare nel fango di Parigi. Fece dei poveri i suoi compagni di viaggio, i suoi “Signori e Maestri”, “Padroni esigenti e terribili”. Non si risparmiò nella carità, nell’alleviare le loro sofferenze materiali e spirituali, nel prevenirli nelle loro esigenze, nel soccorrerli nelle loro necessità. Prese come programma di vita la frase di Atti 10,38 “Pertransiit benefaciendo”!, che si può tradurre con “passare beneficando”, ad imitazione di Cristo che sulle strade di Galilea “passò facendo il bene”. Ed è su questo ideale di vita che formò successivamente le sue Comunità. (cfr Testi 4 – Le preghiere di S. Vincenzo) 2. L’anno decisivo: il 1617! 2.1 La povertà spirituale Nella seconda metà del mese di gennaio si trovava in un villaggio a nord di Parigi, a Gannes, vicino Amiens, e si ritrovò al capezzale di un contadino moribondo che gli confessò che, senza la sua assoluzione, sarebbe morto dannato. Vincenzo ebbe la rivelazione dell’abbandono spirituale dei poveri, trascurati da un clero rilassato. Qualche giorno dopo, il 25 gennaio, giorno della conversione di S. Paolo, organizzò nella Chiesa di Folleville, la “prima predica della Missione”, per esortare la povera gente a fare la confessione generale. La risposta fu grande: confessò ininterrottamente per diversi giorni con l’aiuto dei gesuiti di Amiens. (cfr Testi 1 – Racconto di Folleville) 2.2 La povertà materiale Sette mesi dopo, il 20 agosto, a Châtillon, un borgo vicino Lione, mentre si stava preparando in sagrestia per la Messa domenicale, gli viene detto che una famiglia stava morendo di stenti perché tutti erano ammalati. La notizia infiammò la sensibilità di Vincenzo che fece un discorso travolgente: “la predica della carità”. Anche questa volta la risposta della gente fu grande. La popolazione prese a cuore quella famiglia. Così tre giorni dopo Vincenzo fondò la prima “Confraternita della Carità” e ne scrisse il regolamento. (cfr Testi 1 – Racconto di Châtillon) Questi due episodi gli fecero prendere coscienza dei bisogni spirituali e materiali della gente delle campagne. Pensò che non era possibile farli morire così, in quelle condizioni, nell’abbandono religioso e nell’indigenza. E decise di rispondere all’appello di Dio. 4
3. La sua missione e il suo impegno 3.1 Organizzare la Carità ed educare alla Carità La povertà era tale che Vincenzo capì di non poter fare da solo. Nel tentativo di rispondere a quell’emergenza, chiese ai ricchi del tempo il loro denaro, alle persone di buona volontà il loro interesse e la loro opera, ai credenti il loro cuore, ad alcuni tutta la vita! Ovunque passò trascinò con sé un grande numero di gente per metterli al servizio dei poveri. Nacquero così: 1) le Carità (1617) gruppi di “donne” di tutte le condizioni per l’assistenza e la cura dei poveri nelle parrocchie, 2) i Preti della Missione (1625) “missionari” per l’evangelizzazione delle campagne, 3) le Figlie della Carità (1633) “giovani consacrate” per il servizio di Cristo nei poveri. “Mandati a evangelizzare i poveri” con la “sola forza dell’Amore di Cristo”, è il programma di vita che ha dato ai suoi preti e alle sue suore. «Lo stato del Missionario è una condizione di vita conforme alle massime evangeliche e consiste nel lasciare tutto come gli apostoli per seguire Cristo e fare ciò che Egli ha fatto. Non c’è niente di più cristiano che andare di villaggio in villaggio ad aiutare il povero popolo a salvarsi!». (XI, 1) «Le Figlie della Carità … Avranno per monastero le case dei malati, per cella una camera d’affitto, per cappella la chiesa parrocchiale, per chiostro le vie della città, per clausura l’obbedienza, per grata il timor di Dio, per velo la santa modestia». (RC 2) 3.2 Lavorare per la riforma della Chiesa L’incontro con l’abbandono spirituale della gente della campagna ha fatto prendere coscienza a S. Vincenzo della necessità di una “pastorale itinerante”. Il ministero sedentario del parroco (secondo lo spirito del Concilio di Trento), a volte non è sufficiente a garantire l’assistenza religiosa, anzi, può costituire un ostacolo. In una lettera a Papa Urbano VIII del giugno 1628 S. Vincenzo preciserà questo punto: «La povera gente della campagna muore spesso nei peccati della sua gioventù per aver avuto vergogna di rivelarli ai parroci o ai suoi vicari perché troppo conosciuti e familiari … Il povero popolo ha fame e si danna». (I, 45) L’intervento missionario itinerante non corre questo rischio e si rivela un complemento necessario alla pastorale residenziale. Da qui l’idea della missione: istruire il popolo (catechismo), disporlo ai sacramenti (predicazione), ascoltarlo in confessione (confessione generale). La missione era il modo per “formare le coscienze”, non solo da un punto di vista morale ma anche spirituale. E siccome l’urgenza era tale, all’inizio S. Vincenzo pensò di stipendiare alcuni preti per fare questo lavoro sotto la sua direzione. Poi qualcuno di loro chiese a S. Vincenzo di fermarsi con lui per qualche anno con il permesso dei loro vescovi. Successivamente si accorse della necessità di dare forma stabile alla Missione, fino a far nascere una Compagnia di preti secolari che vivevano insieme per la Missione (1625). Mise a punto un metodo di predicazione, per arrivare direttamente alla gente, che definì “piccolo”: il piccolo metodo di predicazione. Si proponeva di convertire attraverso una esposizione semplice, evangelica e familiare (S. Carlo Borromeo e S. Filippo Neri i suoi due santi ispiratori), come correttivo alla predicazione barocca, troppo erudita, ricercata, sfarzosa. 5
«Datevi per questo a Dio, per parlare con l'umile spirito di Gesù Cristo, confessando che la vostra dottrina non viene da voi ma dal Vangelo. Imitate soprattutto la semplicità delle parole e dei paragoni che Nostro Signore adopera nella Sacra Scrittura, parlando al popolo. Oh! Quali meraviglie non poteva Egli insegnare! Quanti segreti non avrebbe potuto scoprire della Divinità e delle sue mirabili perfezioni, Lui che era la Sapienza eterna del Padre Suo. Tuttavia, vedete come parla intelligibilmente, e come si serve di paragoni familiari, di un contadino, di un granellino di senape. Ecco come dovete parlare, se volete farvi capire dal popolo cui annunzierete la Parola di Dio». (SV It 10, 278) Più tardi, sotto l’insistenza del vescovo di Beauvais, Augustin Potier, nel 1628 venne messa a punto un'idea per la riforma del clero. Il vescovo immaginò un mezzo semplice per migliorare la qualità del suo clero: organizzare dei corsi di esercizi spirituali per tutti gli ordinandi della sua diocesi. Assieme a momenti di preghiera, essi avrebbero dovuto essere istruiti sui doveri del loro stato e sulle funzioni del ministero. Vincenzo delineò un programma e cercò alcuni preti che con lui si assumessero l'impegno di istruire e formare gli ordinandi. Senza accorgersene offriva alla Chiesa di Francia uno strumento semplice ed efficace per il miglioramento del clero. Che il clero avesse bisogno di riforma, è certo. Le fonti sono concordi. Due erano i versanti su cui lavorare: sul comportamento morale e disciplinare di alcuni, e sulla preparazione sacerdotale di altri. Ai primi (vino, donne, commercio, caccia, comportamenti laicali) era stato posto un freno nei Decreti di riforma di Trento, che imponevano al vescovo la visita pastorale e ai parroci l’obbligo della residenza e della cura pastorale. Ai secondi erano stati offerti, almeno in linea di principio, la creazione dei seminari. S. Vincenzo lavorò sul versante morale attraverso gli esercizi spirituali per i preti e le conferenze del martedì, e sul versante della formazione ministeriale attraverso i ritiri per gli ordinandi e i seminari. In Francia i seminari erano stati introdotti subito alla conclusione del Concilio. Fra il 1567 e il 1620 erano stati fondati 18 seminari. Per la maggior parte fu un fallimento. Dopo qualche anno di vita stentata vennero chiusi. Nel 1644 erano ancora aperti i seminari di Reims, Bordeaux e Rouen, ma con risultati molto modesti. A Parigi al modello del Seminario-Convitto (essenzialmente una dimora per andare a scuola alla Sorbona – modello diocesano), si affiancò il modello del Seminario-Collegio (tipico dei Gesuiti, con vita comune e scuola interna), il modello del Seminario- parrocchiale (di Adrien Bourdoise, a St. Nicolas du Chardonnet del 1612, piccoli gruppi di seminaristi che vivono in parrocchia attorno ad un parroco-formatore – idea pre- Tridentina riformata). S. Vincenzo iniziò ai “Bons Enfants” con i seminari minori nel 1636, secondo le indicazioni di Trento, per poi abbandonare il progetto passando al seminario maggiore. Nacque così il seminario vincenziano, o per meglio dire lazzarista: uno sviluppo dell'idea di collegio, per i candidati poveri, con il carattere precipuo della formazione morale e pratico-pastorale. I seminari della Scuola francese (Oratoriani, Sulpiziani, Eudisti) invece perseguirono una formazione più alta a carattere morale e spirituale che presupponeva una formazione di base acquisita. I poveri ne erano pressoché esclusi. [I maggiori seminari di Parigi, per giovani di più di 20 anni, vengono tutti fondati o rifondati attorno al 1642: a Saint Magloire, gli Oratoriani di Bourgoing (1641), a Vaugirard e poi a Saint Sulpice, i Sulpiziani di Olier (1642), ai Bons Enfants e poi a Saint Lazare, la Missione di Vincenzo (1642), a Saint Nicolas du Chardonnet, Bourdoise (1642). Inutile cercare una sola persona all’origine dei seminari. L’idea era nell’aria nei circoli riformatori e videro nel Cardinal Richelieu e nella sua nipote la Duchessa di Aiguillon i maggiori sostenitori economici.] 6
Istruzioni ad un Rettore di seminario: «Certamente, padre, non c’è nulla di umano in questo compito [di dirigere le anime]: non è opera umana, ma di Dio. Grande opus. È la continuazione di quello che fece Gesù Cristo. Di conseguenza, lo spirito umano rischia di guastare tutto, se Dio non interviene. No, padre, né la filosofia, né la teologia, né le parole operano nelle anime. È necessario che Gesù Cristo stesso agisca con noi, e noi con lui; che noi operiamo in lui e lui in noi; che parliamo come lui e nel suo spirito, così come lui era nel Padre suo e annunciava la dottrina appresa dal Padre. È la Sacra Scrittura che lo dice». (SV XII, 275) Predicazione e preghiera: «Dio è una sorgente inesauribile di sapienza, di luce e di amore, in Lui dobbiamo attingere quello che diciamo agli altri; dobbiamo annientare il nostro modo di pensare e i nostri sentimenti particolari, per dare spazio alle operazioni della grazia, la quale soltanto illumina e riscalda i cuori; è necessario uscire da noi stessi e dimorare in Dio; è necessario consultarlo per imparare il suo linguaggio e supplicarlo di essere Lui stesso a parlare in noi e per mezzo nostro. Egli compirà allora la sua opera e noi non guasteremo nulla». (SV It 10, 365) 2. Aspetti fondamentali dell’esperienza vincenziana S. Vincenzo de’ Paoli ha saputo essere particolarmente attento agli avvenimenti della sua vita. Ha saputo leggerli come segni di Dio, come “appelli” rivolti direttamente a lui, come una chiamata a rispondere. Nella risposta all’azione di Dio ha vissuto un’esperienza di fede esaltante che lo ha portato fino ai vertici della mistica e a diventare una guida autorevole. 1. Gli avvenimenti, “luogo” di rivelazione di Dio Per S. Vincenzo, Dio parla ordinariamente attraverso i fatti della vita. Gli avvenimenti sono “segno di Dio” che rimanda ad un preciso disegno di salvezza. Nei fatti della sua vita legge una precisa volontà di Dio che lo orienta nel mondo e gli indica i passi da fare e le scelte da operare. “Seguire passo passo la Provvidenza senza mai scavalcarla” è il suo imperativo. Nelle cose di Dio – diceva – non bisogna mai andare troppo in fretta né troppo lentamente: occorre “affrettarsi lentamente”. 2. La condizione dei poveri “appello” di Dio S. Vincenzo ha risposto alle esigenze dei poveri, scorgendovi una chiamata di Dio a farsi prossimo. Dopo che Dio gli ha aperto gli occhi e il cuore, ha sentito il loro grido – “i poveri mio peso e mio dolore” – si è sentito interpellato, “toccato” dalla loro sofferenza e dalla loro disperazione. Si è lasciato coinvolgere dalle situazioni di emergenza e ha risposto all’appello di Dio. In tutte le sue grandi imprese di missione e di carità si è riprodotto questo schema: vedere lo stato di necessità, lasciarsi interpellare, coinvolgersi, progettare una risposta. E nella concretezza della risposta S. Vincenzo è stato geniale, ha messo in moto tutta la sua creatività. 3. Nella risposta ha “coinvolto” altri a prendersi cura dei poveri La sua non è stata una risposta isolata, personale, legata alla necessità del momento. Ha saputo trasformare l’occasione, l’emergenza, in progetto di vita. 7
1. Ha sensibilizzato le persone, coinvolto le istituzioni, formato le coscienze. 2. Ha saputo mettere le persone con le spalle al muro, inchiodarle alle proprie responsabilità: “non si può lasciarli morire così”! 3. Ha organizzato gli interventi, perché la risposta alla povertà potesse diventare “collettiva” e “stabile”. “I poveri bisogna assisterli e farli assistere in ogni modo”. La carità esige impegno serio che si fa “attenzione” ai bisogni, “dedizione” nella cura della persona, “assiduità” nel servizio, “generosità” nel gesto, “delicatezza” nel tratto, “premura” nell’intervento. 3. La Carità e le sue dimensioni 1. I regolamenti delle Carità Nella stesura e nella redazione di regolamenti S. Vincenzo ha dedicato tempo. Sapeva bene che un carisma ha bisogno di organizzazione per durare nel tempo. La lettura dei vari regolamenti delle Fondazioni (Carità, Congregazione della Missione, Figlie della Carità), permette di seguire l’evoluzione dell’intuizione carismatica fissata in “carte” d’intenti, concretizzata in “regole” di attività e di comportamento, per “ordinare” una attività collettiva e dirigerla verso il suo fine: seguire Cristo evangelizzatore e servitore dei poveri! Qui si può vedere tutta la genialità organizzativa di S. Vincenzo e la sua attenzione al particolare concreto. Non si può non vedere in questo aspetto la sua origine contadina. La sua mentalità è stata plasmata dall’ambiente dei figli dei campi. S. Vincenzo è rimasto contadino anche quando, per necessità missionarie, ha dovuto frequentare la Corte, i salotti aristocratici, gli ambienti dell’alto clero di Parigi. I suoi modi ruvidi, essenziali, che lascia poco spazio all’eleganza affettata dei notabili, si traducono poi in quel sano realismo di cui sono dotati gli allevatori, i coltivatori, i vignaioli del Sud della Francia del Seicento. Il loro linguaggio come il suo, è concreto, centrato sulle operazioni da fare, sul lavoro da svolgere. Nell’ambito dell’assistenza caritativa colpisce, nella lettura dei regolamenti delle Carità, la cura dei particolari e dei dettagli, in modo che niente possa essere lasciato al caso. Ci si deve preoccupare del vitto dei poveri, della sua qualità e quantità. Il criterio è quello dell’abbondanza e della varietà, per una alimentazione ricca in modo da ristabilire, per quanto possibile, la salute. Da qui la necessità di procurarsi le medicine più efficaci, di curare l’igiene dei malati e provvedere alla pulizia dei vestiti, delle lenzuola e degli ambienti. Si deve inoltre assicurare la continuità negli interventi caritativi. E quindi si dovrà provvedere a reperire il denaro necessario per tutto quello che serve per l’assistenza e a stabilire dei turni di servizio rigidi perché non venga mai a mancare l’aiuto richiesto dalle condizioni dei poveri. In sintesi: tutto deve essere curato nei minimi dettagli. «Il bene bisogna farlo bene!». E perché tutta questa attività non si risolva in un puro “fare”, S. Vincenzo ha proposto, a coloro che volevano mettersi al servizio dei poveri, di “unire” agli “uffici esteriori” della carità cristiana gli “esercizi interiori” della vita spirituale. E’ la visione di una carità che nasce dalla fede, di una generosità umana che è sostenuta dalla gratuità di Dio, di una sensibilità che è affinata dall’esperienza di un amore sovrabbondante che mette la vita in esercizio, che spinge a fare della propria vita un bel dono! 8
Allora l’esercizio della carità diventa un canale di grazia per chi la compie e per chi la riceve. La relazione che si stabilisce tra chi assiste e chi è assistito diventa salvifica. Nei gesti concreti della carità passa un Amore più grande, l’Amore infinito di Dio. La carità, nella visione di S. Vincenzo, esige persone, uomini e donne, concrete e affabili, forti e amabili, laboriose e cordiali. Sotto questo profilo il realismo di S. Vincenzo ha incontrato l’amabilità di S. Francesco di Sales, lo spirito pratico si è congiunto alla sensibilità spirituale. Questo poi ha permesso la costruzione di una sintesi straordinaria tra Missione e Carità, annuncio missionario e assistenza caritativa, predicazione e attività sociale. E ne è scaturita una “visione”: dei poveri “immagine sacramentale di Cristo”, della carità “amore teologale ed evangelico”, del servizio “esperienza di fede”. Emergono così due caratteristiche del carisma vincenziano: l’amore ai poveri e la valorizzazione della donna. 2. L’attenzione ai poveri S. Vincenzo è vissuto nel periodo dell’incipiente modernità (XV-XVII secolo), in quel tratto dell’epoca moderna in cui si è assistito in Europa al fenomeno della “rimozione della povertà” (secondo l’espressione di Michel Foucault). E proprio quando il processo era in atto, S. Vincenzo ha avuto il coraggio di andare controcorrente e di mettere i poveri al centro, non solo della sua azione, ma della sua vita! Ha determinato un nuovo modo di vedere i poveri. E’ curioso come la povertà, dagli inizi degli Stati nazionali fino ad oggi, abbia costituito sempre un problema. Questa, da fenomeno accettato nel medioevo cristiano, da aiutare attraverso l’elemosina, passa ad essere una condizione sociale percepita come vita oziosa, inutile e perfino dannosa per la società civile. Erasmo da Rotterdam, uno dei più grandi umanisti, include tra le forme da condannare la stessa mendicità di monaci e frati. Per lui la povertà è un fenomeno “deviante” da estirpare. Se i poveri, vengono percepiti come minaccia per l’ordine pubblico, è ovvio che si eserciti nei loro confronti il controllo, la registrazione e, in alcuni casi, la repressione. Enrico VIII farà giustiziare dodicimila vagabondi durante il suo regno. Nell’epoca delle grandi scoperte geografiche e dello sviluppo tecnico, la povertà viene “criminalizzata”. Dentro questo quadro, Mazzarino, nella seconda metà del 1600 in Francia, concepisce il progetto dell’ospedale generale dei poveri, alla cui guida vorrebbe mettere S. Vincenzo. Si trattava di togliere con la forza i poveri dalle strade e ricoverarli/recluderli in un grande ospedale. Gli storici hanno parlato di “grande reclusione” per caratterizzare questo progetto. Sappiamo che S. Vincenzo rifiutò in maniera decisa. Diametralmente opposte erano le intenzioni dei due. Mazzarino era preoccupato di preservare la società dal pericolo dei poveri. S. Vincenzo era preoccupato della condizione dei poveri. Per lui i poveri non erano un problema politico, ma una emergenza umana. E’ in questo quadro sociale che, accanto a forme di intervento tendenti a controllare il fenomeno della povertà attraverso la “reclusione” in ospedali o carceri, per far sparire i poveri dalla scena pubblica, si sviluppa nel mondo cattolico una rinnovata attenzione ai poveri. S. Vincenzo rappresenta un nuovo inizio. Per lui i poveri non vanno “internati”, ma vanno “visitati” nelle loro case, nei loro ambienti. Alla povertà non va data una risposta “generale”, ma per i poveri va studiata una risposta “personale”. 9
3. La valorizzazione della donna E nella società del suo tempo, che prospettava alle donne solamente la via del matrimonio o del monastero, S. Vincenzo ha avuto il coraggio di responsabilizzarle e valorizzarle nel servizio dei poveri. Nella carità le ha riconosciute più sensibili e più lungimiranti degli uomini per la loro capacità di diventare “madri”, che non è solo una capacità biologica, ma una attitudine spirituale che consiste nel saper “coltivare” la vita in tutti i suoi aspetti! E’ la capacità delle donne di generare, custodire, proteggere, far crescere e promuovere la vita attorno a loro. Si tratta dunque di una “speciale maternità” che si manifesta, nel servizio, con la premura, la sollecitudine, l’assiduità, la dedizione e la cura dei gesti che esige, a sua volta, delicatezza, pazienza, gentilezza, finezza, creatività. E’ la capacità di mettere al centro dell’attenzione la persona con i suoi bisogni, con i suoi desideri e aspirazioni. 4. Carità, non elemosina: la dimensione filocalica Il carisma che ha animato la vita di S. Vincenzo e quella di coloro che si sono lasciati coinvolgere e contagiare dal suo “dire” e dal suo “fare”, può essere sintetizzato da quell’invito che Gesù rivolge alla vedova di Nain: “non piangere”! (Lc 7,11). 1. La carità ha una missione: agire affinché nessuno pianga! La povertà mette l’uomo nel disagio. La sofferenza acuta, il “pianto”, toglie dignità. I poveri si abbrutiscono, si degradano … diventano egoisti e insopportabili. Il primo passo da fare per S. Vincenzo è “assistere”, togliere dallo stato di necessità, spezzare l’isolamento. Fare in modo da alleviare, per quanto possibile, lo stato di sofferenza, rispondendo concretamente ai bisogni fondamentali, andando incontro alle esigenze dei poveri. 2. La carità ha un fine: ridare speranza! Ridare vita alla vita, perché possa tornare ad essere percepita come degna di essere vissuta. Ridare speranza vuol dire ridare dignità a chi l’ha perduta. L’uomo ritrova dignità quando si sente amato. Il secondo passo da fare per S. Vincenzo è “prendersi cura” delle persone, “farsi carico” delle situazioni critiche, “compatire” portando i pesi. 3. La carità si serve di uno strumento: la cura dei gesti e degli atteggiamenti, esteriori ed interiori. I poveri, a forza di essere penalizzati, emarginati, non credono più in loro stessi e nel valore della loro vita. Si può ridare valore e dignità alla loro vita attraverso la “bellezza” delle cose che si mettono loro a disposizione (un bel vestito, un bell’alloggio, un bel pasto …). Questo li convince che anche loro valgono qualcosa, che la loro vita è importante, che sono anzitutto “persone umane”. Nella carità allora non si può improvvisare. Il terzo passo da fare è “organizzare” gli aiuti, pensare gli interventi portando “l’intelligenza nel cuore”! Attraverso la “bellezza” dei gesti, delle cose, degli atteggiamenti, si trasmette l’amore. E quando una persona si sente amata, non è più povera anche se indigente o in uno stato di minorità. Chi si sente amato è uscito dalla condizione di povertà anche se non dalla miseria. Il punto per S. Vincenzo non è dar da mangiare ai poveri (questa è una questione sociale), ma “come” dar loro da mangiare, in modo da ridare dignità e speranza, luce e splendore alla loro vita, forza e slancio ai loro progetti (questa è una questione mistica). Il motivo che spinge ad andare verso i poveri non è assistenziale ma mistico! Se i gesti di carità sono finalizzati a trasmettere l’amore, allora il discernimento da fare diventa, non “cosa” fare ma “come” farlo per esprimere l’amore. Si apre allora un cammino di ricerca sulle modalità di espressione dell’amore, del maggior amore possibile nella situazione concreta. (cfr il Regolamento della Carità di Châtillon del 1617) 10
5. Carità, non solidarietà: la dimensione missionaria Nel pensiero di S. Vincenzo la dimensione missionaria non è esclusiva di uno stato speciale, quello sacerdotale, ma è costitutiva della consacrazione battesimale. Quando S. Vincenzo parla dello spirito missionario ne parla allo stesso modo ai missionari, ai fratelli CM alle FdC. E ancor prima di realizzarsi nelle opere e nelle attività missionarie in senso stretto, lo spirito missionario consiste nel trovarsi in uno “stato di missione”, per trasformare ogni azione in missione! E siccome l’anima della missione è la carità, essere in uno stato di missione consiste nel trovarsi in uno “stato di carità”. Così tutto diventa carità, espressione di un “amore più grande”! «Siate voi stesso, Signore, il vostro ringraziamento eterno per averci chiamato ad uno stato di vita che ci fa amare continuamente il prossimo. Si, per il nostro stato e professione, siamo applicati a tale amore, all’esercizio attuale di questo; o dobbiamo, almeno, avere la disposizione ad esserli, pronti a lasciare qualunque altra occupazione per attendere alle opere di carità. Si dice che i religiosi sono in uno stato di perfezione; noi non siamo religiosi, ma possiamo dire che siamo in uno stato di carità, perché siamo costantemente dediti alla pratica reale dell’amore o disposti ad esserli. O Salvatore, quanto sono fortunato di trovarmi in uno stato di amore per il prossimo, in uno stato che di per sé vi parla, vi prega e vi offre continuamente quello che faccio in suo favore!». (XII 275) Fino a che punto si deve vivere in questo stato? Fino al martirio della carità! «Questo sembra desiderabile e che sia bene essere ridotti in tale stato dalla carità; morire così è morire della morte migliore, è morire d’amore, è essere martiri, martiri dell’amore. Sembra a quelle anime beate di potersi applicare le parole della Sposa e dire con essa: Vulnerasti cor meum (Ct 4,9); siete Voi, o mio Dio d’amore, che mi avete ferito; Voi che mi avete ferito, trafitto il cuore con le vostre frecce ardenti; Voi che avete messo quel fuoco sacro nelle mie viscere che mi fa morire d’amore!». (XII 217) 6. L’amore ai poveri: la dimensione mistica Nell’amore ai poveri risiede tutta la profezia di S. Vincenzo. Nella sua visione i poveri sono persone da amare. Amando i poveri si ama Cristo. Servire i poveri è servire Cristo. Lavorare per i poveri, spendersi per loro, significa consumarsi per Dio. Ecco che la Carità diventa “via” per l’esperienza di Dio! L’amore per i poveri ha però bisogno di nutrirsi di una fede vissuta, di una ricerca incessante e continua del volto di Dio. L’amore per i poveri nasce dalla relazione con Dio e a Dio ritorna. E’ difficile stare con i poveri. L’Amore di Dio, manifestato in Cristo ed effuso mediante il suo Spirito, nutre l’amore per i poveri, lo sorregge nei momenti di prova, lo risveglia nei tempi di crisi, lo protegge quando rischia di venire meno. Allora la Comunità che prega, che contempla il mistero di Cristo, che vive in comunione aiutandosi a vicenda, non è un’isola di spiritualisti, ma una sorgente di amore incondizionato da cui si trae la forza di amare chi non è amato, chi fa più fatica a credere all’amore e ad aprirsi alla bellezza della vita. Ecco perché S. Vincenzo ha insistito molto sulla coltivazione della vita interiore, sulla preghiera – “datemi un uomo di preghiera e sarà capace di tutto” – sull’esigenza di purificazione delle proprie intenzioni e degli atteggiamenti interni. E’ necessario uscire da se stessi per entrare in Dio. E’ necessario consultarlo per imparare il suo linguaggio, e pregarlo di parlare Lui stesso in noi e per mezzo di noi. Egli allora farà l’opera sua e noi non guasteremo nulla.» (XII 181, 14-15) «Ricordatevi, Signore, che noi viviamo in Gesù Cristo per la morte di Gesù Cristo e che dobbiamo morire in Gesù Cristo per la vita di Gesù Cristo e che la nostra vita deve essere nascosta in Gesù Cristo e piena di Gesù Cristo e che per morire come Gesù Cristo bisogna vivere come Gesù Cristo!». (L 197) 11
S. Vincenzo è stato un mistico, un vero mistico, più autentico ancora di quanti hanno vissuto l’esperienza di fede come ricerca dell’unione con Dio, contenti di contemplare, amare e gioire della sua intimità. L’unione che S. Vincenzo ha cercato con Dio è stata la ricerca dell’aderenza alla sua volontà, non solo da contemplare ma da fare. E siccome la volontà di Dio si è manifestata in Cristo che si è dedicato a servire soprattutto i poveri, così S. Vincenzo ha cercato di fare in tutta la sua vita. Egli ha cercato di mettersi negli “stati di Cristo” continuando la sua missione di evangelizzatore dei poveri. “Il modo migliore di assicurare la nostra felicità eterna è di vivere e morire al servizio dei poveri, fra le braccia della divina provvidenza, nella rinuncia totale di noi stessi per seguire Gesù Cristo”. S. Vincenzo si è sentito chiamato a “consumarsi per Dio” e non a “perdersi in Dio” secondo la concezione della mistica astratta». (PE XVII-XVIII) 12
“HO VISTO QUELLA POVERA GENTE…” TESTI VINCENZIANI 1. RACCONTI SUGLI EVENTI DEL 1617 L’incontro con le due povertà 1.1 Folleville: l’incontro con la povertà spirituale - la Missione (25 gennaio) «Un giorno fui chiamato a confessare un pover'uomo gravemente ammalato, che godeva riputazione d'esser uomo migliore, o almeno uno dei migliori del suo villaggio. Eppure era carico di peccati che non aveva mai osato manifestare in confessione, come lo dichiarò poi lui stesso ad alta voce in presenza della defunta signora Gondi, dicendole: "Signora, se non facevo una confessione generale, ero dannato, a causa dei gravi peccati che non ho mai osato confessare". Quell'uomo morì, e la detta signora, avendo riconosciuto da questo la necessità delle confessioni generali, desiderò che facessi il giorno dopo una predica su tale argomento. Io la feci e Dio la benedì tanto che tutti gli abitanti del luogo fecero poi la confessione generale e tale fu la ressa che dovetti far venire due padri gesuiti per aiutarmi a confessare, predicare e fare il catechismo. Questa buona riuscita incoraggiò a ripetere il medesimo esercizio per più anni, nelle altre parrocchie dei possessi della suddetta signora, la quale, infine, volle mantenere alcuni sacerdoti per continuare le missioni, e ci fece avere a tale scopo il Collegio dei “Buoni Fanciulli”, dove ci ritirammo, il padre Portail ed io, e prendemmo con noi un buon sacerdote al quale davamo cinquanta scudi l'anno. Andavamo così tutti e tre a predicare e dare la missione di villaggio in villaggio. Partendo consegnavamo la chiave a qualche vicino, e noi stessi pregavamo di andare di notte a dormire in casa. E da per tutto non facevo che una sola predica, che rigiravo in mille modi: sul timore di Dio». (SV XII, 79) 1.2 Châtillon: l’incontro con la povertà materiale – la Carità (20 agosto) «Trovandomi in una cittadina vicino a Lione, dove la Provvidenza mi aveva chiamato per essere parroco, una domenica, mentre mi vestivo per dire la santa Messa, vennero a dirmi che in una casa isolata, ad un quarto di lega di distanza, tutti erano malati, senza che rimanesse una sola persona per assistere gli altri, e tutti quanti in una miseria da non dirsi. Ne fui vivamente commosso. Non mancai di raccomandarli, nella predica, con affetto, e Dio, toccando il cuore di quelli che mi ascoltavano, fece sì che tutti fossero presi da compassione per quei poveri sventurati. Il pomeriggio si tenne un'adunanza in casa di una buona signorina della città per vedere quali soccorsi fosse possibile portare loro; ciascuno era disposto ad andare a consolarli con le parole e aiutarli secondo i propri mezzi. Dopo i vespri, presi un galantuomo, un borghese della città, ed insieme ci mettemmo in cammino. Sulla via incontrammo alcune donne che ci precedevano, e un poco più in là, altre che tornavano. E siccome era in estate, durante il gran caldo, quelle buone signore si mettevano a sedere lungo le vie per riposarsi e rinfrescarsi. Infine, figlie mie, ve n'erano tante che l'avreste detta una processione. Appena arrivato, visitai i malati e andai a prendere il Santissimo Sacramento per quelli che si trovavano in uno stato più urgente, non già alla chiesa del luogo, poiché non era parrocchia, ma dipendeva da un capitolo di cui ero priore. Quando li ebbi confessati e comunicati si trattò del come si poteva soccorrerli nelle loro necessità. Proposi a tutte le buone persone che la carità aveva spinto a recarsi colà, di quotarsi, un giorno per una, per far da mangiare non soltanto per quelli ma anche per coloro che sarebbero venuti dopo; ed è il primo luogo dove la Carità fu istituita». (SV IX, 243s.) 2. PENSIERI SULLE FONDAZIONI E I MINISTERI 2.1 Ai missionari «Lo stato di missionario è una condizione di vita conforme alle massime evangeliche e consiste nel lasciare e abbandonare tutto come gli apostoli, per seguire Gesù Cristo e fare ciò che Egli stesso ha fatto. Ciò posto, come mi diceva una persona in una certa circostanza, soltanto il diavolo può 13
trovare da ridire di questo stato; perché non c'è nulla di più cristiano che andare di villaggio in villaggio ad aiutare il popolo a salvarsi, come vedete che si fa con molte fatiche ed incomodo! Ecco i tali e tali dei nostri confratelli che lavorano, ora, in un villaggio della diocesi di Evreux dove si coricano sulla paglia. Perché? Per mandare le anime in paradiso mediante l'istruzione e i patimenti. Questo non si avvicina a ciò che Nostro Signore venne a fare? Egli non aveva neppure una pietra dove posare il capo, e andava e veniva da un luogo ad un altro per conquistare anime a Dio, ed infine morì per esse. Certo, non poteva farci meglio capire quanto Gli fossero care, né persuaderci più efficacemente a non risparmiare nulla per istruirle sulla sua dottrina e lavarle nella sorgente del suo prezioso Sangue. Ma, se vogliamo che Egli ci conceda tal grazia, cerchiamo di acquistare l'umiltà; perché quanto più uno sarà umile, tanto più sarà caritatevole verso il prossimo. Il paradiso delle comunità è la carità; e la carità è l'anima delle virtù, ed è l'umiltà che le attira e le conserva. Le Compagnie umili sono come le valli che attraggono su di sé tutto il succo delle montagne: appena saremo vuoti di noi stessi Dio ci riempirà di sé, perché Egli non tollera il vuoto». (SV XI, 1-2) «I missionari dovrebbero ritenersi molto fortunati se diventassero poveri per avere esercitato la carità verso gli altri, anche se non vi è alcun timore di diventarlo per questa via, a meno che diffidassero della bontà di Nostro Signore e della verità della sua Parola. Se però Dio permettesse che fossero ridotti alla necessità di andare a servire come vicari nei villaggi per trovare di che vivere, o anche che qualcuno di loro fosse costretto a mendicare il pane o a coricarsi lungo una siepe, tutto lacero e intirizzito dal freddo, e in questo stato gli fosse domandato: “Povero prete della Missione, chi ti ha ridotto in tale stato?”, quale felicità, fratelli, poter rispondere: “È stata la carità!”. Quanto quel povero prete sarebbe stimato da Dio e dagli angeli». (SV XI, 76-77) 2.2 Alle Dame della Carità «E’ onorare il Signore, cercare di entrare nei suoi sentimenti, stimarli, fare quello che ha fatto Lui ed eseguire ciò che Egli ha ordinato. Ora l’affetto più grande del suo cuore è stato la cura dei poveri, per guarirli, consolarli, soccorrerli e raccomandarli al soccorso altrui. Era questa tutta la sua affezione. Ed Egli stesso ha voluto nascere povero, ricevere nella sua compagnia i poveri, servire i poveri, fino a dire che il bene e il male che facessimo ad essi lo riterrebbe fatto alla sua divina persona. Quale amore più tenero poteva Egli testimoniare per i poveri? E quale Amore potremo dire di avere per Lui se non amiamo quelli che Egli ha amato? Perciò amare i poveri è amare Cristo nel giusto modo. E’ servirlo bene servendo bene i poveri, ed è onorarlo come si conviene, imitarlo in questo suo amore per i poveri!». (SV XIII, 811-812) 2.3 Alle Figlie della Carità «Voi servite Gesù Cristo nella persona dei poveri, e questo è vero, come è vero che siamo qui. Una suora andrà dieci volte al giorno a visitare i malati e dieci volte vi troverà Dio. Come dice S. Agostino, quello che vediamo non è tanto sicuro, perché i nostri sensi possono ingannarci; ma le verità di Dio non ingannano mai. Andate a vedere i poveri forzati in catene, vi troverete Dio; servite i bambini, vi troverete Dio. Oh figlie mie, che bella cosa! Voi andate in povere casupole ma vi trovate Dio. Oh figlie mie, che bella cosa, ancora una volta!». (SV IX, 252) 3. I REGOLAMENTI E LE REGOLE 3.1 Come assistere i poveri – dal Regolamento di Châtillon del 1617 La confraternita della Carità è stata istituita per onorare Nostro Signore Gesù Cristo, suo patrono, e la sua Santa Madre, e per assistere i poveri malati dei luoghi in cui è stabilita, nel corpo e nello spirito: nel corpo, dando loro da bere e da mangiare e le medicine necessarie durante il tempo della loro malattia; nello spirito, facendo loro amministrare i sacramenti della Penitenza, dell’Eucaristia e dell’Estrema Unzione, e procurando che i moribondi partano da questo mondo in grazia e che quelli che guariscono facciano il proposito di vivere bene. […] 14
Quella che è di turno, dopo aver preso dalla tesoriera ciò che è necessario per nutrire i poveri nel suo giorno, preparerà il cibo e lo porterà ai malati. Accostandoli li saluterà con gioia e carità, sistemerà il tavolinetto sul letto, vi metterà sopra il tovagliolo, la scodella, il cucchiaio e il pane; farà lavare le mani al malato e dirà il Benedicite; verserà la minestra in una scodella e metterà la carne nel piatto, accomodando tutto sul tavolinetto; poi inviterà caritatevolmente il malato a mangiare per amore di Gesù e della sua Santa Madre. Compirà questi gesti con amore, come se li facesse a suo figlio, o meglio a Dio, il quale considera fatto a sé il bene fatto ai poveri. Gli suggerirà qualche parola di Nostro Signore, e lasciandosi toccare da queste parole cercherà di fargli buon viso se lo vede abbattuto, tagliandogli ora la carne, ora versandogli da bere. Dopo averlo messo così in condizione di mangiare, se c’è già qualcuno accanto a lui, lo lascerà e andrà a trovare un altro malato, che tratterà allo stesso modo. Nel servire i malati avrà cura di cominciare sempre da quelli che hanno chi li assiste e finirà con quelli che sono soli, in modo da poter stare più a lungo con loro. Alla sera ritornerà a portar loro la cena allo stesso modo e nell’ordine seguito prima. Ad ogni malato si dia il pane che gli è necessario, un pezzo di montone o di vitello bollito per il pranzo e altrettanto arrosto per la cena, eccetto le domeniche e feste, nelle quali si potrà dar loro un po’ di pollo bollito per il pranzo e carne trita per la cena due o tre volte alla settimana. A quelli che sono senza febbre si dia mezzo litro di vino al giorno, metà al mattino e metà la sera. Il venerdì, il sabato e gli altri giorni di astinenza, si diano due uova con la minestra e un pezzetto di burro per il pranzo, e altrettanto per la cena, preparando le uova secondo il loro gusto. Se si troverà il pesce a un prezzo giusto, glielo si darà solo a pranzo. Per quelli che sono molto malati si ottenga, in quaresima e negli altri giorni di astinenza, il permesso di poter mangiare la carne. Per gli ammalati che non possono mangiare la carne intera, sia dato brodo, minestra di pancotto, orzo mondato e uova fresche, tre o quattro volte al giorno. (XIII, 428) 3.2 La “Magna carta” delle Figlie della Carità «Le Figlie della Carità non sono religiose, perché tale stato non è adatto agli impegni richiesti dalla loro vocazione. Siccome però sono in contatto col mondo assai più che le religiose, non avendo ordinariamente che le case degli infermi per monastero, una camera d’affitto per cella, la chiesa parrocchiale per cappella, per chiostro le strade della città o le sale degli ospedali, per clausura l’obbedienza, per grata il timor di Dio, per velo la santa modestia, esse sono perciò obbligate a condurre una vita non meno virtuosa che se fossero professe in un ordine religioso, e a comportarsi in tutti i luoghi, nei quali si trovano in mezzo al mondo con altrettanto raccoglimento, purezza di cuore e di corpo, distacco dalle creature ed esemplarità, quanto le vere religiose nella clausura del loro monastero». (RC FdC I,2) 4. PREGHIERE DI SAN VINCENZO 4.1 Preghiera sulla Carità «Mio Signore e mio Dio, Gesù Cristo mio Salvatore, il più amabile e il più amante di tutti gli uomini, che incomparabilmente più di tutti insieme avete praticato la carità e la magnanimità, che avete ricevuto le maggiori ingiurie e i maggiori affronti senza risentirne il minimo rancore, ascoltate ve ne prego l’umilissima preghiera che vi facciamo, affinché vi degnate concedere alla Compagnia lo spirito di carità di cui voi siete stato infiammato e lo spirito di mitezza e di larghezza che avete avuto verso i vostri nemici, affinché, con la pratica di queste virtù, si compiano su di essa i disegni eterni dell’adorabile volontà divina. Possa glorificare Dio, imitandovi, e conquistare con l’esempio le anime al vostro servizio e, soprattutto mio Dio, affinché con la carità fraterna questa Compagnia vi sia gradita. Amen!» (SV IX 298) 15
4.2 Preghiera sullo stato di carità «O Salvatore che ci avete dato la legge di amare il prossimo come noi stessi, che l’avete praticata tanto perfettamente verso gli uomini, non solo come possono farlo essi, ma in modo incomparabile, siate voi stesso, Signore, il vostro ringraziamento eterno per averci chiamato ad uno stato di vita che ci fa amare continuamente il prossimo. Sì, per il nostro stato e professione, siamo applicati a tale amore, all’esercizio attuale di questo: o dobbiamo almeno avere la disposizione ad esserli, pronti a lasciare qualunque altra occupazione per attendere alle opere di carità. Si dice che i religiosi sono in uno stato di perfezione: noi non siamo religiosi, ma possiamo dire che siamo in uno stato di carità perché siamo costantemente dediti alla pratica reale dell’amore o disposti ad esserli. O Salvatore, quanto sono fortunato di trovarmi in uno stato di amore per il prossimo in uno stato che di per sé vi parla, vi prega e vi offre continuamente quello che io faccio in suo favore. Fatemi la grazia di riconoscere la mia fortuna, di amare questo stato beato e di contribuire perché questa virtù si manifesti nella Compagnia ora, domani e sempre. Amen!» (SV XII, 275) 16
Breve nota bibliografica Edizione critica degli scritti: Saint Vincent de Paul. Correspondance-Entretiens-Documents, Édition pubbliée et annotée par Pierre Coste, Prêtre de la Mission, Librairerie Lecoffre – J. Gabalda Éditeur, 14 voll., Paris 1920-25. E’ l’edizione tipica dell’opera omnia di S. Vincenzo da cui dipendono tutte le traduzioni nelle principali lingue, compresa l’attuale in lingua italiana, iniziata nel 2001 e ancora in corso di pubblicazione: S. Vincenzo de’ Paoli, Opere, (ad oggi pubblicati 8 voll. sugli 11 programmati), a cura di Antonello E. – Mezzadri L., CLV – Edizioni Vincenziane, Roma 2001 – 2019. In precedenza l’opera del Coste era stata così tradotta in lingua italiana: voll. IX-XII, Carteggio, conferenze, documenti, Collegio Alberoni, Piacenza 1931-33 (in 4 volumi), in nuova edizione in volumi unici, Conferenze ai Preti della Missione, Edizioni Vincenziane, Roma 1959 e Conferenze spirituali alle Figlie della Carità, a cura di L. Mezzadri, CLV – Edizioni Vincenziane, Roma 1980; voll. I-VIII, Opera Omnia di S. Vincenzo de’ Paoli. Corrispondenza, Edizioni Vincenziane, Roma 1952-1982 (in 16 volumi, di cui i primi 7 in co-edizione con Cantagalli di Siena). La mole degli scritti rendono utili le antologie, tra cui la più fortunata e la più completa è Perfezione Evangelica. Tutto il pensiero di San Vincenzo de’ Paoli esposto con le sue parole, (a cura di un Prete della Missione), CLV – Edizioni Vincenziane, Roma 1983. Biografie recenti: ROMAN J.M., S. Vincenzo de' Paoli. Biografia, Jaka Book, Milano 1986 (in terza edizione Jaka Book – CLV, Milano-Roma 2018); MEZZADRI L., Vincenzo de’ Paoli: il santo della carità, Città Nuova, Roma 2009 (in seconda edizione, Id., Vincenzo de’ Paoli (1581-1660). Vita. Carisma e carità, Tau Editrice, Assisi 2019). Per una panoramica completa sugli studi vincenziani, con ampia bibliografia: MEZZADRI L., La sete e la sorgente I. Introduzione agli studi vincenziani, CLV-Edizioni Vincenziane, Roma 1992; MEZZADRI L., La sete e la sorgente II. Alla ricerca delle origini, CLV – Edizioni Vincenziane, Roma 1993; Dizionario storico spirituale vincenziano, a cura di L. Mezzadri, CLV – Edizioni Vincenziane, Roma 2003. Studi sulla spiritualità vincenziana: TOSCANI G., La mistica dei poveri, Alzani, Pinerolo 1986; TOSCANI G., Amore, contemplazione teologia. Gesù Cristo visto da S. Vincenzo, Alzani, Pinerolo, 1987; MALONEY R., In comunità al servizio dei poveri. Lineamenti di spiritualità vincenziana, Roma, 1995; MALONEY R., Il Signore ascolta il grido dei poveri. Lineamenti di spiritualità vincenziana, Roma, 1997; MALONEY R., Le stagioni dello Spirito. Riflessioni sulla spiritualità vincenziana nel mondo d'oggi, Roma, 1999; RICCARDI C., Spiritualità vincenziana. Contributo allo studio del vincenzianesimo, CLV – Edizioni Vincenziane, Roma 2000; BURDESE G., La carità sempre possibile. Alla scuola di S. Vincenzo de’ Paoli, ieri e oggi, Jaka Book, Milano 2007; RENOUARD J.-P., San Vincenzo de Paoli, maestro di sapienza. Iniziazione allo spirito vincenziano, CLV – Edizioni Vincenziane, Roma 2012; ZEDDE I., San Vincenzo de Paoli. Uomo della Parola di Dio, Velar – LDC, Bergamo-Torino 2015; NUOVO L., San Vincenzo de’ Paoli. La carità credibile della Chiesa, Jaka-Book – CLV, Milano-Roma 2016; MEZZADRI L., Ritorno alle sorgenti. S. Vincenzo de’ Paoli a Folleville e Châtillon ieri e oggi, Tau Editrice, Todi 2017; MEZZADRI L., San Vincenzo de’ Paoli e gli esclusi dal tempio e dalla storia, Tau Editrice, Todi 2017. Agili ma documentate presentazioni di S. Vincenzo e il suo carisma: ANTONELLO E., Lineamenti di esperienza vincenziana. Approccio educativo al carisma di S. Vincenzo (QV, 1), CLV – Edizioni Vincenziane, Roma, 1992; MEZZADRI L., S. Vincenzo de' Paoli e il carisma della carità, CLV – Edizioni Vincenziane, Roma 2004; VERNASCHI A., Quando dire è agire. Principi di vita e di azione, CLV-Edizioni Vincenziane, Roma 2011; DI CARLO M., La via migliore. Contributo alla conoscenza del carisma di S. Vincenzo, CLV- Edizioni Vincenziane, Roma 2017; RENOUARD J.-P., San Vincenzo Depaul. Una vita fuori dal comune, CLV – Edizioni Vincenziane, Roma 2020. 17
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